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"Dramma carceri nella paralisi “tecnica” e politica", di Vladimiro Zagrebelsky

L’ attenzione alla gravità delle condizioni di vita in carcere viene spesso richiamata da episodi clamorosi o tragici, come le morti in carcere e in particolare i suicidi di detenuti. Non meno significativi i suicidi compiuti da agenti di custodia, poiché anch’essi sono spia del clima carcerario troppo degradato e teso per essere sopportato. Ma l’occasionale attenzione dell’opinione pubblica presto svanisce, mentre il problema resta, giorno per giorno, ormai da troppi anni.
Nelle carceri italiane i detenuti sono ora circa 68.000 e sono ristretti in prigioni che potrebbero riceverne solo 45.000. Il sovraffollamento è la principale ragione delle condizioni inaccettabili in cui la detenzione ha luogo, sia per coloro che sono in espiazione di una pena definitiva, sia per le persone che sono detenute per ragioni cautelari nel corso del procedimento. Condizioni inaccettabili in linea generale, anche se qua e là, per le migliori condizioni delle strutture e le iniziative dei direttori degli istituti, la situazione è migliore e non drammatica. Ma si tratta di eccezioni, cosicché è ormai evidente che il problema è sistemico e gravissimo. Lo ha ripetutamente detto il presidente della Repubblica. Lo ha detto in Parlamento, ed anche uscendo da visite nelle carceri, il ministro della Giustizia.
Le ricerche effettuate sulle dimensioni e ragioni del fenomeno dei suicidi in carcere sembrano indicare che il sovraffollamento è solo uno dei fattori incentivanti, mentre a esso si aggiungono altri elementi che concorrono ad aumentare la tensione interna all’istituto penitenziario, nei rapporti tra detenuti e tra i detenuti e il personale penitenziario. Ma il sovraffollamento impone al personale un sovraccarico di lavoro e lo rende più penoso; le strutture sono messe a dura prova e la loro utilizzabilità è ridotta; l’assistenza medica risulta più difficile e meno tempestiva, quella psicologica in particolare. Il sovraffollamento non è solo gravoso in sé, ma è causa di altri motivi di sofferenza aggiuntiva.
Si può continuare così? Sembrerebbe di no, poiché c’è un’evidente contraddizione con la Costituzione che vieta le pene contrarie al senso di umanità, con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibiscono le pene e i trattamenti inumani o degradanti. Tuttavia nulla di veramente risolutivo si muove. Il decreto cosiddetto «svuota carceri» (che il Senato dovrebbe approvare definitivamente tra qualche giorno) porta da dodici a diciotto mesi il periodo finale della detenzione espiabile in detenzione domiciliare. Poco più di 3000 detenuti potrebbero essere ammessi al beneficio. Il precedente termine di dodici mesi era stato previsto da una legge del 2010 che fu chiamata «sfolla carceri». Né uno slogan, né l’altro si rivela utile a sostituire la realtà alle speranze o ai messaggi ottimistici. I risultati infatti sono modesti, se raffrontati alle dimensioni del problema: nelle carceri si affollano 23.000 detenuti di troppo. Di troppo rispetto alla capienza e alle possibilità di una vita decente da parte di chi, privato della libertà, non lo è degli altri diritti e soprattutto non del diritto al rispetto della dignità. Non invece di troppo in assoluto, poiché il rapporto detenuti/popolazione in Italia non è significativamente diverso da quello di Paesi europei comparabili ed anzi è spesso inferiore. Si tratta di un fattore che indica che la prospettiva spesso avanzata di risolvere il problema mediante l’eliminazione dalle leggi di molte ipotesi di reato è illusoria. Si può certo depenalizzare un certo numero di reati, ma non sono questi quelli per cui si scontano effettivamente pene detentive. Le sanzioni alternative al carcere stentano ad assumere una vera incidenza nel sistema. E i programmi di aumento dei posti in carcere non sono realizzabili in tempi brevi, mentre ora urge metter fine a un’emergenza che è tale ed è insopportabile.
Negli Stati Uniti il sovraccarico delle carceri – con tutto ciò che esso comporta – è già stato riconosciuto come causa di trattamento «crudele e inusuale» e quindi contrario alla Costituzione. La Suprema Corte federale ha quindi disposto l’anno scorso che la California riduca di 40.000 il numero dei detenuti. Una sentenza e una iniziativa certamente eccezionale, ma resa obbligata dalla eccezionale gravità della situazione creata dal sovraffollamento.
In Italia è disponibile una sola misura: l’indulto. L’indulto è uno sconto di pena rispetto a quella stabilita dal giudice e si applica a tutti i condannati per i reati che il provvedimento di indulto considera (escludendo la applicazione per certi reati o per i condannati recidivi). Si può immaginare che un indulto di un anno porterebbe alla scarcerazione immediata di circa diecimila detenuti. Certo uno sconto di pena congegnato come l’indulto è per certi versi irragionevole rispetto ai criteri stabiliti dalla legge per la punizione di ciascun reato. Ma, come in passato, la logica che dovrebbe spingere ad una simile iniziativa legislativa risponde solo alla necessità di interrompere il protrarsi di una situazione oggettivamente intollerabile. E per analoga ragione all’indulto dovrebbe essere unita anche un’amnistia per un certo numero di reati selezionati tra quelli minori e di minor allarme sociale. L’amnistia, che estingue il reato, ridurrebbe la massa di 3,4 milioni di procedimenti pendenti e largamente destinati comunque alla prescrizione. Anch’essa peraltro contribuirebbe a ridurre il numero dei detenuti, che spesso scontano pene per reati minori unitamente a quelle per i reati più gravi.
In mancanza di alternative rapidamente praticabili ed efficaci, rifiutare la soluzione dell’indulto significa che si è pronti a tollerarla. Purtroppo è ciò che avviene. Il governo, alle prese con problemi di natura economica urgenti e costretto ogni giorno ad osservare il sismografo dei malumori e degli interessi dei partiti che lo sostengono in Parlamento, rinvia ad una iniziativa parlamentare. Dal Parlamento, ove sarebbe necessaria una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, non arrivano proposte, perché il partito che dimostrasse di essere disponibile a sconti di pena sarebbe subito aggredito dai partiti all’opposizione, che griderebbero al tradimento del diritto dei cittadini alla sicurezza. E, in prossimità di elezioni, il rischio di pagare un prezzo elettorale è reale.
Fermo quindi il «governo tecnico» e ferma la «politica», che si ritrae da un terreno in cui i soli radicali sembrano impegnati a mantenere vivo il dibattito sui temi dei diritti e delle libertà; temi che, essendo controversi, sono scomparsi dall’orizzonte delle iniziative altrui. Perché l’emergenza economica e finanziaria in cui l’Italia si trova, tra i tanti pesi che impone, provoca anche il grave silenzio sulle questioni di cittadinanza che, sebbene (sanamente) divisive, restano inevitabili per rendere viva e civile la nostra società.

La Stampa 12.02.12

“Dramma carceri nella paralisi “tecnica” e politica”, di Vladimiro Zagrebelsky

L’ attenzione alla gravità delle condizioni di vita in carcere viene spesso richiamata da episodi clamorosi o tragici, come le morti in carcere e in particolare i suicidi di detenuti. Non meno significativi i suicidi compiuti da agenti di custodia, poiché anch’essi sono spia del clima carcerario troppo degradato e teso per essere sopportato. Ma l’occasionale attenzione dell’opinione pubblica presto svanisce, mentre il problema resta, giorno per giorno, ormai da troppi anni.
Nelle carceri italiane i detenuti sono ora circa 68.000 e sono ristretti in prigioni che potrebbero riceverne solo 45.000. Il sovraffollamento è la principale ragione delle condizioni inaccettabili in cui la detenzione ha luogo, sia per coloro che sono in espiazione di una pena definitiva, sia per le persone che sono detenute per ragioni cautelari nel corso del procedimento. Condizioni inaccettabili in linea generale, anche se qua e là, per le migliori condizioni delle strutture e le iniziative dei direttori degli istituti, la situazione è migliore e non drammatica. Ma si tratta di eccezioni, cosicché è ormai evidente che il problema è sistemico e gravissimo. Lo ha ripetutamente detto il presidente della Repubblica. Lo ha detto in Parlamento, ed anche uscendo da visite nelle carceri, il ministro della Giustizia.
Le ricerche effettuate sulle dimensioni e ragioni del fenomeno dei suicidi in carcere sembrano indicare che il sovraffollamento è solo uno dei fattori incentivanti, mentre a esso si aggiungono altri elementi che concorrono ad aumentare la tensione interna all’istituto penitenziario, nei rapporti tra detenuti e tra i detenuti e il personale penitenziario. Ma il sovraffollamento impone al personale un sovraccarico di lavoro e lo rende più penoso; le strutture sono messe a dura prova e la loro utilizzabilità è ridotta; l’assistenza medica risulta più difficile e meno tempestiva, quella psicologica in particolare. Il sovraffollamento non è solo gravoso in sé, ma è causa di altri motivi di sofferenza aggiuntiva.
Si può continuare così? Sembrerebbe di no, poiché c’è un’evidente contraddizione con la Costituzione che vieta le pene contrarie al senso di umanità, con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibiscono le pene e i trattamenti inumani o degradanti. Tuttavia nulla di veramente risolutivo si muove. Il decreto cosiddetto «svuota carceri» (che il Senato dovrebbe approvare definitivamente tra qualche giorno) porta da dodici a diciotto mesi il periodo finale della detenzione espiabile in detenzione domiciliare. Poco più di 3000 detenuti potrebbero essere ammessi al beneficio. Il precedente termine di dodici mesi era stato previsto da una legge del 2010 che fu chiamata «sfolla carceri». Né uno slogan, né l’altro si rivela utile a sostituire la realtà alle speranze o ai messaggi ottimistici. I risultati infatti sono modesti, se raffrontati alle dimensioni del problema: nelle carceri si affollano 23.000 detenuti di troppo. Di troppo rispetto alla capienza e alle possibilità di una vita decente da parte di chi, privato della libertà, non lo è degli altri diritti e soprattutto non del diritto al rispetto della dignità. Non invece di troppo in assoluto, poiché il rapporto detenuti/popolazione in Italia non è significativamente diverso da quello di Paesi europei comparabili ed anzi è spesso inferiore. Si tratta di un fattore che indica che la prospettiva spesso avanzata di risolvere il problema mediante l’eliminazione dalle leggi di molte ipotesi di reato è illusoria. Si può certo depenalizzare un certo numero di reati, ma non sono questi quelli per cui si scontano effettivamente pene detentive. Le sanzioni alternative al carcere stentano ad assumere una vera incidenza nel sistema. E i programmi di aumento dei posti in carcere non sono realizzabili in tempi brevi, mentre ora urge metter fine a un’emergenza che è tale ed è insopportabile.
Negli Stati Uniti il sovraccarico delle carceri – con tutto ciò che esso comporta – è già stato riconosciuto come causa di trattamento «crudele e inusuale» e quindi contrario alla Costituzione. La Suprema Corte federale ha quindi disposto l’anno scorso che la California riduca di 40.000 il numero dei detenuti. Una sentenza e una iniziativa certamente eccezionale, ma resa obbligata dalla eccezionale gravità della situazione creata dal sovraffollamento.
In Italia è disponibile una sola misura: l’indulto. L’indulto è uno sconto di pena rispetto a quella stabilita dal giudice e si applica a tutti i condannati per i reati che il provvedimento di indulto considera (escludendo la applicazione per certi reati o per i condannati recidivi). Si può immaginare che un indulto di un anno porterebbe alla scarcerazione immediata di circa diecimila detenuti. Certo uno sconto di pena congegnato come l’indulto è per certi versi irragionevole rispetto ai criteri stabiliti dalla legge per la punizione di ciascun reato. Ma, come in passato, la logica che dovrebbe spingere ad una simile iniziativa legislativa risponde solo alla necessità di interrompere il protrarsi di una situazione oggettivamente intollerabile. E per analoga ragione all’indulto dovrebbe essere unita anche un’amnistia per un certo numero di reati selezionati tra quelli minori e di minor allarme sociale. L’amnistia, che estingue il reato, ridurrebbe la massa di 3,4 milioni di procedimenti pendenti e largamente destinati comunque alla prescrizione. Anch’essa peraltro contribuirebbe a ridurre il numero dei detenuti, che spesso scontano pene per reati minori unitamente a quelle per i reati più gravi.
In mancanza di alternative rapidamente praticabili ed efficaci, rifiutare la soluzione dell’indulto significa che si è pronti a tollerarla. Purtroppo è ciò che avviene. Il governo, alle prese con problemi di natura economica urgenti e costretto ogni giorno ad osservare il sismografo dei malumori e degli interessi dei partiti che lo sostengono in Parlamento, rinvia ad una iniziativa parlamentare. Dal Parlamento, ove sarebbe necessaria una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, non arrivano proposte, perché il partito che dimostrasse di essere disponibile a sconti di pena sarebbe subito aggredito dai partiti all’opposizione, che griderebbero al tradimento del diritto dei cittadini alla sicurezza. E, in prossimità di elezioni, il rischio di pagare un prezzo elettorale è reale.
Fermo quindi il «governo tecnico» e ferma la «politica», che si ritrae da un terreno in cui i soli radicali sembrano impegnati a mantenere vivo il dibattito sui temi dei diritti e delle libertà; temi che, essendo controversi, sono scomparsi dall’orizzonte delle iniziative altrui. Perché l’emergenza economica e finanziaria in cui l’Italia si trova, tra i tanti pesi che impone, provoca anche il grave silenzio sulle questioni di cittadinanza che, sebbene (sanamente) divisive, restano inevitabili per rendere viva e civile la nostra società.

La Stampa 12.02.12

"Uno spettro si aggira", di Claudio Sardo

È una tragedia europea quella che si sta consumando in Grecia. Nel senso che gli insopportabili costi sociali, infilitti ai cittadini, sono il prezzo delle fallimentari politiche dell’Unione all’insegna del rigore senza crescita. Cambiare rotta è una necessità vitale. L’Italia può essere un fattore di cambiamento. E il successo di Monti a Washington non è estraneo a questa aspettativa, oggi condivisa da Obama.
Il governo dei tecnici è nato con una duplice missione: affrontare l’emergenza economica e restituire al Paese quel profilo europeista che, prima di essere la sua vocazione, è il suo interesse strategico. Si tratta di obiettivi tra loro connessi.
Perché l’Italia non si salverà facendo i «compiti a casa». Si salverà solo con l’Europa, se l’Europa deciderà di giocare come entità unitaria la partita della governance globale. Ciò non vuol dire che i «compiti» non vanno fatti. Per i Paesi più indebitati la serietà dei comportamenti e la capacità di tenere le redini
del bilancio è una credenziale importante presso le opinioni pubbliche esterne. Ma fare i «compiti» non può voler dire convalidare e perpetuare le politiche che hannospinto l’Europa verso la depressione e gli squilibri crescenti. L’Europa, guidata dal centrodestra e innanzitutto dalla cancelliera Merkel, sta curando la crisi con le stesse medicine che da almeno due decenni vengono somministrate a chiunque produca deficit: riduzione dei salari e dei diritti del lavoro, tagli alle pensioni e alla spesa sociale, privatizzazioni, flessibilità, compressione degli investimenti. Non che spendere in deficit sia di per sè progressista. Anzi, può essere un indice di diseguaglianza, scaricando i costi sulle generazioni successive. Investire, tuttavia, è necessario se non si vuole consegnare ai giovani una società in declino, senza leve su cui poggiare una ripartenza. Forse bisognerebbe recuperare con più coraggio la lezione di Keynes, visto che il liberismo egemone non è stato affatto detronizzato nonostante ci abbia sprofondato nella crisi.
L’Italia non è la Grecia. L’Italia è troppo grande per fallire. Ma è anche troppo grande per essere salvata. La Grecia resta uno spettro in Europa. Innanzitutto per la sofferenza dei ceti più deboli e delle classi medie ridotte sul lastrico. Due anni fa sarebbero bastati 40 miliardi di euro per «ristrutturare» il debito greco (eufemismo per indicare il default controllato). Oggi il costo per tutti i Paesi dell’Unione è moltiplicato. E già abbiamo pagato dieci, cento volte ciò non si è voluto dare per tempo. Intanto però lo squilibrio della bilancia dei pagamenti (il vero fattore di crisi dell’Europa: altro che il debito pubblico!) è aumentato, e in primo luogo la Germania ha visto crescere la propria posizione a discapito dei Paesi mediterranei. Senza un’integrazione politica dell’Unione, che operi in direzione di un riequilibrio economico, commerciale, e anche infrastrutturale, non ci sarà salvezza per l’Europa e per l’euro. Non basterà neppure la nuova politica monetaria, opportunamente adottata da Draghi alla Bce per assicurare maggiore liquidità al sistema.
La calorosa accoglienza di Monti da parte di Obama, dunque, non va letta soltanto come un incoraggiamento dopo la fine del ciclo berlusconiano. È anche un messaggio all’Europa. L’Italia è uno dei Paesi fondatori e ha interesse a spingere per un mutamento di equilibri e di strategie. Ma pure gli Stati Uniti vogliono che l’Europa torni a crescere ed esca dalla spirale austerità-depressione. Se il mercato europeo non darà segni positivi, la stessa ripresa americana si indebolirà e il «new deal» di Obama rischierà il naufragio. Monti è consapevole di questo ruolo. Ma anche dei limiti che penalizzano il nostro Paese. L’impresa sarà possibile solo se cambieranno i paradigmi dell’ultimo ventennio, a cominciare dai fattori che hanno prodotto l’aumento della forbice tra ricchezza e povertà e il rafforzamento dei poteri di alcune oligarchie economiche. L’impresa ha bisogno di un nuovo «patto sociale». E il premier commetterebbe un tragico errore se, in nome di un obiettivo imposto dall’esterno sulla base della vecchia ortodossia, sacrificasse oggi la convergenza delle forze sindacali e sociali. La trattativa sul mercato del lavoro, in questo senso, ha un valore simbolico. Siccome è chiaro a tutti che modificare l’articolo 18 non vale assolutamente nulla in termini di competitività del Paese o di attrazione degli investimenti o di fiducia per le imprese, il governo deve tenersi strette le parti sociale, richiamarle alla responsabilità e costruire con loro un’intesa. Come fece Ciampi nel ’93. Il patto vale più dello stesso risultato. Proprio perché il voto finale per l’Italia non verrà dai «compiti a casa» ma dalla capacità di spingere l’Europa verso una nuova politica.
E c’è ancora una questione cruciale, che ha anch’essa un peso materiale assai superiore all’articolo 18 e che invece viene colpevolmente trascurata: la lotta alla criminalità organizzata e alle aree grigie, che segnano la contiguità tra funzioni pubbliche e mercato. La lotta senza quartiere alle mafie è, questo sì, il compito a casa che il governo deve svolgere al meglio per favorire investimenti e sviluppo al Sud, e dunque crescita del Pil nell’intero Paese. Il «patto sociale» cominci da qui.E da quella proposta che l’imprenditore Antonello Montante ha lanciato dalle colonne de l’Unità: un’intesa tra istituzioni, banche, parti sociali per consentire un «rating» migliore alle imprese che si ribellano ai clan e si attengono rigorosamente ai protocolli di legalità. Un rating per un migliore accesso al credito, in modo che combattere la mafia diventi anche sul mercatoun vantaggio, e non un rischio o una penalizzazione

L’Unità 12.02.12

“Uno spettro si aggira”, di Claudio Sardo

È una tragedia europea quella che si sta consumando in Grecia. Nel senso che gli insopportabili costi sociali, infilitti ai cittadini, sono il prezzo delle fallimentari politiche dell’Unione all’insegna del rigore senza crescita. Cambiare rotta è una necessità vitale. L’Italia può essere un fattore di cambiamento. E il successo di Monti a Washington non è estraneo a questa aspettativa, oggi condivisa da Obama.
Il governo dei tecnici è nato con una duplice missione: affrontare l’emergenza economica e restituire al Paese quel profilo europeista che, prima di essere la sua vocazione, è il suo interesse strategico. Si tratta di obiettivi tra loro connessi.
Perché l’Italia non si salverà facendo i «compiti a casa». Si salverà solo con l’Europa, se l’Europa deciderà di giocare come entità unitaria la partita della governance globale. Ciò non vuol dire che i «compiti» non vanno fatti. Per i Paesi più indebitati la serietà dei comportamenti e la capacità di tenere le redini
del bilancio è una credenziale importante presso le opinioni pubbliche esterne. Ma fare i «compiti» non può voler dire convalidare e perpetuare le politiche che hannospinto l’Europa verso la depressione e gli squilibri crescenti. L’Europa, guidata dal centrodestra e innanzitutto dalla cancelliera Merkel, sta curando la crisi con le stesse medicine che da almeno due decenni vengono somministrate a chiunque produca deficit: riduzione dei salari e dei diritti del lavoro, tagli alle pensioni e alla spesa sociale, privatizzazioni, flessibilità, compressione degli investimenti. Non che spendere in deficit sia di per sè progressista. Anzi, può essere un indice di diseguaglianza, scaricando i costi sulle generazioni successive. Investire, tuttavia, è necessario se non si vuole consegnare ai giovani una società in declino, senza leve su cui poggiare una ripartenza. Forse bisognerebbe recuperare con più coraggio la lezione di Keynes, visto che il liberismo egemone non è stato affatto detronizzato nonostante ci abbia sprofondato nella crisi.
L’Italia non è la Grecia. L’Italia è troppo grande per fallire. Ma è anche troppo grande per essere salvata. La Grecia resta uno spettro in Europa. Innanzitutto per la sofferenza dei ceti più deboli e delle classi medie ridotte sul lastrico. Due anni fa sarebbero bastati 40 miliardi di euro per «ristrutturare» il debito greco (eufemismo per indicare il default controllato). Oggi il costo per tutti i Paesi dell’Unione è moltiplicato. E già abbiamo pagato dieci, cento volte ciò non si è voluto dare per tempo. Intanto però lo squilibrio della bilancia dei pagamenti (il vero fattore di crisi dell’Europa: altro che il debito pubblico!) è aumentato, e in primo luogo la Germania ha visto crescere la propria posizione a discapito dei Paesi mediterranei. Senza un’integrazione politica dell’Unione, che operi in direzione di un riequilibrio economico, commerciale, e anche infrastrutturale, non ci sarà salvezza per l’Europa e per l’euro. Non basterà neppure la nuova politica monetaria, opportunamente adottata da Draghi alla Bce per assicurare maggiore liquidità al sistema.
La calorosa accoglienza di Monti da parte di Obama, dunque, non va letta soltanto come un incoraggiamento dopo la fine del ciclo berlusconiano. È anche un messaggio all’Europa. L’Italia è uno dei Paesi fondatori e ha interesse a spingere per un mutamento di equilibri e di strategie. Ma pure gli Stati Uniti vogliono che l’Europa torni a crescere ed esca dalla spirale austerità-depressione. Se il mercato europeo non darà segni positivi, la stessa ripresa americana si indebolirà e il «new deal» di Obama rischierà il naufragio. Monti è consapevole di questo ruolo. Ma anche dei limiti che penalizzano il nostro Paese. L’impresa sarà possibile solo se cambieranno i paradigmi dell’ultimo ventennio, a cominciare dai fattori che hanno prodotto l’aumento della forbice tra ricchezza e povertà e il rafforzamento dei poteri di alcune oligarchie economiche. L’impresa ha bisogno di un nuovo «patto sociale». E il premier commetterebbe un tragico errore se, in nome di un obiettivo imposto dall’esterno sulla base della vecchia ortodossia, sacrificasse oggi la convergenza delle forze sindacali e sociali. La trattativa sul mercato del lavoro, in questo senso, ha un valore simbolico. Siccome è chiaro a tutti che modificare l’articolo 18 non vale assolutamente nulla in termini di competitività del Paese o di attrazione degli investimenti o di fiducia per le imprese, il governo deve tenersi strette le parti sociale, richiamarle alla responsabilità e costruire con loro un’intesa. Come fece Ciampi nel ’93. Il patto vale più dello stesso risultato. Proprio perché il voto finale per l’Italia non verrà dai «compiti a casa» ma dalla capacità di spingere l’Europa verso una nuova politica.
E c’è ancora una questione cruciale, che ha anch’essa un peso materiale assai superiore all’articolo 18 e che invece viene colpevolmente trascurata: la lotta alla criminalità organizzata e alle aree grigie, che segnano la contiguità tra funzioni pubbliche e mercato. La lotta senza quartiere alle mafie è, questo sì, il compito a casa che il governo deve svolgere al meglio per favorire investimenti e sviluppo al Sud, e dunque crescita del Pil nell’intero Paese. Il «patto sociale» cominci da qui.E da quella proposta che l’imprenditore Antonello Montante ha lanciato dalle colonne de l’Unità: un’intesa tra istituzioni, banche, parti sociali per consentire un «rating» migliore alle imprese che si ribellano ai clan e si attengono rigorosamente ai protocolli di legalità. Un rating per un migliore accesso al credito, in modo che combattere la mafia diventi anche sul mercatoun vantaggio, e non un rischio o una penalizzazione

L’Unità 12.02.12

"Il processo Mills? Finito", di Luigi Ferrarella

«Mills mentì per proteggere Berlusconi, le parole sono pietre nella sua lettera di confessione», ha detto il pm De Pasquale nella requisitoria che finirà mercoledì. Giorno in cui, però, i legali meditano di abbandonare per protesta la difesa dell’ex premier, per il quale verrebbe nominato un avvocato d’ufficio. Che, a sua volta, chiederà tempo. Tempo ormai scaduto, visto che la prescrizione, collocabile tra oggi e il 18 febbraio, sarà già maturata quando il 25 il Tribunale tornerà in aula dopo la decisione sulla ricusazione.Spiaggiato sui fondali del Palazzo di giustizia come una mesta nave Concordia giudiziaria, anche ieri il processo Berlusconi-Mills si inclina di quell’impercettibile ulteriore manciata di centimetri procedurali che lo fa inabissare nella prescrizione ormai certa anche prima della sentenza di primo grado.
Magari la spina verrà formalmente staccata solo dopo il 25 febbraio, quando i giudici hanno fissato la prima udienza utile all’esito della decisione che il 18 febbraio la Corte d’appello prenderà sulla loro ricusazione chiesta dall’ex premier. Ma, di fatto, l’elettroencefalogramma del processo — che computi realistici (non quelli ottimistici del pm sulla primavera né quelli striminziti della difesa sull’8 gennaio scorso) indicano prescritto tra oggi e il 18 febbraio — è piatto da ieri sera: da quando l’udienza si esaurisce con il pm che rimanda la fine della requisitoria a mercoledì, e i difensori che meditano quel giorno di dismettere il mandato difensivo prima delle arringhe. E così costringere il Tribunale a nominare all’ex premier un avvocato d’ufficio che, nulla sapendo, ovviamente chiederà termini a difesa: «Valuteremo con il nostro assistito se abbia senso la permanenza dei difensori in questo processo», anticipano i parlamentari Ghedini e Longo, mentre nove loro colleghi del Pdl dettano comunicati di fuoco contro i «giudici non imparziali».
Dalle 9.30 alle 16 i legali prima invocano come «prove straordinarie» molti testi già più volte chiesti ma non concessi dal Tribunale perché già ascoltati o giudicati superflui alla luce dell’istruttoria. E poi, come accade mai, impugnano una norma per pretendere che a fine istruttoria il Tribunale dia lettura di tutti i verbali che userà per decidere. «Estrinsecazione del principio di oralità del dibattimento», proclama Longo solenne. «Vent’anni fa chiedevano questo formalismo nei processi di mafia — replica il pm De Pasquale —: c’è da tutelare un interesse meritevole o da dare spazio irragionevole al puro cavillo?».
Quando il Tribunale respinge le richieste, il pm inizia (ma in 2 ore non finisce) a chiedere la condanna di Berlusconi in forza della «confessione stragiudiziale di Mills» nella lettera del 2004 al suo consulente legal-tributario, il «caro Bob» Drennan, sui 600.000 dollari nel 1999 dal Cavaliere: «Le persone di B. erano consapevoli che il modo in cui avevo reso la mia testimonianza (non ho mentito ma ho superato tricky corners, passaggi difficili, per dirla in modo delicato) aveva tenuto Mr B. fuori dal mare di guai nel quale l’avrei gettato se avessi detto tutto quello che sapevo».
«Qui davvero le parole sono pietre», rimarca il pm, che alla successiva «risibile ritrattazione di Mills» oppone «le precedenti 12 volte» in cui Mills, agli ispettori delle tasse inglesi o ai suoi fiscalisti o persino negli appunti del suo computer, «aveva ripetuto o non rettificato l’ammissione d’aver mentito per schermare Berlusconi rispetto alle società offshore» che il legale inglese, marito di un ministro del governo Blair, aveva creato per Fininvest.
Reticenze «per proteggerlo nei processi» e ad esempio «determinare la carenza di prova certa e quindi l’assoluzione in Appello» sulle tangenti Fininvest alla Guardia di Finanza. Ma anche per nascondere che «i 10 miliardi di lire di utili della offshore Horizon, primo regalo di Berlusconi a Mills nel 1995, erano diventati gli utili di Mills proprio perché lui si era sacrificato per distanziare Berlusconi dalle società offshore» che potevano far emergere l’aggiramento della legge Mammì sulle tv; o i fondi alle due società alle Bahamas («Nell’interesse dei figli Marina e Piersilvio poco più che ventenni, li ho archiviati perché teste di legno del padre») dai cui conti «nel 1992-1994 furono prelevati in contanti 100 miliardi di lire».
E se tra Svizzera, Inghilterra, Bahamas e Gibilterra «non è possibile ed è anzi ingenuo ricostruire la tracciabilità dei 600.000 dollari», è perché Mills, nel 2010 ritenuto colpevole dalla Cassazione dove si è però prescritta la condanna a 4 anni e mezzo, «ha fatto sparire il cadavere: ha confuso patrimoni suoi, dei clienti e di Berlusconi in un’entità societaria spersonalizzata proprio per impedire che si potesse capire di chi fossero i soldi».

Il Corriere della Sera 12.02.12

“Il processo Mills? Finito”, di Luigi Ferrarella

«Mills mentì per proteggere Berlusconi, le parole sono pietre nella sua lettera di confessione», ha detto il pm De Pasquale nella requisitoria che finirà mercoledì. Giorno in cui, però, i legali meditano di abbandonare per protesta la difesa dell’ex premier, per il quale verrebbe nominato un avvocato d’ufficio. Che, a sua volta, chiederà tempo. Tempo ormai scaduto, visto che la prescrizione, collocabile tra oggi e il 18 febbraio, sarà già maturata quando il 25 il Tribunale tornerà in aula dopo la decisione sulla ricusazione.Spiaggiato sui fondali del Palazzo di giustizia come una mesta nave Concordia giudiziaria, anche ieri il processo Berlusconi-Mills si inclina di quell’impercettibile ulteriore manciata di centimetri procedurali che lo fa inabissare nella prescrizione ormai certa anche prima della sentenza di primo grado.
Magari la spina verrà formalmente staccata solo dopo il 25 febbraio, quando i giudici hanno fissato la prima udienza utile all’esito della decisione che il 18 febbraio la Corte d’appello prenderà sulla loro ricusazione chiesta dall’ex premier. Ma, di fatto, l’elettroencefalogramma del processo — che computi realistici (non quelli ottimistici del pm sulla primavera né quelli striminziti della difesa sull’8 gennaio scorso) indicano prescritto tra oggi e il 18 febbraio — è piatto da ieri sera: da quando l’udienza si esaurisce con il pm che rimanda la fine della requisitoria a mercoledì, e i difensori che meditano quel giorno di dismettere il mandato difensivo prima delle arringhe. E così costringere il Tribunale a nominare all’ex premier un avvocato d’ufficio che, nulla sapendo, ovviamente chiederà termini a difesa: «Valuteremo con il nostro assistito se abbia senso la permanenza dei difensori in questo processo», anticipano i parlamentari Ghedini e Longo, mentre nove loro colleghi del Pdl dettano comunicati di fuoco contro i «giudici non imparziali».
Dalle 9.30 alle 16 i legali prima invocano come «prove straordinarie» molti testi già più volte chiesti ma non concessi dal Tribunale perché già ascoltati o giudicati superflui alla luce dell’istruttoria. E poi, come accade mai, impugnano una norma per pretendere che a fine istruttoria il Tribunale dia lettura di tutti i verbali che userà per decidere. «Estrinsecazione del principio di oralità del dibattimento», proclama Longo solenne. «Vent’anni fa chiedevano questo formalismo nei processi di mafia — replica il pm De Pasquale —: c’è da tutelare un interesse meritevole o da dare spazio irragionevole al puro cavillo?».
Quando il Tribunale respinge le richieste, il pm inizia (ma in 2 ore non finisce) a chiedere la condanna di Berlusconi in forza della «confessione stragiudiziale di Mills» nella lettera del 2004 al suo consulente legal-tributario, il «caro Bob» Drennan, sui 600.000 dollari nel 1999 dal Cavaliere: «Le persone di B. erano consapevoli che il modo in cui avevo reso la mia testimonianza (non ho mentito ma ho superato tricky corners, passaggi difficili, per dirla in modo delicato) aveva tenuto Mr B. fuori dal mare di guai nel quale l’avrei gettato se avessi detto tutto quello che sapevo».
«Qui davvero le parole sono pietre», rimarca il pm, che alla successiva «risibile ritrattazione di Mills» oppone «le precedenti 12 volte» in cui Mills, agli ispettori delle tasse inglesi o ai suoi fiscalisti o persino negli appunti del suo computer, «aveva ripetuto o non rettificato l’ammissione d’aver mentito per schermare Berlusconi rispetto alle società offshore» che il legale inglese, marito di un ministro del governo Blair, aveva creato per Fininvest.
Reticenze «per proteggerlo nei processi» e ad esempio «determinare la carenza di prova certa e quindi l’assoluzione in Appello» sulle tangenti Fininvest alla Guardia di Finanza. Ma anche per nascondere che «i 10 miliardi di lire di utili della offshore Horizon, primo regalo di Berlusconi a Mills nel 1995, erano diventati gli utili di Mills proprio perché lui si era sacrificato per distanziare Berlusconi dalle società offshore» che potevano far emergere l’aggiramento della legge Mammì sulle tv; o i fondi alle due società alle Bahamas («Nell’interesse dei figli Marina e Piersilvio poco più che ventenni, li ho archiviati perché teste di legno del padre») dai cui conti «nel 1992-1994 furono prelevati in contanti 100 miliardi di lire».
E se tra Svizzera, Inghilterra, Bahamas e Gibilterra «non è possibile ed è anzi ingenuo ricostruire la tracciabilità dei 600.000 dollari», è perché Mills, nel 2010 ritenuto colpevole dalla Cassazione dove si è però prescritta la condanna a 4 anni e mezzo, «ha fatto sparire il cadavere: ha confuso patrimoni suoi, dei clienti e di Berlusconi in un’entità societaria spersonalizzata proprio per impedire che si potesse capire di chi fossero i soldi».

Il Corriere della Sera 12.02.12

"La fregatura delle insegnanti nonne", di A.M.B. da La Tecnica della Scuola

L’Italia ha gli insegnanti più vecchi d’Europa, di questi l’80% sono donne, e mancano le giovani leve. L’allarme è rimbalzato su tutti i media in seguito alla pubblicazione di “Cifre chiave dell’istruzione in Europa 2012”, realizzata da Eurydice. C’è da riflettere. Fino a tre anni fa la pensione di vecchiaia per le donne era fissata a 60 anni, di punto in bianco è arrivata a circa 67, senza scaglioni che mitigassero la fregatura, e senza proteste. Le donne, si sa, accettano le ingiustizie con maggiore disposizione alla rassegnazione.
Negli anni allegri della nostra storia, nel pubblico impiego si poteva andare in pensione con 19 anni, sei mesi e un giorno. Chi lavora adesso sta pagando le scellerate baby pensioni di lavoratori più “fortunati” che hanno potuto fare questa scelta. Naturalmente a pagare sono sempre i “poveri cristi”, come si suol dire, non certo i responsabili, cioè chi ha introdotto questa misura antieconomica per guadagnarsi un serbatoio elettorale.
Tuttavia, la possibilità di uscire dal lavoro a 60 anni per le donne aveva una sua logica: era sì un costo sociale, ma anche una misura di welfare, e per questo veniva accettata. Intorno ai 60 anni infatti grava sulle donne il peso di tutta la famiglia: figli, nipoti e anziani. Negli altri paesi europei, quelli nordici, l’età lavorativa va oltre i 60 anni, ma esistono adeguate misure di assistenza. Le tasse che pagano i cittadini vanno concretamente a sostegno delle necessità familiari delle lavoratrici, e le pari opportunità sono rese effettive da idonei interventi legislativi, non sono solo il titolo “immagine” di rituali commissioni come avviene da noi. Ci sarà un motivo per cui la natalità in Francia, Svezia e Finlandia è il doppio della nostra!
Ma è la scuola lo specchio di tutte le distorsioni del sistema. Nella secondaria, i docenti sopra i 50 anni sono il 57% e solo lo 0,5% ha meno di 30 anni. Nelle elementari, a fronte del 44,8% di maestri ultracinquantenni (quasi la metà) solo lo 0,9% ha meno di 30 anni. L’elemento più preoccupante è appunto il gap fra vecchi e giovani, che da noi è un record assoluto europeo.
Con la recente riforma delle pensioni sarà il disastro sotto tutti i punti di vista. Non solo perché non c’è ricambio generazionale, ma anche perché non si può pretendere “passione” e “aggiornamento continuo” da donne ultrasessantenni con acciacchi propri (“dopo la sessantina ce n’é una ogni mattina” diceva un vecchio adagio) e con figli, nipoti e anziani sulle spalle. Le classi odierne vanno dai 25 ai 30 alunni, ognuno con i suoi problemi, le sue esigenze di “personalizzazione”, e soprattutto di “educazione” tout court visto che le famiglie delegano tutto alla scuola. Ci sarà una crescita esponenziale delle sindrome del burnout, oltre che di ogni altro tipo di malattia con incremento delle assenze, e quindi con peggioramento del servizio e aumento dei costi sociali. D’altra parte i giovani che aspirano all’insegnamento invecchiano nelle liste del precariato, arrivano al sospirato ruolo intorno ai 40 anni, spremuti come limoni, con entusiasmi affievoliti e stipendi da fame.
Chissà se la considerazione di questa allarmante situazione passerà per la mente dei super tecnici del governo Salva Italia. Tanto fra sette anni (quando le lavoratrici che hanno subito la fregatura potranno accedere alla pensioncina) anche gli attuali super tecnici saranno in pensione (l’età media del governo Monti è di 63 anni). Non certo con una pensioncina da “poveri cristi”…

La Tecnica della Scuola 12.02.12