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La Giornata della memoria travolta dal turismo di massa, le denunce degli artisti, il dilemma degli studiosi

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Ad ogni anno, quando si avvicina la Giornata della memoria, diciamo che quello dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz è un anniversario che non guarda al passato, ma al presente e al futuro. Ma anno dopo anno, cresce il dubbio che possa davvero essere così. Ora che stanno rapidamente scomparendo i testimoni diretti dell’Olocausto e delle deportazioni politiche e razziali volute dai regimi nazi-fascisti, ci si interroga su come sia possibile mantenere viva la Memoria, storicamente corretta, e non una simil-memoria, mediata dalle ideologie e dalle retoriche dell’oggi. E ogni anno, in realtà, scopriamo che il tema non si esaurisce, che nuovi stimoli, nuove letture, nuovi fenomeni vengono ad arricchire, e diversificare, quello che pensavamo fosse un dato acquisito. Ad esempio, grazie anche all’opera di artisti sensibili e dotati che hanno saputo renderci partecipi del fenomeno, cresce la riflessione pubblica sul turismo di massa nei luoghi della memoria: luoghi di tragica sacralità, come i campi di concentramento o i memoriali, che vengono visitati da centinaia di migliaia di persone. E questo è certamente un bene per la Memoria. Ma poi, il prevalere di un atteggiamento distratto se non indifferente mostrato da questi particolari “turisti” – dovuto anche, ma non solo, alla scarsa conoscenza degli eventi – fa nascere più di un dubbio sulla consapevolezza della loro visita e, quindi, del loro atto di memoria. Ancora una volta, l’arte si dimostra capace di cogliere e rappresentare al grande pubblico un fenomeno particolare e controverso, altrimenti analizzato solo nella ristretta cerchia degli studiosi e degli addetti ai lavori. Il regista ucraino Sergei Loznitsa ha girato nel campo di concentramento di Sachsenhausen, a tre ore da Berlino, il film in bianco e nero “Austerlitz”, che sta arrivando nelle sale italiane. Con la tecnica del campo fisso, documenta una giornata di ordinario turismo nel luogo dove trovarono la morte trentamila ebrei. C’è chi fa uno spuntino, chi ascolta distratto la guida, chi si mette in posa per una foto di gruppo.
Proprio le foto, ma soprattutto i selfie, sono al centro del lavoro di un altro artista, Shahak Shapira, origini israeliane, ma immigrato adolescente in Germania insieme con la famiglia. Assistendo alla abnorme mole di selfie e pose assurde assunte dai visitatori del Memoriale dell’Olocausto di Berlino ha avuto l’idea di scontornare i singoli soggetti e inserirli non più tra la pregnanza asettica delle stele, ma direttamente tra i prigionieri scheletrici ed emaciati dei lager, tra i cumuli di cadaveri, nella realtà quotidiana degli oltre sei milioni di vittime della follia nazista. E le pose dei turisti, la loro smania di apparire, diventano oscene perché profane, scandalose nella loro banalità. Non c’è empatia, non c’è compassione, non c’è riflessione. Sia chiaro: non sostengo che questi luoghi debbano diventare santuari aperti solo a una ristretta élite di interessati. Anzi. Il rischio più grosso è la dimenticanza di quanto accaduto, la smemoratezza delle nuove generazioni, di quelle temporalmente sempre più lontane dagli avvenimenti. E, allora, affinché i selfie, e la visita di un ex-campo, magari in bermuda e infradito, non siano “invano”, ma possano trasformarsi in un barlume di conoscenza e consapevolezza bisogna lavorare tanto, ma proprio tanto in ogni sede e agenzia educativa, a cominciare dalla scuola e dall’università, per l’approfondimento della Storia, ma anche per l’educazione al rispetto dell’altro, di tutti gli altri. In realtà ci sono istituzioni che, da tempo, sono impegnate su questo fronte. Per restare al nostro territorio, penso al lavoro di ricerca e trasmissione della conoscenza portato avanti dalla Fondazione Villa Emma o all’impegnativo lavoro con le scuole della Fondazione Fossoli, i cui ormai famosi viaggi della memoria (che da quest’anno, tra l’altro, cambiano formula) sono preceduti da un rigoroso percorso di preparazione, in modo da rifuggire l’”effetto gita” per perseguire il tentativo di far giungere i ragazzi alla consapevolezza di quanto accaduto. Basterà in una società che fa del consumo, anche culturale, un elemento di distinzione e riconoscibilità sociale? Forse no, ma indietro non si torna: la riflessione su come procedere è aperta, e non solo agli addetti ai lavori…”.

Docenti, un concorso e poi la formazione iniziale retribuita

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Sono la relatrice della delega, prevista dalla legge 107, sulla formazione iniziale e l’accesso al ruolo di insegnante di scuola secondaria. Il provvedimento, che introduce un vero e proprio ribaltamento del sistema precedente, è stato incardinato oggi. Il nuovo meccanismo di ingresso nella professione di docente prevede prima la partecipazione a un concorso pubblico e, poi, a seguire, un triennio retribuito di formazione e di tirocinio, al termine del quale è prevista l’automatica immissione in ruolo.

 

Formazione iniziale e accesso all’insegnamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado
Schema di D.lgs. n. 377
Bozza di relazione

Lo schema di decreto legislativo di cui oggi avviamo l’esame recepisce la delega prevista dalla legge 107/2015, in materia di nuovo sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente nella scuola secondaria.
Il nuovo sistema è profondamente diverso da quello, anzi da tutti quelli previgenti, anche se si può pensare che ne costituisca una naturale evoluzione motivata dalle esperienze e dalle riflessioni degli ultimi decenni. Si tratta però di un vero ribaltamento di paradigma: la selezione dei candidati docenti avverrà prima e non dopo la specifica formazione professionale iniziale.
Ricorderete infatti, che l’articolo 1, comma 181, lettera b), della legge 107 ha disposto l’accesso ai ruoli attraverso concorso pubblico nazionale dopo la laurea magistrale, prevedendo che, al superamento del concorso, si avvii un contratto triennale di formazione e tirocinio retribuito, attraverso cui si raggiungerà un’adeguata formazione, disciplinare e professionale, improntata – come obiettivo di lungo termine – anche al continuo aggiornamento disciplinare e didattico e alla costante sperimentazione e innovazione metodologica, maturando progressivamente le competenze necessarie alla funzione docente. La conclusione positiva di questo percorso determina l’attivazione del rapporto a tempo indeterminato. Si intende, quindi, sostituire il sistema vigente, che richiede, dopo la laurea magistrale, il conseguimento dell’abilitazione e, successivamente, il superamento di un concorso per entrare di ruolo.
Il nuovo sistema ha l’obiettivo di attrarre e preparare alla professione docente persone giovani e competenti nelle loro discipline, anche grazie alla eliminazione delle cause che hanno determinato il fenomeno dei lunghi periodi di precariato pre-ruolo che risiedono nell’aver tenuto rigidamente separate le fasi della formazione iniziale e dell’accesso al ruolo che, d’ora in avanti, saranno indissolubilmente e strutturalmente in relazione non solo in termini organizzativi, ma anche progettuali. La delega in parola, infatti, disciplina, per la prima volta, la collaborazione paritetica e la coprogettazione tra scuola e università, ovvero istituzioni AFAM, nell’ambito della formazione iniziale e della valutazione, nel corso e a conclusione del triennio, del possesso delle necessarie competenze professionali e attitudini personali da parte degli aspiranti docenti.
Si tratta di una sfida innovativa, per i soggetti coinvolti, poiché la posta in gioco è di costruire un percorso che conduca alla conoscenza e all’esercizio della didattica generale e della metodologia didattica della propria disciplina, oltre che all’adeguata acquisizione di conoscenze e di competenze docimologiche, psicologiche, antropologiche, relazionali, organizzative, progettuali, digitali che ogni docente avrà modo di spendere nell’esperienza reale del complesso universo scolastico.

Nell’illustrarvi lo schema, mi soffermerò sugli aspetti principali, rinviando, per ogni approfondimento, al dossier del Servizio Studi.
Devo peraltro premettervi che durante l’esame dovremo chiarire qualche passaggio previsto dallo schema, a partire dalla definizione dell’anno nel quale sarà emanato il primo bando di concorso e dell’anno a partire dal quale il nuovo sistema diventerà l’unico per l’accesso ai ruoli nella scuola secondaria.
Lo schema specifica che l’intervento riguarda sia i docenti della scuola secondaria di primo e di secondo grado che gli insegnanti tecnico-pratici nella scuola secondaria di secondo grado e sia i posti comuni che i posti di sostegno. Inoltre, specifica che: il concorso pubblico nazionale, per titoli ed esami, è indetto su base regionale o interregionale; il percorso triennale destinato ai vincitori del concorso è di tirocinio e formazione iniziale ed è differenziato fra posti comuni e di sostegno; l’accesso ai ruoli a tempo indeterminato è stabilito previo superamento di valutazioni intermedie e finali del percorso formativo.
Il concorso è bandito ogni due anni, sul numero di posti che si prevede si rendano vacanti e disponibili nel secondo e terzo degli anni scolastici che compongono il percorso di formazione iniziale e tirocinio. Il bando prevede contingenti separati, per ciascuna regione, per posti comuni, posti comuni di insegnante tecnico-pratico, posti di sostegno. Ogni candidato può concorrere in una sola regione. Entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, un regolamento definirà, fra l’altro, i criteri di composizione e i requisiti dei componenti delle commissioni giudicatrici, i programmi delle prove di esame, i criteri generali di valutazione delle prove e dei titoli, i punteggi da assegnare, la composizione della commissione di valutazione finale e i criteri di valutazione per l’accesso al ruolo. Con il medesimo regolamento si prevede anche la costituzione di una commissione nazionale di esperti per la definizione “dei programmi” e delle tracce delle prove di esame del concorso.
Al riguardo, segnalo che dovremo chiarire se la definizione dei programmi delle prove di esame sia affidata al regolamento, ovvero debba essere definita dalla commissione nazionale di esperti. Segnalo, inoltre, che prevedere che la stessa commissione e, più in generale, che tutta la disciplina concorsuale siano definite con il regolamento implicherebbe, per ogni necessità di modifica, ripassare per il parere del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari.
Sulla base dei criteri e dei requisiti stabiliti dal regolamento, l’USR nomina, per ogni sede concorsuale e per ogni classe di concorso, una commissione giudicatrice, che è unica per posti comuni e di sostegno. Al riguardo, dovremo chiarire se, nel caso di bando riguardante più classi di concorso raggruppate in ambiti disciplinari, debba essere nominata una commissione per ogni classe.
Gli oneri relativi al funzionamento delle commissioni giudicatrici e della commissione nazionale di esperti sono quantificati a decorrere dal 2018. Da ciò si dedurrebbe che l’avvio della prima procedura concorsuale secondo il nuovo sistema sia previsto per il 2018. Ma sul punto tornerò oltre, perché le indicazioni del testo non sono concordanti.
Per la gestione delle procedure concorsuali, anche al fine di assicurare la coerenza tra gli insegnamenti impartiti e le classi disciplinari di titolarità dei docenti, è previsto anche il riordino e l’aggiornamento periodico delle classi di concorso.
Inoltre, è prevista l’organizzazione di specifiche attività formative riservate a docenti di ruolo in servizio, volte a consentire l’insegnamento anche in classi disciplinari affini o di modificare la classe disciplinare di titolarità, nell’ambito dei limiti previsti dalla mobilità professionale e in coordinamento con la formazione continua. Tale disposizione potrà essere utilizzata anche da chi vorrà transitare dal posto di sostegno al posto comune.
Requisito per la partecipazione al concorso è, per i posti comuni di personale docente, il possesso della laurea magistrale o a ciclo unico, oppure del diploma accademico di II livello, coerente con la classe di concorso. Per i posti comuni di insegnante tecnico-pratico è richiesto il possesso della laurea, oppure del diploma accademico di I livello, sempre coerente con la classe di concorso. Per i posti di sostegno è richiesto il possesso del titolo di studio previsto per i posti comuni di personale docente o di insegnante tecnico-pratico, in relazione alla classe di concorso per la quale il candidato presenta domanda di partecipazione.
Per tutte le tipologie di posto, inoltre, è richiesto il possesso di almeno 24 crediti formativi universitari o accademici che il comma 181 lettera b) punto 2.1 della legge 107 ha individuato nell’ambito delle discipline antropo-psico-pedagogiche e in quelle che concernenti le metodologie e le tecnologie didattiche. Mi soffermo nel ricordare che tali crediti sono conseguibili sia come crediti curriculari che come crediti aggiuntivi, pertanto lo studente aspirante docente potrà ottenerli nel corso della laurea triennale o del diploma di I livello ovvero nel corso della laurea magistrale o del diploma di II livello ovvero come crediti aggiuntivi nel corso degli studi o al termine di essi. A tale proposito – e allo scopo di non determinare un aggravio del percorso di studi – lo schema in parola dispone che con DM si possa intervenire sulle classi dei corsi di laurea, di laurea magistrale e di I e II livello. Nel caso si tratti di crediti aggiuntivi inseriti nel piano di studi sarebbe necessario disporre una norma che “tuteli” gli studenti – e conseguentemente i corsi di laurea – rispetto alle conseguenze di una inevitabile impossibilità a mantenere la regolarità degli studi.
Questi 24 crediti – che molto interesse hanno destato nel mondo accademico – costituiscono la parte iniziale di un unico percorso verticale, coerente ed organico, che prosegue nel triennio successivo: si tratta di un “curriculum” verticale nel corso del quale, in successivi momenti di formazione, si declineranno in senso pedagogico e didattico i contenuti disciplinari appresi durante gli studi universitari o accademici e matureranno le competenze specifiche che qualificano professionalmente il mestiere dei docenti. Pertanto, il dettaglio dei 24 CFU, in termini dei settori scientifico-disciplinari in cui potranno/dovranno essere maturati, dovrà essere coerente con i successivi 75 CFU per i posti comuni e 90 per i posti di sostegno, nonché con tutta l’attività formativa prevista per il triennio e su cui si dirà poco oltre. Una coerenza che potrà realizzarsi solo dopo aver individuato gli obiettivi formativi e le competenze da acquisire del complessivo curriculum verticale, senza dimenticare la necessità di un’ulteriore coerenza con i percorsi della formazione in servizio, per l’aggiornamento delle competenze personali e dei risultati della ricerca educativa come funzione imprescindibile della professione docente nella scuola delle competenze.
Rispetto al testo della delega richiamata poco fa, lo schema in parola specifica che almeno 6 dei 24 crediti devono essere conseguiti in almeno 3 dei seguenti 4 ambiti disciplinari: pedagogia, pedagogia speciale e didattica dell’inclusione; psicologia; antropologia; metodologie e tecnologie didattiche. Tra i requisiti sono altresì previsti l’attestazione di competenze linguistiche corrispondenti almeno al livello B2, nonché competenze informatiche e telematiche.
Il concorso consiste in due prove scritte a carattere nazionale e una prova orale. Per i soli candidati che concorrono per i posti di sostegno è prevista un’ulteriore prova scritta a carattere nazionale.
In particolare, la prima prova scritta ha l’obiettivo di valutare il grado delle conoscenze in una specifica disciplina, scelta dal candidato tra quelle afferenti alla classe di concorso. Nel caso delle classi di concorso concernenti le lingue e culture straniere, la prova è effettuata nella lingua prescelta.
La seconda prova scritta – a cui accedono i candidati che hanno superato positivamente la prima – ha l’obiettivo di valutare il grado delle conoscenze nelle discipline antropo-psico-pedagogiche e sulle metodologie e tecnologie didattiche.
Il superamento della seconda prova scritta consente l’accesso alla prova orale, che ha l’obiettivo di valutare il grado delle conoscenze in tutte le discipline facenti parte della classe di concorso, nonché di accertare la conoscenza di una lingua straniera europea e il possesso di abilità informatiche di base.
La prova scritta aggiuntiva per i candidati a posti di sostegno è sostenuta dopo la seconda prova scritta e ha l’obiettivo di valutare il grado delle conoscenze nella pedagogia speciale, nella didattica per l’inclusione scolastica e nelle relative metodologie.
La graduatoria di merito comprende, per ciascuna sede concorsuale e per ciascuna classe di concorso, solo i candidati che hanno superato tutte le prove d’esame. Per i posti comuni, essa è formata sulla base della somma dei punteggi riportati nelle tre prove, nonché nella valutazione dei titoli, mentre, per i posti di sostegno, per il 70%, si tiene conto del punteggio riportato nella prova scritta aggiuntiva e, per il restante 30%, della somma dei punteggi riportati nelle altre tre prove e nella valutazione dei titoli. A questo punto i candidati presenti nelle graduatorie di più classi di concorso devono esercitare innanzi tutto l’opzione per una delle classi di concorso e, successivamente, i candidati che concorrono anche a posti di sostegno esercitano l’opzione tra posto comune e posto di sostegno. Al termine dell’esercizio di queste opzioni, in ogni sede concorsuale e per ogni classe di concorso, è determinato, separatamente per posti comuni e posti di sostegno, l’elenco definitivo, in ordine di punteggio, dei vincitori, pari al numero dei posti messi a concorso maggiorato del 5%.
In ordine di punteggio, i vincitori scelgono poi l’ambito territoriale cui essere assegnati per svolgere il percorso formativo, tra quelli indicati nel bando nella regione in cui hanno concorso e sottoscrivono il contratto retribuito a tempo determinato di durata triennale di tirocinio previsto dalla legge, le cui condizioni normative ed economiche sono definite in sede di contrattazione collettiva nazionale.
La retribuzione dei vincitori di concorso nel triennio di formazione iniziale e tirocinio è uno dei punti più delicati e importanti dello schema in esame, pur essendo corretto che ogni determinazione precisa venga lasciata alle determinazioni della contrattazione collettiva. La legge delega prevede espressamente un “contratto retribuito” per l’intero triennio e specifica che il decreto delegato deve dettare “la disciplina relativa al trattamento economico durante il periodo di tirocinio, tenuto anche conto della graduale assunzione della funzione di docente”.
Lo schema in esame ora prevede che, nel terzo anno di tirocinio, le condizioni economiche siano equivalenti a quelle di una supplenza annuale, senza ulteriori dettagli riguardo al trattamento retributivo spettante ai contrattisti nel primo e secondo anno, salvo l’indicazione che la contrattazione collettiva deve svolgersi nel limite di un maggior onere pari a 117 milioni di euro annui, a cui si aggiungono, per le esigenze del secondo anno, le risorse corrispondenti alle supplenze brevi.
Ritengo che il dibattito nelle Commissioni congiunte dovrà approfondire attentamente questo tema, sia per adeguare il testo del decreto alle prescrizioni della delega, sia per dare una prima risposta alle preoccupazioni che sono state immediatamente sollevate. Occorrerà, in particolare, dare indicazioni sulla retribuzione del primo anno – quello destinato a conseguire il diploma di specializzazionne – senza dimenticare che finora i costi della formazione sono stati interamente a carico degli interessati (sia per le SSIS, sia per TFA e PAS) per cifre cospicue, con una media di 2.500-3000 euro l’anno per persona, mentre, in futuro, non vi saranno costi ma una retribuzione per i vincitori di concorso che seguiranno il corso di specializzazione.
Occorrerà, altresì, garantire le risorse economiche adeguate e individuare le condizioni generali degli incarichi didattici e della retribuzione del secondo anno affinché risultino coerenti con gli impegni formativi e lavorativi del contrattista e con la graduale assunzione della funzione di docente prevista dalla legge.
Come anticipato, alla luce della previsione che quantifica gli oneri relativi alle attività delle commissioni giudicatrici a decorrere dal 2018, occorrerà chiarire perché si preveda che gli oneri derivanti dai contratti stipulati con i vincitori del concorso decorrano solo tre anni dopo. Peraltro, tale onere, riferendosi anche al primo anno del contratto, dovrebbe avere la stessa decorrenza di quella dell’onere per l’organizzazione dei corsi di specializzazione che, invece, è previsto dal 2020. Ma su questo punto tornerò a breve.
Vengo ora a illustrare il percorso di formazione e tirocinio, facendo notare che esso, come anticipato, è realizzato in collaborazione fra scuola, università e istituzioni AFAM e ha l’obiettivo di rafforzare la metodologia didattica e le specifiche competenze – in particolare pedagogiche, relazionali, valutative e tecnologiche – della professione docente.
Il corso universitario di specializzazione che il tirocinante deve frequentare nel primo anno di contratto comprende lezioni, seminari e laboratori, nonché attività di tirocinio per un numero di ore che saranno definite con decreto. Si segnala a questo proposito un lieve contrasto lessicale presente tra l’articolo 9, comma 2, lettera b), e l’articolo 12, comma 3, dello schema in esame: nel primo si legge che il tirocinio indiretto si svolge presso le scuole, mentre nel secondo, correttamente, si indica che il tirocinio indiretto si svolge, per sua stessa definizione, presso le università o istituzioni AFAM. Si noti che l’ordinamento didattico del corso di specializzazione sarà definito dalla Conferenza nazionale per la formazione iniziale e l’accesso alla professione docente, istituita dall’articolo 14 dello schema di decreto e costituita in composizione paritetica tra scuola e università.
Il corso del primo anno si conclude con un esame finale, che consente di conseguire il diploma di specializzazione che dà accesso al secondo anno. Il contratto è poi confermato per il terzo anno se viene superata la valutazione intermedia alla fine del secondo anno.
Durante il secondo e terzo anno, il contrattista deve svolgere un progetto di ricerca-azione, sotto la guida congiunta dei tutor universitario e scolastico e, sulla base di incarichi del dirigente scolastico, può effettuare supplenze, anche brevi o saltuarie nel secondo anno ma che, nel terzo anno di contratto, riguardano posti vacanti e disponibili, quindi con orario completo di insegnamento. Rispetto alle figure dei tutor – sui quali tornerò più oltre – segnalo che la definizione di “tutor universitario” non ricomprende coloro i quali opereranno nelle istituzioni AFAM: pare quindi necessario individuare una nuova denominazione.
La valutazione finale del percorso di formazione e tirocinio è affidata ad una commissione presieduta da un dirigente scolastico e comprende docenti universitari e delle istituzioni AFAM impegnati nei corsi di specializzazione, nonché il tutor scolastico e il tutor universitario del contrattista. A questo proposito sarebbe utile chiarire se della commissione fanno parte anche docenti della scuola come sarebbe auspicabile. In caso di valutazione positiva, il contrattista è inserito nella graduatoria regionale per l’accesso al ruolo, stilata sulla base dei punteggi conseguiti, e sceglie l’ambito scolastico definitivo di assegnazione.
I contrattisti che conseguono il diploma di specializzazione, ma non concludono positivamente il percorso triennale, sono riammessi alla parte residua del percorso previo superamento di un nuovo concorso. Al riguardo, segnalo che dovremo chiarire il riferimento alla validità dei titoli “eventualmente” già conseguiti.
Il coordinamento e il monitoraggio del nuovo sistema di formazione iniziale e accesso alla professione docente nella scuola secondaria sono affidati ad una Conferenza nazionale, composta pariteticamente da esperti provenienti dai sistemi scolastico, universitario e AFAM. Ad essa potrebbe anche essere affidato il compito di valutare l’efficacia del sistema a partire dagli esiti raggiunti anche al fine di suggerire eventuali modifiche da apportare dopo la fase di prima applicazione. Parrebbe altresì opportuno specificare che l’intera attività della Conferenza sia orientata sulla base di un quadro organico delle competenze della professionalità docente, da aggiornare continuamente anche in raffronto con i principali modelli formativi e studi internazionali nel settore.
Per l’insegnamento nelle scuole paritarie la legge delega richiede, al punto 8, il “conseguimento” (non il “possesso”) del diploma di specializzazione. Il decreto in esame articola il requisito in due possibili fattispecie: la prima è, naturalmente, il possesso del diploma di specializzazione; la seconda, di carattere transitoria, è l’essere “iscritti al relativo corso di specializzazione, fermo restando il conseguimento del diploma di specializzazione entro un triennio dall’immatricolazione al corso”. Al riguardo, segnalo che dovremo valutare se tale ultima previsione sia coerente rispetto ai principi di delega, così come dovremo chiarire la previsione di conseguimento dello stesso “entro un triennio dall’immatricolazione al corso” quando invece il corso di specializzazione ha durata annuale. Si comprende tuttavia che la scelta operata dallo schema di decreto è correlata all’ultimo periodo del comma 2 dell’articolo 15, laddove si prevede che “è considerato titolo prioritario per l’ammissione al corso di specializzazione essere titolari di un contratto triennale retribuito di docenza presso una scuola paritaria”, norma che tende positivamente ad allineare la situazione degli insegnanti in formazione sia presso la scuola statale che presso la scuola paritaria.
Un nodo da sciogliere risiede in un’altra norma della legge 107, per l’esattezza il punto 3.4, che ha previsto “la possibilità, per coloro che non hanno partecipato o non sono risultati vincitori nei concorsi nazionali di cui al numero 2), di iscriversi a proprie spese ai percorsi di specializzazione per l’insegnamento secondario”. Si tratta di un punto contestabile della delega che il testo dello schema di decreto rischia di complicare ulteriormente poiché lo collega forzatamente all’articolo 15, relativo alle scuole paritarie, sebbene ne sia del tutto indipendente.
Come anticipato, uno dei punti dello schema che necessita di maggiori chiarimenti riguarda la previsione che le disposizioni relative al nuovo percorso entrino in vigore a decorrere dall’a.s. 2020/2021. Tale disposizione rischia di pregiudicare il concreto avvio del nuovo sistema, lasciando peraltro nell’incertezza i giovani che stanno concludendo i propri studi magistrali o accademici di II livello: per rispondere alle loro legittime istanze si dispone la possibilità di attivare un nuovo corso di TFA per le classi di concorso e le tipologie di posto per le quali sono esaurite le graduatorie ad esaurimento, pur nella consapevolezza che questo nuovo corso differirebbe ulteriormente l’avvio del nuovo sistema.
Rispetto a questi temi, l’esame nelle Commissioni del provvedimento è l’occasione per una attenta analisi dei tempi di realizzazione delle diverse fasi del nuovo percorso (emanazione di Decreti Ministeriali, redazione del bando concorso secondo la disciplina transitoria, svolgimento del concorso per i posti vacanti e disponibili a partire dall’a.s. 2019/2020 (il concorso indetto nel 2016 riguarda i posti vacanti e disponibili fino all’a.s. 2018-2019) al fine di sincronizzarle e valutare quindi la possibilità di un anticipo della decorrenza del percorso triennale di formazione e tirocinio.
Lo schema in parola prevede una “disciplina transitoria”, vale a dire disposizioni che si applicano per l’accesso ai ruoli a categorie di soggetti che nel tempo sono destinate ad esaurirsi. In particolare, dispone una riserva di posti nel concorso – non specificata né nell’entità, né nella durata, come invece meriterebbe di esserlo – per i soggetti abilitati e per quelli inseriti nella terza fascia delle graduatorie di istituto, con almeno 36 mesi di servizio. Si tratta di un tema delicato perché riguarda il futuro professionale di migliaia di docenti che lavorano, spesso da tempo, in condizioni di precariato. Per gli stessi soggetti che usufruiscono della riserva di posti, prevede anche una semplificazione del percorso concorsuale. In particolare, gli abilitati devono sostenere solo la prova orale, mentre i soggetti iscritti nelle graduatorie di istituto di terza fascia con almeno 36 mesi di servizio devono sostenere solo la prima prova scritta e la prova orale.
Prevede, inoltre, una semplificazione del percorso triennale di formazione e tirocinio per i vincitori del concorso che sono in possesso dell’abilitazione, riservatari e non. In particolare, i vincitori del concorso relativo a posti comuni e a posti di insegnante tecnico-pratico, in possesso di abilitazione, accedono direttamente al secondo e al terzo anno del contratto. Il percorso è ridotto al solo terzo anno se i soggetti hanno prestato servizio per almeno 36 mesi. Resta da valutare se debbano o meno conseguire i crediti formativi previsti al III anno per i tirocinanti del percorso ordinario.
Analoghe previsioni, su cui non mi dilungo, riguardano i vincitori del concorso relativo a posti di sostegno in possesso di pregressa specializzazione per l’insegnamento su posti di sostegno.
Un’ultima semplificazione è prevista per i vincitori del concorso – per tutte le tipologie di posto – che non sono in possesso dell’abilitazione, ma sono inseriti nelle graduatorie di istituto di terza fascia con almeno 36 mesi di servizio, riservatari e non. Essi, dopo il conseguimento del diploma di specializzazione, sono ammessi direttamente al terzo anno di contratto.
Il nuovo sistema di formazione iniziale e accesso al ruolo della scuola secondaria richiede, ovviamente, investimenti specifici, per retribuire i titolari dei contratti di formazione triennale e per far funzionare la macchina formativa, pur dovendosi considerare anche le risorse provenienti dall’utilizzazione dei tirocinanti del II e III anno come supplenti e, più in generale, dall’eliminazione graduale del fenomeno delle supplenze prevista dal punto 5 della legge delega. Comunque occorrerà certamente un investimento specifico per il personale universitario e scolastico che curerà la formazione dei futuri docenti.
Stante l’attuale situazione dell’organico accademico – rispetto ai professori universitari disponibili nelle discipline interessate (in particolare nelle didattiche disciplinari) e alle loro specifiche qualificazioni nel campo della formazione degli insegnanti e della ricerca educativa – è facile immaginare le difficoltà, forse insormontabili, che gli atenei dovranno affrontare se non potranno contare su risorse specificatamente destinate a tale finalità. Gli atenei dovranno quindi essere incentivati a destinare posti di professore a questa nuova attività formativa (ad esempio con quote predefinite del Fondo di Finanziamento Ordinario e di punti organico) e a selezionare i nuovi professori anche sulla base delle loro capacità di contribuire direttamente alla formazione degli insegnanti, disponendo altresì che le docenze in discipline professionalizzanti (corsi di laboratorio e di didattica agita nelle scuole) possano essere affidate anche a insegnanti della scuola particolarmente esperti e selezionati allo scopo.
A questo proposito, rispetto alle figure dei tutor scolastici e universitari (sulla cui denominazione da cambiare si è già detto) – figure fondamentali per il buon funzionamento del nuovo sistema perché veri e propri “ponti” tra università e scuola – si ritiene necessario che lo schema in parola rinvii ad una revisione della normativa vigente, al fine di armonizzare la loro formazione, selezione e organizzazione (incluso la durata del contratto e la possibilità di eventuali esoneri, totali e parziali, dall’attività didattica) con le inedite esigenze del nuovo sistema di formazione iniziale e accesso al ruolo della scuola secondaria.
Aggiungo, infine, che lo schema in parola è privo delle necessarie previsioni riguardanti la disciplina applicabile nelle regioni a statuto speciale in cui sono presenti più gruppi linguistici.
In conclusione auspico l’avvio di una partecipata discussione – che sarà stimolata dagli esiti delle molte audizioni previste dal nostro calendario dei lavori – su un tema che rappresenta una delle più grandi sfide del futuro: la disponibilità di una classe docente preparata e motivata, che possa così preparare e motivare il capitale umano del futuro.

photo credit: oriolsalvador #FCP2015 | Viikki School (teacher training school) via photopin (license)

Trump, le donne, l’Europa e la sinistra

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Su Fb, un utente tra i tanti ha ammesso di avere paura di Trump; un interlocutore ha risposto “Perché? È Presidente USA non Europeo”. Un altro ha aggiunto “Perché ti fa tanta paura? Non ti spaventa di più il cartello che gli si oppone e sembra apparentemente intenzionato a scatenare anche una guerra civile?” e un altro: “Preoccuparsi di Trump e dimenticare i danni causati al mondo dai guerrafondai Bush, Clinton (marito e moglie) e Obama mi pare francamente eccessivo”. Una spigolatura di opinioni – e come tali fondate su convincimenti forti ma magari non avvalorate dai dati oggettivi – che dimostrano come anche in Italia di fronte a Donald Trump, il popolo si “spacchi a metà”. Da noi è già accaduto vent’anni fa, alla nascita della parabola berlusconiana: il Silvio nazionale convinse metà del Paese che la sua esperienza imprenditoriale avrebbe rifatto grande l’Italia, a partire dal milione dei posti di lavoro. Sappiamo com’è andata a finire: il promesso miracolo è rimasto nell’agenda, la crisi del 2008 non è stata interpretata in tempo (qualcuno ricorda i 3 provvedimenti estivi del 2011?) e sul versante squisitamente politico i conservatori-liberali sono stati surclassati dai populisti di Salvini. Ma si sa, la Storia non è realmente maestra di vita quindi quanto accaduto in Italia non ha condizionato l’elettorato statunitense: da due giorni è presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il plurimiliardario. Di lui si è scritto e letto moltissimo e non avrei mosso commenti se non avessi letto i commenti di cui sopra oggi, dopo che il primo atto del Presidente è stato cominciare a smantellare l’Obamacare mentre una marea di donne e uomini nel mondo marciava contro la sua politica. Rispetto all’Obamacare ha mantenuto la promessa: con un decreto del Presidente il programma dal quale dipende l’assistenza sanitaria per 20 milioni di americani a basso reddito è stato limitato, pertanto milioni di famiglie potrebbero perdere l’assistenza in assenza di assicurazione. Servirà questo a ridare priorità e sicurezza a quella classe media, sfiduciata e impaurita, che ha sostenuto l’ascesa di “The Donald”? I dubbi sono legittimi, ma vedremo. Un inciso: qualcuno (sotto il riflesso condizionato del benaltrismo) si starà chiedendo perché preoccuparsi della sanità statunitense invece di quella nazionale: l’incremento di 2 miliardi del Fondo sanitario e l’approvazione dei nuovi LEA dopo 16 anni testimoniano l’interesse al tema… Ma torniamo a bomba: davvero possiamo pensare che nell’era della internazionalizzazione quanto accade negli USA non ci riguardi? Gli effetti del neoprotezionismo annunciato da Trump  non si fermeranno ai confini americani, come non vi si fermarono quelli della politica monetaria espansiva della FED,  della deregolamentazione del mercato finanziario e della bolla del mercato immobiliare bancarotta, che ebbero sintesi nel fallimento della Lehman Brothers… Il neoprotezionismo è miele per chi paga le conseguenze della disoccupazione e delocalizzazione – distretti industriali e middle class – ma i traumi sono l’esito di molteplici tendenze, globalizzazione e rivoluzioni tecnologiche, difficilmente cancellabili. E la risposta, secondo molti, dipende più da nuove guerre alla povertà – politiche e investimenti sociali, riqualificazione e istruzione, riduzione delle sperequazioni – che non da guerre commerciali, patriottiche o meno“.
Nell’attesa di capire come la situazione evolverà negli Usa – e nel resto del mondo – una certezza di conferma: le donne saranno una spina nel fianco per Trump. Le grandi marce di ieri in tanti diversi Paesi, con le 500mila presenze di Washington questo ci dicono: le donne, e i loro movimenti, vigileranno e lotteranno per la difesa dei diritti conquistati e per le tutele ancora da conquistare (sul sito della Casa Bianca è già stata cancellata la pagina sui diritti LGBT). Di sicuro, ora che Trump dai proclami dovrà passare alla prassi concreta di governo, dovrà tenere conto anche di loro, della loro forza e della loro determinazione. E questa è sicuramente un aspetto, non trascurabile, che fa ben sperare. Mentre noi, da questa parte dell’Oceano, potremmo credere nella Storia maestra di vita e far tesoro della lezione americana che fa suonare, forte, una campana per la sinistra e per il “ritrovare” la sua strada. Scrive oggi Veltroni: la campana di Trump suona anche per la sinistra. O si sveglierà dal suo sonno e dal suo istinto incontenibile a litigare e dividersi, o tornerà a capire che la sua casa è il dolore sociale e il suo linguaggio sono la speranza e l’innovazione oppure sarà soprammobile rissoso di un mondo che andrà da un’altra parte. Condivido. Soprattutto dopo aver letto i resoconti dell’incontro dei partiti che in Europa formano il gruppo ENL, una destra tanto nuova quanto vecchia, ispirata al nazionalismo, al populismo, e ad un mal interpretato patriottismo. Proprio come accade a Trump. E il cerchio si chiude.

photo credit: Susan Melkisethian Women’s March DC 2017 via photopin (license)

Centro Italia, parlamentari Pd “No allo sciacallaggio politico”

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Il coraggio dimostrato a dispetto delle difficoltà materiali, fisiche e psicologiche, l’incessante voglia di lottare frammisto a umano scoramento e dolore delle popolazioni del Centro Italia meritano il nostro rispetto e il nostro sostegno. Insieme ai colleghi modenesi del Pd Davide Baruffi, Maria Cecilia Guerra, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini, Matteo Richetti e Stefano Vaccari, vogliamo stigmatizzare coloro che, in queste ore drammatiche per il Centro Italia, invece approfittano per fare squallido sciacallaggio politico sulla disperazione di intere popolazioni. Lo sforzo messo in campo dalla Protezione civile, dal commissario Vasco Errani, dall’Esercito, dalle Amministrazioni centrali e locali è immane. La contemporaneità di eventi calamitosi, il rinnovarsi delle scosse di terremoto e l’imponente nevicata, hanno creato condizioni oggettivamente eccezionali. L’impegno del sistema nazionale di Protezione civile e della Struttura commissariale per il sostegno ai terremotati viene portato avanti con rinnovata determinazione e competenza, un’opera di valore e di enorme complessità. A Curcio e a Errani può andare solo il nostro plauso e il nostro incoraggiamento. A Salvini, ma anche a detrattori malpancisti come Bertolaso, consigliamo di provare a fare qualcosa di utile: magari cimentarsi con una pala e mettersi al lavoro.

photo credit: Michele Massetani

Seconde generazioni, approvare la legge per la cittadinanza italiana ferma al Senato

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Sono giovani che parlano la nostra lingua con i nostri stessi accenti dialettali, sono i compagni di classe e di università dei nostri figli, sono gli apprendisti nelle fabbriche e negli uffici. Sono giovani italiani a tutti gli effetti, tranne uno, ma fondamentale: non sono (ancora) cittadini italiani. Perché questo accada ho firmato l’appello al presidente del Senato Grasso, promosso dai parlamentari Chaouki e Santerini, affinché venga approvato, entro la fine della legislatura, il disegno di legge che prevede la possibilità di acquisire la cittadinanza italiana da parte dei figli delle famiglie immigrate, nati e cresciuti in Italia. Alla Camera il provvedimento lo avevamo già licenziato il 13 ottobre del 2015, ma ora è necessario accelerare l’approvazione in via definitiva al Senato. Gli appartenenti alle cosiddette “seconde generazioni” (si stima che in Italia siano quasi un milione di giovani) devono poter diventare cittadini a tutti gli effetti, per potersi costruire un percorso di vita sereno e contribuire alla crescita del nostro Paese, che è anche il loro.

Bagarinaggi online, mentre la Commissione Cultura indaga, Vasco Rossi punta su Modena per un concerto “trasparente”

imageParte da Modena, da casa mia, lo sforzo più ponderoso per garantire massima trasparenza e tracciabilità nella vendita dei biglietti di un grande concerto rock. Il prossimo 1° luglio Vasco Rossi, dopo 40 anni, torna laddove aveva cominciato, in quel “Modena Park” (il Parco Ferrari) reso famoso in tutta Italia dalle sue canzoni. Ebbene, mi fa piacere sottolineare che, mentre la Commissione Cultura della Camera di cui faccio parte ha avviato un’indagine conoscitiva sul bagarinaggio online (il fenomeno per cui, pochi minuti dopo l’apertura della prevendita online dei biglietti di un grande concerto, tutti i ticket sono già esauriti per poi ricomparire sul mercato secondario a prezzi decuplicati), a Modena gli organizzatori non solo si sono posti seriamente il problema, ma, insieme agli organismi preposti, stanno prevedendo meccanismi, mai sperimentati prima in tutta la loro complessità, che siano in grado di tutelare tanto gli acquirenti dei biglietti quanto, come immediata ricaduta, l’immagine degli stessi artisti. E’ stato reso noto proprio oggi, a Milano, dagli organizzatori del concerto, mentre la Siae annunciava il ricorso alla magistratura per il più recente dei casi di bagarinaggio online avvenuto proprio ieri, quello relativo al concerto degli U2 a Roma, clamoroso quanto quello del doppio appuntamento con i Coldplay a San Siro. Nel caso modenese, era stato lo stesso Vasco Rossi, in autunno, a intervenire in prima persona per azzerare tutta l’organizzazione precedente con l’intento di ripartire, in un momento successivo, solo con precise garanzie di trasparenza. La politica non è rimasta indifferente a tentativi di truffa di così grande scala. Come Commissione Cultura, già dal mese di dicembre scorso, abbiamo avviato una specifica indagine conoscitiva di cui si sono svolte alcune audizioni che sono pubbliche, come pubblici saranno i risultati di questo nostro lavoro. Contemporaneamente, con la Legge di Bilancio, il Governo ha inasprito le sanzioni, con multe significative che possono arrivare fino a 180mila euro e, nei casi più gravi, la rimozione dei contenuti dalla rete e l’oscuramento del sito da parte dell’Agcom. Si tratta di fenomeni truffaldini e non tollerabili, che speculano sulle passioni musicali degli spettatori di tutte le età, ma soprattutto dei più giovani. Complimenti a Vasco Rossi che con il consueto pragmatismo ha speso la potenza del suo nome per una battaglia di civiltà.

La contabilità delle Università e le esigenze di semplificazione

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Le università statali, in quanto pubbliche amministrazioni finanziate principalmente dallo Stato (ma non si dimentichi la capacità che esse hanno di avere entrate proprie derivanti dalle contribuzioni studentesche, dall’acquisizione di progetti di ricerca, dallo svolgimento di attività per conto di terzi, etc.), sono ovviamente e giustamente soggette da sempre ai principi della contabilità pubblica e all’obbligo di rendicontare le loro attività sulla base di schemi di bilancio predefiniti e coerenti con tutti gli altri bilanci delle pubbliche amministrazioni.
La legge n. 240 del 2010 ha stabilito che le università statali, come molti altri enti pubblici economici, dovessero passare dal sistema di contabilità finanziaria a quello di contabilità economico-patrimoniale e analitica di tipo civilistico, adottando ogni anno un bilancio unico e un bilancio consolidato di ateneo, nonché predisponendo anche un bilancio preventivo e un rendiconto in contabilità finanziaria. I principi di questo nuovo e complesso sistema di contabilità e bilanci sono stati fissati nel decreto ministeriale n. 19 del 2014 che, dopo una prima fase di applicazione, deve essere sottoposto ora ad alcune correzioni tecniche, contenute in un decreto interministeriale che da questa settimana è all’esame delle Commissioni parlamentari (e di cui sono relatrice in Commissione Cultura della Camera).
La prima fase di applicazione delle nuove norme contabili per le università ha evidenziato problematiche di più vasta portata che dovrebbero indurre il decisore politico a riflettere più complessivamente sulla questione. Faccio riferimento, in particolare, alla continua segnalazione al Parlamento, da parte di larghi strati delle comunità accademiche e di singoli ricercatori, delle notevoli difficoltà operative indotte dalla nuova normativa nell’espletamento delle attività istituzionali delle università, in particolare per l’attività di ricerca. Non è in effetti facile, e probabilmente nemmeno utile, ricondurre l’attività di ricerca universitaria ad una attività di natura economica e produttiva senza correre il rischio di rallentarne l’esecuzione, il che sarebbe esiziale per un’attività in cui rapidità, prontezza e libertà di azione sono fondamentali per sopravvivere nella accelerata competizione internazionale di oggi.
Più in generale, mi chiedo, è davvero utile concepire e classificare l’attività finanziaria delle università come fatta di attivi e passivi patrimoniali e di costi e ricavi della «produzione» (pur definiti «costi e proventi operativi»), alla stregua di una qualunque impresa produttrice di beni e servizi da vendere sul mercato? È ovvio che occorre chiedere alle università la più oculata e trasparente gestione di risorse che provengono loro dai contribuenti con il sistema fiscale generale o dalle famiglie degli studenti per il tramite delle contribuzioni studentesche, ma dovremmo forse interrogarci se la contabilità economico-patrimoniale sia davvero la più adatta a rappresentare contabilmente l’attività universitaria e a favorirne lo sviluppo. Qual è il legame economico-finanziario tra i proventi delle attività didattiche e di ricerca e il «prodotto» fornito (formazione e nuova conoscenza), che non ha costi unitari? Qual è la natura patrimoniale delle apparecchiature sperimentali per la ricerca o dei volumi delle biblioteche ?
Non suggerisco affatto di tornare indietro alla tradizionale contabilità puramente finanziaria delle entrate e delle uscite, ma mi sembrerebbe opportuna una riflessione politica e amministrativa sull’effettivo esito, in termini di costi e benefici, della nuova normativa introdotta dalla legge n. 240 del 2010, anche per tener conto delle osservazioni e delle richieste che sono provenute e provengono continuamente dal mondo accademico, spesso espresse in termini di «semplificazione» anche se, non di rado, più che semplificazioni, sono richieste di modifiche profonde della normativa vigente.
Il Parlamento, con l’ultima legge di stabilità e con altri atti importanti come il decreto legislativo n. 218 del 2016 sull’attività degli enti di ricerca, ha effettivamente provveduto a semplificare sotto più aspetti la normativa ma senza che queste semplificazioni siano state effettivamente percepite come tali, in termini di nuova efficienza, dagli addetti ai lavori. Forse perché, ed è questo il senso delle mie osservazioni, è mancata un’analisi tecnico-politica più approfondita del contesto generale delle norme che regolano l’attività universitaria.
A questo proposito segnalo anche un altro e ultimo punto delicato dell’organizzazione universitaria, come è stato modificato dalla legge n. 240 del 2010. Alludo alla questione dell’autonomia contabile e amministrativa dei dipartimenti universitari. Non vi è alcun dubbio che ogni università debba fornire allo Stato finanziatore un rendiconto unitario della propria attività. Ma è stato saggio, per l’efficienza e l’efficacia delle attività, ridurre così drasticamente l’autonomia dei dipartimenti? Per una corretta esigenza di unitarietà, non si è forse sacrificata un po’ troppo la scioltezza dell’attività corrente dei dipartimenti, spesso alle prese con una centralizzazione che sembrava essere stata definitivamente dimenticata da quasi quarant’anni fa, a seguito del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980, e che, rimessa in auge, ha finito spesso, nonostante gli strumenti informatici e telematici ora disponibili, col riprodurre i difetti per i quali era stata eliminata dalla normativa universitaria ?
Ammetto: sono domande a cui non ho e alle quali non propongo risposte definitive, ma che intendono sollevare un problema e suscitare un dibattito affinché il mondo universitario ritrovi fiducia nel fatto che la politica comprende appieno le sue problematiche e interviene conseguentemente per favorire lo sviluppo dell’alta formazione e della ricerca libera quali obiettivi strategici del Paese che non possono rischiare di essere sepolti da normative concepite per tutt’altri contesti e situazioni

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