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""Colpevoli", giustizia per i morti d’amianto", di Mario Calabresi

La prima parola è quella che conta: “Colpevoli”. Ci siamo battuti per avere giustizia e oggi l’abbiamo avuta». Bruno Pesce, il sindacalista della Cgil che per primo diede retta alle denunce dei lavoratori, sta dritto in piedi in mezzo all’Aula e ascolta col nodo in gola l’infinito elenco di persone che il giudice Giuseppe Casalbore sta leggendo. Ci metterà tre ore e un minuto il presidente della Corte a pronunciare i 2900 nomi di chi ha diritto ad essere risarcito, perché ammalato o familiare di una vittima dell’amianto prodotto dalla Eternit.

Romana Blasotti Pavesi, 82 anni, donna simbolo di questa battaglia, rimane in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto, è come se li ricordasse tutti, uno ad uno, quelli che se ne sono andati. Tra loro c’erano suo marito Mario, sua sorella, un nipote, un cugino e infine la figlia Maria Rosa. Tutti portati via dal mesotelioma, il tumore dell’amianto per cui non esistono cure.

Questo elenco non è solo un atto di giustizia ma somiglia anche a un omaggio alla memoria e ricorda un altro elenco che viene letto l’11 settembre di ogni anno a Ground Zero. A New York le vittime furono 2752, nei quattro stabilimenti italiani della Eternit sono finora 2300, ma il numero cresce ogni settimana.

Questo elenco infinito di cognomi di ogni regione ci racconta una strage che coinvolge tutto il nostro Paese, non solo Casale Monferrato, ci racconta di figli che hanno pianto la scomparsa del padre prima e della madre dopo (lui pagava la colpa di essere operaio della Eternit, lei di avergli lavato la tuta coperta di polvere ogni sera) e ci racconta di chi continua ad ammalarsi ma in fabbrica non ci è mai entrato.

Perché la sentenza di condanna a 16 anni per disastro doloso pronunciata ieri a Torino contro due dei proprietari della fabbrica Eternit, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Jean Louis De Cartier De Marchienne, non chiude una storia e non può nemmeno archiviare una strage consegnandola finalmente alla memoria: perché la strage continua. Oggi i nuovi casi di mesotelioma sono almeno 50 l’anno, il doppio rispetto a dieci anni fa.

E se l’ultimo funerale che si è svolto 12 giorni fa è stato quello di un operaio, Pierfranco Mazzucco (71 anni, per 30 alla Eternit), quattro giorni prima avevano sepolto Claudia Del Rosso, 56 anni, insegnante di ginnastica, e a metà gennaio lo storico vigile urbano Giovanni Manfredi, due persone che in fabbrica non erano mai entrate.

Perché oggi gli operai rimasti in vita sono soltanto 225 e a morire è chi l’amianto lo ha solo respirato vivendo nella città dell’Eternit. Per questo la condanna piena emessa ieri è per disastro ambientale doloso, un disastro che si estende ben oltre la fabbrica.

Con i resti della lavorazione dell’amianto, distribuiti a piene mani, si faceva di tutto a Casale, dalla ghiaia per i vialetti di casa, alle tettoie ai campi da bocce. Con l’amianto si rappezzava il campo da calcio dell’oratorio, quello dove era cresciuto Sergio Castelletti che sarebbe arrivato a giocare in Nazionale (tra il ’58 e il ’62) per poi ammalarsi e morire otto anni fa di mesotelioma.

Quando nell’estate del 2010 se ne è andata Luisa Minazzi, la direttrice della scuola elementare, una delle più attive nel volere il processo e le bonifiche, all’udienza del lunedì si sono presentati tutti con il lutto al braccio e hanno ripensato alle sue parole: «Mi ricordo – aveva raccontato quando scaricarono il polverino d’amianto nel cortile di casa mia, doveva servire per rendere il terreno perfettamente liscio, e io e gli altri bambini ci tuffammo dentro e cominciammo a rotolarci come fosse una montagna di sabbia». Non sappiamo se ad esserle stato fatale sia stato quel pomeriggio di felicità infantile, ma sappiamo che la malattia è capace di stare in sonno anche più di trent’anni e oggi si ammalano quei bambini che giocavano in mezzo all’amianto o correvano ad abbracciare i padri quando tornavano a casa coperti di polvere.

«E’ sempre la stessa storia – spiega Nicola Pondrano, l’ex operaio che con le sue denunce fece partire la mobilitazione che avrebbe portato alla chiusura della fabbrica -, si parte dai dolori intercostali, poi dalla fatica a respirare, così si fa una lastra e ti dicono che è una pleurite ma ora sappiamo che è il mesotelioma». Anche Nicola ricorda quando sua figlia la sera si divertiva a fargli cadere la polvere bianca dai capelli e oggi ha paura anche per lei.

Per questo una città si è mobilitata. Per questo per ben 83 lunedì le donne e gli uomini dell’Associazione Famigliari Vittime Amianto si sono radunati all’alba in piazza Castello a Casale per salire sui pullman diretti al Palazzo di Giustizia di Torino.

Il sindaco di Casale Giorgio Demezzi nelle scorse settimane è stato al centro delle polemiche per aver preso in considerazione l’offerta di un risarcimento da 18 milioni di euro da uno dei due condannati, lo svizzero Stephan Schmidheiny, in cambio del ritiro della città dal processo. E’ in Aula in mezzo ai suoi concittadini e vuole guardare avanti: «Non potevo non prendere in considerazione un’offerta che ci dava risorse immediate per risposte immediate. Se ho rinunciato è stato certo a causa della mobilitazione di una parte della città ma anche per l’intervento di due ministri, quelli dell’Ambiente e della Salute, che si sono impegnati a darci le risorse per continuare le bonifiche e costruire una nuova discarica, per avere un’indagine epidemiologica, la prevenzione e la ricerca sul mesotelioma pleurico. Ho vissuto il dramma e il travaglio di questa scelta e ora spero che la condanna serva da monito a fermare la produzione di amianto nel resto del mondo».

Ad aspettare la sentenza anche un gruppo di operaie della Sia di Grugliasco, dove con l’amianto fino alla metà degli Anni Ottanta producevano le tute dei pompieri o i teli per coprire l’asse da stiro. Sono tutte malate di asbestosi (una malattia polmonare cronica) e sperano che ora vengano creati centri specializzati dove essere curate: «Stiamo morendo come mosche racconta Alba Tacchino -: il tumore si è portato via dieci colleghe lo scorso anno e due nel 2012, e siamo solo a metà febbraio. Viviamo nella paura e abbiamo bisogno di essere seguite da medici competenti. La scorsa settimana dopo una lastra di controllo mi sono sentita rimproverare perché avevo fumato troppo e allora ho dovuto ricominciare a spiegare che non ho mai acceso una sigaretta ma che ho respirato per vent’anni le fibre d’amianto».

E’ una storia che continua per la necessità di fare le bonifiche ed eliminare i rischi di contagio da ogni angolo d’Italia e per impegnarsi ancora di più nella ricerca di cure. A questo dovrebbero servire i risarcimenti che i condannati dovranno pagare: quasi 100 milioni immediatamente e poi tutti quelli che verranno decisi in sede civile.

Ma dovranno servire anche a restituire uno spicchio di vita a persone come Pietro Condello che per venire in Tribunale si è rimesso la tuta indossata per 15 anni nell’area dove si miscelavano le materie prime: «Nel mio reparto eravamo in 30, oggi siamo rimasti in vita solo in due». Sogna di lasciare Casale e di usare i soldi per trasferirsi a vivere in Liguria, per provare a ricominciare a respirare, nonostante l’invalidità da asbestosi.

Infine le condanne pronunciate ieri, anche se probabilmente nessuno dei due colpevoli entrerà mai in carcere, sono il riconoscimento di una delle più coraggiose e tenaci battaglie per la verità e la giustizia portate avanti in Italia. Una battaglia grazie alla quale si è dimostrato che per anni si è continuato a produrre nonostante fossero chiari i rischi per la vita di un’intera comunità. Ora nessuno potrà più nascondersi dietro l’ignoranza o la manipolazione.

A sottolineare l’importanza del verdetto erano non solo le migliaia di persone che affollavano il Tribunale ma anche la presenza in Aula di tutti i vertici della magistratura piemontese schierati accanto al procuratore Guariniello che ha sostenuto l’accusa.

Gli occhi di tutti fino alla fine si sono concentrati sul volto impassibile di Romana Blasotti Pavesi, seduta tra altre due donne simbolo: Daniela Di Giovanni, l’oncologa che assiste da 25 anni chi si ammala, e Assunta Prato, un’insegnante che, dopo la scomparsa del marito, passa la vita a sensibilizzare i ragazzi.

Ma anche ieri «la Romana», come la chiamano tutti, non è riuscita a piangere, nemmeno quando ha sentito pronunciare i nomi dei suoi familiari, nemmeno quando si è presa la testa tra le mani per la stanchezza. Eppure non aveva chiuso occhio: per la prima volta da più di due anni non sono servite a nulla le due sveglie che puntava ogni lunedì sulle sei per essere sicura di non perdere il pullman per Torino. Quando sono suonate era già in piedi da un pezzo, per essere puntuale all’appuntamento con la Storia, con la sua storia, quella di una donna che è stata capace di trasformare il dolore e la rabbia nel coraggio e di trasmetterlo a un’intera comunità. «Anche se sappiamo che non abbiamo finito di soffrire, è una soddisfazione essere arrivati fin qua e spero che i giovani proseguano la nostra lotta». Stanotte forse avrà avuto anche la libertà di piangere tutti i suoi cari.

La Stampa 14.02.12

“”Colpevoli”, giustizia per i morti d’amianto”, di Mario Calabresi

La prima parola è quella che conta: “Colpevoli”. Ci siamo battuti per avere giustizia e oggi l’abbiamo avuta». Bruno Pesce, il sindacalista della Cgil che per primo diede retta alle denunce dei lavoratori, sta dritto in piedi in mezzo all’Aula e ascolta col nodo in gola l’infinito elenco di persone che il giudice Giuseppe Casalbore sta leggendo. Ci metterà tre ore e un minuto il presidente della Corte a pronunciare i 2900 nomi di chi ha diritto ad essere risarcito, perché ammalato o familiare di una vittima dell’amianto prodotto dalla Eternit.

Romana Blasotti Pavesi, 82 anni, donna simbolo di questa battaglia, rimane in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto, è come se li ricordasse tutti, uno ad uno, quelli che se ne sono andati. Tra loro c’erano suo marito Mario, sua sorella, un nipote, un cugino e infine la figlia Maria Rosa. Tutti portati via dal mesotelioma, il tumore dell’amianto per cui non esistono cure.

Questo elenco non è solo un atto di giustizia ma somiglia anche a un omaggio alla memoria e ricorda un altro elenco che viene letto l’11 settembre di ogni anno a Ground Zero. A New York le vittime furono 2752, nei quattro stabilimenti italiani della Eternit sono finora 2300, ma il numero cresce ogni settimana.

Questo elenco infinito di cognomi di ogni regione ci racconta una strage che coinvolge tutto il nostro Paese, non solo Casale Monferrato, ci racconta di figli che hanno pianto la scomparsa del padre prima e della madre dopo (lui pagava la colpa di essere operaio della Eternit, lei di avergli lavato la tuta coperta di polvere ogni sera) e ci racconta di chi continua ad ammalarsi ma in fabbrica non ci è mai entrato.

Perché la sentenza di condanna a 16 anni per disastro doloso pronunciata ieri a Torino contro due dei proprietari della fabbrica Eternit, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Jean Louis De Cartier De Marchienne, non chiude una storia e non può nemmeno archiviare una strage consegnandola finalmente alla memoria: perché la strage continua. Oggi i nuovi casi di mesotelioma sono almeno 50 l’anno, il doppio rispetto a dieci anni fa.

E se l’ultimo funerale che si è svolto 12 giorni fa è stato quello di un operaio, Pierfranco Mazzucco (71 anni, per 30 alla Eternit), quattro giorni prima avevano sepolto Claudia Del Rosso, 56 anni, insegnante di ginnastica, e a metà gennaio lo storico vigile urbano Giovanni Manfredi, due persone che in fabbrica non erano mai entrate.

Perché oggi gli operai rimasti in vita sono soltanto 225 e a morire è chi l’amianto lo ha solo respirato vivendo nella città dell’Eternit. Per questo la condanna piena emessa ieri è per disastro ambientale doloso, un disastro che si estende ben oltre la fabbrica.

Con i resti della lavorazione dell’amianto, distribuiti a piene mani, si faceva di tutto a Casale, dalla ghiaia per i vialetti di casa, alle tettoie ai campi da bocce. Con l’amianto si rappezzava il campo da calcio dell’oratorio, quello dove era cresciuto Sergio Castelletti che sarebbe arrivato a giocare in Nazionale (tra il ’58 e il ’62) per poi ammalarsi e morire otto anni fa di mesotelioma.

Quando nell’estate del 2010 se ne è andata Luisa Minazzi, la direttrice della scuola elementare, una delle più attive nel volere il processo e le bonifiche, all’udienza del lunedì si sono presentati tutti con il lutto al braccio e hanno ripensato alle sue parole: «Mi ricordo – aveva raccontato quando scaricarono il polverino d’amianto nel cortile di casa mia, doveva servire per rendere il terreno perfettamente liscio, e io e gli altri bambini ci tuffammo dentro e cominciammo a rotolarci come fosse una montagna di sabbia». Non sappiamo se ad esserle stato fatale sia stato quel pomeriggio di felicità infantile, ma sappiamo che la malattia è capace di stare in sonno anche più di trent’anni e oggi si ammalano quei bambini che giocavano in mezzo all’amianto o correvano ad abbracciare i padri quando tornavano a casa coperti di polvere.

«E’ sempre la stessa storia – spiega Nicola Pondrano, l’ex operaio che con le sue denunce fece partire la mobilitazione che avrebbe portato alla chiusura della fabbrica -, si parte dai dolori intercostali, poi dalla fatica a respirare, così si fa una lastra e ti dicono che è una pleurite ma ora sappiamo che è il mesotelioma». Anche Nicola ricorda quando sua figlia la sera si divertiva a fargli cadere la polvere bianca dai capelli e oggi ha paura anche per lei.

Per questo una città si è mobilitata. Per questo per ben 83 lunedì le donne e gli uomini dell’Associazione Famigliari Vittime Amianto si sono radunati all’alba in piazza Castello a Casale per salire sui pullman diretti al Palazzo di Giustizia di Torino.

Il sindaco di Casale Giorgio Demezzi nelle scorse settimane è stato al centro delle polemiche per aver preso in considerazione l’offerta di un risarcimento da 18 milioni di euro da uno dei due condannati, lo svizzero Stephan Schmidheiny, in cambio del ritiro della città dal processo. E’ in Aula in mezzo ai suoi concittadini e vuole guardare avanti: «Non potevo non prendere in considerazione un’offerta che ci dava risorse immediate per risposte immediate. Se ho rinunciato è stato certo a causa della mobilitazione di una parte della città ma anche per l’intervento di due ministri, quelli dell’Ambiente e della Salute, che si sono impegnati a darci le risorse per continuare le bonifiche e costruire una nuova discarica, per avere un’indagine epidemiologica, la prevenzione e la ricerca sul mesotelioma pleurico. Ho vissuto il dramma e il travaglio di questa scelta e ora spero che la condanna serva da monito a fermare la produzione di amianto nel resto del mondo».

Ad aspettare la sentenza anche un gruppo di operaie della Sia di Grugliasco, dove con l’amianto fino alla metà degli Anni Ottanta producevano le tute dei pompieri o i teli per coprire l’asse da stiro. Sono tutte malate di asbestosi (una malattia polmonare cronica) e sperano che ora vengano creati centri specializzati dove essere curate: «Stiamo morendo come mosche racconta Alba Tacchino -: il tumore si è portato via dieci colleghe lo scorso anno e due nel 2012, e siamo solo a metà febbraio. Viviamo nella paura e abbiamo bisogno di essere seguite da medici competenti. La scorsa settimana dopo una lastra di controllo mi sono sentita rimproverare perché avevo fumato troppo e allora ho dovuto ricominciare a spiegare che non ho mai acceso una sigaretta ma che ho respirato per vent’anni le fibre d’amianto».

E’ una storia che continua per la necessità di fare le bonifiche ed eliminare i rischi di contagio da ogni angolo d’Italia e per impegnarsi ancora di più nella ricerca di cure. A questo dovrebbero servire i risarcimenti che i condannati dovranno pagare: quasi 100 milioni immediatamente e poi tutti quelli che verranno decisi in sede civile.

Ma dovranno servire anche a restituire uno spicchio di vita a persone come Pietro Condello che per venire in Tribunale si è rimesso la tuta indossata per 15 anni nell’area dove si miscelavano le materie prime: «Nel mio reparto eravamo in 30, oggi siamo rimasti in vita solo in due». Sogna di lasciare Casale e di usare i soldi per trasferirsi a vivere in Liguria, per provare a ricominciare a respirare, nonostante l’invalidità da asbestosi.

Infine le condanne pronunciate ieri, anche se probabilmente nessuno dei due colpevoli entrerà mai in carcere, sono il riconoscimento di una delle più coraggiose e tenaci battaglie per la verità e la giustizia portate avanti in Italia. Una battaglia grazie alla quale si è dimostrato che per anni si è continuato a produrre nonostante fossero chiari i rischi per la vita di un’intera comunità. Ora nessuno potrà più nascondersi dietro l’ignoranza o la manipolazione.

A sottolineare l’importanza del verdetto erano non solo le migliaia di persone che affollavano il Tribunale ma anche la presenza in Aula di tutti i vertici della magistratura piemontese schierati accanto al procuratore Guariniello che ha sostenuto l’accusa.

Gli occhi di tutti fino alla fine si sono concentrati sul volto impassibile di Romana Blasotti Pavesi, seduta tra altre due donne simbolo: Daniela Di Giovanni, l’oncologa che assiste da 25 anni chi si ammala, e Assunta Prato, un’insegnante che, dopo la scomparsa del marito, passa la vita a sensibilizzare i ragazzi.

Ma anche ieri «la Romana», come la chiamano tutti, non è riuscita a piangere, nemmeno quando ha sentito pronunciare i nomi dei suoi familiari, nemmeno quando si è presa la testa tra le mani per la stanchezza. Eppure non aveva chiuso occhio: per la prima volta da più di due anni non sono servite a nulla le due sveglie che puntava ogni lunedì sulle sei per essere sicura di non perdere il pullman per Torino. Quando sono suonate era già in piedi da un pezzo, per essere puntuale all’appuntamento con la Storia, con la sua storia, quella di una donna che è stata capace di trasformare il dolore e la rabbia nel coraggio e di trasmetterlo a un’intera comunità. «Anche se sappiamo che non abbiamo finito di soffrire, è una soddisfazione essere arrivati fin qua e spero che i giovani proseguano la nostra lotta». Stanotte forse avrà avuto anche la libertà di piangere tutti i suoi cari.

La Stampa 14.02.12

"Restituire un futuro al vecchio continente", di Ezio Mauro

Atene in fiamme, il Parlamento che approva la manovra di tagli e sacrifici, i mercati che applaudono. E il popolo, ci domandiamo tutti, e i cittadini? Sembra che il nuovo ordine europeo possa instaurarsi prescindendo dal consenso, dalla pubblica opinione, dalla fiducia. L´Europa si presenta come una grande banca, un´istituzione a sangue freddo, un arbitro regolatore ma senz´anima, dominato dall´unica religione dei parametri e impegnato nell´unica battaglia di contenimento del debito, prima e assoluta emergenza del continente. Ma l´emergenza può sostituire la politica, soppiantandola? E c´è qualcosa di vivo dietro i tagli, i sacrifici e i parametri europei?
la Repubblica ha condotto su questo tema una grande discussione pubblica, con gli interventi dei direttori delle grandi testate giornalistiche occidentali. Tutti, anche gli inglesi con il loro spirito critico sulla costruzione istituzionale e monetaria europea, hanno convenuto che si esce dalla crisi con più Europa, non con meno. E tutti hanno denunciato la debolezza della politica che rende l´Europa, come dice il direttore del Times James Harding, “senza leadership e senza soluzione”, un continente senza visione, senza coraggio, e dunque incapace di offrire ai cittadini traguardi simbolici che possano ricostruire una speranza oltre l´orizzonte preoccupante della fase che stiamo vivendo. Ma non solo.
Per gli osservatori europei i rischi sono molto maggiori di quelli che vediamo a occhio nudo. Le tre “A” che davvero ci interpellano (Asia, America, Africa) rischiano secondo Erik Izraelewicz, direttore di Le Monde, di marginalizzare l´Europa, troppo piccola e divisa per le nuove sfide globali. Per Arianna Huffington (Huffington Post) e per John Micklethwait, direttore dell´Economist stiamo diventando un continente “sadomasochista” che punta tutto sull´austerity, un´austerity che non farà altro che alimentare la recessione, perché come spiega Laurent Joffrin, direttore del Nouvel Observateur, il rimborso del debito non può fare le veci di una politica europea che non c´è.
Ma il vero allarme è quello per la democrazia. I direttori di due giornali tedeschi, Giovanni di Lorenzo della Zeit e Heribert Prantl della Sueddeutsche Zeitung pongono la questione apertamente: “Il pericolo dall´interno è la sfiducia verso la democrazia, la tendenza a chiedersi se è ancora il sistema più efficiente oppure no. A lungo termine la sfida dell´Europa è questa”, dice di Lorenzo. Se i governi nazionali e la Commissione pensano di difendersi da soli si sbagliano, aggiunge Prantl: “Per farcela hanno bisogno del sostegno delle società dei Paesi membri, della fiducia dei cittadini, perché senza questa fiducia qualsiasi ombrello resta instabile”. Come dire che i saldi dell´auterità da soli non bastano. Anzi, avverte il direttore del Guardian Alan Rusbridger, se gli sforzi per la convergenza finanziaria “dovessere essere la causa dello smantellamento dei sistemi di redistribuzione e di welfare dai quali dipendono milioni di europei dei ceti meno abbienti”, si rischierebbero “reazioni nazionalistiche e populiste anche violente in quasi tutti gli Stati”. È il problema posto infine del direttore del País, Javier Moreno: la legittimità delle scelte europee: “Con quanta legittimità si possono prendere decisioni per salvare l´Europa senza tener conto degli europei? È accettabile sacrificare la sovranità nazionale per salvare l´Unione Europea? Abbiamo accettato definitivamente l´idea che sia possibile governare senza chiedere ai cittadini il loro parere?”.
Il nodo che viene al pettine è vecchio come l´euro. Un nodo di sovranità, di potestà, di responsabilità intrecciate e mai definitivamente risolte. La moneta unica è stata insieme un atto di fede e di coraggio, dunque un gesto politico che la storia economica del mondo moderno non aveva mai conosciuto, per di più nato nel cuore del Vecchio Continente dove nel Novecento erano nate le guerre e i totalitarismi, con le ideologie trasformate in Stati e partiti. Ma l´euro non è diventato un principio costituente del nuovo ordine europeo, perché si è realizzato sotto la linea d´ombra della politica, riducendosi a strumento più che a soggetto, mentre ogni passo della sua costruzione fingeva ipocritamente di ignorare il successivo, non guardando al contesto.
Con la moneta unica l´Europa poteva trasformarsi da mercato a soggetto politico, e invece l´euro è nato politicamente e culturalmente sterile, come se fosse soltanto la proiezione geometrica dei parametri di Maastricht e poco più: parametri indispensabili per forzare la convergenza di base e l´uniformità tra i Paesi, ma sordi e ciechi per definizione, in quanto non contemplano la variabile decisiva della pubblica opinione e sono indifferenti ad un problema capitale delle democrazie occidentali, quello appunto della fiducia, della partecipazione e della condivisione, vale a dire del consenso.
La moneta è rimasta un “caffè freddo”, come dicevano i tedeschi nel 2001, una moneta nuda perché è senza uno Stato che possa batterla, senza un esercito che sappia difenderla, senza un governo che riesca a guidarla, senza una politica estera che la rappresenti e soprattutto senza un sovrano capace di “spenderla” politicamente nel mondo.
E tuttavia quel gesto di coraggio è il punto simbolico e concreto più alto raggiunto dalla politica nel nostro continente, dopo le divisioni delle guerre. Oggi ci accorgiamo che l´inclusione del consenso è indispensabile, per non far perdere all´Europa e all´euro la fiducia degli europei. Ma dobbiamo anche dire che questa difesa improvvisa delle sovranità e delle autonomie nazionali davanti a Bruxelles e Francoforte nasconde un problema: l´incapacità di molti governi (e delle loro pubbliche opinioni, giornali compresi, va aggiunto) di rispettare le regole comuni che tutta l´Europa si era data, e che sono state per troppi anni disattese o addirittura aggirate.
Il problema è che tutto il sistema di governance dell´Occidente deve essere rivisto sotto l´urto della crisi. Per la prima volta scopriamo che la ripresa americana rischia di non trainare l´Europa, appesantita dal carico dei debiti sovrani, dalla miopia di un´austerity che non stimola la crescita: se il problema-opportunità della Cina trasformerà nel secondo mandato Obama in un presidente “asiatico” il nostro continente toccherà con mano un isolamento a cui non è abituato e soprattutto non è preparato, avendo abitato per decenni il concetto di Occidente senza una precisa idea di sé, e senza una politica estera conseguente.
Ma gli altri problemi sono tutti indigeni, nascono e crescono in Europa. Come regoleremo il nuovo rapporto di sovranità tra gli Stati nazionali oggi esautorati dall´Europa e le istituzioni comunitarie? Come armonizzeremo la leadership europea di fatto (Merkel) con quella di diritto (Barroso e Van Rompuy)? Come ci comporteremo con una Banca Centrale benedetta perché compra il debito pubblico degli Stati, ma sempre più soggetto attivo e diretto dell´Europa, senza avere alcuna rappresentanza dei cittadini? E infine, come risponderemo a quelle spinte nazionali e sociali (le parole sono proprio queste) che stanno riemergendo a destra e a sinistra davanti ad una politica europea che non sembra una politica, ma il bando di un sovrano a cui dobbiamo soltanto ottemperare?
La parola, per fortuna e come sempre, tocca alla politica, all´establishment europeo, alle cancellerie e alla cultura: anche se la dominante è la crisi, siamo in realtà all´inizio di un processo di fondazione istituzionale, e un nuovo europeismo può diventare l´unica ideologia superstite e utile, dopo la sconfitta di tutte le altre. Tocca alla classe dirigente europea, nel suo insieme, riprendere il coraggio incompiuto dell´euro e usare la moneta e il mercato, dopo un decennio di strumentalità neutra, come suscitatori e fondatori di vere istituzioni sovranazionali e democratiche: per riunire l´Europa, la politica e i cittadini in un destino condiviso del continente, in un´idea forza e in una visione. Che non può essere soltanto tagli e sacrifici. Una speranza europea è ancora possibile, anzi è l´unica arma contro la crisi.

La Repubblica 14.02.12

“Restituire un futuro al vecchio continente”, di Ezio Mauro

Atene in fiamme, il Parlamento che approva la manovra di tagli e sacrifici, i mercati che applaudono. E il popolo, ci domandiamo tutti, e i cittadini? Sembra che il nuovo ordine europeo possa instaurarsi prescindendo dal consenso, dalla pubblica opinione, dalla fiducia. L´Europa si presenta come una grande banca, un´istituzione a sangue freddo, un arbitro regolatore ma senz´anima, dominato dall´unica religione dei parametri e impegnato nell´unica battaglia di contenimento del debito, prima e assoluta emergenza del continente. Ma l´emergenza può sostituire la politica, soppiantandola? E c´è qualcosa di vivo dietro i tagli, i sacrifici e i parametri europei?
la Repubblica ha condotto su questo tema una grande discussione pubblica, con gli interventi dei direttori delle grandi testate giornalistiche occidentali. Tutti, anche gli inglesi con il loro spirito critico sulla costruzione istituzionale e monetaria europea, hanno convenuto che si esce dalla crisi con più Europa, non con meno. E tutti hanno denunciato la debolezza della politica che rende l´Europa, come dice il direttore del Times James Harding, “senza leadership e senza soluzione”, un continente senza visione, senza coraggio, e dunque incapace di offrire ai cittadini traguardi simbolici che possano ricostruire una speranza oltre l´orizzonte preoccupante della fase che stiamo vivendo. Ma non solo.
Per gli osservatori europei i rischi sono molto maggiori di quelli che vediamo a occhio nudo. Le tre “A” che davvero ci interpellano (Asia, America, Africa) rischiano secondo Erik Izraelewicz, direttore di Le Monde, di marginalizzare l´Europa, troppo piccola e divisa per le nuove sfide globali. Per Arianna Huffington (Huffington Post) e per John Micklethwait, direttore dell´Economist stiamo diventando un continente “sadomasochista” che punta tutto sull´austerity, un´austerity che non farà altro che alimentare la recessione, perché come spiega Laurent Joffrin, direttore del Nouvel Observateur, il rimborso del debito non può fare le veci di una politica europea che non c´è.
Ma il vero allarme è quello per la democrazia. I direttori di due giornali tedeschi, Giovanni di Lorenzo della Zeit e Heribert Prantl della Sueddeutsche Zeitung pongono la questione apertamente: “Il pericolo dall´interno è la sfiducia verso la democrazia, la tendenza a chiedersi se è ancora il sistema più efficiente oppure no. A lungo termine la sfida dell´Europa è questa”, dice di Lorenzo. Se i governi nazionali e la Commissione pensano di difendersi da soli si sbagliano, aggiunge Prantl: “Per farcela hanno bisogno del sostegno delle società dei Paesi membri, della fiducia dei cittadini, perché senza questa fiducia qualsiasi ombrello resta instabile”. Come dire che i saldi dell´auterità da soli non bastano. Anzi, avverte il direttore del Guardian Alan Rusbridger, se gli sforzi per la convergenza finanziaria “dovessere essere la causa dello smantellamento dei sistemi di redistribuzione e di welfare dai quali dipendono milioni di europei dei ceti meno abbienti”, si rischierebbero “reazioni nazionalistiche e populiste anche violente in quasi tutti gli Stati”. È il problema posto infine del direttore del País, Javier Moreno: la legittimità delle scelte europee: “Con quanta legittimità si possono prendere decisioni per salvare l´Europa senza tener conto degli europei? È accettabile sacrificare la sovranità nazionale per salvare l´Unione Europea? Abbiamo accettato definitivamente l´idea che sia possibile governare senza chiedere ai cittadini il loro parere?”.
Il nodo che viene al pettine è vecchio come l´euro. Un nodo di sovranità, di potestà, di responsabilità intrecciate e mai definitivamente risolte. La moneta unica è stata insieme un atto di fede e di coraggio, dunque un gesto politico che la storia economica del mondo moderno non aveva mai conosciuto, per di più nato nel cuore del Vecchio Continente dove nel Novecento erano nate le guerre e i totalitarismi, con le ideologie trasformate in Stati e partiti. Ma l´euro non è diventato un principio costituente del nuovo ordine europeo, perché si è realizzato sotto la linea d´ombra della politica, riducendosi a strumento più che a soggetto, mentre ogni passo della sua costruzione fingeva ipocritamente di ignorare il successivo, non guardando al contesto.
Con la moneta unica l´Europa poteva trasformarsi da mercato a soggetto politico, e invece l´euro è nato politicamente e culturalmente sterile, come se fosse soltanto la proiezione geometrica dei parametri di Maastricht e poco più: parametri indispensabili per forzare la convergenza di base e l´uniformità tra i Paesi, ma sordi e ciechi per definizione, in quanto non contemplano la variabile decisiva della pubblica opinione e sono indifferenti ad un problema capitale delle democrazie occidentali, quello appunto della fiducia, della partecipazione e della condivisione, vale a dire del consenso.
La moneta è rimasta un “caffè freddo”, come dicevano i tedeschi nel 2001, una moneta nuda perché è senza uno Stato che possa batterla, senza un esercito che sappia difenderla, senza un governo che riesca a guidarla, senza una politica estera che la rappresenti e soprattutto senza un sovrano capace di “spenderla” politicamente nel mondo.
E tuttavia quel gesto di coraggio è il punto simbolico e concreto più alto raggiunto dalla politica nel nostro continente, dopo le divisioni delle guerre. Oggi ci accorgiamo che l´inclusione del consenso è indispensabile, per non far perdere all´Europa e all´euro la fiducia degli europei. Ma dobbiamo anche dire che questa difesa improvvisa delle sovranità e delle autonomie nazionali davanti a Bruxelles e Francoforte nasconde un problema: l´incapacità di molti governi (e delle loro pubbliche opinioni, giornali compresi, va aggiunto) di rispettare le regole comuni che tutta l´Europa si era data, e che sono state per troppi anni disattese o addirittura aggirate.
Il problema è che tutto il sistema di governance dell´Occidente deve essere rivisto sotto l´urto della crisi. Per la prima volta scopriamo che la ripresa americana rischia di non trainare l´Europa, appesantita dal carico dei debiti sovrani, dalla miopia di un´austerity che non stimola la crescita: se il problema-opportunità della Cina trasformerà nel secondo mandato Obama in un presidente “asiatico” il nostro continente toccherà con mano un isolamento a cui non è abituato e soprattutto non è preparato, avendo abitato per decenni il concetto di Occidente senza una precisa idea di sé, e senza una politica estera conseguente.
Ma gli altri problemi sono tutti indigeni, nascono e crescono in Europa. Come regoleremo il nuovo rapporto di sovranità tra gli Stati nazionali oggi esautorati dall´Europa e le istituzioni comunitarie? Come armonizzeremo la leadership europea di fatto (Merkel) con quella di diritto (Barroso e Van Rompuy)? Come ci comporteremo con una Banca Centrale benedetta perché compra il debito pubblico degli Stati, ma sempre più soggetto attivo e diretto dell´Europa, senza avere alcuna rappresentanza dei cittadini? E infine, come risponderemo a quelle spinte nazionali e sociali (le parole sono proprio queste) che stanno riemergendo a destra e a sinistra davanti ad una politica europea che non sembra una politica, ma il bando di un sovrano a cui dobbiamo soltanto ottemperare?
La parola, per fortuna e come sempre, tocca alla politica, all´establishment europeo, alle cancellerie e alla cultura: anche se la dominante è la crisi, siamo in realtà all´inizio di un processo di fondazione istituzionale, e un nuovo europeismo può diventare l´unica ideologia superstite e utile, dopo la sconfitta di tutte le altre. Tocca alla classe dirigente europea, nel suo insieme, riprendere il coraggio incompiuto dell´euro e usare la moneta e il mercato, dopo un decennio di strumentalità neutra, come suscitatori e fondatori di vere istituzioni sovranazionali e democratiche: per riunire l´Europa, la politica e i cittadini in un destino condiviso del continente, in un´idea forza e in una visione. Che non può essere soltanto tagli e sacrifici. Una speranza europea è ancora possibile, anzi è l´unica arma contro la crisi.

La Repubblica 14.02.12

"Ai manager Eternit 16 anni di reclusione per i parenti delle vittime 120 milioni", di Federica Cravero e Sarah Martinenghi

Il tribunale di Torino condanna Schmidheiny e il barone De Cartier a 16 anni di reclusione per disastro doloso e omissione di cautele. Lunghissima la lista dei risarcimenti. A ciascuno parente delle vittime andranno 30 mila euro di risarcimento. Le lacrime dei familiari durante la lettura del verdetto. “Colpevoli dei reati a loro contestati”. Queste le prime frasi lette dal giudice del processo Eternit. La lettura della sentenza è tuttora in corso. Il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, 65 anni, e il barone belga Louis De Cartier De Marchienne, 91 anni, sono stati condannati a 16 anni di reclusione per disastro doloso e omissione dolosa di misure infortunistiche.

La condanna vale per i reati commessi negli stabilimenti piemontesi di Casale e Cavagnolo, dal 13 agosto 1999 in avanti. Quelli precedenti risultano invece prescritti, come i reati contestati negli stabilimenti di Bagnoli (in provincia di Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia). Lunghissimo l’elenco dei risarcimenti: ai sindacati andranno 100 mila euro, 4 milioni al Comune di Cavagnolo, 15 milioni all’Inail (da revisionare in sede civile), 5 milioni all’Asl. Alla Regione Piemonte andranno 20 milioni, mentre il Comune di Casale sarà risarcito con 25 milioni.

A ciascuno dei parenti delle vittime costituitisi parte civile andranno 30 mila euro. In tutto il risarcimento ai familiari dovrebbe ammontare a 120 milioni. Alla “pasionaria” Romana Blasotti Pavesi 50 mila euro, all’Associazione vittime dell’amianto 100 mila euro.

Il verdetto riconosce anche una serie di risarcimenti particolarmente significativi a parti civili come sindacati, Medicina democratica, associazioni ambientaliste. Le persone decedute, aggiornate al 5 ottobre 2011 sono 1830, a cui si aggiungono altre 1027 parti lese. In tutto il numero delle parti civili supera le 4500.

Qualche parente delle vittime dell’amianto già esce fuori dalla maxi aula 1 del tribunale di Torino per lasciarsi andare ad un pianto liberatorio. La maxi aula è piena fino all’inverosimile, con gente assiepata persino in piedi, mentre la maggior parte dei parenti delle vittime piemontesi sono nell’aula magna del tribunale.

Sono circa 1500 le persone giunte da tutta Italia e da molti paesi stranieri a Palazzo di Giustizia per assistere alla lettura della sentenza. Il dibattimento si è snodato attraverso 65 udienze, con 6.392 parti civili, tra il 2009 e il 2011.

Mentre la lettura della sentenza procede, arrivano i primi commenti. Per il segretario confederale della Cgil, Vincenzo Scudiere, è “Un processo storico e una sentenza esemplare. La magistratura con questa sentenza dà giustizia alle migliaia di morti per amianto”. Per Felice Casson, vicepresidente del gruppo Pd al Senato, “la condanna è una tutela per i cittadini. Ora la politica deve perseguire l’azione avviata dalla magistratura”. Oliviero Diliberto, segretario del Pdci: “Va aperta una riflessione seria sulla necessità di ampliare le competenze della corte penale internazionale in materia di protezione della salute dell’uomo e dell’ambiente”.

da repubblica.it

“Ai manager Eternit 16 anni di reclusione per i parenti delle vittime 120 milioni”, di Federica Cravero e Sarah Martinenghi

Il tribunale di Torino condanna Schmidheiny e il barone De Cartier a 16 anni di reclusione per disastro doloso e omissione di cautele. Lunghissima la lista dei risarcimenti. A ciascuno parente delle vittime andranno 30 mila euro di risarcimento. Le lacrime dei familiari durante la lettura del verdetto. “Colpevoli dei reati a loro contestati”. Queste le prime frasi lette dal giudice del processo Eternit. La lettura della sentenza è tuttora in corso. Il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, 65 anni, e il barone belga Louis De Cartier De Marchienne, 91 anni, sono stati condannati a 16 anni di reclusione per disastro doloso e omissione dolosa di misure infortunistiche.

La condanna vale per i reati commessi negli stabilimenti piemontesi di Casale e Cavagnolo, dal 13 agosto 1999 in avanti. Quelli precedenti risultano invece prescritti, come i reati contestati negli stabilimenti di Bagnoli (in provincia di Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia). Lunghissimo l’elenco dei risarcimenti: ai sindacati andranno 100 mila euro, 4 milioni al Comune di Cavagnolo, 15 milioni all’Inail (da revisionare in sede civile), 5 milioni all’Asl. Alla Regione Piemonte andranno 20 milioni, mentre il Comune di Casale sarà risarcito con 25 milioni.

A ciascuno dei parenti delle vittime costituitisi parte civile andranno 30 mila euro. In tutto il risarcimento ai familiari dovrebbe ammontare a 120 milioni. Alla “pasionaria” Romana Blasotti Pavesi 50 mila euro, all’Associazione vittime dell’amianto 100 mila euro.

Il verdetto riconosce anche una serie di risarcimenti particolarmente significativi a parti civili come sindacati, Medicina democratica, associazioni ambientaliste. Le persone decedute, aggiornate al 5 ottobre 2011 sono 1830, a cui si aggiungono altre 1027 parti lese. In tutto il numero delle parti civili supera le 4500.

Qualche parente delle vittime dell’amianto già esce fuori dalla maxi aula 1 del tribunale di Torino per lasciarsi andare ad un pianto liberatorio. La maxi aula è piena fino all’inverosimile, con gente assiepata persino in piedi, mentre la maggior parte dei parenti delle vittime piemontesi sono nell’aula magna del tribunale.

Sono circa 1500 le persone giunte da tutta Italia e da molti paesi stranieri a Palazzo di Giustizia per assistere alla lettura della sentenza. Il dibattimento si è snodato attraverso 65 udienze, con 6.392 parti civili, tra il 2009 e il 2011.

Mentre la lettura della sentenza procede, arrivano i primi commenti. Per il segretario confederale della Cgil, Vincenzo Scudiere, è “Un processo storico e una sentenza esemplare. La magistratura con questa sentenza dà giustizia alle migliaia di morti per amianto”. Per Felice Casson, vicepresidente del gruppo Pd al Senato, “la condanna è una tutela per i cittadini. Ora la politica deve perseguire l’azione avviata dalla magistratura”. Oliviero Diliberto, segretario del Pdci: “Va aperta una riflessione seria sulla necessità di ampliare le competenze della corte penale internazionale in materia di protezione della salute dell’uomo e dell’ambiente”.

da repubblica.it

"Il problema è la finanza che diventa un fine, Ma il passato non torna", di Vincenzo Visco

Già Marx criticava il capitalismo puro, privo di regole e controlli. Serve una gestione controllata delle economie. La sinistra non può stare in difesa C’è bisogno di innovazione, le formule keynesiane oggi non funzionerebbero. È in corso da qualche tempo un dibattito sulla crisi del capitalismo cosa che non può certo sorprendere dopo tutto quello che è successo negli ultimi quattro anni. Il 1 ̊ novembre scorso, proprio su questo giornale scrivevo: «… si affaccia un problema…
di legittimità dei sistemi economici attuali e cioè del capitalismo liberista: infatti l’accettabilità di un sistema economico-sociale richiede la sua capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, cioè di produrre reddito, occupazione, crescita, opportunità e di farlo in modo accettabile dal punto di vista dell’equità». Che una crisi dei nostri sistemi economici esiste è evidente, e da questo non pochi a sinistra stanno traendo motivi di compiacimento e soddisfazione: «noi lo sapevamo», «noi lo avevamo detto», «noi avevamo ragione». Un
approccio di questo genere rischia tuttavia di produrre una regressione politico-culturale pericolosa.
Vediamo. Il fatto che il sistema capitalistico soprattutto quello nella sua forma pura, privo di regole, controlli, limiti e contrappesi sia pericolosamente instabile è ben noto almeno dai tempi in cui Marx descriveva i meccanismi dei collassi economici dell’800 (tragicamente identici a quelli che abbiamo sperimentato nel 2008). Lo stesso problema fu al centro della riflessione e dell’analisi di Keynes, e non è un caso che nel periodo compreso tra il secondo dopoguerra e gli anni 80 del secolo scorso, quando fu in vigore il “compromesso keynesiano”, il sistema risultò molto più stabile, pur in presenza di fluttuazioni cicliche. In sostanza il capitalismo liberista è cosa ben diversa dal capitalismo regolato di matrice keynesiana (o socialdemocratica). Così come il capitalismo americano individualista e flessibile, è sempre stato diverso (in ambedue le versioni, liberista e keynesiana) da quello europeo molto più solidale, assistenziale, corporativo, oligopolista, ma anche esso oggi in difficoltà per ragioni demografiche e di sostenibilità del welfare. Il capitalismo fascista e nazista era a sua volta diverso da quello americano dirigista e programmato il primo, liberale il secondo.
Analogamente il nuovo capitalismo russo (che non a caso piaceva molto a Berlusconi) appare simile alla versione predatoria e monopolista dei robber barons americani nell’800 che non a caso fu transitoria, mentre il durissimo capitalismo cinese che coniuga il mercato nella sua forma più spinta con un dirigismo autoritario di ultima istanza che garantisce il sistema, la sua tenuta e la sua coesione, è esperienza diversa da tutte le altre, e a sua volta diversa da quella del Giappone, o di altri Paesi orientali. In sostanza è oggi in crisi quella forma di capitalismo in cui i mercati finanziari (banche, borse, intermediari vari) prendono il sopravvento e diventano autoreferenziali, un fine e non un mezzo, vale a dire quella variante del capitalismo che fu responsabile della crisi degli anni 30, e che si è riaffermata negli ultimi decenni fino al collasso attuale ma che è stata anche alla base di enormi fasi di crescita compresa l’ultima globalizzazione.
Sia lo sviluppo accelerato che i crolli improvvisi provocano traumi e sofferenze, ma la regressione economica collegata al collasso di una precedente fase di sviluppo può facilmente diventare socialmente insopportabile e rischia di precipitare in una crisi politica anche perché, di fronte ai problemi inediti che la crisi pone, le classi dirigenti appaiono inadeguate, impotenti, incapaci. È necessaria quindi una grande capacità di innovazione che negli anni 30 fu rappresentata da Roosvelt in America, ma ahimé da Hitler in Europa. Anche oggi il rischio di una svolta verso una forma di capitalismo autoritario (di tipo cinese) non è da escludere.
È anche bene ricordare che dopo la seconda guerra mondiale la classe dirigente dei Paesi occidentali erano ossessionate dalla minaccia sovietica il cui modello alternativo di società appariva credibile, e quindi erano ben disposte a venire a patti con i sindacati e i partiti socialisti e a introdurre limiti e vincoli agli «spiriti animali» del sistema. Oggi non vi sono minacce esterne (se non fosse quella, puramente distruttiva dell’integralismo islamico), e non vi sono modelli alternativi di società, mentre la riproposizione di formule keynesiane a livello nazionale si scontra da un lato con le dimensioni dei disavanzi e i debiti pubblici degli Stati, e dall’altra con il fatto che per essere veramente efficaci esse oggi andrebbero introdotte a livello sovranazionale, se non globale (non esiste la possibilità di un keynesismo in un solo Paese).
E ben vediamo la difficoltà dell’impresa: a livello europeo la signora Merkel sta riesumando un vecchio, pericolosissimo, approccio nazionalistico se non pangermanico, creando fratture, sofferenze e risentimenti negli altri Paesi europei. A livello G-20 dopo la felice collaborazione del 2009 prevalgono oggi le divisioni su tutti i problemi: dal coordinamento (e dal mix) delle politiche economiche da adottare, a quelle dei tassi di cambio, dagli squilibri macroeconomici globali, al sistema monetario internazionale, dal commercio internazionale, alla regolamentazione del sistema bancario e finanziario, dal riscaldamento globale alla sicurezza nella fornitura di energia e cibo a livello mondiale, ecc.
La crisi del sistema economico si trasforma in crisi politica: il sistema potrebbe essere “aggiustato” ma gli interessi contrapposti e la visione corta creano la paralisi politica. Del resto ciò è inevitabile in un mondo privo di luoghi di riflessione ed elaborazione collettiva, e dominato da un sistema informatico ipertrofico e criminale nel senso che impedisce una riflessione sul passato e sul futuro e lascia la gente in balia di contraddittorie impressioni strettamente limitate al presente.
Inoltre non va dimenticato che il riaffermarsi negli anni 80 del ’900 del modello di capitalismo liberista dipese non solo dal crollo dell’Unione Sovietica, ma anche dal fatto che il precedente sistema regolato era entrato in crisi anche a causa dei propri abusi ed eccessi, e delle sistematica pretesa di utilizzare e depredare risorse future (ambiente, risparmi) per consumarle nel presente. Questo fenomeno spiega anche perché in Italia (ma non solo) all’interno della stessa sinistra vi siano gruppi minoritari, ma consistenti, favorevoli sia di fatto che per scelta culturale a un approccio liberista all’economia: essi infatti temono il ritorno a teorizzazioni e a pratiche intrise di ideologismo, forzature e talvolta prevaricazioni che in passato hanno prodotto l’accumulo del debito, l’inflazione, e un diffuso rancore nei confronti della sinistra da parte di consistenti strati della popolazione.
La crisi del modello di capitalismo che ha dominato degli ultimi 30 anni esiste, e va sottolineata, riaffermando la validità di una gestione controllata (programmata) delle economie. Ma è necessario trovare modalità e strumenti diversi dal passato e soprattutto convergenze e soluzioni da porre in essere a livello sovranazionale. Occorre ridare ruolo alla politica ma evitare gli abusi passati. Si tratta insomma di innovare, cambiare, riformare ribadendo le ragioni della sinistra, ma evitando il rischio di difesa e rivendicazione di un passato che non tornerà.

L’Unità 13.02.12