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“Il problema è la finanza che diventa un fine, Ma il passato non torna”, di Vincenzo Visco

Già Marx criticava il capitalismo puro, privo di regole e controlli. Serve una gestione controllata delle economie. La sinistra non può stare in difesa C’è bisogno di innovazione, le formule keynesiane oggi non funzionerebbero. È in corso da qualche tempo un dibattito sulla crisi del capitalismo cosa che non può certo sorprendere dopo tutto quello che è successo negli ultimi quattro anni. Il 1 ̊ novembre scorso, proprio su questo giornale scrivevo: «… si affaccia un problema…
di legittimità dei sistemi economici attuali e cioè del capitalismo liberista: infatti l’accettabilità di un sistema economico-sociale richiede la sua capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, cioè di produrre reddito, occupazione, crescita, opportunità e di farlo in modo accettabile dal punto di vista dell’equità». Che una crisi dei nostri sistemi economici esiste è evidente, e da questo non pochi a sinistra stanno traendo motivi di compiacimento e soddisfazione: «noi lo sapevamo», «noi lo avevamo detto», «noi avevamo ragione». Un
approccio di questo genere rischia tuttavia di produrre una regressione politico-culturale pericolosa.
Vediamo. Il fatto che il sistema capitalistico soprattutto quello nella sua forma pura, privo di regole, controlli, limiti e contrappesi sia pericolosamente instabile è ben noto almeno dai tempi in cui Marx descriveva i meccanismi dei collassi economici dell’800 (tragicamente identici a quelli che abbiamo sperimentato nel 2008). Lo stesso problema fu al centro della riflessione e dell’analisi di Keynes, e non è un caso che nel periodo compreso tra il secondo dopoguerra e gli anni 80 del secolo scorso, quando fu in vigore il “compromesso keynesiano”, il sistema risultò molto più stabile, pur in presenza di fluttuazioni cicliche. In sostanza il capitalismo liberista è cosa ben diversa dal capitalismo regolato di matrice keynesiana (o socialdemocratica). Così come il capitalismo americano individualista e flessibile, è sempre stato diverso (in ambedue le versioni, liberista e keynesiana) da quello europeo molto più solidale, assistenziale, corporativo, oligopolista, ma anche esso oggi in difficoltà per ragioni demografiche e di sostenibilità del welfare. Il capitalismo fascista e nazista era a sua volta diverso da quello americano dirigista e programmato il primo, liberale il secondo.
Analogamente il nuovo capitalismo russo (che non a caso piaceva molto a Berlusconi) appare simile alla versione predatoria e monopolista dei robber barons americani nell’800 che non a caso fu transitoria, mentre il durissimo capitalismo cinese che coniuga il mercato nella sua forma più spinta con un dirigismo autoritario di ultima istanza che garantisce il sistema, la sua tenuta e la sua coesione, è esperienza diversa da tutte le altre, e a sua volta diversa da quella del Giappone, o di altri Paesi orientali. In sostanza è oggi in crisi quella forma di capitalismo in cui i mercati finanziari (banche, borse, intermediari vari) prendono il sopravvento e diventano autoreferenziali, un fine e non un mezzo, vale a dire quella variante del capitalismo che fu responsabile della crisi degli anni 30, e che si è riaffermata negli ultimi decenni fino al collasso attuale ma che è stata anche alla base di enormi fasi di crescita compresa l’ultima globalizzazione.
Sia lo sviluppo accelerato che i crolli improvvisi provocano traumi e sofferenze, ma la regressione economica collegata al collasso di una precedente fase di sviluppo può facilmente diventare socialmente insopportabile e rischia di precipitare in una crisi politica anche perché, di fronte ai problemi inediti che la crisi pone, le classi dirigenti appaiono inadeguate, impotenti, incapaci. È necessaria quindi una grande capacità di innovazione che negli anni 30 fu rappresentata da Roosvelt in America, ma ahimé da Hitler in Europa. Anche oggi il rischio di una svolta verso una forma di capitalismo autoritario (di tipo cinese) non è da escludere.
È anche bene ricordare che dopo la seconda guerra mondiale la classe dirigente dei Paesi occidentali erano ossessionate dalla minaccia sovietica il cui modello alternativo di società appariva credibile, e quindi erano ben disposte a venire a patti con i sindacati e i partiti socialisti e a introdurre limiti e vincoli agli «spiriti animali» del sistema. Oggi non vi sono minacce esterne (se non fosse quella, puramente distruttiva dell’integralismo islamico), e non vi sono modelli alternativi di società, mentre la riproposizione di formule keynesiane a livello nazionale si scontra da un lato con le dimensioni dei disavanzi e i debiti pubblici degli Stati, e dall’altra con il fatto che per essere veramente efficaci esse oggi andrebbero introdotte a livello sovranazionale, se non globale (non esiste la possibilità di un keynesismo in un solo Paese).
E ben vediamo la difficoltà dell’impresa: a livello europeo la signora Merkel sta riesumando un vecchio, pericolosissimo, approccio nazionalistico se non pangermanico, creando fratture, sofferenze e risentimenti negli altri Paesi europei. A livello G-20 dopo la felice collaborazione del 2009 prevalgono oggi le divisioni su tutti i problemi: dal coordinamento (e dal mix) delle politiche economiche da adottare, a quelle dei tassi di cambio, dagli squilibri macroeconomici globali, al sistema monetario internazionale, dal commercio internazionale, alla regolamentazione del sistema bancario e finanziario, dal riscaldamento globale alla sicurezza nella fornitura di energia e cibo a livello mondiale, ecc.
La crisi del sistema economico si trasforma in crisi politica: il sistema potrebbe essere “aggiustato” ma gli interessi contrapposti e la visione corta creano la paralisi politica. Del resto ciò è inevitabile in un mondo privo di luoghi di riflessione ed elaborazione collettiva, e dominato da un sistema informatico ipertrofico e criminale nel senso che impedisce una riflessione sul passato e sul futuro e lascia la gente in balia di contraddittorie impressioni strettamente limitate al presente.
Inoltre non va dimenticato che il riaffermarsi negli anni 80 del ’900 del modello di capitalismo liberista dipese non solo dal crollo dell’Unione Sovietica, ma anche dal fatto che il precedente sistema regolato era entrato in crisi anche a causa dei propri abusi ed eccessi, e delle sistematica pretesa di utilizzare e depredare risorse future (ambiente, risparmi) per consumarle nel presente. Questo fenomeno spiega anche perché in Italia (ma non solo) all’interno della stessa sinistra vi siano gruppi minoritari, ma consistenti, favorevoli sia di fatto che per scelta culturale a un approccio liberista all’economia: essi infatti temono il ritorno a teorizzazioni e a pratiche intrise di ideologismo, forzature e talvolta prevaricazioni che in passato hanno prodotto l’accumulo del debito, l’inflazione, e un diffuso rancore nei confronti della sinistra da parte di consistenti strati della popolazione.
La crisi del modello di capitalismo che ha dominato degli ultimi 30 anni esiste, e va sottolineata, riaffermando la validità di una gestione controllata (programmata) delle economie. Ma è necessario trovare modalità e strumenti diversi dal passato e soprattutto convergenze e soluzioni da porre in essere a livello sovranazionale. Occorre ridare ruolo alla politica ma evitare gli abusi passati. Si tratta insomma di innovare, cambiare, riformare ribadendo le ragioni della sinistra, ma evitando il rischio di difesa e rivendicazione di un passato che non tornerà.

L’Unità 13.02.12

Bersani: "Monti è una parentesi, dopo maggioranze vere", di Andrea Cangini

Segretario Bersani, per razionalizzare gli emendamenti al decreto sulle liberalizzazioni sarà necessario un vertice tra leader politici?
«Io ci sono. Se il governo ritiene necessario un vertice tra segretari, facciamolo. Ma una cosa vorrei fosse chiara. Anzi due…».
Cosa?
«Che noi voteremo comunque a favore e che non è vero che tutti i partiti stanno frenando. Noi del Pd sulla liberalizzazioni chiediamo più coraggio, non meno».

Ad esempio, su cosa?

«Abbiamo proposto sette-otto emendamenti per abbassare i costi di mutui e conti correnti. Siamo favorevolissimi alla tracciabilità, ma costa troppo: l’1,5 per cento di commissione è più che sufficiente. Almeno fino ai cento euro vorremmo che l’uso della carta di credito fosse gratuito. E poi chiediamo una separazione effettiva della rete Snam, una vera liberalizzazione dei benzinai e dei farmaci di fascia C. E le assicurazioni».

Le assicurazioni?

«Mi chiedo: possibile che ’sto bonus malus non sia mai bonus?».

Prego?

«Insomma, sarebbe logico che quando stipulo una polizza mi venisse detto con precisione quale sarà il bonus tra un anno se non avrò fatto incidenti…».

Denuncia anche lei il conflitto di interessi del governo su banche e assicurazioni?

«Sembrano un po’ rinunciatari, ma non la metterei giù così. Ora fanno un mestiere diverso, sono ministri. Forse temono la reazione di altre forze politiche».

Finirà che metteranno la fiducia, no?

«Non ho problemi, che la mettano. Però voglio che i partiti si assumano le loro responsabilità e che ci sia un voto chiaro almeno in commissione e almeno sui punti essenziali, sui quali gradiremmo conoscere anche l’opinione del Governo».

Passiamo al Lavoro. Sembra che l’articolo 18 verrà inevitabilmente aggirato o modificato…

«Guardi, posto che di articolo 18 bisognerà parlare alla fine e non all’inizio del percorso riformatore, e secondo noi solo in termini di manutenzione, noi rispetteremo tutto quello che sarà deciso al tavolo tra governo e parti sociali».

E se la trattativa fallisse e il governo varasse la riforma senza i sindacati?

«Sarebbe una jattura. Il governo deve lavorare per l’accordo: affrontare uno o due anni di recessione con un conflitto sociale aperto sarebbe terribile!».

Cosa pensa dell’ipotesi di accordo raccontata da Repubblica?

«Che scomporrebbe in quattro o cinque pezzi il mercato del lavoro. Non è la nostra proposta».

E qual è la vostra proposta?

«Proponiamo un contratto di ingresso che duri al massimo tre anni e preveda tutele e salario progressivi. Facendo in modo che un’ora di lavoro non stabile costi un po’ più di un’ora di lavoro stabile».

Sembra la proposta illustrata da Fassina all’Unità.

«È la proposta del Pd, che Stefano Fassina ha illustrato».

Non molto diversa da quella della Cisl…

«Comunque credo possa rappresentare un significativo contributo alla riflessione».

La Cgil si dice contraria.

«Nessuno ci ha detto che va bene del tutto, ma è logico: sono le fasi naturali di qualsiasi negoziato».

Legge elettorale. L’assemblea del Pd ha votato per il maggioritario a doppio turno di collegio, i vertici stanno invece trattando sul proporzionale.

«Nessuna contraddizione, se al proporzionale metti una soglia e un premio per il partito o la coalizione, puoi ottenere un effetto parzialmente maggioritario».

Quali sono i paletti del Pd?

«Uscire dall’ipermaggioritario odierno, quello che col 34% prendi tutto. Restituire ai cittadini il potere di scegliere i candidati con i collegi e non con le preferenze. Una soglia di sbarramento non troppo bassa. Incentivare l’effetto bipolare».

Come?

«I modi sono tanti, l’importante è che l’elettore abbia chiaro prima del voto, conoscendo alleanze e candidati premier, il percorso della legislatura».

Casini la pensa diversamente. A proposito, la foto di Vasto tra lei, Vendola e Di Pietro è ancora attuale?

«Sulla legge elettorale cerchiamo la convergenza di tutti, Casini compreso. Di Vasto avete preso la foto ma non il sonoro. Quel giorno dissi che la prossima volta il centrosinistra dovrà assicurare ai cittadini la capacità di essere affidabile per il Paese. Occorre dunque che le forze siano omogenee e le decisioni vengano prese a maggioranza e ci sia la disponibilità a fare appello alle forze moderate».

L’Udc dice che poiché la crisi sarà lunga, nel 2013 converrebbe votare per una grande coalizione che confermi Monti a palazzo Chigi…

«Se fossi convinto che serve all’Italia, lo farei. Ma non lo credo. Siamo riusciti a fare un Governo di emergenza e di transizione. La prospettiva richiede la partecipazione attiva degli elettori e una maggioranza coerente per dare forza a un progetto di ricostruzione. Mi pare difficile che questo si possa fare con una grande coalizione».

da QN 13.02.12

Bersani: “Monti è una parentesi, dopo maggioranze vere”, di Andrea Cangini

Segretario Bersani, per razionalizzare gli emendamenti al decreto sulle liberalizzazioni sarà necessario un vertice tra leader politici?
«Io ci sono. Se il governo ritiene necessario un vertice tra segretari, facciamolo. Ma una cosa vorrei fosse chiara. Anzi due…».
Cosa?
«Che noi voteremo comunque a favore e che non è vero che tutti i partiti stanno frenando. Noi del Pd sulla liberalizzazioni chiediamo più coraggio, non meno».

Ad esempio, su cosa?

«Abbiamo proposto sette-otto emendamenti per abbassare i costi di mutui e conti correnti. Siamo favorevolissimi alla tracciabilità, ma costa troppo: l’1,5 per cento di commissione è più che sufficiente. Almeno fino ai cento euro vorremmo che l’uso della carta di credito fosse gratuito. E poi chiediamo una separazione effettiva della rete Snam, una vera liberalizzazione dei benzinai e dei farmaci di fascia C. E le assicurazioni».

Le assicurazioni?

«Mi chiedo: possibile che ’sto bonus malus non sia mai bonus?».

Prego?

«Insomma, sarebbe logico che quando stipulo una polizza mi venisse detto con precisione quale sarà il bonus tra un anno se non avrò fatto incidenti…».

Denuncia anche lei il conflitto di interessi del governo su banche e assicurazioni?

«Sembrano un po’ rinunciatari, ma non la metterei giù così. Ora fanno un mestiere diverso, sono ministri. Forse temono la reazione di altre forze politiche».

Finirà che metteranno la fiducia, no?

«Non ho problemi, che la mettano. Però voglio che i partiti si assumano le loro responsabilità e che ci sia un voto chiaro almeno in commissione e almeno sui punti essenziali, sui quali gradiremmo conoscere anche l’opinione del Governo».

Passiamo al Lavoro. Sembra che l’articolo 18 verrà inevitabilmente aggirato o modificato…

«Guardi, posto che di articolo 18 bisognerà parlare alla fine e non all’inizio del percorso riformatore, e secondo noi solo in termini di manutenzione, noi rispetteremo tutto quello che sarà deciso al tavolo tra governo e parti sociali».

E se la trattativa fallisse e il governo varasse la riforma senza i sindacati?

«Sarebbe una jattura. Il governo deve lavorare per l’accordo: affrontare uno o due anni di recessione con un conflitto sociale aperto sarebbe terribile!».

Cosa pensa dell’ipotesi di accordo raccontata da Repubblica?

«Che scomporrebbe in quattro o cinque pezzi il mercato del lavoro. Non è la nostra proposta».

E qual è la vostra proposta?

«Proponiamo un contratto di ingresso che duri al massimo tre anni e preveda tutele e salario progressivi. Facendo in modo che un’ora di lavoro non stabile costi un po’ più di un’ora di lavoro stabile».

Sembra la proposta illustrata da Fassina all’Unità.

«È la proposta del Pd, che Stefano Fassina ha illustrato».

Non molto diversa da quella della Cisl…

«Comunque credo possa rappresentare un significativo contributo alla riflessione».

La Cgil si dice contraria.

«Nessuno ci ha detto che va bene del tutto, ma è logico: sono le fasi naturali di qualsiasi negoziato».

Legge elettorale. L’assemblea del Pd ha votato per il maggioritario a doppio turno di collegio, i vertici stanno invece trattando sul proporzionale.

«Nessuna contraddizione, se al proporzionale metti una soglia e un premio per il partito o la coalizione, puoi ottenere un effetto parzialmente maggioritario».

Quali sono i paletti del Pd?

«Uscire dall’ipermaggioritario odierno, quello che col 34% prendi tutto. Restituire ai cittadini il potere di scegliere i candidati con i collegi e non con le preferenze. Una soglia di sbarramento non troppo bassa. Incentivare l’effetto bipolare».

Come?

«I modi sono tanti, l’importante è che l’elettore abbia chiaro prima del voto, conoscendo alleanze e candidati premier, il percorso della legislatura».

Casini la pensa diversamente. A proposito, la foto di Vasto tra lei, Vendola e Di Pietro è ancora attuale?

«Sulla legge elettorale cerchiamo la convergenza di tutti, Casini compreso. Di Vasto avete preso la foto ma non il sonoro. Quel giorno dissi che la prossima volta il centrosinistra dovrà assicurare ai cittadini la capacità di essere affidabile per il Paese. Occorre dunque che le forze siano omogenee e le decisioni vengano prese a maggioranza e ci sia la disponibilità a fare appello alle forze moderate».

L’Udc dice che poiché la crisi sarà lunga, nel 2013 converrebbe votare per una grande coalizione che confermi Monti a palazzo Chigi…

«Se fossi convinto che serve all’Italia, lo farei. Ma non lo credo. Siamo riusciti a fare un Governo di emergenza e di transizione. La prospettiva richiede la partecipazione attiva degli elettori e una maggioranza coerente per dare forza a un progetto di ricostruzione. Mi pare difficile che questo si possa fare con una grande coalizione».

da QN 13.02.12

Redditi parlamentari Pd, l’on. Ghizzoni e la sen. Bastico già on line

Sia Giuliano Barbolini che Ivano Miglioli hanno avviato la procedura per la pubblicazione. La trasparenza dei dati contabili sia personali che del partito è uno dei punti di forza del Partito Democratico. Il Pd è l’unico partito il cui bilancio è certificato da un’agenzia internazionale. A Modena, fra pochi giorni, verranno resi pubblici i dati del preconsuntivo 2011 e del preventivo 2012.

I redditi dei parlamentari modenesi del Pd sono già pubblici: con regolarità i quotidiani locali, da anni, danno conto dei loro stipendi, del fatto se posseggano o meno una casa, perfino di quale sia la loro auto. Dal cartaceo si è passati, per i due rami del Parlamento, alla possibilità di pubblicazione on line sui siti, rispettivamente, di Camera e Senato. Le prime a firmare la liberatoria per superare i problemi legati alla privacy che una tale pubblicazione comporta sono state le donne del Pd: la deputata Manuela Ghizzoni e la senatrice Mariangela Bastico. Entrambe hanno già messo on line le dichiarazioni dei redditi che vanno dal 2008 al 2011. Adesso si stanno attrezzando anche i colleghi uomini: anche il senatore Giuliano Barbolini e il deputato Ivano Miglioli, naturalmente, consegnano ogni anno i documenti fiscali e patrimoniali così come richiesto dal regolamento delle rispettive Camere di appartenenza. Ora, anche loro, stanno attivando l’intera procedura che si concluderà con la pubblicazione on line delle rispettive dichiarazioni. L’assoluta trasparenza in materia di contabilità personale e del partito è sempre stato un punto di forza del Partito Democratico: non è un caso che il Pd sia l’unico partito italiano il cui bilancio è certificato da un’agenzia internazionale. A Modena, tra l’altro, proprio fra pochi giorni verranno presentati i dati del bilancio pre-consuntivo 2011 e quelli del preventivo 2012. La stampa, come sempre, sarà invitata alla presentazione. Sarà l’occasione, per chi non li avesse ancora scorsi su Internet, per fare il punto anche sugli emolumenti dei parlamentari modenesi, non ultimo sui contributi che tutti versano al partito, sia a livello nazionale che a livello locale. I quattro eletti modenesi infatti, oltre al contributo mensile pari a 1.500 euro che ogni parlamentare del Pd è tenuto a versare alle tesoreria nazionale, versano al partito modenese un contributo ulteriore e personale di euro 2.500 ogni mese: un contributo, è bene precisare, aggiuntivo e volontario, concordato con la tesoreria del Pd provinciale. Ricordiamo infine che tutti gli eletti del Pd modenese, a vari livelli, versano un contributo per il sostentamento di una organizzazione capillare, presente sul territorio, vicina ad iscritti e simpatizzanti.

"Genova, sorpresa alle primarie: Doria supera le sfidanti pd", di Maria Zegarelli

A spoglio quasi ultimato il candidato Sel in vantaggio con il 42 per cento. Sconfitta Vincenzi sindaco uscente e la parlamentare Pinotti. Si è votato fino alle 21 ieri a Genova dove il centrosinistra sceglie il suo candidato sindaco per le elezioni amministrative di maggio. I primi dati danno in vantaggio a sorpresa Doria su Vincenzi e Pinotti. Doveva essere un testa a testa fra loro due, le donne del Pd che si sfidavano per la poltrona di Palazzo Tursi e invece è stata la corsa dell’outsider. Ha vinto lui, il professore di Storia dell’Economia, Marco Doria, 55 anni, cresciuto nella Fgci, poi nel Pci , oggi candidato indipendente alle primarie sostenuto da Sel e da Don Gallo, il prete della Genova disperata che non si arrende. Un terremoto per il partito democratico genovese e non solo. Dopo Cagliari, Milano, Napoli anche Genova. Il segretario cittadino, Victor Rasetto pensa già a domani: «Da questo momento Marco Doria è il candidato di tutto il centrosinistra e del Pd e quindi a lui i complimenti di cuore. Adesso dobbiamo far vincere le elezioni alla coalizione di centrosinistra». Ma non nasconde il dato politico, «È evidente che i cittadini hanno mandato un segnale chiaro di cambiamento, ma o si capisce che le primarie hanno regole e conseguenze, e quindi si accetta il fatto che possano esserci anche sorprese, o se si continuano a pensarle come una partita già decisa allora sì che è un terremoto». Aggiunge che è pronto ad assumersi le sue responsabilità, come dirigente, che ne parlerà direttamente con Pier Luigi Bersani, ma ci tiene a dire che a Genova «ci sono state autocandidature», due, e quindi alla fine sono stati i cittadini a dire che forse qualcosa va cambiato. 25mila votanti contro i 35.433 della scorsa volta, Marco Doria al primo posto con il 41,8%% dei consensi, seguito da Marta Vincenzi con il 28,8; Roberta Pinotti con il 26,8; Angela Burlando ferma all’1.7 e Andrea Sassano allo 0,9%.
Calo dell’affluenza, vuoi per il freddo due seggi all’aperto sono stati spostati al chiuso vuoi perché nel capoluogo ligure già alle elezioni regionali un certo calo di tono si era già registrato. Ma se scende il numero dei votanti e il Pd si presenta spaccato, con due nomi, allora le possibilità che un candidato come il professore, faccia il pieno di voti si fanno davvero concrete. «Basta con le vecchie politiche. Costruire il futuro, condividere una storia», lo slogan scelto dal discendente dell’Ammiraglio, per una campagna elettorale sui tratti dall’arancione, formazione nella Fgci, poi nel Pci.
A urne chiuse, alle nove di sera, su una Genova, stretta dal freddo, è sceso il gelo nei quartier generali delle due candidate e nella sede del Pd mentre la temperatura cresceva di minuto in minuto nella sede del Comitato elettorale di Marco Doria, in salita Santa Caterina. «È stata la scelta giusta, comunque vadano le cose», dicevano dal suo quartier generale, scaramenticamente, quando gli exit poll raccontavano la sorpresa delle urne ma ancora si aspettavano i dati ufficiali. La giornata intensa delle competitor democratiche, convinte che la gara fosse sostanzialmente tra loro, è finita davanti a quei dati che via via arrivano e che non hanno lasciato neanche la speranza di un testa a testa. Uno stacco deciso, chiaro.
IN SERATA
Già verso sera, prima ancora che i seggi chiudessero, Marco Doria ha avuto la sensazione che davvero si potesse doppiare il risultato clamoroso di Cagliari dove Massimo Zedda si è prima aggiudicato le primarie e poi la poltrona di primo cittadino. E pensare che proprio l’altro giorno aveva espresso preoccupazione per lo svolgimento delle primarie perché aveva ricevuto segnalazioni di un tentativo di “infiltrarsi” da parte degli elettori di centrodestra. Ma alla fine il voto filato via tranquillo nei 73 seggi allestiti sotto la regia del «Prefetto Rosso», Michele Bartolozzi, guida infallibile dai tempi del Pci ad oggi della macchina elettorale della sinistra genovese.
E se a Genova c’è stato un calo di votanti ad Alghero, in Sardegna, è stato un boom di partecipazione con file ai seggi: oltre 5550 persone, tantissime se paragonate alle 5.300 di Cagliari alle ultime primarie. Il dato parziale delle 22 dava al primo posto Stefano Lubrano; seguito da Enrico Daga(entrambi del pd), Rosa Accardo (sostenuta da Sel).
A Oristano, invece, sono slittate al 4 marzo perché fino all’ultimo si è tentato (inutilmente) l’accordo con l’Udc, che notoriamente non le vuole, mentre a Selargius le operazioni di voto si sono chiuse alle otto di sera. 1650 i votanti e dopo un testa a testa ha vinto Rita Corda con un vantaggio di 37 voti su Francesco Lilliu, entrambi del Pd.

L’Unità 13.02.12

“Genova, sorpresa alle primarie: Doria supera le sfidanti pd”, di Maria Zegarelli

A spoglio quasi ultimato il candidato Sel in vantaggio con il 42 per cento. Sconfitta Vincenzi sindaco uscente e la parlamentare Pinotti. Si è votato fino alle 21 ieri a Genova dove il centrosinistra sceglie il suo candidato sindaco per le elezioni amministrative di maggio. I primi dati danno in vantaggio a sorpresa Doria su Vincenzi e Pinotti. Doveva essere un testa a testa fra loro due, le donne del Pd che si sfidavano per la poltrona di Palazzo Tursi e invece è stata la corsa dell’outsider. Ha vinto lui, il professore di Storia dell’Economia, Marco Doria, 55 anni, cresciuto nella Fgci, poi nel Pci , oggi candidato indipendente alle primarie sostenuto da Sel e da Don Gallo, il prete della Genova disperata che non si arrende. Un terremoto per il partito democratico genovese e non solo. Dopo Cagliari, Milano, Napoli anche Genova. Il segretario cittadino, Victor Rasetto pensa già a domani: «Da questo momento Marco Doria è il candidato di tutto il centrosinistra e del Pd e quindi a lui i complimenti di cuore. Adesso dobbiamo far vincere le elezioni alla coalizione di centrosinistra». Ma non nasconde il dato politico, «È evidente che i cittadini hanno mandato un segnale chiaro di cambiamento, ma o si capisce che le primarie hanno regole e conseguenze, e quindi si accetta il fatto che possano esserci anche sorprese, o se si continuano a pensarle come una partita già decisa allora sì che è un terremoto». Aggiunge che è pronto ad assumersi le sue responsabilità, come dirigente, che ne parlerà direttamente con Pier Luigi Bersani, ma ci tiene a dire che a Genova «ci sono state autocandidature», due, e quindi alla fine sono stati i cittadini a dire che forse qualcosa va cambiato. 25mila votanti contro i 35.433 della scorsa volta, Marco Doria al primo posto con il 41,8%% dei consensi, seguito da Marta Vincenzi con il 28,8; Roberta Pinotti con il 26,8; Angela Burlando ferma all’1.7 e Andrea Sassano allo 0,9%.
Calo dell’affluenza, vuoi per il freddo due seggi all’aperto sono stati spostati al chiuso vuoi perché nel capoluogo ligure già alle elezioni regionali un certo calo di tono si era già registrato. Ma se scende il numero dei votanti e il Pd si presenta spaccato, con due nomi, allora le possibilità che un candidato come il professore, faccia il pieno di voti si fanno davvero concrete. «Basta con le vecchie politiche. Costruire il futuro, condividere una storia», lo slogan scelto dal discendente dell’Ammiraglio, per una campagna elettorale sui tratti dall’arancione, formazione nella Fgci, poi nel Pci.
A urne chiuse, alle nove di sera, su una Genova, stretta dal freddo, è sceso il gelo nei quartier generali delle due candidate e nella sede del Pd mentre la temperatura cresceva di minuto in minuto nella sede del Comitato elettorale di Marco Doria, in salita Santa Caterina. «È stata la scelta giusta, comunque vadano le cose», dicevano dal suo quartier generale, scaramenticamente, quando gli exit poll raccontavano la sorpresa delle urne ma ancora si aspettavano i dati ufficiali. La giornata intensa delle competitor democratiche, convinte che la gara fosse sostanzialmente tra loro, è finita davanti a quei dati che via via arrivano e che non hanno lasciato neanche la speranza di un testa a testa. Uno stacco deciso, chiaro.
IN SERATA
Già verso sera, prima ancora che i seggi chiudessero, Marco Doria ha avuto la sensazione che davvero si potesse doppiare il risultato clamoroso di Cagliari dove Massimo Zedda si è prima aggiudicato le primarie e poi la poltrona di primo cittadino. E pensare che proprio l’altro giorno aveva espresso preoccupazione per lo svolgimento delle primarie perché aveva ricevuto segnalazioni di un tentativo di “infiltrarsi” da parte degli elettori di centrodestra. Ma alla fine il voto filato via tranquillo nei 73 seggi allestiti sotto la regia del «Prefetto Rosso», Michele Bartolozzi, guida infallibile dai tempi del Pci ad oggi della macchina elettorale della sinistra genovese.
E se a Genova c’è stato un calo di votanti ad Alghero, in Sardegna, è stato un boom di partecipazione con file ai seggi: oltre 5550 persone, tantissime se paragonate alle 5.300 di Cagliari alle ultime primarie. Il dato parziale delle 22 dava al primo posto Stefano Lubrano; seguito da Enrico Daga(entrambi del pd), Rosa Accardo (sostenuta da Sel).
A Oristano, invece, sono slittate al 4 marzo perché fino all’ultimo si è tentato (inutilmente) l’accordo con l’Udc, che notoriamente non le vuole, mentre a Selargius le operazioni di voto si sono chiuse alle otto di sera. 1650 i votanti e dopo un testa a testa ha vinto Rita Corda con un vantaggio di 37 voti su Francesco Lilliu, entrambi del Pd.

L’Unità 13.02.12

"Editoria, l’inerzia del governo può uccidere il pluralismo", di Roberto Monteforte

Quando le nuove regole per accedere al fondo per l’editoria? Quale sarà lo stanziamento per sostenere la stampa non profit, di idee, politica e cooperativa? Sarà adeguato? Se lo domandano gli amministratori che devono gestire aziende editoriali oramai vicine al collasso e, soprattutto, chi vi lavora, giornalisti e poligrafici, impegnati a difendere oltre che posti di lavoro e professionalità, testate che arricchiscono il pluralismo del nostro paese. Siamo oramai oltre il tempo massimo.
L’incertezza rischia di uccidere le aziende, esattamente come la decisione di tagliare loro in modo indiscriminato il finanziamento diretto. Quello che resta certo e incontrovertibile sono i tagli retroattivi applicati agli stanziamenti relativi al 2010 su importi già messi a bilancio e spesi dalle aziende. Resta l’incertezza sui finanziamenti relativi al 2011, praticamente già anticipati dalle banche e spesi. E su quelli relativi all’anno in corso.
Una situazione ingestibile per qualsiasi azienda. Tanto più per un settore da tempo in crisi. Lo attesta la sequela drammatica delle testate che annunciano la loro chiusura: la liquidazione coatta de il manifesto e prima ancora sospensione delle pubblicazioni di Liberazione e di Terra e di tante altre testate cooperative e locali. Per non parlare delle emittenti locali. Lo stesso destino de l’Unità è appeso ad un filo. Per non parlare del Riformista, del Secolo d’Italia, di Europa, della Padania, di Avvenire. È il pluralismo dell’informazione ad essere minacciato.
Non erano allarmistici gli appelli lanciati nei mesi scorsi dal Comitato per la libertà d’informazione e la difesa del pluralismo, l’organismo unitario che raccoglie voci e sensibilità politiche e culturali diverse (dalla Fnsi a Mediacoop e Federcoop, dalla Cgil alla Federazione dei settimanali cattolici, dalla Cisl all’Associazione art.21 per la libertà d’informazione) sulle oltre 100 testate a rischio chiusura e sui quattromila lavoratori che rischiavano di perdere il posto di lavoro. Una situazione drammatica denunciata con chiarezza già lo scorso anno dai direttori di cento testate al presidente del consiglio, Mario Monti, ai presidenti di Camera e Senato, Fini e Schifani e ai segretari dei partiti rappresentati in Parlamento. E ancora prima nella lettera inviata al capo dello Stato, Giorgio Napolitano che ha fatto propria questa preoccupazione, raccomandando al governo attenzione alla tutela del pluralismo nel rigore.
Una linea condivisa da tutti. Anche dal premier Monti e ribadita dal sottosegretario con delega all’Editoria, Carlo Malinconico che si era impegnato a definire ai primi di gennaio di quest’anno i nuovi criteri, più rigorosi, legati alla vendita in edicola e al numero dei dipendenti assunti a tempo indeterminato. Bonifica, rigore e risorse: questo era l’impegno. Compresa una disponibiltà ad integrare i tagli al Fondo editoria voluti dal ministro Tremonti. Il settore non chiedeva una cifra straordinaria: 180 milioni di euro. Sarebbe costato di più far fronte ai prezzi della crisi del settore.
Ma dalla Finanziaria di Monti non vi è stato alcuna integrazione ai finanziamenti «diretti». Solo l’apertura di una finestra: l’utilizzo del «Fondo Letta», quello a disposizione della presidenza del Consiglio per fronteggiare le emergenze e le calamità naturali, per integrare il Fondo per l’editoria e far fronte alle situazioni di crisi del settore. È rimasta una «finestra» vuota. Non per Radio radicale che si è vista rinnovare la sua convenzione milionaria. Si è atteso il Milleproroghe, ma malgrado gli emendamenti presentati in Parlamento, la risposta non è arrivata. Sino ad oggi non vi è alcuna integrazione ai 53 milioni del Fondo editoria e nessuna indicazione sui nuovi criteri per accedervi.
Vi sarà un decreto ad hoc della presidenza del Consiglio? I tempi sono strettissimi, servono indicazioni precise. Le proposte sono da tempo sul tavolo. Le ha presentate la Federazione della Stampa, con il segretario Franco Siddi, Mediacoop e gli altri soggetti. Il confronto avviato con il sottosegretario Malinconico, è stato ripreso con il successore Paolo Peluffo. Cosa si aspetta? Siamo a metà febbraio. La situazione per il settore si fa sempre più drammatico. Il premier Monti, suo malgrado, rischia di portare a termine quello che non è riuscito a Berlusconi: la chiusura delle voci critiche e autonome, che non rispondono ai grandi potentati economico-finanziari. Se l’obiettivo di questo governo «tecnico» è quello di coniugare equità e sviluppo, può perseguirlo rinunciando a tutelare il pluralismo e quelle voci che alla domanda di equità danno voce.

L’Unità 13.02.12