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“Bocciato emendamento su pensioni. Che figura!”, di Pasquale M.i. Almirante

Che figura! Pdl, Lega e parte del Centro hanno votato, in commissione Affari costituzionali e bilancio, contro l’emendamento proposto dal Pd affinchè i diritti maturati per la quiescenza da circa 4 mila docenti slittassero dal 31 dicembre 2011, come previsto per il resto del pubblico impiego, al 31 agosto col termine dell’anno scolastico, in perfetta sintonia con la sola, antica finestra unica di cui hanno da sempre disposto i professori.

Un emendamento da inserire sul Milleproroghe, in approvazione definitiva al Senato, di assoluta equità e di normale giustizia.

Le uniche preoccupazioni infatti, che non solo i deputati del Pd avevano, ma anche i docenti nati nel 1952, che compiono 60 anni e con i contributi versati conformi ai dispositivi scorsi, erano accalappiate alle lacrime poco convinte della ministra Fornero, l’unica, col Governo, che gettava acqua sul fuoco della speranza di costoro in febbrile attesa dell’approvazione dell’emendamento in commissione.

Si temeva infatti l’opposizione del Governo, gli strilli della ministra, i lamenti squattrinati di Monti, non certo la sciabolata della Lega, i fromboli del Pdl, gli impantanamenti del Centro: che interessi possono avere questi partiti a bloccare un pugno di docenti del 1952 che vorrebbero lasciare la scuola?

Che motivo ha la Lega di farsi improvvisa paladina delle ristrettezze di borsa del Governo contro cui stanno sparando cartucce vuote dopo avere consentito perfino la rapina delle “quote latte” per le quali pagheremo sanzioni all’Ue? Perché questa scantonata dolorosa dopo essere stati i paladini a guardia delle pensioni? Non è stato l’indimenticabile Bossi a dire sempre: le pensioni non si toccano? E perché ora un voto sfacciatamente contrario per il riconoscimento, non di un privilegio, ma di un diritto assolutamente normale, vista la particolarità del lavoro dei docenti che non possono lasciare la classe a metà anno scolastico?

Stessa riflessione vale per Pdl e Centro: che motivi hanno, soprattutto dopo l’apertura al reperimento di qualche milione di euro per assicurare la quiescenza a questo drappello di professori, a bloccare un emendamento che anche Fioroni, già ministro col governo Prodi, aveva giudicato di correttezza giuridica e morale?

Una figura non sappiamo dire di che cosa da parte di questi partiti, né si riesce a trovare una giustificazione plausibile di fronte a un atto così scorretto, se non quella della ripicca, sia fra partiti e sia pure fra gli uomini che questi schieramenti compongono. E allora si ha la netta percezione che il governo della Nazione non sia più in mano a politici che tendono alla onorabilità della legislazione, ma al suo uso in senso privatistico, strumentale, familiare o ricattatorio o di scambio: ti approvo il tuo emendamento se tu approvi il mio.

Rigettare un simile emendamento volto a riscattare una palese ingiustizia contro i docenti che maturano gli stessi diritti del resto del pubblico con sei mesi di differimento, dal 31 dicembre al 31 agosto, ha il chiaro marchio dello sberleffo, non della ragion di stato (la mancanza di soldi) o del rigore o della equità della legge. La bufera era prevista scendere dalle montagne governative, dalle altezze montiane della cassa, non alzarsi dalle pianure padane o dal Centro mistico in cerca di un rifugio dove riscattarsi o dagli arcipelaghi pidiellini.

Perché l’abbiano fatto non è dato sapere, ma sicuramente si sono assunti una responsabilità nei confronti di poche migliaia di persone, che certamente sono stretta minoranza e forse proprio per questo meritano discriminazione e disparità.

da Orizzonte Scuola 15.02.12

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Pensioni: Niente vecchie regole per i prof. Repinto l’emendamento Pd al Milleproroghe

I prof continueranno ad essere ‘discriminati’ sul piano pensionistico. Non e’ passato, infatti al Senato, in commissione Affari Costituzionali e Bilancio, l’emendamento del Pd che prevedeva la possibilità per i docenti che matureranno i requisiti per la pensione entro il 31 agosto prossimo di lasciare il lavoro con le vecchie regole così come hanno potuto farlo i dipendenti pubblici che hanno maturato i requisiti entro il 31 dicembre scorso.

Il Pd ha cercato di far capire al governo e agli altri partiti che “i docenti lavorano non sull’anno solare, ma su quello scolastico- ricorda la senatrice Mariangela Bastico in una dichiaraziopne rilasciata alla stampa – “e dunque non possono andare in pensione l’1 gennaio, ma solo l’1 settembre. Ma non c’e’ stato verso”.

In questo modo i 4.000 docenti interessati slitteranno automaticamente nel nuovo sistema disegnato dal governo Monti con un ritardo netto della loro pensione. Lega, Pdl anche parte del Centro hanno votato contro l’emendamento del Pd.

da Tuttoscuola 15.02.12

"Democratici non moderati" di Alfredo Reichlin

A me sembra che le cose stanno confermando la scelta fondamentale del Pd di sostenere il governo Monti. Essa non fu dettata da calcoli di convenienza o di parte (tanto più che se si andava alle elezioni noi le avremmo vinte). Ciò che ha guidato il Pd è l’idea che la sua leadership guidata da Bersani ha della crisi italiana. Ritengo necessario ricordarlo.
Si trattava di una cosa molto diversa dalla disputa sulla «foto di Vasto». La scelta era quella di affrontare problemi e interrogativi sulla tenuta dello Stato e del tessuto stesso della nazione. C’era in noi (o in una parte di noi?) la consapevolezza che finiva una lunga fase storico-politica non solo in Italia ma nel mondo e che, di conseguenza, se il grande blocco di destra berlusconiano non teneva più, ciò era per tante ragioni (anche la nostra lotta) ma essenzialmente perché era diventato anacronistico. Ma questo significava (è chiaro?) che anacronistico diventava anche tutto il vecchio sistema politico. Per tante ragioni, ma al fondo per il fatto che la politica interna e la politica estera diventavano la stessa cosa. Il destino dell’Italia non era più separabile da quello dell’Europa. Il solo modo per «salvare l’Italia» era spingerla a muoversi su un terreno più vasto, quello dove si prendono le grandi decisioni e dove le forze del progresso e della democrazia possono almeno sperare di misurarsi con l’enorme potere delle oligarchie dominanti.
Parlo dell’Europa. Una Europa che oggi, purtroppo, nella realtà non c’è ancora, ma che potrebbe esserci se l’insieme dei suoi movimenti progressisti, socialdemocratici compresi (o no?) rialzassero la testa e rimettessero in gioco non solo la potenza economica del vecchio Continente ma il suo potenziale di civiltà: che poi è la civiltà del lavoro, dei diritti e delle libertà umane. La sua enorme creatività intellettuale. C’era quindi bisogno non di rifare un vecchio partito di sinistra, ma una forza più ampia dove si potevano raccogliere le storie non solo del riformismo socialista ma anche cattoliche e liberali. E tutto questo per riaprire un dialogo con le forze profonde del Paese. L’idea in fondo era questa: superare la tormentata vicenda di una sinistra da sempre divisa, per mettere in campo finalmente una grande prospettiva politica: democratica e di civiltà.
Che cos’è il successo di Monti se non la prova che il Paese nella sua intelligenza istintiva chiede di muoversi in una direzione nuova e costruttiva? È il Paese che ricomincia a interrogarsi su se stesso e sul suo futuro. Esso chiede che, finalmente, chi «governa» (la politica) si occupi dei suoi problemi e dei suoi drammi che sono al limite di possibili rotture sociali. Il problema non è la nostra libertà di dire che non tutte le decisioni di Monti vanno bene. Diciamolo. È quello di non suicidarci continuando a dividerci come a Genova e a battibeccare su formule dietro le quali non c’è nulla. C’è solo lo dico con molta amarezza una grande distanza dai problemi veri. Del resto, da quanto tempo non aggiorniamo la nostra analisi della società italiana? Non sono sicuro che abbiamo coscienza per fare solo un esempio che nel Mezzogiorno siamo di fronte non più solo alla vecchia distanza dal Nord in termini di reddito ma a un inedito processo di degradazione. Ai poteri criminali si deve ormai aggiungere il crollo della natalità, il maggiore invecchiamento in Italia della popolazione, lo spopolamento di intere zone e soprattutto il ritorno alla grande dell’emigrazione, soprattutto giovanile. Centinaia di migliaia di persone all’anno.
Le prediche rivolte dai «professori» ai giovani sono non solo stupide ma disinformate e suscitano in me una certa indignazione. Ma di che parlano questi signori quando siamo al punto che ogni giovane meridionale che si laurea in una materia scientifica lo fa sapendo già che il lavoro lo troverà altrove? E perciò se ne va. È questo il più grande ostacolo allo sviluppo e all’occupazione, non l’articolo 18. Aggiungo però che è proprio a fronte di fenomeni come questo che io trovo non più sopportabile la rissa dei notabili e dei politicanti, il loro continuo combattersi sul chi comanda, con chi e contro chi faccio le alleanze, quale legge elettorale, ecc. Torniamo alla realtà. È la realtà delle cose che potrebbe restituire ai partiti e alla politica il loro ruolo insostituibile, che è quello di riformare la società italiana non solo dall’alto come i tecnocrati ma entrando nelle sue fibre e nelle coscienze delle persone. Il problema è questo, non è se diventeremo socialisti, non dimenticando però l’esempio di quelli che predicavano nelle osterie della Valle Padana.
Sommessamente, direi quindi che la risposta del Pd alla rottura dei vecchi equilibri politici e ai profondi mutamenti della realtà non mi sembra ancora adeguata. Vogliamo interrogarci sul «dopo Monti»? Benissimo. Io però comincerei col domandarmi fino a che punto il Pd è cosciente del suo ruolo oggi. Apriamo gli occhi. È cambiata una intera fase storico-politica. È un passaggio paragonabile agli anni ‘30 quando i vecchi assetti furono spazzati via, il che impose un cambiamento radicale dei sistemi politici. Da un lato si affermò, per impulso della socialdemocrazia e di Roosevelt, un nuovo riformismo basato su un compromesso tra le forze del capitale e quelle del lavoro. Dall’altra parte ci fu l’avvento dei regimi autoritari e anti-parlamentari, favorito in Italia dalle classi dirigenti (Croce ed Einaudi compresi) e dai grandi giornali come il Corriere della Sera, il cui nemico era Giolitti, il riformista. Anche l’odierna marea di fango contro i partiti, tutti i partiti, tutti uguali, non mi sembra così innocente.
Stiamo attenti a non scherzare troppo col Pd che è pieno di difetti ma è la sola struttura capace di tenere insieme le forze progressiste. Non sono un pericoloso estremista e capisco benissimo la prudenza con cui dobbiamo gestire i guai dell’Italia, che in buona parte sono colpa nostra. Ma stiamo attenti. Sono i problemi che sono radicali. Molto radicali. E non sono affatto quelli di cui si chiacchiera nei corridoi della Camera. C’è gente anche in Italia che sta ricominciando a patire la fame. E allora voglio essere molto chiaro. A chi mi attacca perché non mi dichiaro socialista, do la stessa risposta che offro a chi si preoccupa perché crede che qualcuno voglia che socialista lo diventi il Partito democratico. La mia risposta è questa. Se da anni mi batto, scrivo e mi impegno per la formazione di un partito più largo rispetto alla visione del mondo della sinistra storica, più inclusivo, più aperto ai movimenti, più centrato, anche col nome, su quella che è la questione più grossa e più densa di pericoli del nostro tempo, cioè la crisi della democrazia moderna; se cerco lo strumento più adatto per un nuovo patto democratico e sociale senza il quale le società si disgregano e si imbarbariscono e le stesse economie di mercato alla lunga non reggono; se dunque ho fatto questa scelta è perché i problemi reali non sono più leggibili dentro il vecchio universo concettuale del marxismo e del classismo. È chiaro?
Ma questo non significa fare un partito moderato il cui orizzonte sta tutto nella politica corrente. Dove va l’Italia se non c’è una forza capace di tornare a rappresentare un popolo, una umanità, se non c’è un partito capace di lottare con esso e per esso? Chi pensa che per fare politica e difendere la democrazia basti una nuova legge elettorale, non è nemmeno un moderato, è un cretino. È vero che in un partito pluralista c’è posto anche per i cretini. Ma spero ci sia posto anche per uno come me. Il quale si pone la stessa domanda che ho letto in un recente articolo di Repubblica: «Che tipo di società sarà una società nella quale l’accumulazione del capitale è libera da ogni vincolo politico, da ogni problema di redistribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, e quindi, da ogni responsabilità verso l’ambiente e la salute di chi lavora? Siamo certi di voler vivere in una società di questo tipo?».
È con problemi come questi che dovrebbe saperlo bene Scalfari si misurarono grandi liberali come Keynes, come lord Beveridge e perfino un aristocratico americano della élite bostoniana come Roosevelt. Ricordiamolo anche a Monti.

L’Unità 14.02.12

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“Il Pse? Non si va avanti con la testa volta all’indietro”,
di Pierluigi Castagnetti

Come spesso accade, anche l’intervento di ieri di Alfredo Reichlin si segnala per una sorta di sapienza moderna e antica al tempo stesso. Sono mesi che ci richiama a un dibattito serio sul ruolo dei partiti in «questo mondo» che sembra andare avanti prescindendone, oltreché sottovalutando gli insegnamenti che pure ci vengono dalle esperienze del passato, per quanto i problemi di oggi siano inediti.
«Anacronistico è diventato tutto il vecchio sistema politico», questo è il problema dal quale non possiamo sfuggire. Anacronistiche le risposte delle vecchie tradizioni culturali e non di meno delle vecchie famiglie politiche europee. Continuare a cercare, anche se lo si nega, la nostra identità politica con la testa rivolta al passato rivela solo una carenza di sicurezza emotiva e di responsabilità storica. Sono grato a Pier Luigi Bersani perché la chiarezza sul tema contenuta nel suo intervento su Repubblica di ieri ha chiuso la polemica tanto assurda quanto deviante, sollevata da chi sul Foglio aveva proposto di fare del Pd un «cazzuto partito di sinistra».
Ricordo quando, all’inizio degli anni Ottanta, il Pci dell’Emilia Romagna aprì coraggiosamente un dibattito in consiglio regionale sulla provocazione lanciata da una rivista culturale della sinistra sul rapporto con «Proteo», cioè il mercato, con una suggestiva conclusione del presidente Gianfranco Turci, secondo cui «se Proteo non fosse per definizione inafferrabile, i comunisti emiliani potrebbero dire di averlo afferrato». Siamo di fronte oggi a una domanda altrettanto intensa e stimolante: qual è il rapporto della sinistra, o se si vuole della politica, col nuovo Proteo, la finanza che dirige il mondo? Quella finanza che ha svelato l’impotenza di un’Europa perennemente in costruzione. La stessa finanza che pretende di dirigere il mondo senza la politica, non solo senza la signoria delle regole, ma senza il controllo, anzi il semplice contatto con la realtà dei popoli fatti di uomini in carne ed ossa.
«Vogliamo interrogarci sul dopo Monti? Benissimo», dice ancora Reichlin. I nostri concittadini, anzi in particolare il popolo dei nostri elettori, questa domanda infatti se la pone, accetta e soffre il peso dei provvedimenti governativi, consapevole che non esistono alternative, ma si chiede: «E dopo?». Le forze politiche che per ragioni drammatiche hanno dovuto mostrare tutta la loro responsabilità promuovendo e sostenendo ogni giorno un governo non facile da sostenere, sembrano attendere il dopo con un certo fatalismo e la convinzione che dopo ci sarà il «ripristino». No, non ci potrà essere il mero ripristino della situazione precedente se non si guarderanno in faccia le questioni vere, preferendo le chiacchiere e le polemiche interne.
Anche Genova c’entra con questa malattia. Non meravigliamoci se il nostro elettorato si mostra più esigente di quello della destra, è così ed è giusto che pretenda da noi un salto di qualità. Non dimentichiamo che a Genova, come era accaduto a Milano (non a caso parliamo delle grandi città dove alle primarie partecipa più opinione pubblica che militanza), la stragrande maggioranza di quanti hanno scelto il candidato vincente Marco Doria è rappresentata da elettori tradizionalmente del Pd. A Genova come a Milano, valutata l’«armonizzabilità», cioè la vicinanza, del candidato cosiddetto esterno con l’identità del Pd stesso, molti elettori Pd hanno scelto quello, per dire la propria insoddisfazione per le altre candidature democratiche, troppo di establishment e troppo caratterizzate da una incomprensibile linea di continuità e a volte persino di astrattezza politica. Doria non è stato scelto perché era più a sinistra, ma perché era altro. Così come in altre città dove si sono fatte recentemente le primarie, penso a Piacenza ad esempio, il candidato è stato scelto non perché era cattolico, ma perché mostrava di possedere un maggior senso di contemporaneità, cioè di conoscenza dei problemi reali di oggi.
E, dunque, volendo tornare alla proposta avanzata dai cosiddetti “giovani turchi” di un «rafforzamento del rapporto con il Pse», mi chiedo quanto tutto ciò riguardi le sfide che Come spesso accade, anche l’intervento di ieri di Alfredo Reichlin si segnala per una sorta di sapienza moderna e antica al tempo stesso. Sono mesi che ci richiama a un dibattito serio sul ruolo dei partiti in «questo mondo» che sembra andare avanti prescindendone, oltreché sottovalutando gli insegnamenti che pure ci vengono dalle esperienze del passato, per quanto i problemi di oggi siano inediti.
«Anacronistico è diventato tutto il vecchio sistema politico», questo è il problema dal quale non possiamo sfuggire. Anacronistiche le risposte delle vecchie tradizioni culturali e non di meno delle vecchie famiglie politiche europee. Continuare a cercare, anche se lo si nega, la nostra identità politica con la testa rivolta al passato rivela solo una carenza di sicurezza emotiva e di responsabilità storica. Sono grato a Pier Luigi Bersani perché la chiarezza sul tema contenuta nel suo intervento su Repubblica di ieri ha chiuso la polemica tanto assurda quanto deviante, sollevata da chi sul Foglio aveva proposto di fare del Pd un «cazzuto partito di sinistra».
Ricordo quando, all’inizio degli anni Ottanta, il Pci dell’Emilia Romagna aprì coraggiosamente un dibattito in consiglio regionale sulla provocazione lanciata da una rivista culturale della sinistra sul rapporto con «Proteo», cioè il mercato, con una suggestiva conclusione del presidente Gianfranco Turci, secondo cui «se Proteo non fosse per definizione inafferrabile, i comunisti emiliani potrebbero dire di averlo afferrato». Siamo di fronte oggi a una domanda altrettanto intensa e stimolante: qual è il rapporto della sinistra, o se si vuole della politica, col nuovo Proteo, la finanza che dirige il mondo? Quella finanza che ha svelato l’impotenza di un’Europa perennemente in costruzione. La stessa finanza che pretende di dirigere il mondo senza la politica, non solo senza la signoria delle regole, ma senza il controllo, anzi il semplice contatto con la realtà dei popoli fatti di uomini in carne ed ossa.
«Vogliamo interrogarci sul dopo Monti? Benissimo», dice ancora Reichlin. I nostri concittadini, anzi in particolare il popolo dei nostri elettori, questa domanda infatti se la pone, accetta e soffre il peso dei provvedimenti governativi, consapevole che non esistono alternative, ma si chiede: «E dopo?». Le forze politiche che per ragioni drammatiche hanno dovuto mostrare tutta la loro responsabilità promuovendo e sostenendo ogni giorno un governo non facile da sostenere, sembrano attendere il dopo con un certo fatalismo e la convinzione che dopo ci sarà il «ripristino». No, non ci potrà essere il mero ripristino della situazione precedente se non si guarderanno in faccia le questioni vere, preferendo le chiacchiere e le polemiche interne.
Anche Genova c’entra con questa malattia. Non meravigliamoci se il nostro elettorato si mostra più esigente di quello della destra, è così ed è giusto che pretenda da noi un salto di qualità. Non dimentichiamo che a Genova, come era accaduto a Milano (non a caso parliamo delle grandi città dove alle primarie partecipa più opinione pubblica che militanza), la stragrande maggioranza di quanti hanno scelto il candidato vincente Marco Doria è rappresentata da elettori tradizionalmente del Pd. A Genova come a Milano, valutata l’«armonizzabilità», cioè la vicinanza, del candidato cosiddetto esterno con l’identità del Pd stesso, molti elettori Pd hanno scelto quello, per dire la propria insoddisfazione per le altre candidature democratiche, troppo di establishment e troppo caratterizzate da una incomprensibile linea di continuità e a volte persino di astrattezza politica. Doria non è stato scelto perché era più a sinistra, ma perché era altro. Così come in altre città dove si sono fatte recentemente le primarie, penso a Piacenza ad esempio, il candidato è stato scelto non perché era cattolico, ma perché mostrava di possedere un maggior senso di contemporaneità, cioè di conoscenza dei problemi reali di oggi.
E, dunque, volendo tornare alla proposta avanzata dai cosiddetti “giovani turchi” di un «rafforzamento del rapporto con il Pse», mi chiedo quanto tutto ciò riguardi le sfide che dovrà fronteggiare il Partito democratico. Quanto possano interessare oggi le famiglie europee del tutto inesistenti nella attuale crisi dell’Europa, è veramente un mistero. Basterà attendere la campagna elettorale tedesca per capire se e quanto il leader dell’Spd (che pure ci auguriamo possa avere successo) si allontanerà dalla linea della Merkel, dopo che questa crisi ha «ritedeschizzato» la società di quel Paese. Né avrebbe senso, a quasi dodici anni di distanza, ricordare che alla Conferenza intergovernativa di Nizza, che rappresenta il vero momento di inversione del processo di integrazione politica dell’Europa, dodici dei quindici capi di governo presenti erano socialisti. Almeno fossimo oggi di fronte a una iniziativa politica europea che si distinguesse per l’intenzione di riprendere il progetto dell’integrazione politica e della rigenerazione del modello di welfare del Continente!
Non è dunque per una ritrosia dei cattolici del Pd che a me sembra fuori luogo aprire oggi questo file. I cattolici del Pd non hanno una congenita incompatibilità con la socialdemocrazia e, quando hanno concorso a dar vita a questo nuovo partito, non hanno posto al riguardo un problema ideologico, ma un problema di ambizione, l’ambizione di fare una cosa nuova in Italia e una cosa nuova in Europa. Purtroppo si procede troppo lentamente, sia in Italia che in Europa. Non sono loro, i cattolici, a porre un problema di identità religiosa, che in politica sarebbe fuori luogo. Non sono loro a distinguere, all’interno del partito, i socialisti dai cattolici. Non sono loro, quando si tratta di scegliere un relatore in un convegno o in una riunione di circolo, a porre l’esigenza di un bilanciamento tale per cui quando vi è un relatore cosiddetto cattolico deve essercene anche un altro, poiché al primo non si riconosce la possibilità di rappresentare tutto il partito. Non sono loro a porre difficoltà per la convivenza pluralistica fra per dirla con Wittgenstein chi pensa che «il mondo non è poi tutto» e chi pensa il contrario.
E, dunque, non si assuma il tema del più stretto rapporto con il Pse per sparigliare, o anche solo per esercitare una forzatura non su chi sarebbe incompatibile, ma su chi ritiene che ciò può compromettere l’ambizione più alta che fu di tutti quelli che hanno inventato il Partito democratico, non per esigenze di accasamento ma per dare una prospettiva alla civiltà, alla democrazia e alla politica in questo complicatissimo tornante della storia.

L’Unità 15.02.12

“Democratici non moderati” di Alfredo Reichlin

A me sembra che le cose stanno confermando la scelta fondamentale del Pd di sostenere il governo Monti. Essa non fu dettata da calcoli di convenienza o di parte (tanto più che se si andava alle elezioni noi le avremmo vinte). Ciò che ha guidato il Pd è l’idea che la sua leadership guidata da Bersani ha della crisi italiana. Ritengo necessario ricordarlo.
Si trattava di una cosa molto diversa dalla disputa sulla «foto di Vasto». La scelta era quella di affrontare problemi e interrogativi sulla tenuta dello Stato e del tessuto stesso della nazione. C’era in noi (o in una parte di noi?) la consapevolezza che finiva una lunga fase storico-politica non solo in Italia ma nel mondo e che, di conseguenza, se il grande blocco di destra berlusconiano non teneva più, ciò era per tante ragioni (anche la nostra lotta) ma essenzialmente perché era diventato anacronistico. Ma questo significava (è chiaro?) che anacronistico diventava anche tutto il vecchio sistema politico. Per tante ragioni, ma al fondo per il fatto che la politica interna e la politica estera diventavano la stessa cosa. Il destino dell’Italia non era più separabile da quello dell’Europa. Il solo modo per «salvare l’Italia» era spingerla a muoversi su un terreno più vasto, quello dove si prendono le grandi decisioni e dove le forze del progresso e della democrazia possono almeno sperare di misurarsi con l’enorme potere delle oligarchie dominanti.
Parlo dell’Europa. Una Europa che oggi, purtroppo, nella realtà non c’è ancora, ma che potrebbe esserci se l’insieme dei suoi movimenti progressisti, socialdemocratici compresi (o no?) rialzassero la testa e rimettessero in gioco non solo la potenza economica del vecchio Continente ma il suo potenziale di civiltà: che poi è la civiltà del lavoro, dei diritti e delle libertà umane. La sua enorme creatività intellettuale. C’era quindi bisogno non di rifare un vecchio partito di sinistra, ma una forza più ampia dove si potevano raccogliere le storie non solo del riformismo socialista ma anche cattoliche e liberali. E tutto questo per riaprire un dialogo con le forze profonde del Paese. L’idea in fondo era questa: superare la tormentata vicenda di una sinistra da sempre divisa, per mettere in campo finalmente una grande prospettiva politica: democratica e di civiltà.
Che cos’è il successo di Monti se non la prova che il Paese nella sua intelligenza istintiva chiede di muoversi in una direzione nuova e costruttiva? È il Paese che ricomincia a interrogarsi su se stesso e sul suo futuro. Esso chiede che, finalmente, chi «governa» (la politica) si occupi dei suoi problemi e dei suoi drammi che sono al limite di possibili rotture sociali. Il problema non è la nostra libertà di dire che non tutte le decisioni di Monti vanno bene. Diciamolo. È quello di non suicidarci continuando a dividerci come a Genova e a battibeccare su formule dietro le quali non c’è nulla. C’è solo lo dico con molta amarezza una grande distanza dai problemi veri. Del resto, da quanto tempo non aggiorniamo la nostra analisi della società italiana? Non sono sicuro che abbiamo coscienza per fare solo un esempio che nel Mezzogiorno siamo di fronte non più solo alla vecchia distanza dal Nord in termini di reddito ma a un inedito processo di degradazione. Ai poteri criminali si deve ormai aggiungere il crollo della natalità, il maggiore invecchiamento in Italia della popolazione, lo spopolamento di intere zone e soprattutto il ritorno alla grande dell’emigrazione, soprattutto giovanile. Centinaia di migliaia di persone all’anno.
Le prediche rivolte dai «professori» ai giovani sono non solo stupide ma disinformate e suscitano in me una certa indignazione. Ma di che parlano questi signori quando siamo al punto che ogni giovane meridionale che si laurea in una materia scientifica lo fa sapendo già che il lavoro lo troverà altrove? E perciò se ne va. È questo il più grande ostacolo allo sviluppo e all’occupazione, non l’articolo 18. Aggiungo però che è proprio a fronte di fenomeni come questo che io trovo non più sopportabile la rissa dei notabili e dei politicanti, il loro continuo combattersi sul chi comanda, con chi e contro chi faccio le alleanze, quale legge elettorale, ecc. Torniamo alla realtà. È la realtà delle cose che potrebbe restituire ai partiti e alla politica il loro ruolo insostituibile, che è quello di riformare la società italiana non solo dall’alto come i tecnocrati ma entrando nelle sue fibre e nelle coscienze delle persone. Il problema è questo, non è se diventeremo socialisti, non dimenticando però l’esempio di quelli che predicavano nelle osterie della Valle Padana.
Sommessamente, direi quindi che la risposta del Pd alla rottura dei vecchi equilibri politici e ai profondi mutamenti della realtà non mi sembra ancora adeguata. Vogliamo interrogarci sul «dopo Monti»? Benissimo. Io però comincerei col domandarmi fino a che punto il Pd è cosciente del suo ruolo oggi. Apriamo gli occhi. È cambiata una intera fase storico-politica. È un passaggio paragonabile agli anni ‘30 quando i vecchi assetti furono spazzati via, il che impose un cambiamento radicale dei sistemi politici. Da un lato si affermò, per impulso della socialdemocrazia e di Roosevelt, un nuovo riformismo basato su un compromesso tra le forze del capitale e quelle del lavoro. Dall’altra parte ci fu l’avvento dei regimi autoritari e anti-parlamentari, favorito in Italia dalle classi dirigenti (Croce ed Einaudi compresi) e dai grandi giornali come il Corriere della Sera, il cui nemico era Giolitti, il riformista. Anche l’odierna marea di fango contro i partiti, tutti i partiti, tutti uguali, non mi sembra così innocente.
Stiamo attenti a non scherzare troppo col Pd che è pieno di difetti ma è la sola struttura capace di tenere insieme le forze progressiste. Non sono un pericoloso estremista e capisco benissimo la prudenza con cui dobbiamo gestire i guai dell’Italia, che in buona parte sono colpa nostra. Ma stiamo attenti. Sono i problemi che sono radicali. Molto radicali. E non sono affatto quelli di cui si chiacchiera nei corridoi della Camera. C’è gente anche in Italia che sta ricominciando a patire la fame. E allora voglio essere molto chiaro. A chi mi attacca perché non mi dichiaro socialista, do la stessa risposta che offro a chi si preoccupa perché crede che qualcuno voglia che socialista lo diventi il Partito democratico. La mia risposta è questa. Se da anni mi batto, scrivo e mi impegno per la formazione di un partito più largo rispetto alla visione del mondo della sinistra storica, più inclusivo, più aperto ai movimenti, più centrato, anche col nome, su quella che è la questione più grossa e più densa di pericoli del nostro tempo, cioè la crisi della democrazia moderna; se cerco lo strumento più adatto per un nuovo patto democratico e sociale senza il quale le società si disgregano e si imbarbariscono e le stesse economie di mercato alla lunga non reggono; se dunque ho fatto questa scelta è perché i problemi reali non sono più leggibili dentro il vecchio universo concettuale del marxismo e del classismo. È chiaro?
Ma questo non significa fare un partito moderato il cui orizzonte sta tutto nella politica corrente. Dove va l’Italia se non c’è una forza capace di tornare a rappresentare un popolo, una umanità, se non c’è un partito capace di lottare con esso e per esso? Chi pensa che per fare politica e difendere la democrazia basti una nuova legge elettorale, non è nemmeno un moderato, è un cretino. È vero che in un partito pluralista c’è posto anche per i cretini. Ma spero ci sia posto anche per uno come me. Il quale si pone la stessa domanda che ho letto in un recente articolo di Repubblica: «Che tipo di società sarà una società nella quale l’accumulazione del capitale è libera da ogni vincolo politico, da ogni problema di redistribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, e quindi, da ogni responsabilità verso l’ambiente e la salute di chi lavora? Siamo certi di voler vivere in una società di questo tipo?».
È con problemi come questi che dovrebbe saperlo bene Scalfari si misurarono grandi liberali come Keynes, come lord Beveridge e perfino un aristocratico americano della élite bostoniana come Roosevelt. Ricordiamolo anche a Monti.

L’Unità 14.02.12

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“Il Pse? Non si va avanti con la testa volta all’indietro”,
di Pierluigi Castagnetti

Come spesso accade, anche l’intervento di ieri di Alfredo Reichlin si segnala per una sorta di sapienza moderna e antica al tempo stesso. Sono mesi che ci richiama a un dibattito serio sul ruolo dei partiti in «questo mondo» che sembra andare avanti prescindendone, oltreché sottovalutando gli insegnamenti che pure ci vengono dalle esperienze del passato, per quanto i problemi di oggi siano inediti.
«Anacronistico è diventato tutto il vecchio sistema politico», questo è il problema dal quale non possiamo sfuggire. Anacronistiche le risposte delle vecchie tradizioni culturali e non di meno delle vecchie famiglie politiche europee. Continuare a cercare, anche se lo si nega, la nostra identità politica con la testa rivolta al passato rivela solo una carenza di sicurezza emotiva e di responsabilità storica. Sono grato a Pier Luigi Bersani perché la chiarezza sul tema contenuta nel suo intervento su Repubblica di ieri ha chiuso la polemica tanto assurda quanto deviante, sollevata da chi sul Foglio aveva proposto di fare del Pd un «cazzuto partito di sinistra».
Ricordo quando, all’inizio degli anni Ottanta, il Pci dell’Emilia Romagna aprì coraggiosamente un dibattito in consiglio regionale sulla provocazione lanciata da una rivista culturale della sinistra sul rapporto con «Proteo», cioè il mercato, con una suggestiva conclusione del presidente Gianfranco Turci, secondo cui «se Proteo non fosse per definizione inafferrabile, i comunisti emiliani potrebbero dire di averlo afferrato». Siamo di fronte oggi a una domanda altrettanto intensa e stimolante: qual è il rapporto della sinistra, o se si vuole della politica, col nuovo Proteo, la finanza che dirige il mondo? Quella finanza che ha svelato l’impotenza di un’Europa perennemente in costruzione. La stessa finanza che pretende di dirigere il mondo senza la politica, non solo senza la signoria delle regole, ma senza il controllo, anzi il semplice contatto con la realtà dei popoli fatti di uomini in carne ed ossa.
«Vogliamo interrogarci sul dopo Monti? Benissimo», dice ancora Reichlin. I nostri concittadini, anzi in particolare il popolo dei nostri elettori, questa domanda infatti se la pone, accetta e soffre il peso dei provvedimenti governativi, consapevole che non esistono alternative, ma si chiede: «E dopo?». Le forze politiche che per ragioni drammatiche hanno dovuto mostrare tutta la loro responsabilità promuovendo e sostenendo ogni giorno un governo non facile da sostenere, sembrano attendere il dopo con un certo fatalismo e la convinzione che dopo ci sarà il «ripristino». No, non ci potrà essere il mero ripristino della situazione precedente se non si guarderanno in faccia le questioni vere, preferendo le chiacchiere e le polemiche interne.
Anche Genova c’entra con questa malattia. Non meravigliamoci se il nostro elettorato si mostra più esigente di quello della destra, è così ed è giusto che pretenda da noi un salto di qualità. Non dimentichiamo che a Genova, come era accaduto a Milano (non a caso parliamo delle grandi città dove alle primarie partecipa più opinione pubblica che militanza), la stragrande maggioranza di quanti hanno scelto il candidato vincente Marco Doria è rappresentata da elettori tradizionalmente del Pd. A Genova come a Milano, valutata l’«armonizzabilità», cioè la vicinanza, del candidato cosiddetto esterno con l’identità del Pd stesso, molti elettori Pd hanno scelto quello, per dire la propria insoddisfazione per le altre candidature democratiche, troppo di establishment e troppo caratterizzate da una incomprensibile linea di continuità e a volte persino di astrattezza politica. Doria non è stato scelto perché era più a sinistra, ma perché era altro. Così come in altre città dove si sono fatte recentemente le primarie, penso a Piacenza ad esempio, il candidato è stato scelto non perché era cattolico, ma perché mostrava di possedere un maggior senso di contemporaneità, cioè di conoscenza dei problemi reali di oggi.
E, dunque, volendo tornare alla proposta avanzata dai cosiddetti “giovani turchi” di un «rafforzamento del rapporto con il Pse», mi chiedo quanto tutto ciò riguardi le sfide che Come spesso accade, anche l’intervento di ieri di Alfredo Reichlin si segnala per una sorta di sapienza moderna e antica al tempo stesso. Sono mesi che ci richiama a un dibattito serio sul ruolo dei partiti in «questo mondo» che sembra andare avanti prescindendone, oltreché sottovalutando gli insegnamenti che pure ci vengono dalle esperienze del passato, per quanto i problemi di oggi siano inediti.
«Anacronistico è diventato tutto il vecchio sistema politico», questo è il problema dal quale non possiamo sfuggire. Anacronistiche le risposte delle vecchie tradizioni culturali e non di meno delle vecchie famiglie politiche europee. Continuare a cercare, anche se lo si nega, la nostra identità politica con la testa rivolta al passato rivela solo una carenza di sicurezza emotiva e di responsabilità storica. Sono grato a Pier Luigi Bersani perché la chiarezza sul tema contenuta nel suo intervento su Repubblica di ieri ha chiuso la polemica tanto assurda quanto deviante, sollevata da chi sul Foglio aveva proposto di fare del Pd un «cazzuto partito di sinistra».
Ricordo quando, all’inizio degli anni Ottanta, il Pci dell’Emilia Romagna aprì coraggiosamente un dibattito in consiglio regionale sulla provocazione lanciata da una rivista culturale della sinistra sul rapporto con «Proteo», cioè il mercato, con una suggestiva conclusione del presidente Gianfranco Turci, secondo cui «se Proteo non fosse per definizione inafferrabile, i comunisti emiliani potrebbero dire di averlo afferrato». Siamo di fronte oggi a una domanda altrettanto intensa e stimolante: qual è il rapporto della sinistra, o se si vuole della politica, col nuovo Proteo, la finanza che dirige il mondo? Quella finanza che ha svelato l’impotenza di un’Europa perennemente in costruzione. La stessa finanza che pretende di dirigere il mondo senza la politica, non solo senza la signoria delle regole, ma senza il controllo, anzi il semplice contatto con la realtà dei popoli fatti di uomini in carne ed ossa.
«Vogliamo interrogarci sul dopo Monti? Benissimo», dice ancora Reichlin. I nostri concittadini, anzi in particolare il popolo dei nostri elettori, questa domanda infatti se la pone, accetta e soffre il peso dei provvedimenti governativi, consapevole che non esistono alternative, ma si chiede: «E dopo?». Le forze politiche che per ragioni drammatiche hanno dovuto mostrare tutta la loro responsabilità promuovendo e sostenendo ogni giorno un governo non facile da sostenere, sembrano attendere il dopo con un certo fatalismo e la convinzione che dopo ci sarà il «ripristino». No, non ci potrà essere il mero ripristino della situazione precedente se non si guarderanno in faccia le questioni vere, preferendo le chiacchiere e le polemiche interne.
Anche Genova c’entra con questa malattia. Non meravigliamoci se il nostro elettorato si mostra più esigente di quello della destra, è così ed è giusto che pretenda da noi un salto di qualità. Non dimentichiamo che a Genova, come era accaduto a Milano (non a caso parliamo delle grandi città dove alle primarie partecipa più opinione pubblica che militanza), la stragrande maggioranza di quanti hanno scelto il candidato vincente Marco Doria è rappresentata da elettori tradizionalmente del Pd. A Genova come a Milano, valutata l’«armonizzabilità», cioè la vicinanza, del candidato cosiddetto esterno con l’identità del Pd stesso, molti elettori Pd hanno scelto quello, per dire la propria insoddisfazione per le altre candidature democratiche, troppo di establishment e troppo caratterizzate da una incomprensibile linea di continuità e a volte persino di astrattezza politica. Doria non è stato scelto perché era più a sinistra, ma perché era altro. Così come in altre città dove si sono fatte recentemente le primarie, penso a Piacenza ad esempio, il candidato è stato scelto non perché era cattolico, ma perché mostrava di possedere un maggior senso di contemporaneità, cioè di conoscenza dei problemi reali di oggi.
E, dunque, volendo tornare alla proposta avanzata dai cosiddetti “giovani turchi” di un «rafforzamento del rapporto con il Pse», mi chiedo quanto tutto ciò riguardi le sfide che dovrà fronteggiare il Partito democratico. Quanto possano interessare oggi le famiglie europee del tutto inesistenti nella attuale crisi dell’Europa, è veramente un mistero. Basterà attendere la campagna elettorale tedesca per capire se e quanto il leader dell’Spd (che pure ci auguriamo possa avere successo) si allontanerà dalla linea della Merkel, dopo che questa crisi ha «ritedeschizzato» la società di quel Paese. Né avrebbe senso, a quasi dodici anni di distanza, ricordare che alla Conferenza intergovernativa di Nizza, che rappresenta il vero momento di inversione del processo di integrazione politica dell’Europa, dodici dei quindici capi di governo presenti erano socialisti. Almeno fossimo oggi di fronte a una iniziativa politica europea che si distinguesse per l’intenzione di riprendere il progetto dell’integrazione politica e della rigenerazione del modello di welfare del Continente!
Non è dunque per una ritrosia dei cattolici del Pd che a me sembra fuori luogo aprire oggi questo file. I cattolici del Pd non hanno una congenita incompatibilità con la socialdemocrazia e, quando hanno concorso a dar vita a questo nuovo partito, non hanno posto al riguardo un problema ideologico, ma un problema di ambizione, l’ambizione di fare una cosa nuova in Italia e una cosa nuova in Europa. Purtroppo si procede troppo lentamente, sia in Italia che in Europa. Non sono loro, i cattolici, a porre un problema di identità religiosa, che in politica sarebbe fuori luogo. Non sono loro a distinguere, all’interno del partito, i socialisti dai cattolici. Non sono loro, quando si tratta di scegliere un relatore in un convegno o in una riunione di circolo, a porre l’esigenza di un bilanciamento tale per cui quando vi è un relatore cosiddetto cattolico deve essercene anche un altro, poiché al primo non si riconosce la possibilità di rappresentare tutto il partito. Non sono loro a porre difficoltà per la convivenza pluralistica fra per dirla con Wittgenstein chi pensa che «il mondo non è poi tutto» e chi pensa il contrario.
E, dunque, non si assuma il tema del più stretto rapporto con il Pse per sparigliare, o anche solo per esercitare una forzatura non su chi sarebbe incompatibile, ma su chi ritiene che ciò può compromettere l’ambizione più alta che fu di tutti quelli che hanno inventato il Partito democratico, non per esigenze di accasamento ma per dare una prospettiva alla civiltà, alla democrazia e alla politica in questo complicatissimo tornante della storia.

L’Unità 15.02.12

"I giovani, il lavoro e i lapsus del governo", di Carlo Galli

Nel momento in cui il governo mette mano alla riforma del lavoro – cioè all´atto politicamente più significativo del suo mandato emergenziale – i recenti lapsus comunicativi di alcuni suoi importanti esponenti sono preziosi non tanto per intentare processi alle intenzioni, quanto perché permettono di inquadrare la dimensione reale dei problemi in gioco.
In primo luogo, c´è un problema cognitivo: le élites sociali, economiche, intellettuali del Paese, oggi investite della diretta responsabilità di governo, conoscono l´Italia attraverso stereotipi (la colpa delle nostre condizioni è nel buonismo sociale) oppure attraverso le privilegiate esperienze di familiari e di amici (da cui apprendono che la mobilità è benefica, e che il lavoro gratificante si trova a Washington o a Wall Street o nella Silicon Valley, e non a casa di papà e mamma dove lo cercano, senza trovarlo, i giovani e illusi fannulloni). Questo cortocircuito è il segno che le élites oggi sono distanti dalla massa dei cittadini; la contrazione del ceto medio – già ampia e articolata riserva di energie culturali, sociali e anche politiche – lascia il campo a una società frammentata fra le élites sempre meno numerose, e sempre più separate, e i cittadini “normali”, sempre più anonimi, passivi, incompresi. Non è questione di buona volontà o di sensibilità individuale. È una nuova struttura della società ciò che si profila dietro quelle parole.
Da qui un ulteriore problema politico. Le élites hanno sempre maggiore difficoltà a dirigere un Paese attraverso un´egemonia di tipo tradizionale: cioè attraverso un discorso che sia, com´è inevitabile, di parte, ma che al tempo stesso sappia aprire un orizzonte in cui c´è spazio per tutti, e non solo per pochi privilegiati. Ciò non significa che il governo non farà nulla per modificare il contesto in cui il lavoro manca per giovani e meno giovani, e, quando c´è, è sempre più spesso precario, sottopagato, non in linea con gli studi effettuati, e poco tutelato; significa però che oggi le élites muovono, per default, da una posizione, da una ideologia, che vede gli imperativi sistemici dell´economia non solo come privi di alternative ma anche scarsamente governabili. Significa che sostituiscono l´oggettività alla persuasione e al consenso – la tecnica alla politica, si direbbe, se non fosse politico anche l´agire che si presenta come tecnico –.
Le élites hanno in mente un futuro poco condiviso da chi lo deve vivere, cioè soprattutto dai giovani (che del futuro sono i naturali abitatori). E lo propongono senza farsene troppi problemi, senza sforzarsi neppure di nascondere il fastidio per la riluttanza dei diretti interessati davanti all´immagine, presentata come gratificante, di un lavoro perennemente mobile – cioè, in realtà, perennemente mancante –. Tanto che li trattano con qualche durezza, con qualche impazienza, poiché li vedono collocati prevalentemente nel “passato”. Ma in realtà quei giovani, e anche i meno giovani, hanno i piedi ben piantati nel presente; e conoscono già, da qualche decennio, la realtà del lavoro che scarseggia; ma la vivono come una perdita, come un vulnus, rispetto sia alle aspettative individuali (tutte illusorie?) sia allo stesso impianto categoriale e valoriale della Costituzione.
E questo è un ulteriore problema politico. Come conciliare la previsione programmatica e valoriale di una repubblica democratica fondata sul lavoro – ovvero l´idea di una civile convivenza che al lavoro affida la funzione di socializzazione, di promozione della persona umana, e che ne fa lo strumento privilegiato perché il cittadino determini in autonomia il proprio avvenire –, con la realtà di segno opposto del recente passato, del presente e anche dell´avvenire? Questo è un problema che deve interpellare chiunque faccia politica (a qualunque titolo), e spingerlo a interpretare con buon senso e con radicalità (cioè senza ideologie e senza superficialità) l´esperienza presente, ma anche a ricondurla nell´alveo, della nostra Costituzione, della nostra democrazia.
L´ultimo, e più grave, problema politico a cui rimandano le difficoltà comunicative del governo è infatti la crisi del capitalismo (o almeno della interpretazione che ne dà la dominante cultura neoliberista). È una crisi che ha almeno due volti: dal punto di vista istituzionale, implica un conflitto tra finanza e democrazie indebitate che apre contraddizioni laceranti fra i politici (sia i “tecnici” al governo, sia i partiti in Parlamento) che si devono fare carico di misure decise fuori dagli spazi della sovranità democratica, e i cittadini che le subiscono. Da un punto di vista materiale, poi, il capitalismo sta perdendo la sua capacità di realizzare crescita attraverso il lavoro sociale, che è stata la sua giustificazione storica, la sua legittimazione democratica. Se è vero che è più facile, oggi, creare ricchezza che creare lavoro, e che il lavoro sarà sempre più spesso scarso, dequalificato e sottopagato, che ne è del significato progressivo del capitalismo, della sua promessa di futuro?
Almeno alla questione del lavoro – della sua difesa, della sua centralità politica, del suo sviluppo – anche un governo “tecnico” non può non impegnarsi a dare risposte all´altezza della questione democratica che vi è implicita. Una risposta linguisticamente, concettualmente, operativamente, adeguata alla fiducia non solo tecnica che riscuote dentro e fuori d´Italia.

La Repubblica 15.02.12

“I giovani, il lavoro e i lapsus del governo”, di Carlo Galli

Nel momento in cui il governo mette mano alla riforma del lavoro – cioè all´atto politicamente più significativo del suo mandato emergenziale – i recenti lapsus comunicativi di alcuni suoi importanti esponenti sono preziosi non tanto per intentare processi alle intenzioni, quanto perché permettono di inquadrare la dimensione reale dei problemi in gioco.
In primo luogo, c´è un problema cognitivo: le élites sociali, economiche, intellettuali del Paese, oggi investite della diretta responsabilità di governo, conoscono l´Italia attraverso stereotipi (la colpa delle nostre condizioni è nel buonismo sociale) oppure attraverso le privilegiate esperienze di familiari e di amici (da cui apprendono che la mobilità è benefica, e che il lavoro gratificante si trova a Washington o a Wall Street o nella Silicon Valley, e non a casa di papà e mamma dove lo cercano, senza trovarlo, i giovani e illusi fannulloni). Questo cortocircuito è il segno che le élites oggi sono distanti dalla massa dei cittadini; la contrazione del ceto medio – già ampia e articolata riserva di energie culturali, sociali e anche politiche – lascia il campo a una società frammentata fra le élites sempre meno numerose, e sempre più separate, e i cittadini “normali”, sempre più anonimi, passivi, incompresi. Non è questione di buona volontà o di sensibilità individuale. È una nuova struttura della società ciò che si profila dietro quelle parole.
Da qui un ulteriore problema politico. Le élites hanno sempre maggiore difficoltà a dirigere un Paese attraverso un´egemonia di tipo tradizionale: cioè attraverso un discorso che sia, com´è inevitabile, di parte, ma che al tempo stesso sappia aprire un orizzonte in cui c´è spazio per tutti, e non solo per pochi privilegiati. Ciò non significa che il governo non farà nulla per modificare il contesto in cui il lavoro manca per giovani e meno giovani, e, quando c´è, è sempre più spesso precario, sottopagato, non in linea con gli studi effettuati, e poco tutelato; significa però che oggi le élites muovono, per default, da una posizione, da una ideologia, che vede gli imperativi sistemici dell´economia non solo come privi di alternative ma anche scarsamente governabili. Significa che sostituiscono l´oggettività alla persuasione e al consenso – la tecnica alla politica, si direbbe, se non fosse politico anche l´agire che si presenta come tecnico –.
Le élites hanno in mente un futuro poco condiviso da chi lo deve vivere, cioè soprattutto dai giovani (che del futuro sono i naturali abitatori). E lo propongono senza farsene troppi problemi, senza sforzarsi neppure di nascondere il fastidio per la riluttanza dei diretti interessati davanti all´immagine, presentata come gratificante, di un lavoro perennemente mobile – cioè, in realtà, perennemente mancante –. Tanto che li trattano con qualche durezza, con qualche impazienza, poiché li vedono collocati prevalentemente nel “passato”. Ma in realtà quei giovani, e anche i meno giovani, hanno i piedi ben piantati nel presente; e conoscono già, da qualche decennio, la realtà del lavoro che scarseggia; ma la vivono come una perdita, come un vulnus, rispetto sia alle aspettative individuali (tutte illusorie?) sia allo stesso impianto categoriale e valoriale della Costituzione.
E questo è un ulteriore problema politico. Come conciliare la previsione programmatica e valoriale di una repubblica democratica fondata sul lavoro – ovvero l´idea di una civile convivenza che al lavoro affida la funzione di socializzazione, di promozione della persona umana, e che ne fa lo strumento privilegiato perché il cittadino determini in autonomia il proprio avvenire –, con la realtà di segno opposto del recente passato, del presente e anche dell´avvenire? Questo è un problema che deve interpellare chiunque faccia politica (a qualunque titolo), e spingerlo a interpretare con buon senso e con radicalità (cioè senza ideologie e senza superficialità) l´esperienza presente, ma anche a ricondurla nell´alveo, della nostra Costituzione, della nostra democrazia.
L´ultimo, e più grave, problema politico a cui rimandano le difficoltà comunicative del governo è infatti la crisi del capitalismo (o almeno della interpretazione che ne dà la dominante cultura neoliberista). È una crisi che ha almeno due volti: dal punto di vista istituzionale, implica un conflitto tra finanza e democrazie indebitate che apre contraddizioni laceranti fra i politici (sia i “tecnici” al governo, sia i partiti in Parlamento) che si devono fare carico di misure decise fuori dagli spazi della sovranità democratica, e i cittadini che le subiscono. Da un punto di vista materiale, poi, il capitalismo sta perdendo la sua capacità di realizzare crescita attraverso il lavoro sociale, che è stata la sua giustificazione storica, la sua legittimazione democratica. Se è vero che è più facile, oggi, creare ricchezza che creare lavoro, e che il lavoro sarà sempre più spesso scarso, dequalificato e sottopagato, che ne è del significato progressivo del capitalismo, della sua promessa di futuro?
Almeno alla questione del lavoro – della sua difesa, della sua centralità politica, del suo sviluppo – anche un governo “tecnico” non può non impegnarsi a dare risposte all´altezza della questione democratica che vi è implicita. Una risposta linguisticamente, concettualmente, operativamente, adeguata alla fiducia non solo tecnica che riscuote dentro e fuori d´Italia.

La Repubblica 15.02.12

"Il precario tra Monti e Camusso", di Bruno Ugolini

Giovanni, uno dei tanti precari che conosco, mi ha inviato un’Email per dirmi di non essere molto preso dalla curiosità di sapere se c’è stato un incontro segreto tra la Camusso e Monti. Non è questo che lo preoccupa. Così come non lo preoccupa il pranzo, sempre da Monti, con la Camusso, ma stavolta anche con Bonanni, Angeletti e addirittura il presidente della Repubblica tedesca Wulf. Quello che a lui, invece, sta molto a cuore è il suo futuro. Anche perché la ridda delle ipotesi che legge riguardano soprattutto una cosa: l’articolo 18. Lui quasi non sa nemmeno che cosa sia. Giovanni, infatti, da alcuni anni insegue il lavoro del precario, ovverosia vive contratti spesso di breve durata, magari lunghi tre mesi. E ogni tanto viene licenziato, senza bisogno di alcuna motivazione, di natura economica o tesa alla pura e semplice discriminazione. Il padrone (o, pardon, datore di lavoro sia pure intermittente) gli dice “contratto scaduto” e lui va a casa. E non può andare certo dal giudice per chiedere di essere reintegrato oppure di avere quello che chiamano “risarcimento” come negli incidenti stradali.

Ecco perché Giovanni quando ha letto che si sta studiando una soluzione per i precari (tutti i precari?) comprendente quattro anni di lavoro sicuri con tutti i diritti e tutte le tutele del posto fisso (ferie, tredicesima, malattia pagata, diritto al mutuo dalle banche, pensione) ma senza l’articolo diciotto, ha esclamato “Magari!”. Perché lui oggi come oggi è licenziato ogni tre mesi, o poco più, e rimane di colpo senza posto, senza giudici che reintegrano, senza mobilità, senza cassa integrazione.

Qualcuno, però, gli ha messo una pulce nell’orecchio. Trattasi di un dubbio non dappoco. Così procedendo, infatti, le aziende (ha spiegato il maligno interlocutore) i luoghi di lavoro, pubblici e privati, verranno abitati da masse di giovani, come dire, un po’ timorosi. Ovverosia con la voglia assoluta di farsi ben volere da quel benefico datore di lavoro, onde non imbattersi nello spauracchio dei licenziamenti privati dello scudo dell’articolo 18. Una condizione di menomazione. Chi lo convincerà ad aderire a quella organizzazione di sovversivi che si chiama sindacato? Chi gli dirà che è bene contrattare i ritmi, le nocività, l’organizzazione del lavoro, dimostrando magari al caporeparto che lavorando in un certo modo alla fine si guadagna in produttività? Questi nuovi assunti preferiranno stare ubbidienti e silenti così come già si dovrà stare nelle nuove Fiat di Marchionne, pena accusa di disobbedire agli accordi. Non più “produttori” ma pedine disponibili, in uno stato di servitù e non certo di partecipazione consapevole.

E poi, altro dubbio inquietante: chi assicurerà che il nuovo diritto a licenziare, senza più lacci e laccioli, non possa essere esercitato anche dopo 3 mesi di lavoro? Esattamente come ai vecchi tempi dei mini-contratti? È con questi interrogativi che l’entusiasmo di Giovanni si placa, si dissolve. Sarebbe meglio studiare una proposta che lo rassicuri davvero.

L’Unità 15.02.12

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“È scontro sui precari:sindacati e imprese non trovano l’intesa”, di Massimo Franchi

Questa mattina si ritroveranno faccia a faccia a palazzo Chigi. Ma ieri governo e parti sociali sono sembrati più che distanti. Mentre Mario Monti a SkyTg24 parlava di lavoro, negli stessi minuti sindacati e imprese uscivano dall’ennesimo tavolo comunecon la richiesta che fosse lo stesso governo a prendere in mano la situazione. In sostanza Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Confindustria, ReteImprese, Abi, Ania dicono: «Noi su alcuni punti abbiamo trovato intese, su altri siamo lontani. Adesso tocca al governo lasciare gli slogan ed entrare nel merito dicendoci quali sono le sue priorità dove non c’è accordo tra di noi». Come sintetizza Susanna Camusso, «bisogna passare a una stagione più negoziale del confronto, serve un salto di qualità nel merito della discussione ». Per Raffaele Bonanni il vertice si è chiuso «convergendo il più possibile tra di noi per avere così un impatto positivo con il governo». Per Luigi Angeletti «abbiamo fatto un ottimo lavoro e siamo pronti a iniziare una trattativa per raggiungere il risultato di fare un accordo», mentre Giampaolo Galli, direttore generale di Confindustria si limita ad un: «Stiamo lavorando seriamente ». VICINI SU FORME D’INGRESSO Nel merito le parti sociali sono molto vicine sul capitolo tipologie d’ingresso al lavoro. Sindacati e Confindustria concordano nel rafforzare l’apprendistato, nel rilanciare il contratto di inserimento per le figure svantaggiate (donne e 50enni) e, infine, nel prevedere i contratti in somministrazione di lavoro come la forma di flessibilità che dà più tutele e garanzie a lavoratori e aziende, tramite le agenzie interinali. Sugli ammortizzatori il livello di accordo è buono, ma leggermente inferiore. Cgil, Cisl, Uil e Ugl assieme a Confindustria concordano sulla necessità di non intervenire sulla normativa attuale in un momento di forte crisi. Per il futuro le linee di indirizzo comuni sono il mantenimento di Cassa integrazione e Cassa integrazione straordinaria, prevedendo l’estensione a tutti i settori (e non alla sola industria) di una forma di assicurazione per chi perde il lavoro sulla falsa riga dell’attuale Cassa integrazione in deroga, con altro nome. In questo senso anche Rete Imprese si è detta disponibile a contribuire sebbene si preveda che la durata dell’assicurazione possa essere più breve rispetto ai due anni di oggi. L’ultima gamba dei nuovi ammortizzatori sarà un’estensione e rafforzamento dell’attuale indennità di disoccupazione che tuteli tutti i lavoratori precari. Molto più distanti le parti sul capitolo cosiddetto della cattiva flessibilità (Fornero dixit). Sindacati e Confindustria individuano in false partite Iva e collaborazioni spurie il nemico da combattere. Molto diverse però le ricette per farlo: Cgil, Cisl, Uil e Ugl chiedono che queste forme contrattuali costino di più alle imprese così da disincentivarle; Confindustria e Rete Imprese invece sostengono che l’unica via per perseguirle siano i controlli ispettivi, ma si dicono indisponibili ad alzare il costo di questo tipo di lavoro. Oggi dunque toccherà al ministro Elsa Fornero dare una traccia più compiuta alla trattativa. Ma, come successo nei due precedenti incontri, nessuno sa cosa farà il ministro del Lavoro. Ieri sera il suo premier Mario Monti ha invece ribadito la fermezza con cui il suo governo porterà avanti la trattativa. «Pensiamo a un’intesa, ci auguriamo di arrivare nel termine temporale di fine marzo a un’intesa», ma «siccome abbiamo una responsabilità verso l’insieme dei cittadini italiani non potremmo fermarci se a quel tavolo non ci fosse l’accordo». Capitolo giovani: «Per i giovani abbiamo una serie di iniziative mirate, provvedimenti arriveranno con la riforma del mercato del lavoro: toglieremo un po’ di protezioni a soggetti protetti. Tutta la riforma mira a rendere più interessante, riducendo certi ostacoli, alle imprese assumere giovani. Solo con una maggiore flessibilità sul mercato del lavoro », si può arrivare a questo obiettivo. Sull’articolo18il premier ha sostenuto che «ciò che disciplina le assunzioni, i licenziamenti, non sia del tutto irrilevante né per i diritti dei lavoratori, né per l’incentivazione o la disincentivazione alle imprese per assumere. Detto questo – ha aggiunto – nessuno qui nel governo è alla caccia di simboli da usare come trofei per dare dimostrazione del fatto che stiamo cambiando l’Italia e anzi cerchiamo di combattere le semplificazioni ». Resta il fatto che «è uno dei temi che vengono osservati dall’estero per una valutazione su come il mercato del lavoro italiano diventa capace di funzionare in modo un po’ più simile ad altri paesi, come quelli nordici dove c’è più flessibilità e più tutela».❖

L’Unità 15.02.12

“Il precario tra Monti e Camusso”, di Bruno Ugolini

Giovanni, uno dei tanti precari che conosco, mi ha inviato un’Email per dirmi di non essere molto preso dalla curiosità di sapere se c’è stato un incontro segreto tra la Camusso e Monti. Non è questo che lo preoccupa. Così come non lo preoccupa il pranzo, sempre da Monti, con la Camusso, ma stavolta anche con Bonanni, Angeletti e addirittura il presidente della Repubblica tedesca Wulf. Quello che a lui, invece, sta molto a cuore è il suo futuro. Anche perché la ridda delle ipotesi che legge riguardano soprattutto una cosa: l’articolo 18. Lui quasi non sa nemmeno che cosa sia. Giovanni, infatti, da alcuni anni insegue il lavoro del precario, ovverosia vive contratti spesso di breve durata, magari lunghi tre mesi. E ogni tanto viene licenziato, senza bisogno di alcuna motivazione, di natura economica o tesa alla pura e semplice discriminazione. Il padrone (o, pardon, datore di lavoro sia pure intermittente) gli dice “contratto scaduto” e lui va a casa. E non può andare certo dal giudice per chiedere di essere reintegrato oppure di avere quello che chiamano “risarcimento” come negli incidenti stradali.

Ecco perché Giovanni quando ha letto che si sta studiando una soluzione per i precari (tutti i precari?) comprendente quattro anni di lavoro sicuri con tutti i diritti e tutte le tutele del posto fisso (ferie, tredicesima, malattia pagata, diritto al mutuo dalle banche, pensione) ma senza l’articolo diciotto, ha esclamato “Magari!”. Perché lui oggi come oggi è licenziato ogni tre mesi, o poco più, e rimane di colpo senza posto, senza giudici che reintegrano, senza mobilità, senza cassa integrazione.

Qualcuno, però, gli ha messo una pulce nell’orecchio. Trattasi di un dubbio non dappoco. Così procedendo, infatti, le aziende (ha spiegato il maligno interlocutore) i luoghi di lavoro, pubblici e privati, verranno abitati da masse di giovani, come dire, un po’ timorosi. Ovverosia con la voglia assoluta di farsi ben volere da quel benefico datore di lavoro, onde non imbattersi nello spauracchio dei licenziamenti privati dello scudo dell’articolo 18. Una condizione di menomazione. Chi lo convincerà ad aderire a quella organizzazione di sovversivi che si chiama sindacato? Chi gli dirà che è bene contrattare i ritmi, le nocività, l’organizzazione del lavoro, dimostrando magari al caporeparto che lavorando in un certo modo alla fine si guadagna in produttività? Questi nuovi assunti preferiranno stare ubbidienti e silenti così come già si dovrà stare nelle nuove Fiat di Marchionne, pena accusa di disobbedire agli accordi. Non più “produttori” ma pedine disponibili, in uno stato di servitù e non certo di partecipazione consapevole.

E poi, altro dubbio inquietante: chi assicurerà che il nuovo diritto a licenziare, senza più lacci e laccioli, non possa essere esercitato anche dopo 3 mesi di lavoro? Esattamente come ai vecchi tempi dei mini-contratti? È con questi interrogativi che l’entusiasmo di Giovanni si placa, si dissolve. Sarebbe meglio studiare una proposta che lo rassicuri davvero.

L’Unità 15.02.12

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“È scontro sui precari:sindacati e imprese non trovano l’intesa”, di Massimo Franchi

Questa mattina si ritroveranno faccia a faccia a palazzo Chigi. Ma ieri governo e parti sociali sono sembrati più che distanti. Mentre Mario Monti a SkyTg24 parlava di lavoro, negli stessi minuti sindacati e imprese uscivano dall’ennesimo tavolo comunecon la richiesta che fosse lo stesso governo a prendere in mano la situazione. In sostanza Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Confindustria, ReteImprese, Abi, Ania dicono: «Noi su alcuni punti abbiamo trovato intese, su altri siamo lontani. Adesso tocca al governo lasciare gli slogan ed entrare nel merito dicendoci quali sono le sue priorità dove non c’è accordo tra di noi». Come sintetizza Susanna Camusso, «bisogna passare a una stagione più negoziale del confronto, serve un salto di qualità nel merito della discussione ». Per Raffaele Bonanni il vertice si è chiuso «convergendo il più possibile tra di noi per avere così un impatto positivo con il governo». Per Luigi Angeletti «abbiamo fatto un ottimo lavoro e siamo pronti a iniziare una trattativa per raggiungere il risultato di fare un accordo», mentre Giampaolo Galli, direttore generale di Confindustria si limita ad un: «Stiamo lavorando seriamente ». VICINI SU FORME D’INGRESSO Nel merito le parti sociali sono molto vicine sul capitolo tipologie d’ingresso al lavoro. Sindacati e Confindustria concordano nel rafforzare l’apprendistato, nel rilanciare il contratto di inserimento per le figure svantaggiate (donne e 50enni) e, infine, nel prevedere i contratti in somministrazione di lavoro come la forma di flessibilità che dà più tutele e garanzie a lavoratori e aziende, tramite le agenzie interinali. Sugli ammortizzatori il livello di accordo è buono, ma leggermente inferiore. Cgil, Cisl, Uil e Ugl assieme a Confindustria concordano sulla necessità di non intervenire sulla normativa attuale in un momento di forte crisi. Per il futuro le linee di indirizzo comuni sono il mantenimento di Cassa integrazione e Cassa integrazione straordinaria, prevedendo l’estensione a tutti i settori (e non alla sola industria) di una forma di assicurazione per chi perde il lavoro sulla falsa riga dell’attuale Cassa integrazione in deroga, con altro nome. In questo senso anche Rete Imprese si è detta disponibile a contribuire sebbene si preveda che la durata dell’assicurazione possa essere più breve rispetto ai due anni di oggi. L’ultima gamba dei nuovi ammortizzatori sarà un’estensione e rafforzamento dell’attuale indennità di disoccupazione che tuteli tutti i lavoratori precari. Molto più distanti le parti sul capitolo cosiddetto della cattiva flessibilità (Fornero dixit). Sindacati e Confindustria individuano in false partite Iva e collaborazioni spurie il nemico da combattere. Molto diverse però le ricette per farlo: Cgil, Cisl, Uil e Ugl chiedono che queste forme contrattuali costino di più alle imprese così da disincentivarle; Confindustria e Rete Imprese invece sostengono che l’unica via per perseguirle siano i controlli ispettivi, ma si dicono indisponibili ad alzare il costo di questo tipo di lavoro. Oggi dunque toccherà al ministro Elsa Fornero dare una traccia più compiuta alla trattativa. Ma, come successo nei due precedenti incontri, nessuno sa cosa farà il ministro del Lavoro. Ieri sera il suo premier Mario Monti ha invece ribadito la fermezza con cui il suo governo porterà avanti la trattativa. «Pensiamo a un’intesa, ci auguriamo di arrivare nel termine temporale di fine marzo a un’intesa», ma «siccome abbiamo una responsabilità verso l’insieme dei cittadini italiani non potremmo fermarci se a quel tavolo non ci fosse l’accordo». Capitolo giovani: «Per i giovani abbiamo una serie di iniziative mirate, provvedimenti arriveranno con la riforma del mercato del lavoro: toglieremo un po’ di protezioni a soggetti protetti. Tutta la riforma mira a rendere più interessante, riducendo certi ostacoli, alle imprese assumere giovani. Solo con una maggiore flessibilità sul mercato del lavoro », si può arrivare a questo obiettivo. Sull’articolo18il premier ha sostenuto che «ciò che disciplina le assunzioni, i licenziamenti, non sia del tutto irrilevante né per i diritti dei lavoratori, né per l’incentivazione o la disincentivazione alle imprese per assumere. Detto questo – ha aggiunto – nessuno qui nel governo è alla caccia di simboli da usare come trofei per dare dimostrazione del fatto che stiamo cambiando l’Italia e anzi cerchiamo di combattere le semplificazioni ». Resta il fatto che «è uno dei temi che vengono osservati dall’estero per una valutazione su come il mercato del lavoro italiano diventa capace di funzionare in modo un po’ più simile ad altri paesi, come quelli nordici dove c’è più flessibilità e più tutela».❖

L’Unità 15.02.12