Latest Posts

“Sognavo una scuola libera ma oggi quell’utopia non c’è più

Il celebre insegnante, amico di Don Milani, compie 90 anni E racconta le rivoluzioni di classe, da Tolstoj alla provincia italiana. “Venivo guardato con sospetto dalle istituzioni. Ora ha vinto il modello tradizionale” Chissà se domani il maestro Lodi guarderà fuori della grande finestra che s´affaccia sul cielo di Piadena, borgo di pianura tra sapori lombardi ed emiliani. Tutto cominciò da lì, da una finestra spalancata sul mondo. «Sì, fu il mio primo giorno di scuola a San Giovanni in Croce, al principio degli anni Cinquanta. Mentre parlavo, uno dei bambini si alzò dal suo banco e andò a guardare cosa succedeva sui tetti di fronte. A poco a poco, anche gli altri fecero lo stesso. E allora mi domandai: lasciar fare o reprimere? Così mi alzai, e insieme a loro mi misi a guardare il mondo dalla finestra». Da insegnante tornava bambino, e gli scolari si facevano maestri. La nuova scuola era cominciata.
Il maestro compie novant´anni, ma nel giorno della festa chiede silenzio. «Silenzio e meditazione. Noi novantenni possiamo ricordare la nostra vita, le imprese se ci sono, e null´altro. Ci resta poco da vivere e dobbiamo prepararci a questo passo estremo che è la fine». E allora ricominciamo da capo, dal primo fotogramma di un lungo film, la scelta del mestiere. «Non avrei mai pensato di diventare maestro di scuola. Volevo fare il falegname, vivere in una segheria tra trance e pialle, sgorbie e lime. Il mio modello era Geppetto, l´artigiano di Collodi. Sì, volevo essere come Geppetto con Pinocchio». Sorride Mario Lodi, gli sembra di averla detta grossa. Ma come, il maestro per antonomasia, l´artefice della nuova scuola democratica, l´amico di don Milani, l´incarnazione di quella utopia progressista che attraversò i migliori anni del lungo dopoguerra, ora confessa che avrebbe voluto far altro? In realtà la metafora di Pinocchio rivela molte cose. In fondo anche il maestro Lodi ha trasformato generazioni di burattini in bambini veri. I più antichi tra i suoi scolari hanno oltre settant´anni, calzavano gli zoccoli e oggi sono piccoli imprenditori. Alcuni sono diventati chef illustri, altri hanno trovato la retta via dopo un´infanzia miserabile. Tutti ora continuano a scrivergli, con gratitudine. Ma al principio niente fu facile.
Nato nell´anno del fascismo, a Lodi toccò in sorte di ricevere il diploma magistrale proprio il giorno dell´entrata in guerra, il 10 giugno del 1940. «Mentre Mussolini sbraitava da Palazzo Venezia, io andai a Cremona a vedere gli esiti dell´esame. No, non ero tanto contento. In fondo avevo scelto le magistrali perché duravano meno. A me piaceva soprattutto dipingere, pasticciare con i colori sui tessuti e i foulard di seta. Me l´aveva insegnato mio padre, un operaio socialista con vocazione artistica». Il primo tirocinio scolastico, nella Bassa padana, fu tremendo. «Io avevo in mente l´esperimento inventato da Tolstoj a Jasnaia Poliana, la residenza di campagna dove faceva una scuola libera con figli dei contadini poveri. Incontrai anche io i bambini con gli zoccoli, scalpitanti come cavalli ma profondamente segnati da una scuola autoritaria. Così volevano da me la lezione tradizionale, gli esercizi scritti e i compiti, i timbri con i voti. Un disastro».
Per sognare un mondo diverso, bisogna aspettare la fine del fascismo e della guerra. E anche l´arrivo di una nuova stagione, la ricostruzione morale e materiale dell´Italia. «C´era ancora paura nei loro sguardi, anche molta fame. Ma i bambini cominciavano ad aprirsi, a rivelare il loro mondo interiore non solo attraverso la parola scritta, ma anche con il disegno e la musica, il gioco e il lavoro pratico». Bambini che scoprivano le mani. Bambini spesso “forestieri”, abituati a parlare un dialetto diverso. «Nel giorno di San Martino, il padrone delle cascine spostava i suoi contadini di borgo in borgo. Così mi arrivavano questi scolaretti spaesati, che comunicavano in un modo differente. C´era un problema di lingua, lo stesso che oggi affligge i figli degli immigrati. E allora lavoravo su ciò che li univa. Siamo tutti eguali nei do

lori, nelle emozioni, negli affetti. E solo con l´amore si riesce a scoprire la vita dei bambini».
Non era solo, il maestro Lodi. Cominciava allora quel Movimento di Cooperazione Educativa che, sulle tracce del pedagogista francese Freinet, portava aria fresca nelle aule scolastiche. A una scuola puramente trasmissiva, dispensatrice di saperi dall´alto, opponeva un insegnamento che contemplava la collaborazione al posto della competizione, il recupero invece della selezione, la ricezione critica piuttosto che l´ascolto passivo. «Volevamo rifondare la scuola democratica», dice oggi il maestro Lodi con la sua bella voce piana, resa fragile dall´età ma ancora nitida, come di chi è abituato per mestiere a catturare l´attenzione. «L´aula rappresentava la società e a scuola si sperimentava la base del vivere civile. Il maestro doveva formare il cittadino responsabile». Una rivoluzione silenziosa, che portava tra i banchi la Costituzione, nella speranza di cambiare il paese uscito da un ventennio di dittatura. E dopo oltre mezzo secolo, maestro Lodi, qual è il bilancio? Lo sguardo azzurro si fa distante, come a difendersi da una realtà che non gli piace. «L´Italia è un disegno incompiuto. Non è nato il popolo che volevamo rieducare, così come non è nata la nuova scuola che avevamo in mente. Se mi volto indietro, se penso al nostro lavoro di quei decenni, mi sembra tutto vanificato. Oggi è prevalsa la scuola tradizionale, un modello competitivo che somministra nozioni e dà la linea». Non vogliamo teste piene, le vogliamo ben fatte: era lo slogan degli insegnanti democratici. Un´altra favola bella che se n´è andata.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, i suoi libri ebbero grande successo. Prima le storie collettive di Cipì, il “passero eroico” celebrato da Rodari. Poi C´è speranza se questo accade a Vho, diario didattico degli esordi, e Il paese sbagliato, bestseller einaudiano insignito del Viareggio. «Venne da me Giulio Einaudi con le bozze in mano», ricorda ora divertito. «”Troppo lungo”, decretò. “Le lascio un paio d´ore per tagliarne duecento pagine”». Il maestro Lodi diventò una star della pedagogia innovativa, vincitore di premi internazionali, ma nelle scuole della Bassa padana la vita non era mai facile. «Quando andava bene, il direttore didattico mi lasciava fare. Così accadde a San Giovanni, dove insegnai tra il ´51 e il ´56. Ma più tardi a Vho le cose andarono molto peggio, tra le resistenze delle gerarchie scolastiche e l´ostilità degli altri maestri. La scuola tradizionale era più semplice: libro di testo e compiti in classe, non bisognava inventare niente». Il maestro Lodi veniva guardato con sospetto. La sua aula era tutt´un via vai di strana gente, lunarmente distante dall´istituzione scolastica. «Mi mettevano in classe molti ripetenti, ragazzi difficili che reagivano alle avversità con violenza e dissipazione. Così facevo venire il medico che illustrava gli effetti del fumo in polmoni giovani. E con il contadino uscivamo in campagna, e insieme al pescatore arrivavamo fino al fiume. E contemporaneamente spiegavo storia e geografia».
Non è un caso che don Milani adottò alcune delle sue tecniche didattiche, soprattutto quella della scrittura collettiva dei testi. Senza Mario Lodi, non ci sarebbe Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana. «Conobbi don Lorenzo nel 1963, grazie al mio amico Giorgio Pecorini. Il suo esperimento viene oggi raccontato come una scuoletta di campagna, in realtà era una scuola di altissimo livello. Era un pezzo dell´Italia che viveva autonomamente la sua libertà. Don Milani fu il primo a lanciare l´idea di scuola universale – trasformare la scuola in uno strumento di democrazia – ma non tutti hanno capito la profondità del suo pensiero».
La sua casa di Drizzona, a pochi chilometri da Piadena – metà cascina, metà convento benedettino del Seicento –, è ancora tappezzata dei disegni dei bambini di sessant´anni fa. Con i soldi del premio Lego ha trasformato le stalle nella Casa delle Arti e del Gioco, che oggi ospita seminari e laboratori per gli educatori. Ritratti colorati e storti, facce viola e case trasparenti, perché «i disegni dei bambini non sono mai sbagliati ma sempre rivelatori di universi intimi». Ecco il profumo del fiore disegnato da Cosetta, la sua primogenita, e l´arcobaleno dipinto da Rossella, la seconda figlia che non lo lascia mai. Lui cammina incerto nelle gambe, sorretto dalla moglie Fiorella, che qualche volta gli presta le parole. E al maestro di oggi cosa suggerirebbe? «Possedere un cuore, che è un motore potente. E poi attaccarsi al bambino, seguirlo con dedizione, riuscire a scrutarne i talenti nascosti. Senza mai dimenticare che il compito della scuola è trasformare un gregge passivo in un popolo di cittadini pensanti». No, non si arrende Mario Lodi. Ma nel giorno della festa, per favore, fate silenzio. Guardate fuori dalla finestra, insieme al maestro, ma in silenzio.

La Repubblica 16.02.12

"Le macerie di tangentopoli", di Guido Crainz

A vent´anni di distanza dal loro inizio, Tangentopoli e la crisi della “prima Repubblica” evocano oggi l´inevitabile crollo di un edificio corroso e al tempo stesso una ricostruzione radicalmente mancata. Non suggeriscono celebrazioni ma riflessioni amare sulla difficoltà, se non l´incapacità, del Paese a cambiare rotta. Impongono con urgenza ancora maggiore quel profondo esame di coscienza che allora non facemmo, preferendo rimuovere le radici del disastro. Lasciammo così largamente inalterati, dietro una “rivoluzione” di superficie, i guasti che erano stati alla base di quel crollo e costruimmo inevitabilmente sulla sabbia, se non sulle sabbie mobili. Per questa via le macerie della “seconda Repubblica” si sono inevitabilmente aggiunte a quelle della “prima”: di entrambe dobbiamo oggi sgomberare il campo, e solo considerandole nel loro insieme possiamo individuare gli elementi necessari per una inversione di tendenza ancora possibile.
Ove si mettano a confronto gli anni Ottanta e il ventennio che ne è seguito viene quasi in mente il “tutto cambi perché nulla cambi” del Gattopardo e ancor di più una riflessione di Massimo d´Azeglio che viene spesso banalizzata e storpiata: “Hanno voluto fare un´Italia nuova – disse in realtà d´Azeglio – e loro rimanere gli italiani vecchi di prima (…) pensano a poter riformare l´Italia, e nessuno si accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro”. Lo dimenticammo, nell´attesa di una salvifica “seconda Repubblica”, e venne di qui l´abbaglio di quegli anni: l´illusione che la corrosione avesse riguardato solo il ceto politico e non anche la società civile e il suo modo di essere. Come se le degenerazioni degli anni Ottanta, a partire dal crescente spregio per le regole collettive e per il bene comune, non avessero lasciato tracce profonde. Come non fosse proprio questo invece il terreno decisivo su cui costruire un´alternativa all´agonia della “prima Repubblica”. Leggemmo in modo semplificato e mitico l´entusiasmo che accompagnò il crollo del vecchio sistema dei partiti, senza saper cogliere i differenti umori che in esso si mescolavano: e nel marzo del 1994 l´inaspettato trionfo di Berlusconi ci impose un brusco e amaro risveglio. Avevamo mitizzato la “rivoluzione della gente” e rimanemmo poi disorientati e afoni di fronte al suo primo esito: quasi una favola alla rovescia, scrisse allora Barbara Spinelli, in cui il principe alla fine si rivela un rospo. Delusi dalle favole, non sapemmo poi crescere.
Non cogliemmo appieno neppure le radici lunghe di quel deformarsi della politica che era imploso nella crisi e che rinviava in realtà sino agli anni del fascismo, come suggeriva un denso e appassionato libro di Luciano Cafagna, La grande slavina. Gli anni cioè in cui si era diffusa per la prima volta in Italia una presenza invasiva della politica nella vita quotidiana dei cittadini e si era affermata al tempo stesso la mescolanza fra interesse del partito e interesse dello Stato, l´appartenenza partitica come garanzia di privilegio e la politica come mestiere. Rimuovemmo anche questi nodi, e provocò allora scandalo Giuliano Amato quando li evocò nel burrascoso aprile del 1993, rassegnando le sue dimissioni da presidente del Consiglio.
Non riflettemmo a fondo, infine, né sul carattere tragico di quella crisi né sulle conseguenze di un mutamento radicale che era avvenuto principalmente per via giudiziaria, senza una contemporanea rifondazione e rigenerazione collettiva. E sull´inevitabile riproporsi, dunque, di quelle deformazioni dell´etica privata e pubblica che negli anni Ottanta si erano largamente diffuse e avevano improntato di sé larghi tratti del nostro vivere. Deformazioni che trovarono sbocco naturale in quella “liberazione dallo Stato” – e dalla coscienza civile, e dalle priorità del bene pubblico – che era il vero “miracolo” promesso da Silvio Berlusconi. Intriso di populismo e di antipolitica, di sprezzo per la Carta fondante della Repubblica e di estraneità alle regole essenziali della democrazia.
Fu una vera tragedia, in quella crisi, l´assenza di un´alternativa basata su proposte solide e convincenti di buona politica: una sinistra che aveva visto crollare i suoi tradizionali fondamenti ideologici ben prima del 1989 si dimostrò incapace di ricostruire se stessa su questo elementare e fondamentale terreno. Più esposta di prima, semmai, a pratiche distorsive e sempre meno capace di grandi slanci ideali. Sempre più inaridita.
Inevitabilmente dunque al vecchio panorama della politica subentrò un suo sconfortante simulacro, un “sistema dei partiti senza partiti” che ne ereditava i guasti e altri ne aggiungeva. E frenava al tempo stesso i tentativi di battere altre, più trasparenti e democratiche vie.
La corruzione stessa si ripropose e dilagò di nuovo, con un definirsi e costituirsi delle cricche che nell´agire – e talora nei nomi – rimandava ai peggiori cancri della “prima Repubblica”, a partire dalla P2. Eppure molto a lungo essa ci era parsa scomparsa o quasi, almeno nei suoi aspetti più devastanti e corposi, e fu un brusco risveglio accorgerci, pochi anni fa, che così non era. Roberto Saviano parlò allora di “corruzione inconsapevole”, segnalando un nuovo salto di qualità rispetto alla “corruzione ambientale” tratteggiata vent´anni prima dal giudice Di Pietro: a qualcuno parve esagerazione di scrittore ma si rivelò fondatissima descrizione della realtà.
Siamo arrivati così a un nuovo crollo e a una nuova dichiarazione di fallimento della politica, incapace di tenere il campo quando il Paese si è trovato ancora sull´orlo di un baratro. Lascia oggi sconfortati, se non sgomenti, la distanza fra l´urgenza assoluta di una ricostruzione radicale e la scarsa consapevolezza che sembrano averne i partiti. Capaci di ignorare persino l´inabissarsi della loro credibilità, esattamente come vent´anni fa. Eppure il Paese è sì logorato, disorientato, profondamente preoccupato ed esposto alle tentazioni dell´antipolitica ma ancora percorso da energie vitali, da ansie di rinnovamento. Se andassero ancora deluse sarebbe davvero l´ultimo dramma.

La Repubblica 16.02.12

“Le macerie di tangentopoli”, di Guido Crainz

A vent´anni di distanza dal loro inizio, Tangentopoli e la crisi della “prima Repubblica” evocano oggi l´inevitabile crollo di un edificio corroso e al tempo stesso una ricostruzione radicalmente mancata. Non suggeriscono celebrazioni ma riflessioni amare sulla difficoltà, se non l´incapacità, del Paese a cambiare rotta. Impongono con urgenza ancora maggiore quel profondo esame di coscienza che allora non facemmo, preferendo rimuovere le radici del disastro. Lasciammo così largamente inalterati, dietro una “rivoluzione” di superficie, i guasti che erano stati alla base di quel crollo e costruimmo inevitabilmente sulla sabbia, se non sulle sabbie mobili. Per questa via le macerie della “seconda Repubblica” si sono inevitabilmente aggiunte a quelle della “prima”: di entrambe dobbiamo oggi sgomberare il campo, e solo considerandole nel loro insieme possiamo individuare gli elementi necessari per una inversione di tendenza ancora possibile.
Ove si mettano a confronto gli anni Ottanta e il ventennio che ne è seguito viene quasi in mente il “tutto cambi perché nulla cambi” del Gattopardo e ancor di più una riflessione di Massimo d´Azeglio che viene spesso banalizzata e storpiata: “Hanno voluto fare un´Italia nuova – disse in realtà d´Azeglio – e loro rimanere gli italiani vecchi di prima (…) pensano a poter riformare l´Italia, e nessuno si accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro”. Lo dimenticammo, nell´attesa di una salvifica “seconda Repubblica”, e venne di qui l´abbaglio di quegli anni: l´illusione che la corrosione avesse riguardato solo il ceto politico e non anche la società civile e il suo modo di essere. Come se le degenerazioni degli anni Ottanta, a partire dal crescente spregio per le regole collettive e per il bene comune, non avessero lasciato tracce profonde. Come non fosse proprio questo invece il terreno decisivo su cui costruire un´alternativa all´agonia della “prima Repubblica”. Leggemmo in modo semplificato e mitico l´entusiasmo che accompagnò il crollo del vecchio sistema dei partiti, senza saper cogliere i differenti umori che in esso si mescolavano: e nel marzo del 1994 l´inaspettato trionfo di Berlusconi ci impose un brusco e amaro risveglio. Avevamo mitizzato la “rivoluzione della gente” e rimanemmo poi disorientati e afoni di fronte al suo primo esito: quasi una favola alla rovescia, scrisse allora Barbara Spinelli, in cui il principe alla fine si rivela un rospo. Delusi dalle favole, non sapemmo poi crescere.
Non cogliemmo appieno neppure le radici lunghe di quel deformarsi della politica che era imploso nella crisi e che rinviava in realtà sino agli anni del fascismo, come suggeriva un denso e appassionato libro di Luciano Cafagna, La grande slavina. Gli anni cioè in cui si era diffusa per la prima volta in Italia una presenza invasiva della politica nella vita quotidiana dei cittadini e si era affermata al tempo stesso la mescolanza fra interesse del partito e interesse dello Stato, l´appartenenza partitica come garanzia di privilegio e la politica come mestiere. Rimuovemmo anche questi nodi, e provocò allora scandalo Giuliano Amato quando li evocò nel burrascoso aprile del 1993, rassegnando le sue dimissioni da presidente del Consiglio.
Non riflettemmo a fondo, infine, né sul carattere tragico di quella crisi né sulle conseguenze di un mutamento radicale che era avvenuto principalmente per via giudiziaria, senza una contemporanea rifondazione e rigenerazione collettiva. E sull´inevitabile riproporsi, dunque, di quelle deformazioni dell´etica privata e pubblica che negli anni Ottanta si erano largamente diffuse e avevano improntato di sé larghi tratti del nostro vivere. Deformazioni che trovarono sbocco naturale in quella “liberazione dallo Stato” – e dalla coscienza civile, e dalle priorità del bene pubblico – che era il vero “miracolo” promesso da Silvio Berlusconi. Intriso di populismo e di antipolitica, di sprezzo per la Carta fondante della Repubblica e di estraneità alle regole essenziali della democrazia.
Fu una vera tragedia, in quella crisi, l´assenza di un´alternativa basata su proposte solide e convincenti di buona politica: una sinistra che aveva visto crollare i suoi tradizionali fondamenti ideologici ben prima del 1989 si dimostrò incapace di ricostruire se stessa su questo elementare e fondamentale terreno. Più esposta di prima, semmai, a pratiche distorsive e sempre meno capace di grandi slanci ideali. Sempre più inaridita.
Inevitabilmente dunque al vecchio panorama della politica subentrò un suo sconfortante simulacro, un “sistema dei partiti senza partiti” che ne ereditava i guasti e altri ne aggiungeva. E frenava al tempo stesso i tentativi di battere altre, più trasparenti e democratiche vie.
La corruzione stessa si ripropose e dilagò di nuovo, con un definirsi e costituirsi delle cricche che nell´agire – e talora nei nomi – rimandava ai peggiori cancri della “prima Repubblica”, a partire dalla P2. Eppure molto a lungo essa ci era parsa scomparsa o quasi, almeno nei suoi aspetti più devastanti e corposi, e fu un brusco risveglio accorgerci, pochi anni fa, che così non era. Roberto Saviano parlò allora di “corruzione inconsapevole”, segnalando un nuovo salto di qualità rispetto alla “corruzione ambientale” tratteggiata vent´anni prima dal giudice Di Pietro: a qualcuno parve esagerazione di scrittore ma si rivelò fondatissima descrizione della realtà.
Siamo arrivati così a un nuovo crollo e a una nuova dichiarazione di fallimento della politica, incapace di tenere il campo quando il Paese si è trovato ancora sull´orlo di un baratro. Lascia oggi sconfortati, se non sgomenti, la distanza fra l´urgenza assoluta di una ricostruzione radicale e la scarsa consapevolezza che sembrano averne i partiti. Capaci di ignorare persino l´inabissarsi della loro credibilità, esattamente come vent´anni fa. Eppure il Paese è sì logorato, disorientato, profondamente preoccupato ed esposto alle tentazioni dell´antipolitica ma ancora percorso da energie vitali, da ansie di rinnovamento. Se andassero ancora deluse sarebbe davvero l´ultimo dramma.

La Repubblica 16.02.12

"Una ricetta per spingere la crescita", di Franco Bruni

Le stime rese note ieri dall’Istat confermano che l’Italia è in recessione. Deve uscirne presto, anche per non compromettere l’aggiustamento della finanza pubblica. Per ridurre il peso del deficit pubblico sul Pil bisogna contrarre il deficit ma anche sostenere il Pil. In altre parole: le politiche per la crescita servono anche a migliorare la stabilità finanziaria. Fra l’altro, se il reddito nazionale accelera, sale il gettito delle imposte riducendo il deficit pubblico.

D’altra parte le politiche di bilancio restrittive frenano la crescita. Questo è quasi sempre vero nel breve periodo; guardando più lontano, dipende dalla qualità delle politiche restrittive che vengono fatte. Un riordino credibile e duraturo della finanza pubblica, che migliori anche l’utilità della spesa e la struttura delle imposte, può aumentare la produzione e l’occupazione.

Perciò non c’è contraddizione fra risanare la finanza pubblica e favorire la crescita. Basta fare le due cose nei modi e nei tempi giusti. Non troppo precipitosamente e con provvedimenti che migliorino l’organizzazione d’insieme dell’economia, pubblica e privata.

Invece in gran parte dell’Europa viviamo con l’incubo che il rigore finanziario non faccia attenzione alle politiche per la crescita. Il governo italiano è uno dei più attenti: ma in sede Ue manca determinazione su questo fronte. In che cosa possono consistere queste politiche?

Qualcuno parla di stimoli «keynesiani» alla domanda; in sostanza: moneta e credito più abbondanti e a buon mercato, meno imposte e nuova spesa pubblica. Ma è anche per un lungo periodo di espansione artificiosa ottenuta con stimoli del genere che il mondo intero è finito in crisi cinque anni fa. Se la soluzione fossero gli stimoli di bilancio, gli Usa non avrebbero avuto nemmeno un cenno di crisi, la Grecia starebbe ancora crescendo rigogliosamente, il Pil francese galopperebbe da tanti anni, eccetera. Se la soluzione fossero gli stimoli monetari e i tassi di interesse bassi, da tanti anni nessun Paese, sia al di qua che al di là dell’Atlantico, avrebbe problemi di scarsezza di investimenti, produzione e occupazione.

Lo stimolo macro, giustificato dal fatto che «manca domanda», non è una buona politica di crescita. Lo sono invece quelle riforme che, migliorando l’uso delle risorse, il funzionamento dei mercati e la distribuzione del reddito, correggendo gli incentivi e i criteri con cui vengono prese le decisioni dei consumatori, dei produttori e dei governi, rasserenando le aspettative sulla stabilità finanziaria dei prossimi anni, fanno crescere l’economia dal lato dell’offerta. Cioè aumentano le opportunità di produrre e le previsioni di trovare mercato delle persone e delle imprese, abbassano con la concorrenza i prezzi dei beni e dei servizi e quindi ne favoriscono l’acquisto, migliorano la quantità e la qualità dei servizi pubblici a parità di risorse impiegate.

C’è anche una via di mezzo, che può funzionare, fra politiche di domanda e di offerta: favorire spese di investimento, pubblico e privato, con grande selettività, cioè mirando a dove gli investimenti servono per far meglio le riforme, riorganizzare più efficacemente le produzioni private e la pubblica amministrazione. Sono stimoli alla domanda che hanno effetti soprattutto perché migliorano l’offerta, la capacità produttiva.

L’Ue deve riportare le buone politiche di crescita al centro degli indirizzi comunitari, con urgenza e concretezza e un po’ di enfasi. E’ anche una questione di immagine: l’Europa, soprattutto in un periodo di crisi, non può continuare a essere associata a un rigore che rischia di essere frainteso, come fosse fine a se stesso. Altrimenti finiranno per essere rifiutati insieme l’Europa e il rigore. Fra una settimana la Commissione pubblicherà un aggiornamento delle previsioni macroeconomiche: presumibilmente non sarà allegro. Credo che anche i mercati gradirebbero se, contemporaneamente, venissero a sapere che il Consiglio dell’1 marzo ha aggiunto all’ordine del giorno almeno un annuncio di concreta politica di crescita.

Fra gli annunci più desiderabili ci sarebbe quello di un vero avvio del programma di completamento del mercato unico, che è la principale opportunità di crescita per le imprese europee, soprattutto con la liberalizzazione di quei settori dei servizi che la Germania insiste nel proteggere. E’ un programma che il nostro attuale premier ha disegnato quasi due anni fa; venne accolto con i migliori complimenti ma ora, quanto ad attuarlo, sembra che persino la speciale persuasività di Monti si scontri contro l’insormontabile.

Ma potrebbe esserci altro: perché non risuscitare i piani di forte ricapitalizzazione della Bei ed emettere project bond per infrastrutture comunitarie? Perché non decidere che alcune spese di investimento, che rientrino in progetti comunitari ben definiti, saranno considerate fra i fattori attenuanti nel giudizio della Commissione sui disavanzi pubblici? Perché non accompagnare fin d’ora i terribili tagli di spesa ordinati ad Atene con qualche programma di medio-lungo periodo che contempli corposi investimenti mirati e speciali dell’Europa in quel Paese, mostrando considerazione per il potenziale della sua economia, una volta aggiustata e riformata, e per offrire ai greci, oltre a tagli e salvagente, un po’ di speranza?

La Stampa 16.02.12

“Una ricetta per spingere la crescita”, di Franco Bruni

Le stime rese note ieri dall’Istat confermano che l’Italia è in recessione. Deve uscirne presto, anche per non compromettere l’aggiustamento della finanza pubblica. Per ridurre il peso del deficit pubblico sul Pil bisogna contrarre il deficit ma anche sostenere il Pil. In altre parole: le politiche per la crescita servono anche a migliorare la stabilità finanziaria. Fra l’altro, se il reddito nazionale accelera, sale il gettito delle imposte riducendo il deficit pubblico.

D’altra parte le politiche di bilancio restrittive frenano la crescita. Questo è quasi sempre vero nel breve periodo; guardando più lontano, dipende dalla qualità delle politiche restrittive che vengono fatte. Un riordino credibile e duraturo della finanza pubblica, che migliori anche l’utilità della spesa e la struttura delle imposte, può aumentare la produzione e l’occupazione.

Perciò non c’è contraddizione fra risanare la finanza pubblica e favorire la crescita. Basta fare le due cose nei modi e nei tempi giusti. Non troppo precipitosamente e con provvedimenti che migliorino l’organizzazione d’insieme dell’economia, pubblica e privata.

Invece in gran parte dell’Europa viviamo con l’incubo che il rigore finanziario non faccia attenzione alle politiche per la crescita. Il governo italiano è uno dei più attenti: ma in sede Ue manca determinazione su questo fronte. In che cosa possono consistere queste politiche?

Qualcuno parla di stimoli «keynesiani» alla domanda; in sostanza: moneta e credito più abbondanti e a buon mercato, meno imposte e nuova spesa pubblica. Ma è anche per un lungo periodo di espansione artificiosa ottenuta con stimoli del genere che il mondo intero è finito in crisi cinque anni fa. Se la soluzione fossero gli stimoli di bilancio, gli Usa non avrebbero avuto nemmeno un cenno di crisi, la Grecia starebbe ancora crescendo rigogliosamente, il Pil francese galopperebbe da tanti anni, eccetera. Se la soluzione fossero gli stimoli monetari e i tassi di interesse bassi, da tanti anni nessun Paese, sia al di qua che al di là dell’Atlantico, avrebbe problemi di scarsezza di investimenti, produzione e occupazione.

Lo stimolo macro, giustificato dal fatto che «manca domanda», non è una buona politica di crescita. Lo sono invece quelle riforme che, migliorando l’uso delle risorse, il funzionamento dei mercati e la distribuzione del reddito, correggendo gli incentivi e i criteri con cui vengono prese le decisioni dei consumatori, dei produttori e dei governi, rasserenando le aspettative sulla stabilità finanziaria dei prossimi anni, fanno crescere l’economia dal lato dell’offerta. Cioè aumentano le opportunità di produrre e le previsioni di trovare mercato delle persone e delle imprese, abbassano con la concorrenza i prezzi dei beni e dei servizi e quindi ne favoriscono l’acquisto, migliorano la quantità e la qualità dei servizi pubblici a parità di risorse impiegate.

C’è anche una via di mezzo, che può funzionare, fra politiche di domanda e di offerta: favorire spese di investimento, pubblico e privato, con grande selettività, cioè mirando a dove gli investimenti servono per far meglio le riforme, riorganizzare più efficacemente le produzioni private e la pubblica amministrazione. Sono stimoli alla domanda che hanno effetti soprattutto perché migliorano l’offerta, la capacità produttiva.

L’Ue deve riportare le buone politiche di crescita al centro degli indirizzi comunitari, con urgenza e concretezza e un po’ di enfasi. E’ anche una questione di immagine: l’Europa, soprattutto in un periodo di crisi, non può continuare a essere associata a un rigore che rischia di essere frainteso, come fosse fine a se stesso. Altrimenti finiranno per essere rifiutati insieme l’Europa e il rigore. Fra una settimana la Commissione pubblicherà un aggiornamento delle previsioni macroeconomiche: presumibilmente non sarà allegro. Credo che anche i mercati gradirebbero se, contemporaneamente, venissero a sapere che il Consiglio dell’1 marzo ha aggiunto all’ordine del giorno almeno un annuncio di concreta politica di crescita.

Fra gli annunci più desiderabili ci sarebbe quello di un vero avvio del programma di completamento del mercato unico, che è la principale opportunità di crescita per le imprese europee, soprattutto con la liberalizzazione di quei settori dei servizi che la Germania insiste nel proteggere. E’ un programma che il nostro attuale premier ha disegnato quasi due anni fa; venne accolto con i migliori complimenti ma ora, quanto ad attuarlo, sembra che persino la speciale persuasività di Monti si scontri contro l’insormontabile.

Ma potrebbe esserci altro: perché non risuscitare i piani di forte ricapitalizzazione della Bei ed emettere project bond per infrastrutture comunitarie? Perché non decidere che alcune spese di investimento, che rientrino in progetti comunitari ben definiti, saranno considerate fra i fattori attenuanti nel giudizio della Commissione sui disavanzi pubblici? Perché non accompagnare fin d’ora i terribili tagli di spesa ordinati ad Atene con qualche programma di medio-lungo periodo che contempli corposi investimenti mirati e speciali dell’Europa in quel Paese, mostrando considerazione per il potenziale della sua economia, una volta aggiustata e riformata, e per offrire ai greci, oltre a tagli e salvagente, un po’ di speranza?

La Stampa 16.02.12

QUOTA 96

Qui prosegue la discussione avviata il 19 gennaio sul post https://preview.critara.com/manughihtml/?p=28998 a seguito della presentazione di un emendamento al decreto Milleproroghe per differire al 31 agosto 2012, nel comparto scuola, il termine di applicazione della riforma Fornero.
Attualmente la discussione verte sulla eventualità di avviare una class action e sulle strade legislative per adattare la riforma Fornero alla specificità previdenziale della scuola, che da sempre dispone di un’unica finestra di uscita.

Il PD al ministro Profumo sul reclutamento (anche lombardo).

BACHELET, GHIZZONI, MARAN, LENZI, QUARTIANI, GIACHETTI, COSCIA, DE BIASI, DE PASQUALE, DE TORRE, LEVI, LOLLI, MAZZARELLA, MELANDRI, NICOLAIS, PES, ROSSA, ANTONINO RUSSO e SIRAGUSA.
– Al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. – Per sapere – premesso che:
il Ministro interrogato ha in più occasioni espresso l’intenzione di avviare una tornata di concorsi di reclutamento per il personale docente della scuola;
l’Italia è il Paese dell’Unione europea con la percentuale più alta di insegnanti ultracinquantenni nelle scuole superiori (57,8 per cento) e quella più bassa di insegnanti sotto i 30 anni (0,5 per cento); peraltro, la normativa previdenziale recentemente approvata determinerà la permanenza in servizio di docenti ultrasessantenni, aggravando, da un lato, i dati percentuali sopra riportati e, dall’altro, riducendo i posti vacanti e disponibili da coprire con il reclutamento di nuovo personale;
circa il 7 per cento del numero di graduatorie ad esaurimento non hanno più al loro interno docenti abilitati da immettere in ruolo: soprattutto al Nord, vi sono numerose province che presentano graduatorie esaurite di matematica, matematica e fisica, ingegneria informatica e gestionale, scienze, mentre permangono code lunghissime di aspiranti in graduatorie di altre classi di concorso, in particolare quelle di scienze umane;
in un atto di sindacato ispettivo dell’agosto 2011, il gruppo del Partito Democratico valutava l’opportunità di bandire concorsi «che, sulla base del merito e di un adeguato contingente di posti, avrebbero consentito tanto ai migliori insegnanti già in graduatoria di accelerare il proprio ingresso negli organici, quanto ai migliori laureati degli ultimi anni, conseguita la nuova abilitazione, di giocare le proprie opportunità»;
gli annunciati concorsi, se avviati immediatamente, contribuirebbero, pertanto, ad immettere stabilmente nel sistema scolastico nuovo personale, fortemente motivato, a vantaggio della didattica e dell’offerta formativa;
non risultano ancora pienamente attuate le disposizioni che prevedono interventi del Governo per il riordino del reclutamento degli insegnanti;
la regione Lombardia ha presentato un progetto di legge, che prevede, tra l’altro, all’articolo 5 («Reclutamento del personale docente da parte delle istituzioni scolastiche»), che: «A partire dall’anno scolastico 2012/2013, le istituzioni scolastiche statali possono organizzare concorsi differenziati a seconda del ciclo di studi, al fine di reclutare personale docente necessario a svolgere le attività didattiche annuali»;
tale progetto di legge appare, ad avviso degli interroganti, in contrasto con il dettato del titolo V della Costituzione, che affida in via esclusiva allo Stato le norme generali sull’istruzione (articolo 117, secondo comma, lettera n)), fra le quali indubitabilmente rientrano quelle che disciplinano il reclutamento degli insegnanti, e, sempre in via esclusiva, i principi fondamentali che la legislazione regionale deve osservare in materia d’istruzione, laddove alle regioni spetta solo una legislazione concorrente (articolo 117, terzo comma) -:
se e quando il Ministro interrogato intenda procedere sia all’indizione degli annunciati concorsi, sia all’attuazione delle disposizioni sul reclutamento del personale docente nella scuola. (3-02102)

Svolgimento di interrogazioni a risposta immediata.
(Intendimenti del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca in ordine al reclutamento del personale docente nella scuola – n. 3-02102)
PRESIDENTE.
L’onorevole De Pasquale ha facoltà di illustrare l’interrogazione Bachelet n. 3-02102, concernente intendimenti del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca in ordine al reclutamento del personale docente nella scuola (Vedi l’allegato A – Interrogazioni a risposta immediata), di cui è cofirmataria.
ROSA DE PASQUALE. Signor Presidente, gli insegnanti sono il motore della nostra scuola e devono essere formati e scelti con modalità che garantiscano le loro competenze disciplinari e le loro attitudini didattiche, relazionali e formative. Per questo siamo convinti che occorra riformare il reclutamento e la formazione iniziale dei docenti, tenendoli fortemente collegati. È urgente da un lato rinnovare la classe insegnante del Paese, che è la più anziana d’Europa, anche modificando la normativa previdenziale recentemente approvata, consentendo ai docenti più anziani di andare in pensione, liberando così posti di lavoro, e dall’altro riteniamo indispensabile che lei, signor Ministro, dica al Paese come intenda riordinare il reclutamento degli insegnanti, evitando fughe in avanti di singole regioni, ed eventualmente indicendo subito i concorsi da lei annunciati. Ciò al fine di garantire un valido e veloce canale di accesso all’insegnamento, tanto ai migliori docenti già in graduatoria, quanto ai migliori laureati degli ultimi anni. Ci auguriamo che tutto questo possa avvenire in modo partecipato e condiviso.
PRESIDENTE. Il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Francesco Profumo, ha facoltà di rispondere.
FRANCESCO PROFUMO, Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Signor Presidente, in risposta a quanto rappresentato dagli onorevoli interroganti, faccio presente, anzitutto, che sul reclutamento del personale docente della scuola, attualmente articolato in due canali di alimentazione, graduatorie e concorsi, di pari incidenza, è in corso, su mia precisa indicazione, un approfondito esame, da parte dell’amministrazione, anche al fine di individuare modalità appropriate per consentire l’accesso ai ruoli dei docenti più giovani.
L’indizione di nuovi concorsi presuppone l’individuazione dell’effettiva consistenza dei posti vacanti e in tal senso il Ministero sta procedendo ad una ricognizione per accertare, nelle varie realtà territoriali, la disponibilità di posti e il relativo esaurimento delle corrispondenti graduatorie.
Sul tema sono intervenuti tre elementi di novità che, influendo sulla disponibilità dei posti da mettere a concorso, devono essere in tal senso attentamente valutati. Mi riferisco in primo luogo alle procedure sulla mobilità interprovinciale del personale inserito nelle graduatorie ad esaurimento, personale che, come è noto, anche alla luce di quanto deciso dalla Corte costituzionale con sentenza n. 41 del 2011, può transitare dalla graduatoria di una provincia a quella di un’altra, così modificando l’entità numerica delle graduatorie stesse. In secondo luogo mi riferisco al completamento, da parte delle regioni, dei piani di ridimensionamento della rete scolastica che, nel caso di chiusura o accorpamento di scuole o plessi, possono comportare variazione negli organici.
Infine il riferimento è alle nuove norme sui pensionamenti che, prorogando ulteriormente la permanenza in servizio del personale di ruolo prossimo al termine Pag. 4della carriera, limitano di fatto le disponibilità di posti da destinare alle immissioni in ruolo.
Una volta accertata la consistenza delle disponibilità, è mia ferma intenzione procedere immediatamente all’indizione dei concorsi sui posti vacanti e disponibili, tenendo conto delle legittime aspettative dei giovani che usciranno dai corsi di tirocinio formativo attivo (TFA) in fase di attivazione. Si valuterà altresì l’opportunità di introdurre elementi di semplificazione della procedura concorsuale, attraverso lo strumento regolamentare di cui all’articolo 2, comma 416, della legge 24 dicembre 2007 n. 244.
PRESIDENTE. La prego di concludere.
FRANCESCO PROFUMO, Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Per quanto riguarda l’iniziativa della regione Lombardia, richiamata dagli onorevoli interroganti, devo segnalare di aver avviato con tutte le regioni un confronto generale che ha sullo sfondo l’operatività del titolo V della Costituzione nel campo dell’istruzione.
In tale percorso saranno affrontati temi di interesse comune e saranno ricercate soluzioni condivise, ivi inclusa la possibilità di avviare progetti sperimentali sul reclutamento, se del caso con forme innovative, ferma restando la competenza esclusiva dello Stato a dettare la disciplina della materia.
PRESIDENTE. L’onorevole Bachelet ha facoltà di replicare.
GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Signor Presidente, sono molto parzialmente soddisfatto. Anzitutto perché l’impressione è che i tempi che abbiamo a disposizione in questa legislatura siano tali che ogni approfondimento possa rappresentare la non esecuzione di alcuni di questi progetti. In particolare ogni approfondimento del doppio canale che modifichi in altro modo questo consolidato dispositivo, si presta a difficoltà che provocano allungamenti e così anche ciò che è stato menzionato dal Ministro, cioè il fatto di utilizzare la legge del 2007 per semplificare i concorsi. Si direbbe, da parte di chi ha visto i pochi concorsi espletati negli ultimi venti anni, che ci sarebbe appena il tempo per fare una task force per espletare i concorsi con la legge vigente in ogni regione, onde evitare gli inconvenienti già visti con il concorso dei dirigenti con una non adeguata preparazione.
Inoltre è stato menzionato giustamente il problema del pensionamento, ma questo è un problema del Governo e quindi noi chiediamo al Ministro di farsi nuovamente portavoce presso i Ministri competenti, affinché questi provvedimenti, come ha detto anche nell’illustrazione l’onorevole De Pasquale, possano essere riconsiderati, perché è evidente che è inutile prendersela con l’invecchiamento se poi si varano provvedimenti che vanno esattamente nella direzione opposta.
Quanto all’esaurimento o meno delle graduatorie, mi permetto di dire che i dati di tutta la scuola suggeriscono che anche dopo la mobilità interprovinciale, esistono molte graduatorie esaurite, quindi mi permetto di consigliare un approfondimento di questi dati. Infatti ritengo che alcune discipline siano esaurite indipendentemente da quanto avvenuto in seguito alle altre due vicende, cioè il ridimensionamento e la mobilità, e pertanto almeno sui posti vacanti e disponibili sarebbe possibile bandire dei concorsi.
PRESIDENTE. La prego di concludere.
GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Quanto al titolo V è evidente che se noi continueremo a non pensare all’attuazione del titolo V come fatto strategico per la scuola – apprezzo il fatto che il Governo abbia cominciato a far uno studio dei livelli di prestazione…
PRESIDENTE. La prego di concludere.
GIOVANNI BATTISTA BACHELET. … e dei costi – , se questo progetto non avanza sarà difficile che tutto il resto possa essere sperimentato legittimamente