Il governo dice no alla proposta bipartisan di allungare la cassa integrazione di sei mesi Per il ministro gli strumenti ci sono già. Opposizione: vergognoso, non vede la crisi «Il suo no alla cig – dichiara Fulvio Fammoni, segretario confederale Cgil – conferma la concezione di inutilità del ruolo del parlamento e la pervicacia nel non dare risposte adeguate alla crisi e alle ricadute che questa provoca sul lavoro».
Maurizio Sacconi ha detto no: il governo darà parere negativo all’emendamento bipartisan che allunga la durata della cassa integrazione ordinaria da 12 a 18 mesi in forma sperimentale nel biennio 2010-11. Nonostante la crisi, nonostante l’emorragia continua di posti di lavoro. Per il ministro quella norma – nata da un’intesa tra maggioranza e opposizione in commissione Lavoro alla Camera – è semplicemente inutile. Inutili sei mesi in più di tutele senza passaggi burocratici in mezzo? Per Sacconi è così. Al «no» del ministro è partita una raffica di reazioni. «Sacconi si vergogni, sulla cig è provocatorio» attacca Antonio Di Pietro. «La verità è che il ministro accetta solo quello che proviene da lui – aggiunge Cesare Damiano, tra gli estensori del testo “incriminato” – Anziché smentire la sua stessa maggioranza, il ministro dovrebbe dirci qualcosa sulla riforma degli ammortizzatori sociali che ha in mente». «Il suo no alla cig – dichiara Fulvio Fammoni, segretario confederale Cgil – conferma la concezione di inutilità del ruolo del parlamento e la pervicacia nel non dare risposte adeguate alla crisi e alle ricadute che questa provoca sul lavoro».
LE RAGIONI Il ministro affida le sue ragioni a una dichiarazione liquidatoria. «È una norma inutile perché proteggiamo già i lavoratori ben più di 18 mesi; abbiamo infatti semplificato la Cigs e abbiamo introdotto la cassa in deroga. Per cui – ha detto – duttilmente e flessibilmente copriamo per tempi anche indefiniti tutti i lavoratori che ne hanno i requisiti». Insomma, per il ministro gli strumenti che ci sono bastano. Per di più – spiegano dai suoi uffici – la norma non troverebbe coperture sufficienti. Si parla di 600 milioni. Senza contare il fatto che il fondo individuato (gli 8miliardi predisposti lo scorso anno per la crisi) sarebbe destinato alla cig in deroga, cui accedono tutte le imprese (anche le piccole, il commercio e i servizi). Utilizzare quei fondi per la cig ordinaria, significherebbe togliere ai piccoli per dare ai grandi. Anche se – a dirla proprio tutta – di quegli 8 miliardi finora sono stati spesi meno di due: le risorse basterebbero per gli uni e gli altri. Ma poche ore più tardi indiscrezioni riportano un parere negativo della Ragioneria dello Stato, che ricalca queste tesi. «Introducendo diritti soggettivi», scrive il Ragioniere generale, che comportano «oneri aggiuntivi a carico della finanzia pubblica per il biennio 2010-2011» presenta un «criterio dicopertura che risulta inidoneo». «Per la verità il fondo in questione è destinato a tutti i tipi di cassa integrazione – replica il leghista Massimiliano Fedriga – se ci sono problemi di risorse, si può discutere. Ma mi sembra importante stabilire il principio. Non voglio polemizzare con Sacconi, confido che si troverà una soluzione ». Anche Giuliano Cazzola, altro esponente della maggioranza, ammette che forse non c’è stato un raccordo tra Parlamento e governo, e che forse ci saranno problemi di copertura. Il presidente della commissione, Silvano Moffa, chiede rispetto per il lavoro parlamentare. Insomma, l’imbarazzo a destra si fa sentire man mano che passano le ore e si moltiplicano le reazioni. Sul fronte opposto il no della Ragioneria accende una nuova miccia. «Da quando in qua ciò che è inutile, come sostiene Sacconi, è anche costoso? – dichiara Damiano – La verità è che il governo ha trovato senza problemi i tre miliardi per cancellare l’Ici ai più ricchi, mentre quando si tratta di lavoratori il governo diventa molto amaro». «Vorremmo che Tremonti e Sacconi ci spiegassero perché hanno più volte ripetuto che di soldi per gli ammortizzatori sociali ce n’erano in abbondanza – aggiunge il senatore Pd Achille Passoni – mentre ora scopriamo cheunprolungamento di soli sei mesi della Cig è una misura insostenibile per le casse dello Stato».
L’Unità 11.03.10
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"Il potere irresponsabile", di Massimo Giannini
Dall’abuso al “sopruso”. Dalle regole violate alle “violenze subite”. La vera “lezione” che il presidente del Consiglio ha impartito all’Italia democratica (e non certo alla inesistente “sinistra sovietica”) è stata esattamente questa: l’ennesima, rancorosa manipolazione dei fatti, seguita dalla solita, clamorosa inversione dei ruoli. Del disastroso pastrocchio combinato sulle liste elettorali non sono “colpevoli” i dilettanti allo sbaraglio del Pdl che hanno presentato fuori tempo massimo documenti taroccati e incompleti, ma i radicali tafferuglisti e i giudici comunisti che li hanno ostacolati.
Del pericoloso pasticciaccio deflagrato sul decreto legge di sanatoria non deve rispondere il governo che l’ha varato, ma i legulei “formalisti” del Tar che l’hanno ignorato, i parrucconi costituzionalisti che l’hanno bocciato e i bugiardi giornalisti che l’hanno criticato. Ancora una volta, come succede dal 1994 ad oggi, lo “statista” Berlusconi evita accuratamente di assumersi le sue responsabilità di fronte al Paese. La sua conferenza stampa riassume ed amplifica la strategia della manipolazione politica e semantica sulla quale si fonda l’intero fenomeno berlusconiano: schismogenesi (provocazione del nemico) e mitopoiesi (idealizzazione di sé).
Non solo il premier non chiede scusa agli elettori per le cose che ha fatto, ma accusa gli avversari per cose che non hanno fatto. Così, nel rituale gioco di specchi in cui l’apparenza si sostituisce alla realtà e la ragione si sovrappone ai torti, il Cavaliere celebra di nuovo la sua magica metamorfosi: il vero carnefice si trasforma nella finta vittima, il persecutore autoritario si tramuta nel perseguitato legalitario. L’importante è mischiare le carte, e confondere l’opinione pubblica. Nella logica berlusconiana lo Stato di diritto è un inutile intralcio: molto meglio lo stato di confusione.
Declinata in termini pratici, la sortita del premier è un indice di oggettiva difficoltà. Stavolta alla sua comprovata “arte della contraffazione” manca un elemento essenziale: l’inverificabilità degli eventi, teorizzata a suo tempo da Karl Popper. Nel caos delle liste, per sventura del Cavaliere, gli eventi sono verificabili. A dispetto delle nove, puntigliose cartelle con le quali ha ricostruito la sua originalissima “versione dei fatti” (che ovviamente scagiona gli eroici “militi azzurri” e naturalmente condanna la “gazzarra radicale”) stanno due documenti ufficiali. Le motivazioni con le quali il Tribunale amministrativo regionale ha rigettato il ricorso del
Pdl nel Lazio, e i verbali redatti dai Carabinieri del Comando di Roma. Basta leggerli, per conoscere la verità.
Non è vero che i responsabili del partito di maggioranza hanno depositato la documentazione “entro le ore 12 del 27 febbraio 2010”. Non solo la famosa “scatola rossa” con le firme è stata “riscontrata” solo alle ore 18 e 30. Ma all’interno di quel vero e proprio “pacco”, come scrive il Tar, “non erano presenti i documenti necessari prescritti dalla legge”. Né “l’atto principale della dichiarazione di presentazione della lista provinciale dei candidati del Pdl, né la dichiarazione di accettazione della candidatura da parte di ciascun candidato, né la dichiarazione di collegamento della lista provinciale con una delle liste regionali, né la copia di un’analoga dichiarazione resa dai delegati alla presentazione della lista regionale, né i certificati elettorali dei candidati, né il modello del contrassegno della lista provinciale, né l’indicazione di due delegati autorizzati a designare i rappresentanti della lista…”.
E così via, una manchevolezza dietro l’altra. “Formalismo giudiziario”? “Giurisdizionalismo che prevale sulla democrazia”, come gridava il Foglio qualche giorno fa? Può darsi. Ma queste sono le regole. E la democrazia vive di regole. Si possono non rispettare, ma poi se ne pagano le conseguenze. Quello che certamente non si può fare (e che invece il premier ha fatto) è negare, contro l’evidenza, la propria negligenza. Peggio ancora, gridare a propria volta alla “violazione della legge”, alla “penalizzazione ingiusta”, addirittura al “sopruso violento”. E infine puntare il dito contro soggetti terzi, che avrebbero impedito il regolare espletamento di un diritto democratico: se il j’accuse ai radicali fosse fondato, il premier dovrebbe come minimo sporgere una denuncia penale contro i presunti “sabotatori”. I presupposti, se l’accusa fosse vera, ci sarebbero tutti. Perché non lo fa? Forse perché sta mentendo: è il minimo che si possa pensare.
Letta in chiave politica, la sceneggiata di Via dell’Umiltà è un segnale di oggettiva debolezza. La reazione livida del presidente del Consiglio contro il free-lance che fa domande scomode, sommata all’aggressione fisica di cui si è reso protagonista il ministro La Russa, tradiscono un evidente stato di tensione. Il presidente del Consiglio si muove su un terreno non suo. La battaglia campale combattuta sulle regole non gli appartiene, la campagna elettorale giocata sulle carte bollate non gli si addice. Tra il malcelato nervosismo scaricato contro il cronista “villano e spettinato” e il malmostoso vittimismo riversato contro la “sinistra antidemocratica”, lui stesso deve ammettere che “i cittadini sono stanchi” di queste diatribe. È un altro modo per riconoscere in pubblico ciò che ammette in privato: i sondaggi vanno male. Spera nel controricorso al Consiglio di Stato, ma annuncia comunque che il Pdl è pronto fin d’ora a “gettare il cuore oltre l’ostacolo”, e a tuffarsi armi e bagagli nella contesa sulle regionali. Di più: con un annuncio da capo fazione, più che da capo di governo, chiama il suo popolo in piazza per il prossimo 20 marzo. In questi slanci estremi e prossimi all’arditismo, tipici dell’uomo di Arcore che non sa essere uomo di Stato, si coglie il tentativo di rispondere all’appello formulato a più voci sulla stampa “cognata”: quello di lasciar perdere i cavilli della procedura e di rimettersi in sella ai cavalli della politica.
È una scelta obbligata, ma gravemente tardiva. Comunque vada il voto del 28 marzo, il presidente del Consiglio che abbiamo visto ieri non appare più in grado (posto che lo sia mai stato) di riprendere il cammino delle riforme necessarie, e di riportare il Paese su un sentiero di crescita economica, di equità fiscale e di modernizzazione sociale. L’intera politica berlusconiana, ormai, si distribuisce e si esaurisce in pochi, nevrili sussulti emergenziali: esibizioni strumentali su urgenze di scala nazionale (i rifiuti, il terremoto) e forzature parlamentari su esigenze di tipo personale (processo breve, legittimo impedimento). Per il resto, da mesi l’azione di governo è svilita, svuotata e votata alla pura sopravvivenza. Immaginare altri tre anni così, per un Paese sfibrato come l’Italia, fa venire i brividi. Ha detto bene Bersani, due giorni fa, all’assemblea dei radicali: Berlusconi è ancora troppo forte per essere finito, ma è ormai troppo sfinito per essere forte. Giustissimo. Ci vorrebbe un’alternativa seria e credibile a questa rovinosa legislatura di galleggiamento. Toccherebbe al Pd costruirla, se solo ne fosse capace.
La Repubblica 11.03.10
"L'emergenza dei giovani senza lavoro", di Irene Tinagli
Mentre l’Italia è distratta dai vari pasticci pre-elettorali il resto del mondo si interroga sull’emergenza economica più drammatica di questi ultimi tempi: la disoccupazione, che non dà cenni di miglioramento nemmeno di fronte ai timidi segnali di ripresa. Ma soprattutto si sta accorgendo che esiste un’emergenza dentro l’emergenza: la disoccupazione giovanile, che ha raggiunto livelli più che doppi della disoccupazione complessiva ed è in continuo aumento.
Mentre nell’ultimo anno la disoccupazione complessiva in Europa è passata dall’8% al 10%, quella giovanile è balzata dal 16,6% al 21,4%. Un aumento di circa il 30% in media, con punte del 50-60% in paesi come la Spagna (+49%), la Grecia (+56%), e persino in un paese tradizionalmente virtuoso su questo fronte come la Danimarca (+49%, anche se il tasso assoluto in questo paese resta tra i più bassi in Europa). Anche negli Stati Uniti il fenomeno ha assunto proporzioni preoccupanti: nel luglio scorso si contavano 4,4 milioni di giovani senza lavoro, contro un milione del luglio 2008. Questo ha aperto dibattiti serrati in molti paesi. Negli Stati Uniti, così come in Inghilterra o in Spagna, il tema viene costantemente affrontato sui giornali e sui media da economisti e politici, mentre in Danimarca è stato appena pubblicato uno studio ad hoc, commissionato all’Ocse, in cui viene analizzato il problema e sono valutate una serie di misure, inclusa una possibile revisione del loro «Welfare Agreement».
In Italia invece il fenomeno della disoccupazione giovanile non sembra destare troppi allarmi tra i policy makers. In parte perché vi è spesso la tentazione di attribuire questo fenomeno ad aspetti culturali, legati a scelte specifiche delle nuove generazioni (rimandare volontariamente l’ingresso nel mondo del lavoro, restare a carico dei genitori ecc.) oppure a loro carenze intrinseche (minori competenze, scarsa determinazione o flessibilità) che li renderebbero meno appetibili sul mercato del lavoro. In parte perché la disoccupazione giovanile ha minor impatto sociale nell’immediato. I giovani tipicamente non hanno figli a carico, e possono invece contare sulla famiglia di origine come ammortizzatore sociale, quindi la loro inattività ha, nel brevissimo periodo, effetti meno devastanti di quella di uomini e donne in età adulta. Ma queste considerazioni hanno un orizzonte molto limitato e non valutano fino in fondo la portata e le conseguenze del fenomeno sulla competitività futura del paese. Siamo di fronte a un’intera generazione che entrerà nel mercato del lavoro con gravi ritardi, in condizioni sub-ottimali, sia da un punto di vista economico che psicologico e motivazionale.
Giovani adulti che sono costretti ad accettare posizioni mal retribuite, poco gratificanti e poco formative. Un cattivo inizio che avrà ripercussioni su tutta la loro traiettoria professionale, come mostrano anche recenti ricerche condotte negli Stati Uniti.
L’economista di Yale Lisa Kahn, dopo una serie di studi su centinaia di giovani entrati nel mercato del lavoro dagli Anni Settanta in poi, dimostra che le generazioni che iniziano a lavorare in periodi di recessione restano penalizzate per tutto il resto della loro vita: carriere più lente, lavori meno gratificanti, salari significativamente inferiori persino a distanza di anni dal primo lavoro, con gap retributivi rispetto alle generazioni più fortunate che toccano punte del 25%. Non solo, ma i giovani che hanno dovuto fare i conti con un ingresso nel mondo del lavoro più difficile sviluppano anche una maggiore avversione al rischio che si portano dietro per tutta la loro carriera, diffidenza nel cambiare lavoro (che è invece uno degli strumenti migliori per progredire e guadagnare di più), minori ambizioni. Questo si riflette non solo sulle sorti personali di questi individui, ma avrà conseguenze su tutta la collettività, soprattutto nei paesi occidentali. In questi paesi infatti l’invecchiamento costante della popolazione, e con essa i costi crescenti di pensioni, assistenza sociale e sanità, richiederanno una forza lavoro sempre più dinamica, produttiva, capace di generare innovazioni e redditi più alti, insomma: di contribuire di più all’economia del paese. Ma la forza lavoro di domani è fatta dai giovani di oggi: più svalutate sono le loro carriere, le loro competenze, i loro salari e le loro motivazioni, e meno saranno capaci di contribuire alla crescita del paese, mettendo quindi a rischio un equilibrio sociale ed economico già abbastanza fragile. Per questo dovremmo smetterla di trattare il tema della disoccupazione giovanile come una mera «questione generazionale» e affrontarlo come vera e propria questione nazionale, così come altri paesi stanno iniziando a fare.
La Stampa 11.03.10
Una legge per essere più uguali degli altri
Con la 31esima fiducia la maggioranza approva la legge sul legittimo impedimento: premier e ministri immuni da processi. Finocchiaro: “E’ un governo autoritario e senza regole”.
31 voti di fiducia, 0 processi a cui presenziare, 2 leggi su misura (di persona o di lista, dipende dal caso) nel giro di 5 giorni. Sono questi i numeri di Silvio Berlusconi, che oggi, con il beneplacito della sua maggioranza, ha messo nero su bianco una delle pagine più vergognose della sua legislatura, la legge sul legittimo impedimento. Si tratta dello “scudo” che permette al presidente del Consiglio e ai ministri di sottrarsi alle convocazioni in sede giudiziaria, privilegiando gli impegni governativi “autocertificati”. Dopo due voti di fiducia, l’Aula del Senato ha dato il via libera definitivo al ddl con 169 voti favorevoli, 126 contrari e tre astenuti. Il ddl era stato approvato alla Camera lo scorso 3 febbraio.
Durante le dichiarazioni di voto, i senatori del Pd hanno inscenato una protesta: mentre parlava, a nome del gruppo, il senatore Nicola Latorre, gli altri hanno sventolato una copia della Costituzione. Boato dai banchi della maggioranza.
“Oggi la maggioranza approva in Senato il legittimo impedimento, senza una parola da parte del governo, che pone il voto di fiducia su un testo parlamentare, quindi non solo si attribuisce la responsabilità di questo provvedimento, ma mette in gioco per esso la stessa durata dell’Esecutivo e considera questo un punto essenziale del programma. In un momento come questo il Presidente del Consiglio non viene e il ministro Alfano tace. Siamo davvero alla rottura delle regole, oltre che delle relazioni tra governo, maggioranza e opposizioni”. Lo ha detto Anna Finocchiaro, presidente del gruppo del Pd al Senato, parlando con i giornalisti a Palazzo Madama.
“Io credo – ha proseguito – che la protesta in nome della Costituzione, ma soprattutto delle regole uguali per tutti, sia una protesta sacrosanta. Poi ciascuno la fa nei modi e con le forme di manifestazione che gli sono più congeniali, e che è uso a praticare. Ma il dato certo è che questo provvedimento e la discussione su questo provvedimento segnano un punto di non ritorno, è proprio il vaso che trabocca. Siamo davvero alla rottura continua della regola e alla creazione della regola fatta apposta per il potente. Questa è una riflessione sulla quale gli italiani dovrebbero appassionarsi per i propri destini personali. Il Paese è in gravissima crisi economica sono tanti i lavoratori, le lavoratrici, le disoccupate e disoccupati, le ragazze e i ragazzi del Mezzogiorno, le famiglie in gravissima difficoltà. Sono tante le fabbriche e le imprese che chiudono, piccole, piccolissime e medie, mentre la grande industria è in sofferenza. Siamo di fronte a un Paese che svela, diciamolo, anche un marciume che spaventa e impaurisce gli italiani, li fa dubitare e rende il Palazzo sempre più distante dalle fatiche della quotidianità di milioni di italiane e italiani. Di fronte a tutto questo, quando bisognerebbe occuparsi di cose serie per restituire la dignità del vivere ai cittadini italiani, il governo mette come punto essenziale del proprio programma, tanto da porre la questione di fiducia, il legittimo impedimento. Io mi chiedo se gli italiani si rendano conto fino in fondo della gravità di tutto questo. E’ davvero un agire di stampo autoritario che non tiene in alcun conto nessuna regola. Io non ho mai adoperato parole forti ma credo che sia il caso di cominciare ad usarle. Una maggioranza parlamentare schiacciata sotto il tacco del premier che vota senza aprir bocca e che tacendo ubbidisce è un altro dei segnali della gravità della situazione. Di fronte al disprezzo per le regole e per la Costituzione che viene mostrato dal Presidente del Consiglio Berlusconi e dalla sua maggioranza ha sempre più senso esibire la Costituzione nell’Aula del Senato”.
“Non può esserci nessuna esigenza politica, non ci può essere nessun leader, le cui vicende personali possono giustificare l’approvazione da parte del Parlamento di misure i cui effetti sfascino lo Stato, distruggano la Repubblica”. Lo dichiara, intervenendo a Palazzo Madama, il vicepresidente dei senatori del Pd Luigi Zanda che aggiunge: “Quando Berlusconi andrà via, perché andrà via, lascerà uno Stato scardinato nelle sue più rilevanti funzioni. E la maggioranza, votando la fiducia, non approva solo la legge incostituzionale sul legittimo impedimento, ma esprime la sua fiducia all’insieme delle politiche del Governo si assume la sua parte di responsabilità sugli effetti distruttivi di queste politiche sulle strutture fondamentali del nostro Stato”.
Infatti per Zanda: “Il governo Berlusconi sta spappolando lo Stato. E l’incostituzionale legittimo impedimento è l’ultimo tassello di un processo di sradicamento della stessa idea di legalità che va ben oltre lo scandalo endemico del conflitto di interessi del presidente del Consiglio e i rischi per la nostra sicurezza derivanti dai suoi eccessi personali. Il legittimo impedimento – continua – arriva dopo le leggi vergogna fatte ad personam, dopo la legge Gasparri. Dopo il lodo Schifani e, infine, dopo il lodo Alfano. Ma lo spappolamento dello Stato non si ferma alla distruzione della legalità. C’è il mix micidiale dei decreti-legge, maxiemendamenti, voto di fiducia che sta capovolgendo il rapporto tra Governo e Parlamento. C’è l’abuso delle ordinanze di protezione civile che, fuori da ogni emergenza, hanno forza di legge. C’è lo sprezzo nei confronti delle Autorità costituzionali di garanzia e della magistratura. C’è l’abuso dello spoil system politico negli uffici dello Stato e nella televisione pubblica. C’è la legge elettorale del 2005. E infine, c’è il decreto che avrebbe dovuto salvare la lista irregolare del Pdl nel Lazio. Un decreto che neanche il Tar ha considerato legittimo”.
Zanda ripercorre quindi “gli ultimi equivoci dei rapporti internazionali del presidente Berlusconi. Dalla singolare visita di Stato del colonnello Gheddafi. Al soggiorno di Berlusconi nella dacia di Putin per trattare questioni su cui ancora non ha riferito in Parlamento. Dalla visita in Bielorussia dove Lukashenko gli avrebbe consegnato incartamenti di cui in Parlamento non c’è traccia al viaggio in Turchia dove si è occupato di nuovi gasdotti in assoluto scollegamento dalle politiche energetiche dell’Unione Europea. E’ abbastanza perché il Senato si chieda se questi atti siano atti della politica estera del nostro Paese oppure iniziative personali di Berlusconi”.
Infine Zanda si rivolge a Schifani ricordando come giorni fa si fosse augurato “che la sostanza potesse prevalere sulla forma. Adesso, che è stato emanato il decreto legge pro lista Pdl immagino che sosterrà la forma, e cioè la forza del decreto, contro la sostanza, e cioè le irregolarità elettorali. Il Pd – conclude Zanda – vorrebbe fortemente tenere fuori dalla polemica politica il Presidente Schifani. Ma lui, dovrebbe darcene la possibilità dimostrando di saper difendere i diritti dell’opposizione almeno nella stessa misura e con la stessa tenacia con le quali sostiene le esigenze del Governo”.
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Emittenti locali, ok della Camera al ripristino degli aiuti
Approvato all’unanimità in commissione Cultura il regolamento che disciplina l’erogazione dei contributi all’editoria. La soddisfazione di Levi e Ghizzoni (Pd)
E’ passata all’unanimità in commissione Cultura della Camera la richiesta del Partito democratico di ripristinare gli aiuti pubblici alle radio e alle televisioni locali. Ne danno notizia gli on. Ricardo Franco Levi e Manuela Ghizzoni del Pd.
La commissione aveva in agenda questo pomeriggio l’esame dello schema di decreto del Presidente della Repubblica “recante misure di semplificazione e riordino della disciplina di erogazione dei contributi all’editoria”. Su iniziativa del Pd, rappresentato dai due parlamentari modenesi, è stata inserita nello schema – votato all’unanimità – anche la richiesta di restituzione degli aiuti pubblici alle emittenti locali soppressi dal recente decreto “Milleproroghe”.
Soddisfazione è stata espressa da Levi e Ghizzoni. “Il Partito democratico – ha dichiarato Ricardo Franco Levi – ha difeso la voce delle emittenti locali che costituiscono il fondamento dell’informazione e del dibattito civile nel nostro Paese. Vigileremo affinché il governo mantenga tutti gli impegni su questo fronte”.
"Reggio Emilia: il benessere sotto l'assedio leghista", di Pietro Spataro
«Loro sono contro tutti tranne loro. Loro si chiamano Lega Nord e sono contro il Sud, l’Ovest e l’Est». Naima ha 11 anni, va a scuola a Reggio Emilia e ha capito meglio di altri che cosa vuol dire essere leghisti. La sua testimonianza è stata raccolta dal suo maestro, Giuseppe Caliceti, ed è uno spaccato di questa città d’Italia che dista appena 30 chilometri dalla Lombardia ed è al terzo posto per concentrazione di immigrati. In superficie Reggio Emilia mostra tutta la sua perfezione riformista, con i servizi migliori d’Italia, le migliori scuole del mondo, la rete di coop che ti segue passo passo e un partito che ancora oggi supera il 45% dei voti. Eppure sotto pelle gorgoglia un tempo meno clemente: la paura di perdere il benessere, il disorientamento di chi vede vacillare le certezze. La crisi lascia ferite profonde, gli immigrati danno la percezione dell’insicurezza, anche la ‘ndrangheta ha piazzato i suoi artigli. Ci vorrebbe forse di nuovo un San Prospero, il patrono della città che secondo la leggenda salvò Reggio dai barbari nascondendola tra la nebbia…
Ma del santo resta la Chiesa nel centro storico. E proprio qui vicino, in piazza del Monte, ogni sabato che dio comanda c’è il gazebo padano. Camicie verdi incaricate di portare il verbo di Bossi nella terra degli infedeli. Gabriele Fossa è uno di loro: geometra, ex fascista, oggi presidente della circoscrizione, nel gazebo ci veniva anche 15 anni fa. «Allora ci insultavano – ricorda – oggi no.…». Oggi succede che la Lega abbia sette consiglieri in Comune e alle elezioni del sindaco abbia preso il 17%. La ricetta è la stessa dei fratelli lombardi. Per dirla con Fossa: «Qui ci sono troppi cromosomi di buonismo, il cittadino vuole l’autorità». Discorsi che fanno breccia tra i più anziani che vedono franare sotto i piedi il loro vecchio mondo e tra i giovani che non ne vedono uno nuovo. Certo, un bel problema che segna la sfida per le regionali. Nella casa che fu del Pci sono convinti che il leghista è un intruso non da poco. Il segretario del Pd, Giulio Fantuzzi non ha dubbi: «Il vero competitor per noi è la Lega. Loro cavalcano temi popolari e sono nel territorio. Diciamo così: nella patria del comunismo le milizie leghiste sono in piena attività». Aggiunge Sonia Masini, presidente della Provincia. «I leghisti sono veloci, duttili, intercettano i problemi e le paure». E allora? Si resta a guardare mentre le truppe scendono dal Po armate di odio e di paura? La risposta è univoca: il Pd è troppo timido. «Dobbiamo far capire alla gente il loro bluff – dice Fantuzzi – Qui dicono una cosa, a Roma ne fanno un’altra…». «Sì, certo bisogna svelare il grande inganno», concorda Sonia Masini. Il sospetto però è che il partito sia più impegnato nelle beghe interne che in questa battaglia. E’ sulle candidature che si accendono gli animi, mica nel contrasto alle fesserie che dicono Fossa e i suoi amici. A tal punto che Fantuzzi parla di «rischio di balcanizzazione» e Masini di «lotte interne».
Nessuno lo dice esplicitamente ma qui sono ancora aperte le ferite dello scontro congressuale. Ha vinto Bersani ma chi governa il partito sono quelli che stavano con Franceschini. A maggio ci sarà il congresso provinciale e lì, si dice sottovoce, si faranno i conti veri.
Eppure fuori la città ribolle. Il modello emiliano resiste ma a fatica. Garantire quel livello di protezione sociale è ogni anno più difficile quando il governo taglia. Graziano Delrio è il sindaco («il primo sindaco non comunista della storia», dice). Viene dal cattolicesimo democratico e non è molto d’accordo con l’idea che sia in crisi il modello sociale. «Il problema è che è in crisi il modello economico», spiega. E anche sul tema degli immigrati cerca di rimettere a posto le cose. Ricorda che il Consiglio d’Europa ha scelto Reggio come esempio di integrazione, spiega che dieci anni fa gli immigrati erano il 4% della popolazione e oggi sono il 15. «Eppure il 65% di loro riconosce di essere accolto bene, solo il 7% si lamenta del razzismo». Anche il candidato presidente Vasco Errani in tour elettorale a Reggio tiene a questo punto. Dice: «Dobbiamo sconfiggere l’idea che chiudendosi si possa difendere il nostro benessere. La destra e la Lega vogliono smontare tutto quel che abbiamo costruito puntando sull’egoismo e sulle chiusure. No, non è quella la strada giusta». La strada giusta è tenere la porta aperta e cercare di guardare oltre i confini di casa propria. Oltre il passato, soprattutto. La vede così anche don Giuseppe Dossetti, nipote del Dossetti che fu dc, costituente e poi si ritirò a vita monastica. Il nipote è parroco della chiesa di San Pellegrino dove qualche anno fa diede scandalo perché fece dormire gli immigrati nella navata. «Il mondo ci è venuto in casa – dice – E oggi c’è la tendenza a ritirarsi nel proprio orticello. Dobbiamo ritrovare i motivi per impegnarci. La Lega? Guardi, credo sia solo un voto di protesta contro una politica che qui rischia di apparire compassata». Se lo dice un prete impegnato nel sociale bisognerà starlo a sentire.
Il fatto è che Reggio è messa a dura prova dentro la bufera della crisi. Chiudono le aziende, i lavoratori vanno a casa. Alla Camera del Lavoro sono in allarme. «Sono 30 mila i lavoratori coinvolti, tra cassa integrazione e mobilità – dice Guido Mora – Aggiungiamo gli 8 mila precari e ricordiamoci che il tasso di disoccupazione oggi è al 7% e tre anni fa era al 2,5. Un disastro». Che i sindacati cercano di affrontare come possono: puntando sui contratti di solidarietà, ottenendo sostegni dagli enti locali. Ma certo non basta. La paura di finire nell’esercito dei senza lavoro si diffonde come un virus. Tocca la Tecnogas della Merloni, la Marazzi e la Iris per la ceramica, le vecchie Officine Reggiane finite nelle mani di una multinazionale che ora vuole chiudere. E bussa alla porta anche di un marchio d’oro della moda come quello di Mariella Burani. La fabbrica è fuori Reggio, nelle nebbie di Cavriago. Le operaie sfilano in corteo sotto la pioggia e raccontano le loro storie. Le stesse che senti davanti a ogni azienda che prima costituiva l’ossatura della via emiliana e che oggi vacilla.
Un bel grattacapo per Mirto Bassoli, segretario della Cgil, che in questi giorni gira come una trottola da un presidio all’altro. «Abbiamo compiuto un balzo indietro di dieci anni – dice sotto il ritratto di Bruno Trentin – Si stanno gonfiando le file dei nuovi disoccupati e rischiamo una deindustrializzazione pericolosa». La Regione (ma anche il Comune e la provincia) sta dando una mano. Lui ricorda che l’Emilia-Romagna ha un fondo di non autosufficienza di 400 milioni di euro, la stessa cifra che il governo ha stanziato per tutta l’Italia. «Però a Errani voglio dire che bisogna trovare nuove risorse – spiega Bassoli – E poi dobbiamo pensare al dopo. Ci vogliono scelte nuove: ricerca, innovazione, tecnopoli». Un concetto che Erio Malagoli, uno che è stato vent’anni nei paesi dell’est ed è tornato per lavorare qui tra bar e ristorante, semplifica così: «Sa cosa gli chiedo a Errani? Di scegliere la meritocrazia, ma quella buona. Diciamo una via di mezzo tra la giustizia del comunismo e la sveltezza del capitalismo, altrimenti restiamo imbrigliati e poi spuntano i furbetti».
Certo, non sarà facile, anche nel cuore dell’Emilia rossa, trovare la strada che porta al domani senza lasciare sul campo troppi morti e feriti. Il maestro-scrittore Giuseppe Caliceti osserva la sua città «sospesa tra passato e futuro». «Vedo un certo spaesamento, un’identità indefinita. Bisogna fare una città delle persone e per farlo bisogna partire dallo sguardo dei bambini. E poi serve un forte ricambio generazionale. Solo allora ci avvieremo verso il futuro». Facile dirlo mentre ci si sente in qualche modo sotto assedio. Però questa non è gente che si arrenda facilmente. Lo ha dimostrato nel corso della storia in più occasioni, anche più drammatiche. Forse non è un caso che nel Teatro di piazza della Vittoria siano in cartellone due titoli che potrebbero essere il programma della Reggio Emilia del futuro: «La vera costanza», un dramma giocoso di Haydn e «Mai più soli», un viaggio nel presente di Stefano Benni. Ecco: la vera costanza per riuscire a non essere mai più soli.
L’Unità 10.03.10
Licei coreutici, l'allarme dei prof "Scavalcati dagli insegnanti di Amici?", di Salvo Intravaia
Non sono ancora nati che scoppia il primo problema: chi insegnerà le Discipline coreutiche a settembre negli omonimi licei? Professionisti con tanto di abilitazione all’insegnamento, come avviene per tutte le materie della scuola superiore, o anche esperti che possono vantare partecipazioni a trasmissioni televisive, ma senza preparazione teorica? Non è ancora chiaro, perché la riforma Gelmini deve essere ancora completata con la predisposizione delle nuove classi di concorso, e i prof dell’Anddicor (l’Associazione nazionale docenti in discipline coreutiche), anche se non lo dicono chiaramente, temono di essere scavalcati da persone esterne. Con una battuta, gli insegnanti di Amici e Ballando con le stelle.
Sono infatti circa 200 i prof che hanno già acquisito il titolo ufficiale per insegnare le materie di indirizzo nei licei coreutici. A spiegarne il perché è Paola Tenaglia, ex danzatrice del teatro dell’Opera di Roma e vicepresidente di Anddicor. “Nel 1999 – spiega l’Accademia nazionale di danza di Roma divenne Istituto di Alta cultura che rilascia i diplomi accademici di I e di II livello”. Nel 2003, arrivò la Moratti che istituì i licei coreutici e l’anno dopo venne attivato il biennio specialistico presso l’Accademia di danza della Capitale “per la formazione di docenti in discipline coreutiche: danza classica e danza contemporanea”.
Per accedervi occorre essere in possesso di un diploma accademico di primo livello. E studiare, oltre alle materie tecniche e pratiche della danza, l’anatomia, la pedagogia, la psicologia dell’età evolutiva, la danza educativa, la metodologia delle tecniche della danza e la loro programmazione scolastica e sostenere anche un tirocinio. Cioè, tutte quelle discipline che strasformano di un bravo danzatore e una eccellente danzatrice in un “educatore all’interno del sistema scolastico” italiano. “Ci vogliono – spiega la Tenaglia – anni di studio, di modestia e di fatica, per poter assumere anche ‘quel’ruolo rivolto ai ragazzi che attendono di scoprire, imparare, e diventare loro stessi il sogno della loro vita”. Insomma: “la pedagogia, la metodologia, soprattutto quando sono rivolti ai minori è veramente altra competenza”.
Ma a sei mesi dall’apertura dei quattro licei coreutici (presso il liceo classico annesso al Convitto nazionale Vittorio Emanuele di Roma, il liceo classico Delfico di Teramo, l’istituto magistrale Uccellis di Udine e il liceo Candiani di Busto Arsizio, in provincia di Varese) non è ancora chiaro secondo quali criteri saranno reclutati i prof. “All’estero, anche in Russia, si parla di riconversione quando un ex danzatore diventa insegnante: deve integrare a quello che già sa”, conclude Paola Tenaglia. Ma gli allievi dei neonati licei coreutici potrebbero avere la sorpresa di ritrovarsi di fronte Garrison o Carolyn Smith.
La Repubblica 10.03.10
