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“Editoria, l’inerzia del governo può uccidere il pluralismo”, di Roberto Monteforte

Quando le nuove regole per accedere al fondo per l’editoria? Quale sarà lo stanziamento per sostenere la stampa non profit, di idee, politica e cooperativa? Sarà adeguato? Se lo domandano gli amministratori che devono gestire aziende editoriali oramai vicine al collasso e, soprattutto, chi vi lavora, giornalisti e poligrafici, impegnati a difendere oltre che posti di lavoro e professionalità, testate che arricchiscono il pluralismo del nostro paese. Siamo oramai oltre il tempo massimo.
L’incertezza rischia di uccidere le aziende, esattamente come la decisione di tagliare loro in modo indiscriminato il finanziamento diretto. Quello che resta certo e incontrovertibile sono i tagli retroattivi applicati agli stanziamenti relativi al 2010 su importi già messi a bilancio e spesi dalle aziende. Resta l’incertezza sui finanziamenti relativi al 2011, praticamente già anticipati dalle banche e spesi. E su quelli relativi all’anno in corso.
Una situazione ingestibile per qualsiasi azienda. Tanto più per un settore da tempo in crisi. Lo attesta la sequela drammatica delle testate che annunciano la loro chiusura: la liquidazione coatta de il manifesto e prima ancora sospensione delle pubblicazioni di Liberazione e di Terra e di tante altre testate cooperative e locali. Per non parlare delle emittenti locali. Lo stesso destino de l’Unità è appeso ad un filo. Per non parlare del Riformista, del Secolo d’Italia, di Europa, della Padania, di Avvenire. È il pluralismo dell’informazione ad essere minacciato.
Non erano allarmistici gli appelli lanciati nei mesi scorsi dal Comitato per la libertà d’informazione e la difesa del pluralismo, l’organismo unitario che raccoglie voci e sensibilità politiche e culturali diverse (dalla Fnsi a Mediacoop e Federcoop, dalla Cgil alla Federazione dei settimanali cattolici, dalla Cisl all’Associazione art.21 per la libertà d’informazione) sulle oltre 100 testate a rischio chiusura e sui quattromila lavoratori che rischiavano di perdere il posto di lavoro. Una situazione drammatica denunciata con chiarezza già lo scorso anno dai direttori di cento testate al presidente del consiglio, Mario Monti, ai presidenti di Camera e Senato, Fini e Schifani e ai segretari dei partiti rappresentati in Parlamento. E ancora prima nella lettera inviata al capo dello Stato, Giorgio Napolitano che ha fatto propria questa preoccupazione, raccomandando al governo attenzione alla tutela del pluralismo nel rigore.
Una linea condivisa da tutti. Anche dal premier Monti e ribadita dal sottosegretario con delega all’Editoria, Carlo Malinconico che si era impegnato a definire ai primi di gennaio di quest’anno i nuovi criteri, più rigorosi, legati alla vendita in edicola e al numero dei dipendenti assunti a tempo indeterminato. Bonifica, rigore e risorse: questo era l’impegno. Compresa una disponibiltà ad integrare i tagli al Fondo editoria voluti dal ministro Tremonti. Il settore non chiedeva una cifra straordinaria: 180 milioni di euro. Sarebbe costato di più far fronte ai prezzi della crisi del settore.
Ma dalla Finanziaria di Monti non vi è stato alcuna integrazione ai finanziamenti «diretti». Solo l’apertura di una finestra: l’utilizzo del «Fondo Letta», quello a disposizione della presidenza del Consiglio per fronteggiare le emergenze e le calamità naturali, per integrare il Fondo per l’editoria e far fronte alle situazioni di crisi del settore. È rimasta una «finestra» vuota. Non per Radio radicale che si è vista rinnovare la sua convenzione milionaria. Si è atteso il Milleproroghe, ma malgrado gli emendamenti presentati in Parlamento, la risposta non è arrivata. Sino ad oggi non vi è alcuna integrazione ai 53 milioni del Fondo editoria e nessuna indicazione sui nuovi criteri per accedervi.
Vi sarà un decreto ad hoc della presidenza del Consiglio? I tempi sono strettissimi, servono indicazioni precise. Le proposte sono da tempo sul tavolo. Le ha presentate la Federazione della Stampa, con il segretario Franco Siddi, Mediacoop e gli altri soggetti. Il confronto avviato con il sottosegretario Malinconico, è stato ripreso con il successore Paolo Peluffo. Cosa si aspetta? Siamo a metà febbraio. La situazione per il settore si fa sempre più drammatico. Il premier Monti, suo malgrado, rischia di portare a termine quello che non è riuscito a Berlusconi: la chiusura delle voci critiche e autonome, che non rispondono ai grandi potentati economico-finanziari. Se l’obiettivo di questo governo «tecnico» è quello di coniugare equità e sviluppo, può perseguirlo rinunciando a tutelare il pluralismo e quelle voci che alla domanda di equità danno voce.

L’Unità 13.02.12

"Università. Come vincere i nepotismi", di Pietro Greco

Il nepotismo nelle università italiane. Il tema è tornato all’attenzione dei media negli ultimi giorni, per almeno tre casi. Si è iniziato con quello di Michel Martone, il più giovane sottosegretario del governo Monti, che ha dato dello «sfigato» a chi a 28 anni non ha ancora una laurea. Si è poi saputo che Michel, figlio di un noto e influente magistrato, è diventato professore ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università di Siena a 29 anni, con un solo lavoro scientifico pubblicato all’attivo e a seguito di un concorso per due posizioni dove stranamente 6 candidati su 8, con molti titoli in più, si sono ritirati prima dell’esame di selezione. Si è continuato con Silvia Deaglio, figlia del Ministro del Lavoro, Elsa Fornero, e di Mario Deaglio: «colpevole», secondo le implacabili voci delle rete, di essere diventata professore associato nella stessa università, a Torino, dove la madre è professore ordinario di economia e il padre è professore di economia internazionale. Ma Silvia ha (giustamente) sottolineato che lei insegna a medicina, in un dipartimento diverso da quello degli illustri genitori, e che in ogni caso il suo curriculum scientifico – ricco di ben 93 pubblicazioni scientifiche internazionali con peer review – è di assoluto rispetto. Si è chiuso (per ora) con Luigi Frati, docente di Patologia generale, a lungo Preside di Medicina e ora Rettore dell’Università di Roma «La Sapienza». Gian Antonio Stella ha ricordato sul Corriere della Sera che non solo Luigi Frati si vanta di aver «messo in cattedra» 200 professori, ma che nella sua università – anzi nella «sua» Medicina – hanno trovato lavoro la moglie Luciana Rita Angeletti (laureata in Lettere, insegna storia della Medicina); la figlia Paola (laureata in Giurisprudenza, lavora a Medicina Legale) e il figlio Giacomo (medico e da poco ordinario di Medicina e Chirurgia). Gian Antonio Stella insinua che ci sia una qualche relazione tra il sistema di reclutamento dei docenti e lo scarso riconoscimento che «La Sapienza» ha tra le grandi università del mondo.
CASI DIVERSI FRA LORO I tre casi sono molto diversi gli uni dagli altri. Tuttavia è innegabile che l’università italiana è attraversata dal fenomeno del nepotismo, che tende a premiare non i migliori ma i «figli di mamma e papà». Ma l’analisi non può fermarsi a questa denuncia generalizzata. Occorrono almeno tre specificazioni. Primo: il fenomeno è diffuso, con un diverso gradiente, in tutto il paese. Secondo: il fenomeno del nepotismo è più accentuato in alcune aree disciplinari (giurisprudenza, medicina, ingegneria) e molto meno in altre. In particolare è diffuso nelle aree disciplinari in cui la docenza favorisce l’attività professionale. In ambito scientifico sono pressoché immuni da fenomeni di nepotismo matematica, fisica, chimica, biologia. Terzo: nelle aree disciplinari in cui il docente universitario è completamente assorbito dalla docenza e dalla ricerca l’università italiana forma giovani eccellenti. Una capacità che spiega perché i giovani matematici, fisici, chimici, biologi italiani brillano quando vanno all’estero. Sulla base di queste specificazioni, occorre chiedersi se le norme introdotte nel 2009 e nel 2010 da Mariestella Gelmini (commissione nominata per sorteggio; candidati vagliati prima a livello nazionale; sedi diverse per parenti) siano sufficienti a sconfiggere il fenomeno del nepotismo. Si tratta di norme che vanno, certo, nella direzione giusta. Tuttavia occorre prendere in esame l’ incompatibilità tra professione e docenza universitaria. Chi sale in cattedra deve solo insegnare e fare ricerca. Non deve svolgere alcun’altra professione. In questo modo l’interesse alle cordate familiari verrebbe decisamente eroso.

L’Unità 13.02.12

“Università. Come vincere i nepotismi”, di Pietro Greco

Il nepotismo nelle università italiane. Il tema è tornato all’attenzione dei media negli ultimi giorni, per almeno tre casi. Si è iniziato con quello di Michel Martone, il più giovane sottosegretario del governo Monti, che ha dato dello «sfigato» a chi a 28 anni non ha ancora una laurea. Si è poi saputo che Michel, figlio di un noto e influente magistrato, è diventato professore ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università di Siena a 29 anni, con un solo lavoro scientifico pubblicato all’attivo e a seguito di un concorso per due posizioni dove stranamente 6 candidati su 8, con molti titoli in più, si sono ritirati prima dell’esame di selezione. Si è continuato con Silvia Deaglio, figlia del Ministro del Lavoro, Elsa Fornero, e di Mario Deaglio: «colpevole», secondo le implacabili voci delle rete, di essere diventata professore associato nella stessa università, a Torino, dove la madre è professore ordinario di economia e il padre è professore di economia internazionale. Ma Silvia ha (giustamente) sottolineato che lei insegna a medicina, in un dipartimento diverso da quello degli illustri genitori, e che in ogni caso il suo curriculum scientifico – ricco di ben 93 pubblicazioni scientifiche internazionali con peer review – è di assoluto rispetto. Si è chiuso (per ora) con Luigi Frati, docente di Patologia generale, a lungo Preside di Medicina e ora Rettore dell’Università di Roma «La Sapienza». Gian Antonio Stella ha ricordato sul Corriere della Sera che non solo Luigi Frati si vanta di aver «messo in cattedra» 200 professori, ma che nella sua università – anzi nella «sua» Medicina – hanno trovato lavoro la moglie Luciana Rita Angeletti (laureata in Lettere, insegna storia della Medicina); la figlia Paola (laureata in Giurisprudenza, lavora a Medicina Legale) e il figlio Giacomo (medico e da poco ordinario di Medicina e Chirurgia). Gian Antonio Stella insinua che ci sia una qualche relazione tra il sistema di reclutamento dei docenti e lo scarso riconoscimento che «La Sapienza» ha tra le grandi università del mondo.
CASI DIVERSI FRA LORO I tre casi sono molto diversi gli uni dagli altri. Tuttavia è innegabile che l’università italiana è attraversata dal fenomeno del nepotismo, che tende a premiare non i migliori ma i «figli di mamma e papà». Ma l’analisi non può fermarsi a questa denuncia generalizzata. Occorrono almeno tre specificazioni. Primo: il fenomeno è diffuso, con un diverso gradiente, in tutto il paese. Secondo: il fenomeno del nepotismo è più accentuato in alcune aree disciplinari (giurisprudenza, medicina, ingegneria) e molto meno in altre. In particolare è diffuso nelle aree disciplinari in cui la docenza favorisce l’attività professionale. In ambito scientifico sono pressoché immuni da fenomeni di nepotismo matematica, fisica, chimica, biologia. Terzo: nelle aree disciplinari in cui il docente universitario è completamente assorbito dalla docenza e dalla ricerca l’università italiana forma giovani eccellenti. Una capacità che spiega perché i giovani matematici, fisici, chimici, biologi italiani brillano quando vanno all’estero. Sulla base di queste specificazioni, occorre chiedersi se le norme introdotte nel 2009 e nel 2010 da Mariestella Gelmini (commissione nominata per sorteggio; candidati vagliati prima a livello nazionale; sedi diverse per parenti) siano sufficienti a sconfiggere il fenomeno del nepotismo. Si tratta di norme che vanno, certo, nella direzione giusta. Tuttavia occorre prendere in esame l’ incompatibilità tra professione e docenza universitaria. Chi sale in cattedra deve solo insegnare e fare ricerca. Non deve svolgere alcun’altra professione. In questo modo l’interesse alle cordate familiari verrebbe decisamente eroso.

L’Unità 13.02.12

"Milleproroghe’, sui requisiti per la pensione c’è il consenso dei senatori. Ma i soldi?", da La Tecnica della Scuola

Alla Camera l’emendamento che allunga al 31 agosto i contributi utili per lasciare col vecchio sistema è stato rigettato per mancanza di fondi. Nel frattempo sono lievitate le pressioni sindacali. E anche le adesioni politiche. Martedì il decreto arriva in Aula. Riprenderà lunedì 13 febbraio l’esame delle commissioni Bilancio e Affari costituzionali del Senato per decidere il destino degli emendamenti al decreto ‘milleproroghe’. L’arrivo del decreto in Aula è fissato per martedì prossimo e, al momento, anche al Senato viene dato per scontato il ricorso al voto di fiducia da parte del governo. Dovrà poi tornare alla Camera per la terza lettura. Il termine per l’approvazione dell’intero “pacchetto” modificato è il 27 febbraio.
Molte le norme ancora in bilico, su cui anche nel week end i senatori stanno procedendo ad approfondimenti e verifiche. Tra queste figura quella sui 23mila precari abilitati nell’ultimo triennio (ampiamente illustrata in altri articoli pubblicati su questa testata). Ma anche l’auspicato slittamento al 31 agosto prossimo della data utile per far accumulare al personale delle scuola (sono interessate alcune migliaia di docenti e Ata) i contributi utili a lasciare in servizio accedendo alla pensione d’anzianità col sistema pre-Fornero.
Alla Camera la deroga non passò, ma nelle ultime ore le sue quotazioni a Palazzo Madama stanno lievitando. Andando così nella stessa direzione auspicata dal Governo, che il 26 gennaio aveva avallato l’ordine del giorno a favore della norma presentato durante il dibattuto sull’approvazione del ‘milleproroghe’ a Palazzo Chigi.
L’emendamento (il 6.7) ha infatti riscosso il consenso da parte della VII Commissione del Senato. L’indicazione non è di poco conto, perché fa presumere che il sostegno politico alla deroga dovrebbe essere garantito. In sostanza il Pd, promotore della norma, si ritroverà in larga compagnia. Come del resto è accaduto in questi giorni coi sindacati: il 9 febbraio i sindacati Confederali (Cgil, Cisl e Uil) hanno manifestato per la sua approvazione organizzando un presidio in piazza del Pantheon, a pochi passi dal Senato. La Cgil ha fatto sapere che fino all’ultimo si impegnerà “perché le pensioni continuino ad essere garantite dal sistema pubblico della previdenza con criteri di equità che permettano di eliminare il percorso ad ostacoli che la Riforma della Ministra Fornero ha prodotto con l’innalzamento dei requisiti”. Anche gli altri rappresentanti dei lavoratori, come la Gilda e lo Snals, sono subentrate in corso d’opera per dare il sostegno. L’Anief, che su questo punto aveva fatto una proposta formale alla Commissione Cultura della Camera, ha ironicamente auspicato l’approvazione dell’emendamento “firmato dai senatori di Grande Sud, sempre se gli amici della Lega Nord non votino contro perché i docenti sono per lo più meridionali”.
Bisogna a questo punto però vedere se l’emendamento arriverà in Aula. Molto dipenderà anche dal ruolo che potrebbe assumere sulla vicenda il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo. Anche in questo caso occorrerà però superare lo scoglio delle Commissioni Bilancio e Affari costituzionali, che al pari della corrispettiva alla Camera potrebbe porre il suo veto. La speranza è che negli ultimi giorni siano state individuate le “voci” da cui estrapolare i fondi utili a finanziare il provvedimento. L’impresa non è facile: serve una cifra vicina ai 100 milioni di euro.

La Tecnica della Scuola 13.02.12

“Milleproroghe’, sui requisiti per la pensione c’è il consenso dei senatori. Ma i soldi?”, da La Tecnica della Scuola

Alla Camera l’emendamento che allunga al 31 agosto i contributi utili per lasciare col vecchio sistema è stato rigettato per mancanza di fondi. Nel frattempo sono lievitate le pressioni sindacali. E anche le adesioni politiche. Martedì il decreto arriva in Aula. Riprenderà lunedì 13 febbraio l’esame delle commissioni Bilancio e Affari costituzionali del Senato per decidere il destino degli emendamenti al decreto ‘milleproroghe’. L’arrivo del decreto in Aula è fissato per martedì prossimo e, al momento, anche al Senato viene dato per scontato il ricorso al voto di fiducia da parte del governo. Dovrà poi tornare alla Camera per la terza lettura. Il termine per l’approvazione dell’intero “pacchetto” modificato è il 27 febbraio.
Molte le norme ancora in bilico, su cui anche nel week end i senatori stanno procedendo ad approfondimenti e verifiche. Tra queste figura quella sui 23mila precari abilitati nell’ultimo triennio (ampiamente illustrata in altri articoli pubblicati su questa testata). Ma anche l’auspicato slittamento al 31 agosto prossimo della data utile per far accumulare al personale delle scuola (sono interessate alcune migliaia di docenti e Ata) i contributi utili a lasciare in servizio accedendo alla pensione d’anzianità col sistema pre-Fornero.
Alla Camera la deroga non passò, ma nelle ultime ore le sue quotazioni a Palazzo Madama stanno lievitando. Andando così nella stessa direzione auspicata dal Governo, che il 26 gennaio aveva avallato l’ordine del giorno a favore della norma presentato durante il dibattuto sull’approvazione del ‘milleproroghe’ a Palazzo Chigi.
L’emendamento (il 6.7) ha infatti riscosso il consenso da parte della VII Commissione del Senato. L’indicazione non è di poco conto, perché fa presumere che il sostegno politico alla deroga dovrebbe essere garantito. In sostanza il Pd, promotore della norma, si ritroverà in larga compagnia. Come del resto è accaduto in questi giorni coi sindacati: il 9 febbraio i sindacati Confederali (Cgil, Cisl e Uil) hanno manifestato per la sua approvazione organizzando un presidio in piazza del Pantheon, a pochi passi dal Senato. La Cgil ha fatto sapere che fino all’ultimo si impegnerà “perché le pensioni continuino ad essere garantite dal sistema pubblico della previdenza con criteri di equità che permettano di eliminare il percorso ad ostacoli che la Riforma della Ministra Fornero ha prodotto con l’innalzamento dei requisiti”. Anche gli altri rappresentanti dei lavoratori, come la Gilda e lo Snals, sono subentrate in corso d’opera per dare il sostegno. L’Anief, che su questo punto aveva fatto una proposta formale alla Commissione Cultura della Camera, ha ironicamente auspicato l’approvazione dell’emendamento “firmato dai senatori di Grande Sud, sempre se gli amici della Lega Nord non votino contro perché i docenti sono per lo più meridionali”.
Bisogna a questo punto però vedere se l’emendamento arriverà in Aula. Molto dipenderà anche dal ruolo che potrebbe assumere sulla vicenda il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo. Anche in questo caso occorrerà però superare lo scoglio delle Commissioni Bilancio e Affari costituzionali, che al pari della corrispettiva alla Camera potrebbe porre il suo veto. La speranza è che negli ultimi giorni siano state individuate le “voci” da cui estrapolare i fondi utili a finanziare il provvedimento. L’impresa non è facile: serve una cifra vicina ai 100 milioni di euro.

La Tecnica della Scuola 13.02.12

"La falsa leggenda dei ragazzi bamboccioni", di Ilvo Diamanti

Non è chiaro cosa sia successo ai giovani. Divenuti, all´improvviso, impopolari. Bersaglio di battute acide e ironiche. Da quando, nel 2007, Tommaso Padoa-Schioppa, allora ministro dell´Economia e delle Finanze nel governo Prodi, invitò le famiglie a mandarli fuori di casa.I “bamboccioni”. Incapaci di crescere, di assumersi responsabilità, di conquistarsi l´autonomia. I giovani. Fino a ieri simbolo del futuro, del progresso, del domani che è già qui. Motore dell´economia: consumo e consumatori. Sono passati di moda, molto in fretta. Sulla scia di Padoa-Schioppa, nelle ultime settimane, altri “professori” e altri “tecnici di governo” li hanno presi di punta. Un vice-ministro ha definito “sfigati” gli studenti – o sedicenti tali – che, a 28 anni, non si sono ancora laureati. Mentre il Presidente del Consiglio ha affermato che i giovani devono scordarsi il lavoro fisso a vita. Perché, fra l´altro, è “monotono”. E la ministra Cancellieri ha recriminato sui giovani che pretendono “il posto fisso nella stessa città, vicino a mamma e papà”.
Così i giovani hanno smesso di rappresentare il “futuro” e sono divenuti simbolo della resistenza al cambiamento e alla modernizzazione. Al pari di altre categorie. I tassisti e i notai. I pensionati e le pensioni. I sindacati e il famigerato articolo 18. I “politici”.
I giovani: sono invecchiati in fretta, nella rappresentazione pubblica. Un freno alla modernizzazione. Nel discorso tecnocratico. Ma anche nella retorica mediale, trainata dai talk show e dall´infotainment. Le loro proteste, nelle scuole e nelle piazze, per questo, vengono etichettate come battaglie di retroguardia. I giovani: gli irriducibili del posto fisso. Eredi del sistema di garanzie ottenute negli anni Settanta. Divenute, oggi, vincoli.
Tuttavia, non è chiaro di cosa siano, davvero, responsabili. Di quali colpe si siano macchiati. I giovani. A guardare dati e statistiche, a leggere le loro storie, molte “accuse” nei loro riguardi appaiono, francamente, prive di fondamento.
I giovani devono scordarsi la monotonia del posto fisso, si dice. E il 30% dei giovani, in effetti, vorrebbe un lavoro sicuro (Demos-Coop, maggio 2011. Un dato analogo a quello proposto da Mannheimer ieri sul Corriere). Ciò significa, però, che il rimanente 70% antepone altri requisiti. Non ritiene il lavoro fisso una priorità. Peraltro il 65% dei giovani occupati (Demos-Coop, maggio 2011) considera il proprio lavoro “precario” oppure “temporaneo”. E il 60% pensa che, fra uno-due anni, avrà cambiato lavoro.
D´altronde, il “posto fisso”, per loro, di fatto non esiste. Anzi, per molti giovani, non esiste neppure il lavoro. L´Istat, nelle settimane scorse, ha stimato il tasso di disoccupazione giovanile oltre il 30%. Il più alto dell´Eurozona. (Ma è molto più elevato tra le donne e sale al 50% nel Mezzogiorno). Le statistiche ufficiali, inoltre, valutano il peso dei lavoratori atipici e irregolari oltre il 30% tra i giovani (e intorno al 15% nella popolazione). Ma il fenomeno più significativo è riassunto dai “Neet” (acronimo della definizione inglese: Not in Education, Employment or Training). Quelli che “non” lavorano e “non” studiano. Sono oltre 2 milioni e 200 mila. Sospesi. Sulla soglia, fra studio e lavoro. Senza riuscire a entrare né di qua né di là.
Difficile considerarli “partigiani del posto fisso”. Visto che di fisso hanno solo la precarietà. Ma anche l´indisponibilità a lasciare la famiglia e la casa di origine mi pare una leggenda.
Tutti quelli che possono, durante il percorso universitario, se ne vanno lontano. Svolgono un periodo di studi (utilizzando il programma Erasmus) in Università straniere. Svolgono stages, dottorati, corsi di formazione e perfezionamento in diverse città italiane, europee. Americane. D´altronde, 6 persone su 10 ritengono, ragionevolmente, che per ottenere un lavoro adeguato alle proprie competenze e per fare carriera, i giovani debbano andarsene dall´Italia (Demos-Coop, maggio 2011). Una convinzione che cresce particolarmente fra i più giovani. Alcuni anni fa (Demos 2004), oltre quattro giovani su dieci, residenti nel Mezzogiorno, si dicevano pronti a trasferirsi nel Nord o all´estero, pur di trovare lavoro. Difficile trattare da “bamboccioni” i giovani italiani. Che, al contrario, si sono ormai abituati a una vita da precari, al lavoro “temporaneo”. Ma proprio per questo utilizzano la famiglia e la casa di famiglia come una risorsa. Un salvagente. Una stazione di passaggio.
Peraltro, non è facile staccare i giovani da casa, allontanarli dalla famiglia, in un Paese “immobiliare” come il nostro. Dove quasi 8 famiglie su 10 hanno la casa in proprietà. E il 20% ne ha almeno due. Dove il mercato degli affitti è limitato e caro. Basti pensare al costo di un posto letto per gli studenti universitari.
Per questo non è chiaro perché a “liberare” l´Italia dal peso del passato debbano essere proprio loro. I giovani. Quegli “sfigati”.
Come se la società e il mercato del lavoro fossero davvero “aperti”, regolati dal merito. Non è così. Lo dimostrano molte ricerche. Dalle quali emerge che, secondo 7 italiani su 10, le diseguaglianze sociali dipendono, soprattutto, dalla famiglia e dalle amicizie (Demos per Unipolis, gennaio 2012). D´altronde, lo pensano anche gli imprenditori, cioè, i “datori” di lavoro (Demos per Confindustria, gennaio 2010). I quali, per primi, tendono a riprodursi per via familiare. (Come le “classi dirigenti”, d´altronde: professori universitari, giornalisti, politici, liberi professionisti….).
Perché prendersela con i giovani, “questi” giovani? In via di estinzione, dal punto di vista demografico. Perché non hanno futuro: 8 persone su 10 si dicono certe che i giovani non miglioreranno la posizione sociale dei loro genitori. Ancora: il 50% dei giovani (ma di più, tra gli studenti universitari) pensa che sia necessario stipulare un´assicurazione integrativa, perché non disporrà mai di una pensione (Demos per Unipolis, gennaio 2012).
Questi giovani “sfigati”. Senza pensione. Per molto tempo, per sempre, faranno un lavoro atipico e precario. Sicuramente non “monotono”. E, per pagare il debito pubblico accumulato da decenni, dovranno sopportare grandi sacrifici. Per molto tempo ancora.
Forse, il motivo di tanto accanimento è proprio questo. Perché se il mercato del lavoro è chiuso, il debito pubblico devastante, il sistema pensionistico in fallimento, il futuro dei giovani un buco nero, non è per colpa loro, ma delle generazioni precedenti. Dei loro padri e dei loro nonni. Della generazione di Monti, Fornero e Cancellieri. Della “mia” generazione. Forse è per questo che ce la prendiamo tanto con i giovani.
Per dimenticare e far dimenticare che è colpa nostra.

La Repubblica 13.02.12

“La falsa leggenda dei ragazzi bamboccioni”, di Ilvo Diamanti

Non è chiaro cosa sia successo ai giovani. Divenuti, all´improvviso, impopolari. Bersaglio di battute acide e ironiche. Da quando, nel 2007, Tommaso Padoa-Schioppa, allora ministro dell´Economia e delle Finanze nel governo Prodi, invitò le famiglie a mandarli fuori di casa.I “bamboccioni”. Incapaci di crescere, di assumersi responsabilità, di conquistarsi l´autonomia. I giovani. Fino a ieri simbolo del futuro, del progresso, del domani che è già qui. Motore dell´economia: consumo e consumatori. Sono passati di moda, molto in fretta. Sulla scia di Padoa-Schioppa, nelle ultime settimane, altri “professori” e altri “tecnici di governo” li hanno presi di punta. Un vice-ministro ha definito “sfigati” gli studenti – o sedicenti tali – che, a 28 anni, non si sono ancora laureati. Mentre il Presidente del Consiglio ha affermato che i giovani devono scordarsi il lavoro fisso a vita. Perché, fra l´altro, è “monotono”. E la ministra Cancellieri ha recriminato sui giovani che pretendono “il posto fisso nella stessa città, vicino a mamma e papà”.
Così i giovani hanno smesso di rappresentare il “futuro” e sono divenuti simbolo della resistenza al cambiamento e alla modernizzazione. Al pari di altre categorie. I tassisti e i notai. I pensionati e le pensioni. I sindacati e il famigerato articolo 18. I “politici”.
I giovani: sono invecchiati in fretta, nella rappresentazione pubblica. Un freno alla modernizzazione. Nel discorso tecnocratico. Ma anche nella retorica mediale, trainata dai talk show e dall´infotainment. Le loro proteste, nelle scuole e nelle piazze, per questo, vengono etichettate come battaglie di retroguardia. I giovani: gli irriducibili del posto fisso. Eredi del sistema di garanzie ottenute negli anni Settanta. Divenute, oggi, vincoli.
Tuttavia, non è chiaro di cosa siano, davvero, responsabili. Di quali colpe si siano macchiati. I giovani. A guardare dati e statistiche, a leggere le loro storie, molte “accuse” nei loro riguardi appaiono, francamente, prive di fondamento.
I giovani devono scordarsi la monotonia del posto fisso, si dice. E il 30% dei giovani, in effetti, vorrebbe un lavoro sicuro (Demos-Coop, maggio 2011. Un dato analogo a quello proposto da Mannheimer ieri sul Corriere). Ciò significa, però, che il rimanente 70% antepone altri requisiti. Non ritiene il lavoro fisso una priorità. Peraltro il 65% dei giovani occupati (Demos-Coop, maggio 2011) considera il proprio lavoro “precario” oppure “temporaneo”. E il 60% pensa che, fra uno-due anni, avrà cambiato lavoro.
D´altronde, il “posto fisso”, per loro, di fatto non esiste. Anzi, per molti giovani, non esiste neppure il lavoro. L´Istat, nelle settimane scorse, ha stimato il tasso di disoccupazione giovanile oltre il 30%. Il più alto dell´Eurozona. (Ma è molto più elevato tra le donne e sale al 50% nel Mezzogiorno). Le statistiche ufficiali, inoltre, valutano il peso dei lavoratori atipici e irregolari oltre il 30% tra i giovani (e intorno al 15% nella popolazione). Ma il fenomeno più significativo è riassunto dai “Neet” (acronimo della definizione inglese: Not in Education, Employment or Training). Quelli che “non” lavorano e “non” studiano. Sono oltre 2 milioni e 200 mila. Sospesi. Sulla soglia, fra studio e lavoro. Senza riuscire a entrare né di qua né di là.
Difficile considerarli “partigiani del posto fisso”. Visto che di fisso hanno solo la precarietà. Ma anche l´indisponibilità a lasciare la famiglia e la casa di origine mi pare una leggenda.
Tutti quelli che possono, durante il percorso universitario, se ne vanno lontano. Svolgono un periodo di studi (utilizzando il programma Erasmus) in Università straniere. Svolgono stages, dottorati, corsi di formazione e perfezionamento in diverse città italiane, europee. Americane. D´altronde, 6 persone su 10 ritengono, ragionevolmente, che per ottenere un lavoro adeguato alle proprie competenze e per fare carriera, i giovani debbano andarsene dall´Italia (Demos-Coop, maggio 2011). Una convinzione che cresce particolarmente fra i più giovani. Alcuni anni fa (Demos 2004), oltre quattro giovani su dieci, residenti nel Mezzogiorno, si dicevano pronti a trasferirsi nel Nord o all´estero, pur di trovare lavoro. Difficile trattare da “bamboccioni” i giovani italiani. Che, al contrario, si sono ormai abituati a una vita da precari, al lavoro “temporaneo”. Ma proprio per questo utilizzano la famiglia e la casa di famiglia come una risorsa. Un salvagente. Una stazione di passaggio.
Peraltro, non è facile staccare i giovani da casa, allontanarli dalla famiglia, in un Paese “immobiliare” come il nostro. Dove quasi 8 famiglie su 10 hanno la casa in proprietà. E il 20% ne ha almeno due. Dove il mercato degli affitti è limitato e caro. Basti pensare al costo di un posto letto per gli studenti universitari.
Per questo non è chiaro perché a “liberare” l´Italia dal peso del passato debbano essere proprio loro. I giovani. Quegli “sfigati”.
Come se la società e il mercato del lavoro fossero davvero “aperti”, regolati dal merito. Non è così. Lo dimostrano molte ricerche. Dalle quali emerge che, secondo 7 italiani su 10, le diseguaglianze sociali dipendono, soprattutto, dalla famiglia e dalle amicizie (Demos per Unipolis, gennaio 2012). D´altronde, lo pensano anche gli imprenditori, cioè, i “datori” di lavoro (Demos per Confindustria, gennaio 2010). I quali, per primi, tendono a riprodursi per via familiare. (Come le “classi dirigenti”, d´altronde: professori universitari, giornalisti, politici, liberi professionisti….).
Perché prendersela con i giovani, “questi” giovani? In via di estinzione, dal punto di vista demografico. Perché non hanno futuro: 8 persone su 10 si dicono certe che i giovani non miglioreranno la posizione sociale dei loro genitori. Ancora: il 50% dei giovani (ma di più, tra gli studenti universitari) pensa che sia necessario stipulare un´assicurazione integrativa, perché non disporrà mai di una pensione (Demos per Unipolis, gennaio 2012).
Questi giovani “sfigati”. Senza pensione. Per molto tempo, per sempre, faranno un lavoro atipico e precario. Sicuramente non “monotono”. E, per pagare il debito pubblico accumulato da decenni, dovranno sopportare grandi sacrifici. Per molto tempo ancora.
Forse, il motivo di tanto accanimento è proprio questo. Perché se il mercato del lavoro è chiuso, il debito pubblico devastante, il sistema pensionistico in fallimento, il futuro dei giovani un buco nero, non è per colpa loro, ma delle generazioni precedenti. Dei loro padri e dei loro nonni. Della generazione di Monti, Fornero e Cancellieri. Della “mia” generazione. Forse è per questo che ce la prendiamo tanto con i giovani.
Per dimenticare e far dimenticare che è colpa nostra.

La Repubblica 13.02.12