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Scuola/ Previdenza, "i medici privilegiati rispetto ai docenti", di Giuseppe Grasso

Lettera aperta alla ministra Fornero

Egregia ministra,

Lei ha avviato una politica previdenziale di grande durezza. Sappiamo che di ciò è pienamente consapevole come attestato, visibilmente, dalla conferenza stampa tenuta a Palazzo Chigi il 4 dicembre scorso. Prima ha avuto la fiducia dei tre maggiori partiti al Parlamento e subito dopo ha mostrato una inattesa quanto insensibile chiusura che si è concretizzata, per esempio, nel difficile rapporto con le organizzazioni sindacali. All’Italia non giova un altro alfiere prussiano che difenda come un fortino la riforma delle pensioni con il suo nome. La nostra nazione ha bisogno, semmai, di politici umili che ascoltino la voce della gente, degli esponenti politici, del mondo della cultura, che sappiano intercettare i disagi sociali e alleviarli con giuste soluzioni, che non attentino alla vita intesa come progettualità. Il suo procedere sordo e irremovibile non va certo in quella direzione. Il trattamento discriminatorio dei lavoratori della scuola ne è testimonianza. Così è accaduto, crediamo noi, con l’emendamento n. 6.51, accantonato per ora al Senato fino al 13 febbraio in attesa di essere approvato o respinto, che prevede la proroga al 31 agosto per coloro che abbiano maturato nel 2012 la vecchia quota 96 (60 anni di età e 36 di contributi o 61 di età e 35 di contributi). Sappiamo da fonti politiche della sua ostilità verso tale articolo concernente un’esigua fascia di lavoratori della conoscenza, avversione che esula, spiace rilevarlo, da ogni ragione democratica di un paese civile.

Elsa ForneroForte della fiducia incassata a larghissima maggioranza La vediamo arroccata in uno stallo morale che le impedisce l’esame sereno delle iniquità che pur sussistono (e sono tante) in questa riforma delle pensioni. Noi ci limitiamo a segnalare quella relativa ai docenti e al personale ausiliario della scuola classe 1952, fortemente penalizzati dalla nuova normativa previdenziale e dimenticati dai media. Questi lavoratori, nello specifico, che stanno peraltro approntando un ricorso collettivo contro il Governo, hanno da sempre una sola finestra di uscita per andare in pensione: il 1 settembre di ogni anno scolastico. La riforma da lei confezionata ha purtroppo ignorato che tutti i dipendenti pubblici maturano l’anzianità per anno solare ad eccezione della scuola che la matura, invece, per anno scolastico.

Il Governo, colpevolmente dimentico di questa particolarità normativa, ha decretato che solo coloro i quali maturano i requisiti al 31 dicembre del 2011 possano andare in pensione con le vecchie regole. L’emendamento in questione, presentato dal Pd, propone invece, con molta avvedutezza, di rimediare a tale “stortura” e di varare un intervento volto a introdurre il termine del 31 agosto 2012 per quel personale del comparto scuola che abbia maturato i requisiti di accesso e di regime delle decorrenze previgenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. Se si vogliono conservare i diritti riconosciuti per tutti i dipendenti al 31 dicembre 2011, per analogia gli stessi diritti per la scuola devono essere fissati al 31 agosto 2012. Questa si chiama equità. Molti ne rimarranno fuori, lo sappiamo, ma ci saranno altre sedi che non il milleproroghe dove affrontare le spinose questioni della gradualità dello scalone di 6 anni.

Si tratta, cara Ministra, di una rivendicazione sostenuta e condivisa da molti parlamentari, così palesemente giusta che è solo da ratificare. Un emendamento, il 6.51 nella fattispecie, è stato infatti depositato presso il Senato dall’Ufficio Legislativo del gruppo del Partito Democratico. Non è, come potrebbe sembrare a chi non conosce la Pubblica Amministrazione, un segno di favore o una regalia per fini elettorali ma un ravvedimento costituzionale che dovrebbe essere adottato per sanare l’ingiustizia prima che i tribunali facciano sborsare a Codesto Governo ben altro denaro oltre a fargli perdere la faccia. La copertura è stata trovata e giustificata con il già citato articolo 6.51 a firma del senatore Mercatali, che ne è stato il Relatore.

Quello che Le chiediamo è di addivenire ad una risoluzione positiva in grado di correggere l’odiosità di una norma iniqua che presenta inoltre, come ha scritto l’ex ministro dell’istruzione Giuseppe Fioroni, dei “profili di anticostituzionalità”. Riteniamo che ci siano gli estremi perché il Parlamento la voti anche nel caso in cui Lei fosse contraria. Tuttavia confidiamo che i politici più assennati e vicini al mondo della scuola, come l’onorevole Manuela Ghizzoni e la senatrice Mariangela Bastico, che tanto hanno fatto lungo questo versante, riescano a convincerla. Tale  provvedimento, infatti, potrebbe dare nuovi posti di lavoro ai tanti precari e senza “posto fisso” che vagolano in attesa – amareggiati e in veste grigia – di un punto di riferimento certo.

Egregia ministra, ponderi, di grazia, i termini di tale iniquità e dia ai lavoratori della conoscenza quanto spetta loro di diritto, si sbilanci un po’ a favore della giustizia. Forse, così, una parte di questo paese tornerà ad appassionarsi alla politica, a sentirla come qualcosa di proprio.

Abbiamo registrato di recente una sua certa flessibilità e apertura nei confronti della categoria dei medici, apertura che ha fatto revocare, in attesa di chiarimenti, lo sciopero del 9 febbraio indetto dalla FIMMG. Non è forse vero che Lei ha valutato con attenzione le argomentazioni sulle pensioni di questa classe e che le ha considerate meritevoli di approfondimento? Mi auguro che non faccia due pesi due misure con i lavoratori della conoscenza. La maggior efficacia rivendicativa dei medici non solo riflette le odiose pressioni lobbistiche a tutti noi note ma – ciò che è peggio – è spia di quella logica barbara che medicalizza anche la cultura invece di riservare a quest’ultima il posto d’onore nell’istituto civile dell’educazione.

Terminiamo con una considerazione personale. Le persone interessate – è importante ribadirlo – non sono, come è scandalosamente accaduto negli anni ’80 e anche nei primi anni ’90, dei baby pensionati con al massimo 20 o 25 anni di servizio. Si tratta di lavoratori sessantenni che hanno dai 37 ai 40 anni di onorato servizio alle spalle e che hanno sempre pagato le tasse senza mai evadere di una lira (o di un centesimo). Non chiedono favoritismi personali ma quei diritti imprescindibili che sono sanciti dalla costituzione. Si adoperi dunque, ministra Fornero, affinché l’emendamento sia approvato al Senato e che l’illegittimità venga sanata. Non badi solo ai “saldi invariati” ma anche ai “diritti acquisiti”!

Ci piacerebbe che arrivi quel giorno in cui Lei possa spiegarci che la riforma appena varata è stata fatta davvero per rispondere ad un patto generazionale e non già per fare cassa!

da http://affaritaliani.libero.it/sociale/privilegi-sulla-previdenza-i-medici-preferiti-ai-docenti110212.html?refresh_ce

Scuola/ Previdenza, “i medici privilegiati rispetto ai docenti”, di Giuseppe Grasso

Lettera aperta alla ministra Fornero

Egregia ministra,

Lei ha avviato una politica previdenziale di grande durezza. Sappiamo che di ciò è pienamente consapevole come attestato, visibilmente, dalla conferenza stampa tenuta a Palazzo Chigi il 4 dicembre scorso. Prima ha avuto la fiducia dei tre maggiori partiti al Parlamento e subito dopo ha mostrato una inattesa quanto insensibile chiusura che si è concretizzata, per esempio, nel difficile rapporto con le organizzazioni sindacali. All’Italia non giova un altro alfiere prussiano che difenda come un fortino la riforma delle pensioni con il suo nome. La nostra nazione ha bisogno, semmai, di politici umili che ascoltino la voce della gente, degli esponenti politici, del mondo della cultura, che sappiano intercettare i disagi sociali e alleviarli con giuste soluzioni, che non attentino alla vita intesa come progettualità. Il suo procedere sordo e irremovibile non va certo in quella direzione. Il trattamento discriminatorio dei lavoratori della scuola ne è testimonianza. Così è accaduto, crediamo noi, con l’emendamento n. 6.51, accantonato per ora al Senato fino al 13 febbraio in attesa di essere approvato o respinto, che prevede la proroga al 31 agosto per coloro che abbiano maturato nel 2012 la vecchia quota 96 (60 anni di età e 36 di contributi o 61 di età e 35 di contributi). Sappiamo da fonti politiche della sua ostilità verso tale articolo concernente un’esigua fascia di lavoratori della conoscenza, avversione che esula, spiace rilevarlo, da ogni ragione democratica di un paese civile.

Elsa ForneroForte della fiducia incassata a larghissima maggioranza La vediamo arroccata in uno stallo morale che le impedisce l’esame sereno delle iniquità che pur sussistono (e sono tante) in questa riforma delle pensioni. Noi ci limitiamo a segnalare quella relativa ai docenti e al personale ausiliario della scuola classe 1952, fortemente penalizzati dalla nuova normativa previdenziale e dimenticati dai media. Questi lavoratori, nello specifico, che stanno peraltro approntando un ricorso collettivo contro il Governo, hanno da sempre una sola finestra di uscita per andare in pensione: il 1 settembre di ogni anno scolastico. La riforma da lei confezionata ha purtroppo ignorato che tutti i dipendenti pubblici maturano l’anzianità per anno solare ad eccezione della scuola che la matura, invece, per anno scolastico.

Il Governo, colpevolmente dimentico di questa particolarità normativa, ha decretato che solo coloro i quali maturano i requisiti al 31 dicembre del 2011 possano andare in pensione con le vecchie regole. L’emendamento in questione, presentato dal Pd, propone invece, con molta avvedutezza, di rimediare a tale “stortura” e di varare un intervento volto a introdurre il termine del 31 agosto 2012 per quel personale del comparto scuola che abbia maturato i requisiti di accesso e di regime delle decorrenze previgenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. Se si vogliono conservare i diritti riconosciuti per tutti i dipendenti al 31 dicembre 2011, per analogia gli stessi diritti per la scuola devono essere fissati al 31 agosto 2012. Questa si chiama equità. Molti ne rimarranno fuori, lo sappiamo, ma ci saranno altre sedi che non il milleproroghe dove affrontare le spinose questioni della gradualità dello scalone di 6 anni.

Si tratta, cara Ministra, di una rivendicazione sostenuta e condivisa da molti parlamentari, così palesemente giusta che è solo da ratificare. Un emendamento, il 6.51 nella fattispecie, è stato infatti depositato presso il Senato dall’Ufficio Legislativo del gruppo del Partito Democratico. Non è, come potrebbe sembrare a chi non conosce la Pubblica Amministrazione, un segno di favore o una regalia per fini elettorali ma un ravvedimento costituzionale che dovrebbe essere adottato per sanare l’ingiustizia prima che i tribunali facciano sborsare a Codesto Governo ben altro denaro oltre a fargli perdere la faccia. La copertura è stata trovata e giustificata con il già citato articolo 6.51 a firma del senatore Mercatali, che ne è stato il Relatore.

Quello che Le chiediamo è di addivenire ad una risoluzione positiva in grado di correggere l’odiosità di una norma iniqua che presenta inoltre, come ha scritto l’ex ministro dell’istruzione Giuseppe Fioroni, dei “profili di anticostituzionalità”. Riteniamo che ci siano gli estremi perché il Parlamento la voti anche nel caso in cui Lei fosse contraria. Tuttavia confidiamo che i politici più assennati e vicini al mondo della scuola, come l’onorevole Manuela Ghizzoni e la senatrice Mariangela Bastico, che tanto hanno fatto lungo questo versante, riescano a convincerla. Tale  provvedimento, infatti, potrebbe dare nuovi posti di lavoro ai tanti precari e senza “posto fisso” che vagolano in attesa – amareggiati e in veste grigia – di un punto di riferimento certo.

Egregia ministra, ponderi, di grazia, i termini di tale iniquità e dia ai lavoratori della conoscenza quanto spetta loro di diritto, si sbilanci un po’ a favore della giustizia. Forse, così, una parte di questo paese tornerà ad appassionarsi alla politica, a sentirla come qualcosa di proprio.

Abbiamo registrato di recente una sua certa flessibilità e apertura nei confronti della categoria dei medici, apertura che ha fatto revocare, in attesa di chiarimenti, lo sciopero del 9 febbraio indetto dalla FIMMG. Non è forse vero che Lei ha valutato con attenzione le argomentazioni sulle pensioni di questa classe e che le ha considerate meritevoli di approfondimento? Mi auguro che non faccia due pesi due misure con i lavoratori della conoscenza. La maggior efficacia rivendicativa dei medici non solo riflette le odiose pressioni lobbistiche a tutti noi note ma – ciò che è peggio – è spia di quella logica barbara che medicalizza anche la cultura invece di riservare a quest’ultima il posto d’onore nell’istituto civile dell’educazione.

Terminiamo con una considerazione personale. Le persone interessate – è importante ribadirlo – non sono, come è scandalosamente accaduto negli anni ’80 e anche nei primi anni ’90, dei baby pensionati con al massimo 20 o 25 anni di servizio. Si tratta di lavoratori sessantenni che hanno dai 37 ai 40 anni di onorato servizio alle spalle e che hanno sempre pagato le tasse senza mai evadere di una lira (o di un centesimo). Non chiedono favoritismi personali ma quei diritti imprescindibili che sono sanciti dalla costituzione. Si adoperi dunque, ministra Fornero, affinché l’emendamento sia approvato al Senato e che l’illegittimità venga sanata. Non badi solo ai “saldi invariati” ma anche ai “diritti acquisiti”!

Ci piacerebbe che arrivi quel giorno in cui Lei possa spiegarci che la riforma appena varata è stata fatta davvero per rispondere ad un patto generazionale e non già per fare cassa!

da http://affaritaliani.libero.it/sociale/privilegi-sulla-previdenza-i-medici-preferiti-ai-docenti110212.html?refresh_ce

"Lo sfoggio di entusiasmo dell’America", di Lucia Annunziata

Il viaggio di Mario Monti in Usa è andato bene. Forse troppo bene.
C’è stato infatti un innegabile elemento di esagerazione nell’accoglienza americana al premier italiano, e se alcune reticenze nel discorso pubblico e una serie di sorrisi di imbarazzo valgono una dichiarazione, lo stesso premier sembra essersene accorto.
Mario Monti guida il governo da soli tre mesi, ha fatto un forte intervento sulla strada verso il pareggio del bilancio accompagnato dalla riforma delle pensioni («e solo con tre ore di sciopero» ha raccontato di aver detto ai suoi interlocutori alla Casa Bianca, ascoltato «con grande meraviglia»).
Per quanto riguarda le altre riforme, che sia quella del mercato del lavoro (tema molto comprensibile agli americani) o quella (molto più sottile per questo pubblico) della modifica dei rapporti fra Merkel e l’Italia, sono ancora tutte da provare.
La domanda da porsi è dunque cosa stiano cercando di dirci gli americani con questo inedito sfoggio di entusiasmo.
La più maliziosa interpretazione è che il nuovo clima ha a che fare con il passaggio di governo in Italia – e non c’è dubbio che la differenza fra le impacciate relazioni di Washington con Silvio Berlusconi negli ultimi anni, e quelle di oggi con Mario Monti, è inenarrabile. In effetti ha dell’incredibile che il passato governo non sia mai stato citato in questi incontri, e che l’unico a pronunciare il nome di Silvio Berlusconi (come al solito per dirne bene, nella ormai assodata routine istituzionale della continuità formale fra esecutivi) sia stato proprio Monti. Tuttavia l’America, presa da tali e tanti problemi complessi, non avrebbe sprecato molta energia in questo momento solo per sottolineare diversi toni diplomatici.
La chiave di volta della sua ospitalità è iscritta in realtà nelle novità segnalate dalla agenda del premier in questi giorni. A differenza di quanto sempre avvenuto con altri premier in passato, Monti in effetti ha speso molto meno tempo con le istituzioni politiche – Congresso, governo, Onu –, per investire la maggior parte delle energie nel comunicare direttamente con altri luoghi del potere, think tank come il Peterson, i maggiori media, come la Cnbc di Maria Bartiromo, il Time, il New York Times, e gli investitori di Wall Street, che hanno la capacità di influenzare direttamente le opinioni più vaste del mercato. Non è un caso che il più lungo incontro «politico» sia stato delegato al ministro degli Esteri Terzi che ha trascorso con Hillary Clinton più tempo di quanto Monti con Obama. Così come non un caso è che per ricevere il professore italiano a New York siano scesi in campo i big della finanza, da Bloomberg a Soros.
La vera missione di Mario Monti in America, detta in maniera un po’ poco caritatevole, è stata fin dall’inizio dunque quella di «venditore», di un uomo che alla fin fine era lì per convincere della nostra affidabilità quegli stessi mercati che ci avevano condannato.
Si spiega così anche l’entusiasmo profuso nel far sì che la missione riuscisse: un po’ di esagerazione ci voleva per far ben capire a tutti che i vari punti di influenza del potere americano, media, politica e investitori, ci hanno riaccettato. Quell’«Italy is back», in questo senso è risuonato in effetti nelle orecchie tanto entusiasta quanto accondiscendente nei nostri confronti. Ma è stata anche l’eco di una sorta di autocritica del Paese più arrogante del mondo.
«L’Europa è un terreno scivoloso per gli americani, specie in questa campagna elettorale. Se non si fosse visto un miglioramento, non credo che Obama si sarebbe tanto impegnato», diceva alcune sere fa un insider di Washington, un avvocato che lavora per le industrie della difesa. Con tipico spirito pragmatico, i mercati e la politica Usa hanno fatto negli ultimi tempi una rapida marcia indietro, dopo aver capito che per l’America dei prossimi anni l’Europa è ancora più un beneficio che una palla al piede, come la si descriveva nei momenti peggiori della crisi.
Non solo, come viene ripetuto, la miniripresa americana potrebbe essere affossata da qualunque peggioramento dell’economia della Eu. L’Europa si rivela molto importante in prospettiva anche nell’intreccio fra costi e sicurezza dell’Impero.
La crisi economica sta portando gli Usa a una rimodulazione delle spese militari. I (meno) soldi saranno sempre più impegnati da Washington nei teatri asiatici, per tenere d’occhio i contendenti di domani, Cina soprattutto.
La conseguenza è che il peso della sorveglianza sulla Russia (testate nucleari incluse) e la gestione del Medioriente ricadrà sempre più sull’Europa: il modello Libia – quello in cui la Nato opera e gli Stati Uniti appoggiano – è il modello che gli Usa oggi vedrebbero esteso a tutta la zona di influenza europea. Per questo molto si è parlato fra Monti e Obama della conferenza sulla nuova Nato che si terrà a maggio a Chicago. Molto ne hanno parlato, e poco ce ne è stato riferito. Il terreno è infatti scottante per le opinioni pubbliche europee.
La lezione che si trae da tutto questo, è che l’entusiasmo Usa è come un venticello – capace di cambiare rapidamente direzione a seconda delle necessità (o utilità?) del Paese. Ha soffiato molto bene, sulla visita di Monti ma non dovremmo farci molto affidamento. Anche perché, come dimostra il dossier Nato, porta sicuramente con sé un cartellino con il solito salato prezzo.

La Stampa 11.02.12

“Lo sfoggio di entusiasmo dell’America”, di Lucia Annunziata

Il viaggio di Mario Monti in Usa è andato bene. Forse troppo bene.
C’è stato infatti un innegabile elemento di esagerazione nell’accoglienza americana al premier italiano, e se alcune reticenze nel discorso pubblico e una serie di sorrisi di imbarazzo valgono una dichiarazione, lo stesso premier sembra essersene accorto.
Mario Monti guida il governo da soli tre mesi, ha fatto un forte intervento sulla strada verso il pareggio del bilancio accompagnato dalla riforma delle pensioni («e solo con tre ore di sciopero» ha raccontato di aver detto ai suoi interlocutori alla Casa Bianca, ascoltato «con grande meraviglia»).
Per quanto riguarda le altre riforme, che sia quella del mercato del lavoro (tema molto comprensibile agli americani) o quella (molto più sottile per questo pubblico) della modifica dei rapporti fra Merkel e l’Italia, sono ancora tutte da provare.
La domanda da porsi è dunque cosa stiano cercando di dirci gli americani con questo inedito sfoggio di entusiasmo.
La più maliziosa interpretazione è che il nuovo clima ha a che fare con il passaggio di governo in Italia – e non c’è dubbio che la differenza fra le impacciate relazioni di Washington con Silvio Berlusconi negli ultimi anni, e quelle di oggi con Mario Monti, è inenarrabile. In effetti ha dell’incredibile che il passato governo non sia mai stato citato in questi incontri, e che l’unico a pronunciare il nome di Silvio Berlusconi (come al solito per dirne bene, nella ormai assodata routine istituzionale della continuità formale fra esecutivi) sia stato proprio Monti. Tuttavia l’America, presa da tali e tanti problemi complessi, non avrebbe sprecato molta energia in questo momento solo per sottolineare diversi toni diplomatici.
La chiave di volta della sua ospitalità è iscritta in realtà nelle novità segnalate dalla agenda del premier in questi giorni. A differenza di quanto sempre avvenuto con altri premier in passato, Monti in effetti ha speso molto meno tempo con le istituzioni politiche – Congresso, governo, Onu –, per investire la maggior parte delle energie nel comunicare direttamente con altri luoghi del potere, think tank come il Peterson, i maggiori media, come la Cnbc di Maria Bartiromo, il Time, il New York Times, e gli investitori di Wall Street, che hanno la capacità di influenzare direttamente le opinioni più vaste del mercato. Non è un caso che il più lungo incontro «politico» sia stato delegato al ministro degli Esteri Terzi che ha trascorso con Hillary Clinton più tempo di quanto Monti con Obama. Così come non un caso è che per ricevere il professore italiano a New York siano scesi in campo i big della finanza, da Bloomberg a Soros.
La vera missione di Mario Monti in America, detta in maniera un po’ poco caritatevole, è stata fin dall’inizio dunque quella di «venditore», di un uomo che alla fin fine era lì per convincere della nostra affidabilità quegli stessi mercati che ci avevano condannato.
Si spiega così anche l’entusiasmo profuso nel far sì che la missione riuscisse: un po’ di esagerazione ci voleva per far ben capire a tutti che i vari punti di influenza del potere americano, media, politica e investitori, ci hanno riaccettato. Quell’«Italy is back», in questo senso è risuonato in effetti nelle orecchie tanto entusiasta quanto accondiscendente nei nostri confronti. Ma è stata anche l’eco di una sorta di autocritica del Paese più arrogante del mondo.
«L’Europa è un terreno scivoloso per gli americani, specie in questa campagna elettorale. Se non si fosse visto un miglioramento, non credo che Obama si sarebbe tanto impegnato», diceva alcune sere fa un insider di Washington, un avvocato che lavora per le industrie della difesa. Con tipico spirito pragmatico, i mercati e la politica Usa hanno fatto negli ultimi tempi una rapida marcia indietro, dopo aver capito che per l’America dei prossimi anni l’Europa è ancora più un beneficio che una palla al piede, come la si descriveva nei momenti peggiori della crisi.
Non solo, come viene ripetuto, la miniripresa americana potrebbe essere affossata da qualunque peggioramento dell’economia della Eu. L’Europa si rivela molto importante in prospettiva anche nell’intreccio fra costi e sicurezza dell’Impero.
La crisi economica sta portando gli Usa a una rimodulazione delle spese militari. I (meno) soldi saranno sempre più impegnati da Washington nei teatri asiatici, per tenere d’occhio i contendenti di domani, Cina soprattutto.
La conseguenza è che il peso della sorveglianza sulla Russia (testate nucleari incluse) e la gestione del Medioriente ricadrà sempre più sull’Europa: il modello Libia – quello in cui la Nato opera e gli Stati Uniti appoggiano – è il modello che gli Usa oggi vedrebbero esteso a tutta la zona di influenza europea. Per questo molto si è parlato fra Monti e Obama della conferenza sulla nuova Nato che si terrà a maggio a Chicago. Molto ne hanno parlato, e poco ce ne è stato riferito. Il terreno è infatti scottante per le opinioni pubbliche europee.
La lezione che si trae da tutto questo, è che l’entusiasmo Usa è come un venticello – capace di cambiare rapidamente direzione a seconda delle necessità (o utilità?) del Paese. Ha soffiato molto bene, sulla visita di Monti ma non dovremmo farci molto affidamento. Anche perché, come dimostra il dossier Nato, porta sicuramente con sé un cartellino con il solito salato prezzo.

La Stampa 11.02.12

"Bersani: fare in fretta sul lavoro, ma il governo deve evitare i conflitti", di Simone Collini

Pier Luigi Bersani conclude il suo viaggio in Tunisia all’insegna del lavoro. Incontra il segretario dell’Ugtt, poi lancia un segnale al governo: «La riforma del mercato del lavoro si faccia in fretta senza conflitti». «I tunisini mi hanno detto che pre ferirebbero avere i nostri problemi, per quel che riguarda il lavoro, e ci credo». Sorride. «Ma anche da noi non è che la situazione sia tanto bella», sospira Bersani scuotendo ora serio la testa. «Bisogna chiudere rapidamente il tavolo sulla riforma del mercato del lavoro, arrivando a un accordo tra le parti perché guai se si aprisse ora una fase conflittuale. Ma soprattutto bisogna smetterla di discutere soltanto di regole, servono politiche che stimolino gli investimenti, misure che diano un po’ di sprint all’economia. Non è possibile che non si affronti mai la questione di come creare più occupazione». Il leader del Pd ha appena finito di parlare con il leader del principale (praticamente unico) sindacato della Tunisia, l’Union générale des travailleurs tunisiens. Si chiama Hassine Abbassi ed è stato eletto per dare un segnale di rinnovamento anche in questo campo dopo la fine del regime di Ben Ali. Per Bersani è l’ultimo incontro di questo viaggio organizzato a un anno dallo scoppio della cosiddetta rivoluzione dei gelsomini.
LA TRANSIZIONE TUNISINA
La primavera araba è partita da qui e le speranze riposte in questo processo democratico sono tante, su ambedue le sponde del Mediterraneo. La transizione però sta incidendo pesantemente su un’economia già debole. Racconta il segretario dell’Ugtt Abbassi che il tasso di disoccupazione ufficiale (20%) nasconde una realtà ben peggiore, che gli effetti del crollo del Pil si sentiranno nei prossimi mesi, che il forte calo del turismo (settore che produceva il 7% del Pil) è tanto immotivato (le zone costiere non sono state toccate dalla violenza) quanto devastante (meno 65% solo dall’Italia) e che se il governo non risponderà in modo adeguato alla tensione salariale che c’è nel Paese la stabilizzazione correrà forti rischi.
Ma per paradossale che possa sembrare, i vertici sindacali e istituzionali tunisini (nei giorni scorsi Bersani ha incontrato il primo ministro Jebali e il presidente Ben Jaafar) si sono mostrati altrettanto preoccupati per la situazione europea. Ma poi non è difficile capire il perché quando viene spiegato che causa crisi, molte aziende del vecchio continente stanno ritirando sia commesse che personale dalla Tunisia, e l’economia nazionale ne risente pesantemente. L’Italia, che è il secondo partner commerciale di Tunisi, è più interessata di altri a produrre un’inversione di tendenza. Dice Bersani mentre lascia la sede nazionale dell’Ugtt: «Noi abbiamo dei problemi ma attenzione che prima o poi li avrà anche la Germania perché rischiano tutti se non si avvia una politica europea che stimoli l’economia, la domanda interna e la produzione industriale». Anche l’Italia, a questo punto, deve cambiare passo. «Il problema è come creare occupazione. Bisogna chiudere rapidamente il tavolo sulla riforma del mercato del lavoro cercando di stare con i piedi per terra. Il problema non è come licenziare. Se poi alla fine, preservandolo perché non c’è nessuna ragione di toglierlo, si vuole ragionare su come perfezionare l’applicazione dell’articolo 18, si vedrà. Ma tutto va fatto in un clima di sforzo comune, perché guai se si aprisse una fase conflittuale».
Discutere di regole però non basta, dice Bersani, «servono politiche che creino occupazione». Il Pd avanzerà le sue proposte, ma per dare un ulteriore segnale a governo e opinione pubblica il leader dei Democratici sta lavorando anche su un’iniziativa protocollata col titolo “Destinazione Italia”. Nelle prossime settimane partirà per un tour nelle zone del Paese che si caratterizzano o per la presenza di aziende in crisi o per l’eccellenza dimostrata in questi anni. Un viaggio «nell’Italia che vuole ripartire», si legge su una bozza di programma a cui stanno lavorando al Nazareno, che toccherà soprattutto realtà del Mezzogiorno e del Nord Est. Al centro ci sarà anche la «riscossa civica» a cui, secondo Bersani, pensava Monti quando ha sollecitato gli italiani ad avere un diverso stile di vita. «Cambiare per avere più civismo, sì. Serve maggiore fedeltà fiscale e che ciascuno faccia il suo mestiere».

L’Unità 11.02.12

“Bersani: fare in fretta sul lavoro, ma il governo deve evitare i conflitti”, di Simone Collini

Pier Luigi Bersani conclude il suo viaggio in Tunisia all’insegna del lavoro. Incontra il segretario dell’Ugtt, poi lancia un segnale al governo: «La riforma del mercato del lavoro si faccia in fretta senza conflitti». «I tunisini mi hanno detto che pre ferirebbero avere i nostri problemi, per quel che riguarda il lavoro, e ci credo». Sorride. «Ma anche da noi non è che la situazione sia tanto bella», sospira Bersani scuotendo ora serio la testa. «Bisogna chiudere rapidamente il tavolo sulla riforma del mercato del lavoro, arrivando a un accordo tra le parti perché guai se si aprisse ora una fase conflittuale. Ma soprattutto bisogna smetterla di discutere soltanto di regole, servono politiche che stimolino gli investimenti, misure che diano un po’ di sprint all’economia. Non è possibile che non si affronti mai la questione di come creare più occupazione». Il leader del Pd ha appena finito di parlare con il leader del principale (praticamente unico) sindacato della Tunisia, l’Union générale des travailleurs tunisiens. Si chiama Hassine Abbassi ed è stato eletto per dare un segnale di rinnovamento anche in questo campo dopo la fine del regime di Ben Ali. Per Bersani è l’ultimo incontro di questo viaggio organizzato a un anno dallo scoppio della cosiddetta rivoluzione dei gelsomini.
LA TRANSIZIONE TUNISINA
La primavera araba è partita da qui e le speranze riposte in questo processo democratico sono tante, su ambedue le sponde del Mediterraneo. La transizione però sta incidendo pesantemente su un’economia già debole. Racconta il segretario dell’Ugtt Abbassi che il tasso di disoccupazione ufficiale (20%) nasconde una realtà ben peggiore, che gli effetti del crollo del Pil si sentiranno nei prossimi mesi, che il forte calo del turismo (settore che produceva il 7% del Pil) è tanto immotivato (le zone costiere non sono state toccate dalla violenza) quanto devastante (meno 65% solo dall’Italia) e che se il governo non risponderà in modo adeguato alla tensione salariale che c’è nel Paese la stabilizzazione correrà forti rischi.
Ma per paradossale che possa sembrare, i vertici sindacali e istituzionali tunisini (nei giorni scorsi Bersani ha incontrato il primo ministro Jebali e il presidente Ben Jaafar) si sono mostrati altrettanto preoccupati per la situazione europea. Ma poi non è difficile capire il perché quando viene spiegato che causa crisi, molte aziende del vecchio continente stanno ritirando sia commesse che personale dalla Tunisia, e l’economia nazionale ne risente pesantemente. L’Italia, che è il secondo partner commerciale di Tunisi, è più interessata di altri a produrre un’inversione di tendenza. Dice Bersani mentre lascia la sede nazionale dell’Ugtt: «Noi abbiamo dei problemi ma attenzione che prima o poi li avrà anche la Germania perché rischiano tutti se non si avvia una politica europea che stimoli l’economia, la domanda interna e la produzione industriale». Anche l’Italia, a questo punto, deve cambiare passo. «Il problema è come creare occupazione. Bisogna chiudere rapidamente il tavolo sulla riforma del mercato del lavoro cercando di stare con i piedi per terra. Il problema non è come licenziare. Se poi alla fine, preservandolo perché non c’è nessuna ragione di toglierlo, si vuole ragionare su come perfezionare l’applicazione dell’articolo 18, si vedrà. Ma tutto va fatto in un clima di sforzo comune, perché guai se si aprisse una fase conflittuale».
Discutere di regole però non basta, dice Bersani, «servono politiche che creino occupazione». Il Pd avanzerà le sue proposte, ma per dare un ulteriore segnale a governo e opinione pubblica il leader dei Democratici sta lavorando anche su un’iniziativa protocollata col titolo “Destinazione Italia”. Nelle prossime settimane partirà per un tour nelle zone del Paese che si caratterizzano o per la presenza di aziende in crisi o per l’eccellenza dimostrata in questi anni. Un viaggio «nell’Italia che vuole ripartire», si legge su una bozza di programma a cui stanno lavorando al Nazareno, che toccherà soprattutto realtà del Mezzogiorno e del Nord Est. Al centro ci sarà anche la «riscossa civica» a cui, secondo Bersani, pensava Monti quando ha sollecitato gli italiani ad avere un diverso stile di vita. «Cambiare per avere più civismo, sì. Serve maggiore fedeltà fiscale e che ciascuno faccia il suo mestiere».

L’Unità 11.02.12

"Inciucisti a chi?", di Giorgio Merlo

È davvero curiosa la reazione violenta e furibonda dei soliti noti contro l’ipotesi, che ormai sta diventando sempre più realtà, di riformare l’attuale legge elettorale collaborando con tutti i partiti. Da mesi, anzi da anni, assistiamo alla predica di cancellare il cosiddetto Porcellum e di scrivere un’ennesima legge elettorale. Richiesta che adesso sta decollando concretamente e che, guarda caso, registra la contestazione proprio di quei partiti che l’hanno rivendicato con forza e determinazione nel tempo passato.
Partiti che, è sempre bene non dimenticarlo, da un lato urlavano in modo sguaiato la necessità della riforma e, dall’altro, con altrettanta puntualità, invocavano sino a ieri – e lo invocano ancora oggi – le elezioni anticipate che sarebbero disciplinate, guarda caso, proprio dal Porcellum.
Del resto, non c’è affatto da stupirsi. I partiti padronali, cioè retti solo ed esclusivamente dal carisma del “capo” e dove non c’è traccia di democrazia interna se non nell’adulazione acritica e quotidiana verso il leader maximo, individuano nel porcellum proprio lo strumento più adeguato per selezionare la classe dirigente e spedire al parlamento i rispettivi adulatori. Una prassi abbastanza collaudata e non affatto originale. E, forse, parte da qui la reazione violenta contro l’ipotesi, ormai abbastanza concreta, di arrivare al più presto ad una nuova legge elettorale.
Una legge, comunque sia, necessaria ed indispensabile che non ammette più furbizie, rinvii o tentennamenti vari. Neanche di quei partiti che strillano di giorno e sperano, alla sera, che nulla cambi per poi lucrare il consenso degli “indignati” per la combutta con il “nemico” e selezionare in caminetto la propria rappresentanza parlamentare.
No, quel giochetto sta per finire. E, al riguardo, non c’è nulla di male nel costruire la futura legge elettorale con l’avallo di tutti i partiti. A cominciare da quelli che hanno una maggior forza elettorale e un maggior radicamento sociale e territoriale per poi estendersi a tutti i partiti minori.
Senza pregiudiziali morali e senza anatemi politici o, peggio ancora, ideologici. Cosa significa contestare a priori il dialogo tra il Pd e il Pdl e il Terzo polo per costruire una nuova legge elettorale e cancellare definitivamente il Porcellum e il Mattarellum? Cosa significa lanciare continuamente strali e invettive contro il “nemico” che, stando al giudizio di questi moralisti non avrebbero titolo e dignità per costruire la futura legge elettorale? Chiunque sa che la legge elettorale è la “madre” di tutte le riforme e che, proprio dal profilo della legge elettorale si costruiscono le coordinate del sistema politico.
Dalle coalizioni che si andranno a formare alla nascita di nuovi partiti, dalla credibilità dei rispettivi programmi di governo ai criteri che presiederanno la selezione della rappresentanza parlamentare. Tutto questo dipende solo ed esclusivamente dalla legge elettorale. Si potrebbero fare decine e decine di esempi che comprovano questa semplice ma vera considerazione. E, quindi, il dialogo avviato con il Pdl, il Terzo Polo, la Lega da parte del Pd e con tutti quelli che ragionano laicamente senza filtri moralistici e ideologici è positivo e da incoraggiare.
I risultati li vedremo e, quasi sicuramente, nessuna legge elettorale sarà la fotocopia di ciò che vogliono e desiderano i singoli partiti. Che, non caso, sono sempre il frutto di qualche convenienza di partito oltrechè la conseguenza concreta del sistema politico che si vuol costruire. Ora, al di là di questa considerazione, è decisivo che la futura legge elettorale risponda almeno a tre criteri di fondo: consentire la formazione di alleanze di governo e non di astratti e sterili cartelli elettorali che abbiamo conosciuto negli ultimi anni a partire dal 1994; garantire una stabilità politica essenziale per il nostro paese introducendo una norma che blocchi l’eccessiva frammentazione del quadro politico, pur conservando una sufficiente rappresentatività democratica; e, infine, ridare la possibilità agli elettori di scegliersi i propri rappresentanti.
Tre obiettivi che si possono tranquillamente raggiungere con partiti che hanno una visione diversa, se non alternativa, sul progetto di governo della società ma che sui caposaldi essenziali del vivere comune si ritrovano in un comune disegno politico ed istituzionale. E se questo obiettivo politico sarà raggiunto avremo la conferma che anche la politica italiana, seppur in crisi, può raggiungere traguardi positivi. Nel rispetto delle distinzioni politiche ma in un quadro dove non c’è il “nemico” da abbattere ma l’avversario con cui confrontarsi. Soprattutto quando si parla di regole istituzionali e, nello specifico, di sistema elettorale.

da Europa Quotidiano 11.02.12

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“Un Pd convertito al proporzionale. Come e perché la linea è cambiata”, di Rudy Francesco Calvo

La transizione silenziosa dal doppio turno (deciso all’unanimità) alla bozza Violante-Bressa
La copertura politica ufficiale di Pier Luigi Bersani è giunta ieri da Tunisi: «Bisogna uscire da un meccanismo ipermaggioritario che ha portato guai enormi. Serve un mix di maggioritario e proporzionale, con un meccanismo premiale per le coalizioni».
La bozza Violante-Bressa presentata alle altre forze politiche nelle trattative di questi giorni e svelata ieri da alcuni quotidiani, tra cui Europa, risponde alle esigenze espresse dal segretario del Pd, che ha posto paletti chiari: «L’elettore deve conoscere il suo deputato e i partiti devono presentarsi con il loro volto». Insomma, Bersani vuole il simbolo del Pd sulla scheda e vuole il legame tra eletti ed elettori. Con i collegi uninominali, innanzi tutto, ma senza disdegnare nemmeno brevi liste bloccate (apprezzate, a dire il vero, in modo bipartisan).
I principi espressi dal segretario dem hanno accompagnato la storia del partito sin dalla sua nascita con Veltroni, ma sotto la gestione bersaniana hanno cambiato progressivamente la propria realizzazione pratica. Il primo atto fu l’assemblea nazionale del maggio 2010 a Roma. Lì i delegati eletti con le primarie approvarono all’unanimità una mozione sulla riforma elettorale che, tralasciando i dettagli, imponeva ai vertici del partito l’elaborazione di una proposta che «deve favorire la costruzione nelle urne di una maggioranza di governo » e suggeriva come «buon sistema elettorale» quello «di impianto maggioritario fondato sui collegi uninominali».
Un testo abbastanza vago da essere accettato come buona mediazione da tutte le componenti del Pd, al termine di un lungo confronto notturno all’interno del padiglione della Fiera di Roma. A dire il vero, nemmeno il passaggio da questa dichiarazione di principio alla formulazione di una proposta (più o meno) dettagliata creò particolari turbolenze interne. Fu il “caminetto” del 9 giugno 2011 (quasi un anno dopo, quindi) a varare, anch’esso all’unanimità, quello che fu chiamato “modello ungherese”: un mix di uninominale a doppio turno (60 per cento) e recupero proporzionale (35 per cento), che lasciava spazio anche a chi non avrebbe superato lo sbarramento, grazie a un diritto di tribuna pari al 5 per cento dei seggi. Una proposta che fu formalizzata in maniera autorevolissima, depositandola come disegno di legge il 26 luglio scorso sia al senato (prima firmataria Anna Finocchiaro) che alla camera (primo firmatario Pier Luigi Bersani, secondo Dario Franceschini). Questo è stato l’ultimo atto formale del Pd in materia di legge elettorale.
Il primo segnale della virata proporzionalistica l’ha dato Franceschini nello scorso mese di dicembre, con due interviste (a la Repubblica e La Stampa) in cui prima spiega che «il bipolarismo si può difendere anche con una legge proporzionale » e poi, per sgombrare il campo dall’ipotesi di un modello di tipo spagnolo (effettivamente bipolare), chiarisce di riferirsi a «qualcosa che assomigli» al tedesco. È l’ultimo atto dell’avvicinamento di AreaDem alla maggioranza bersaniana, dopo il divorzio da MoDem. A dare il via libera alle trattative, prima interne e poi con gli altri partiti, è l’ultima riunione del caminetto, che dà mandato a Violante, Bressa e Zanda di elaborare una nuova proposta da presentare al tavolo. Il gruppo è allargato anche a Tonini e D’Ubaldo, in rappresentanza della minoranza, ma i due non parteciperanno agli incontri con le altre forze politiche. Ne viene fuori la proposta spiegata ieri: un mix di collegi uninominali e liste circoscrizionali, con l’aggiunta di un “bonus” per le coalizioni (o le liste) che superano il 10 per cento. Una bozza lasciata volontariamente in bilico tra tedesco e spagnolo, per cercare poi il giusto equilibrio al tavolo con le altre forze politiche. «Un sistema buono per uscire dal bipolarismo coatto di questi anni – spiega Tonini – a patto di non impedire ai cittadini di decidere il loro governo. Non possiamo costruire un sistema elettorale in cui il secondo turno sia una sorta di congresso dell’Udc, per decidere in parlamento con chi stare».
Violante, però, presenta al tavolo delle trattative proprio con l’interpretazione più “tedesca” del modello elaborato. Secondo Arturo Parisi, «in radicale contrasto con lo spirito e i deliberati che hanno preparato e guidato per anni la costituzione del partito». Ma per la gioia del Terzo polo, che subito si dichiara d’accordo.
La torsione a 180 gradi dei Democratici è così compiuta. Perché possa servire effettivamente a superare il Porcellum, però, la strada è ancora lunga. «Mi sembra che per ora ci siano solo tante, troppe parole», dice Anna Finocchiaro. E rimane, soprattutto, l’incognita del Pdl: davvero Berlusconi si è convertito alle riforme? E, in seconda battuta, anche lui è disposto, come sembra essere il Pd, ad affidare al Terzo polo il ruolo di ago della bilancia per la prossima legislatura?

da Europa Quotidiano 11.02.12