La crisi sembra ormai alle spalle. Almeno per i più ricchi, quelli appartenenti alla categoria degli High net worth individual, coloro che possono contare su patrimoni superiori ai 500 mila euro investiti in attività finanziarie (depositi e liquidità, titoli obbligazionari, azioni quotate, fondi comuni, polizze vita e fondi pensioni) ad esclusione degli immobili: in un anno, la ricchezza delle 640mila famiglie appartenenti al campione è salita del 19%, raggiungendo circa 882 miliardi di euro potendo contare su un portafoglio medio di 1,38 milioni di euro. Il livello è superiore a quello raggiunto prima della crisi finanziaria del 2007 quando erano stati toccati 829 miliardi di euro.
Dai risultati dell’Osservatorio permanente sulla gestione del risparmio delle famiglie europee, curato da PricewaterhouseCoopers (PwC) e dall’università di Parma emerge come i “Paperoni” italiani, per rimanere tali, hanno potuto contare sul buon andamento delle Borse, con un effetto performance del 7,3% e sullo scudo fiscale con 85 miliardi di euro rimpatriati (il 60% circa provenienti dalla Svizzera), la metà al momento parcheggiati in liquidità. Un trend destinato a confermarsi anche quest’anno, con la ricchezza dei “Paperoni” stimata in crescita del 5,3% (circa 48 miliardi), solo in parte riconducibile allo scudo fiscale (10 miliardi).
Più in generale, la ricchezza delle famiglie italiane è fortemente legata al patrimonio immobiliare, salito in un anno del 4,5% raggiungendo così il massimo storico di 9.480 miliardi di euro, in recupero dal declino registrato nel 2008. La crescita va di pari passo con l’aumento del debito delle famiglie che secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia sfiorano 500 miliardi di euro, saliti in un anno del 5,4 per cento. Pesano i prestiti per l’acquisto dell’abitazione, arrivati a superare 282 miliardi (erano 264 miliardi nel 2009), mentre per il credito al consumo i debiti delle famiglie toccano 57 miliardi dai 54 miliardi del gennaio 2009.
Se crescono gli acquisti di immobili, cala del 5 per cento il peso delle attività finanziarie nel portafoglio delle famiglie italiane, passate dal 42% del 2003 al 37% del 2009, attestandosi a 3.480 miliardi di euro – tornando ai livelli del 2005 – suddivisa nel 27% in prodotti di risparmio gestito e nel 73% in risparmio amministrato e circolante.
La ricerca della PwC e dell’università di Parma ha messo in evidenza come in Italia gli investimenti diversi dalle azioni rappresentino circa il 20% del totale delle attività finanziare, un peso superiore rispetto a quello di altri paesi (negli Usa è l’8 per cento, in Gran Bretagna l’1 per cento, in Germania il 7 per cento), confermando la bassa propensione al rischio delle famiglie italiane, ancora inclini ad investire in titoli di Stato nonostante gli scarsi rendimenti. L’Italia batte gli altri paesi anche quando confronta la ricchezza finanziaria al Pil che si attesta al 294%, contro il 252% della Francia, il 235% della Germania e il 197% della Spagna.
Il trend negativo dei fondi comuni non ha aiutato a sostenere la ricchezza delle famiglie che tra fondi, gestioni e assicurazioni valgono 1.466 miliardi di euro, con prodotti sottoscritti per circa il 35% alla clientela istituzionale e per il 65% alle famiglie. Ad aiutare il settore saranno gli impieghi attesi dal rientro delle attività finanziarie con lo scudo fiscale che si prevede verranno veicolati verso prodotti di risparmio gestito.
«La crisi finanziaria senza precedenti ha evidenziato alcune aree di miglioramento nel sistema bancario – ha commentato Giacomo Neri, Partner PwC – tuttavia il settore della gestione del risparmio ha dimostrato di essere considerevolmente più robusto. I cambiamenti nella normativa e i mutamenti delle preferenze degli investitori apriranno una gamma di opportunità e di minacce che nessun operatore di asset management potrà permettersi di ignorare».
Il Sole 24 Ore 09.03.10
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"La riforma Gelmini finisce sotto esame. Bocciata da 500 precari", di Paolo Formicola
Vivace dibattito con Barbieri (Pdl) e Ghizzoni (Pd) I docenti ai sindacati: «Serve una clamorosa protesta». Tutto esaurito per l’assemblea organizzata da Gilda scuola, con l’adesione di Cgil, Cisl, Uil, Snals tenutasi ieri all’Itis Corni di Leonardo da Vinci. Più di 500, tra insegnanti di scuole di ogni ordine e grado, lettori, personale Ata e Itp hanno discusso di riforma della scuola con Emerenzio Barbieri del Pdl e Manuela Ghizzoni del Pd, della commissione cultura della Camera.
A pochi mesi dall’entrata in vigore delle nuove norme sulla scuola il quadro generale di come sarà la scuola post-riforma appare piuttosto offuscato: «Manca ancora la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, mancano i decreti e le ordinanze che dovranno essere fatti in poco tempo», spiega Gorni del Centro Studi Gilda.
«Per gli istituti tecnici – continua – non sappiamo ancora quali materie dovranno essere tagliate, l’unica cosa che sappiamo è che il monte ore dovrà calare dalle attuali 36-37 ore a 32 ore e che verranno tagliate le materie con più di 99 ore annue. L’unica cosa certa è che in 3 anni se perderanno 87mila 500 posti di lavoro in 3 anni, considerando che l’80% del personale della scuola è composto da donne significa che in 60mila perderanno il posto». «E’ la seconda puntata del taglio alla scuola pubblica – continua Ranuzzini di Cisl Scuola – prima sono state tagliate le scuole primarie e medie abolendo il tempo pieno e le compresenze, adesso si tagliano le secondarie». «Significa 25mila 600 docenti e 15mila Ata in meno a partire dal prossimo anno – spiega Colombini di Flc-Cgil – questi precari che da domani non lavoreranno più, e magari lavoravano da 10 – 15 anni senza mai diventare di ruolo. In base a cosa avete stabilito che questa riforma è adatta?» si interroga il segretario. Anche per Giovanni Massarenti dello Snals, nonostante la riduzione dei corsi sia giusta, è stata sbagliata la modalità d’attuazione della riforma che avrebbe dovuto coinvolgere solo le classi prime per non sconvolgere la continuità d’insegnamento. «In questo paese nessuna riforma è indolore – ha detto Emerenzio Barbieri del Pdl – mi impegno ad affrontare le questioni sollevate qui con l’opposizione. Mi rendo conto che 87mila 600 posti di lavoro non sono noccioline però bisogna dire che il rapporto studenti-insegnanti è uno dei più alti nell’Unione Europea. Sul tempo pieno aggiungo che dai dati Miur risulta che ne usufruiscano 50mila bambini in più». Pronta la replica della Ghizzoni: «Non è mai successo che una riforma si facesse nelle commissioni, tutto è iniziato con la manovra d’estate, tagli di 8 miliardi: sono la scuola, l’università e la sanità ad aver pagato il prezzo più alto, i dati sul tempo pieno sono stati confusi con quelli delle 40 ore mentre i dati forniti dalla Gelmini sono stati taroccati senza scrupoli enfatizzando i dati negativi per avallare l’idea che la scuola pubblica stia fallendo e nascondendo i positivi. Questa riforma gerarchizza i saperi».
L’atmosfera nell’aula si scalda, dal pubblico un docente delle medie chiede: «Barbieri, come fa a non sapere che i tagli c’erano già nel 2008 quando Tremonti in un decreto decideva che doveva esserci il maestro unico?» e ancora un portavoce dei prof precari «I sindacati non hanno fatto abbastanza, noi non ci stiamo a perdere il posto di lavoro, per questo chiediamo il blocco degli scrutini». «Cosa aspettano i sindacati ad organizzare uno sciopero insieme?» chiede un docente dal pubblico, sommerso dagli applausi. L’assemblea termina con l’impegno dei sindacati: in settimana si troveranno per organizzare una mobilitazione comune. E già si pensa a forme di proteste dure: blocco degli scrutini, stop ai libri di testo, il blocco delle gite scolastiche. intanto il 18 marzo i precari protesteranno dalle 15 sotto la sede dell’Ufficio scolastico provinciale (Usp) in via Rainusso. Per mostrare la loro indignazione, i genitori degli studenti, invece, spediranno simbolici rotoli di carta igienica ai ministri Gelmini e Giulio Tremonti.
La Gazzetta di Modena 09.03.10
L´università dimezza i dottorati "Inaccettabile tagliare la ricerca", di Laura Montanari
«Tagliare i dottorati significa recidere le radici della ricerca». E´ diretto Stefano Mancuso, ordinario alla facoltà di Agraria. Come il preside di Medicina, Gianfranco Gensini che sintetizza il problema in una frase: «E´ inaccettabile». L´università di Firenze è costretta a dimezzare i dottorati di ricerca per il prossimo anno. Se dal ministero non verranno aggiunte risorse, si passerà da 170 a 80 borse di dottorato triennali, poi ci saranno quelle finanziate dai privati, ma vista la crisi, anche le fondazioni bancarie non largheggeranno. Le conseguenze di tutto questo sono porte che si chiudono per studenti che non si potranno addestrare alla ricerca, è l´aria che si respira in questo tempo.
Il dottorato è la terza fascia della formazione, viene dopo la laurea triennale e dopo la specialistica: in genere chi si iscrive a quei corsi impara a fare ricerca per restare negli atenei o per cercare lavoro e andare nei laboratori privati. «Cercheremo di far pesare il meno possibile questi tagli» promette il filosofo Andrea Cantini, delegato del rettore Alberto Tesi per questo settore. La buona volontà è spesso utile, ma nel caso insufficiente a tamponare un´emergenza che si farà sentire pure nei prossimi anni quando il testimone della ricerca dovrà passare da una generazione all´altra. «Stiamo pensando a una riforma dei dottorati e a dare un peso maggiore alla valutazione per collocare al meglio le risorse che saranno minori rispetto al passato» spiega Cantini.
«I dottorati sono un meccanismo propulsivo dell´accademia – ribatte Gensini – non possiamo permetterci di ridurli drasticamente perché ne va dalla qualità dell´università, quindi bisogna cercare finanziamenti esterni». Come fosse facile in un momento del genere, con la crisi che morde tutti i portafogli e con le banche meno generose ad elargire. Il futuro dei dottorati sarà negli accorpamenti: «Oggi a Storia per esempio – spiega Concetta Bianca, della facoltà di Lettere – ne abbiamo di tre tipi: antica, medievale e moderna. Due borse di studio per ciascun indirizzo, ma se dobbiamo dimezzarle significa con tutta probabilità fare un solo dottorato generico in storia». Il rischio è di perdere specificità e competenze come spiega Stefano Mancuso, l´unico ricercatore italiano chiamato a fare una relazione al Tad, il più prestigioso istituto che organizza conferenze scientifiche di altissimo livello: «Il dottorato è il primo gradino della futura docenza accademica, svuotare questo serbatoio significa rendere più povera l´università di domani e fermare la ricerca, è una grossa responsabilità quella che ci stiamo assumendo, sembra parte di un disegno per mettere alle corde le università. I tagli ai dottorati, i tagli al fondo di finanziamento, il vincolo del tetto del 90 per cento sulle spese per il personale…». Secondo Ivano Bertini, responsabile del centro di eccellenza del Cerm (Centro di risonanza magnetica) il vero problema resta quello più generale dei finanziamenti alla ricerca: «Come possiamo reclutare giovani se poi non abbiamo soldi per comprare le apparecchiature dei laboratori? Io al Cerm non ho il problema della riduzione dei dottorati perché i finanziamenti li ricevo da Bruxelles…». Chi risentirà maggiormente di questa ristrettezza sarà l´area umanistica che non ha molti richiami per l´industria o per mecenati privati.
La Repubblica/Firenze 09:03.10
"Giro di vite ai permessi per l'handicap. E part time più difficile per gli statali", di Felicia Masocco
Stretta ai permessi per assistere i disabili e part-time più difficile per i dipendenti pubblici, anzi per le dipendenti visto che nell’85% dei casi sono le donne a ricorrere al tempo parziale e il perché è fin troppo logico. Lo prevede il «collegato lavoro», la legge approvata mercoledì scorso di cui si è parlato per via dell’articolo 18,ma che evidentemente taglia molti altri diritti a chi lavora. Cambiano e diventano più restrittive le norme per ottenere un permesso per assistere un familiare disabile. La norma riguarda tutti i settori, pubblici e privati, ma nel mirino del ministro Renato Brunetta c’è il pubblico impiego. I dipendenti pubblici ricorrono a questi permessi 6 volte più dei colleghi il che può celare un abuso nel pubblico, (e una difficoltà a ottenerli nel privato). In ogni caso invece di punire l’abuso e i furbi, si puniscono tutti indistintamente.
PART-TIME PIU’DIFFICILE Potranno ottenere il permesso previsto dalla legge 104 del 1992 i parenti fino al secondo grado (fratelli, cognati, nonni e nipoti). Gli altri non potranno più averlo, a meno che i coniugi o i genitori dell’assistito siano ultra 65enni. Un altro importante cambiamento riguarda “l’assistenza multipla” che viene cancellata: per ogni disabile solo una persona potrà ottenere i permessi della 104. Eccezion fatta per i coniugi che devono assistere un figlio: potranno dividersi il permesso, o lo usa il padre o la madre. È stata infine cancellata la norma relativa alla possibilità di assistere in modo «continuativo ed esclusivo » un figlio maggiorenne e convivente. «È una stretta incomprensibile», commenta il segretario di Fp-Cgil Carlo Podda, «come sempre Brunetta pretende con la legge di imporre a tutti quello che invece andrebbe imposto solo a chi sbaglia e con un rigido sistema di controlli: “colpirli tutti per educarne qualcuno”, potrebbe essere il suo motto». Gli abusi di permessi e congedi andrebbero, per il sindacalista, contrastati con i controlli», non «limitando i diritti, visti come la fonte stessa del problema». Il collegato cambia anche le norme sul part-time (solo nel pubblico impiego): la richiesta di lavorare a tempo parziale può essere respinta se crea problemi al funzionamento degli uffici. E tutti i part-time in essere possono essere rivisti e negati. Così, mentre il ministro del Lavoro, Sacconi, annuncia un tavolo per rendere più flessibile l’orario di lavoro per le donne e consentire una maggiore conciliazione con casa e famiglia, il suo collega Brunetta rende più difficile la vita alle donne che negli uffici pubblici hanno chiesto il part-time. Il ministro rigetta le critiche, ma smentendo conferma: con le nuove norme si impedisce «finalmente a tanti furbi di portare avanti un ignobile “mercato” dei vecchietti acciaccati da accudire (sulla carta) a centinaia di chilometri di distanza, senza alcun controllo», dice. Ecco, appunto, senza alcun controllo.
L’Unità 09.03.10
"E' il massacro delle istituzioni ora proteggiamo il Quirinale", di Massimo Giannini
Benvenuti nella Repubblica del Male Minore. Cos’altro si può dire di un Paese che ormai, per assecondare i disegni plebiscitari di chi lo governa, è costretto ogni giorno ad un nuovo strappo delle regole della civiltà politica e giuridica, nella falsa e autoassolutoria convinzione di aver evitato un Male Maggiore? Carlo Azeglio Ciampi non trova altre formule: “La strage delle illusioni, il massacro delle istituzioni…”. Ancora una volta, l’ex presidente della Repubblica parla con profonda amarezza di quello che accade nel Palazzo. Dopo il Lodo Alfano, il processo breve, lo scudo fiscale, il legittimo impedimento, il decreto salva-liste è solo l’ultimo, “aberrante episodio di torsione del nostro sistema democratico”. Il “pasticciaccio di Palazzo Chigi” non è andato giù all’ex capo dello Stato, che considera il rimedio adottato (cioè il provvedimento urgente varato venerdì scorso) ad alto rischio di illegittimità costituzionale. E la clamorosa sentenza pronunciata ieri sera dal Tar del Lazio, che respinge il ricorso per la riammissione della lista del Pdl nel Lazio, non arriva a caso: “È la conferma che con quel decreto il governo fa ciò che la Costituzione gli vieta, cioè interviene su una materia di competenza delle Regioni. Speriamo solo che a questo punto non accadano ulteriori complicazioni…”, dice.
Dopo il ricorso già avanzato da diverse giunte regionali, potrebbe persino accadere che, ad elezioni già svolte, anche la Consulta giudichi quel decreto illegittimo, con un verdetto definitivo e a quel punto davvero insindacabile. Questo preoccupa Ciampi: “Il risultato, in teoria, sarebbe l’invalidazione dell’intero risultato elettorale. Il rischio c’è, purtroppo. C’è solo da augurarsi che il peggio non accada, perché a quel punto il Paese precipiterebbe in un caos che non oso immaginare…”. Il presidente emerito non lo dice in esplicito, ma dal suo ragionamento si evince che qualche dubbio lui l’avrebbe avuto, sulla percorribilità giuridica e politica di un decreto solo apparentemente “interpretativo”, ma in realtà effettivamente “innovativo” della legislazione elettorale.
Ora si pone un interrogativo inquietante: questo disastro si poteva evitare? E se sì, chi aveva il potere di evitarlo? Detto più brutalmente: Giorgio Napolitano poteva non autorizzare la presentazione del decreto legge del governo? Ciampi vuole evitare conflitti con il suo successore, al quale lo lega un rapporto di affetto e di stima: “Non mi piace mai giudicare per periodi ipotetici dell’irrealtà. Allo stesso tempo, trovo sbagliato dire adesso “io avrei fatto, io avrei detto…”. Ognuno decide secondo le proprie sensibilità e secondo le necessità dettate dal momento. Napolitano ha deciso così. Ora, quel che è fatto è fatto. Lo ripeto: a questo punto è stata imboccata una strada, e speriamo solo che ci porti a un risultato positivo…”. Ma in questa occasione non si può negare che il Quirinale sia dovuto passare per la cruna di un ago particolarmente stretta, e che secondo molti ne sia uscito non proprio al meglio. In rete e sui blog imperversano le critiche: Scalfaro e Ciampi, si legge, non avrebbero mai messo la firma su questo “scempio”. Al predecessore di Napolitano questo gioco non piace: “Queste sono cose dette un po’ a sproposito”. Come non gli piacciono le rischieste di impeachment che piovono sull’inquilino del Colle dall’Idv: “Ma che senso ha, adesso, sparare sul quartier generale? Al punto in cui siamo, è nell’interesse di tutti non alimentare la polemica sul Quirinale, e semmai adoperarsi per proteggere ancora di più la massima istituzione del Paese…”.
Premesso questo, Ciampi non si nega una netta censura politica di quanto è accaduto: “Io credo che la soluzione migliore sarebbe stata quella di rinviare la data delle elezioni. Ma per fare questo sarebbe stata necessaria una volontà politica che, palesemente, nella maggioranza è mancata. Ma soprattutto io credo che sarebbe stato necessario, prima di tutto, che il governo riconoscesse pubblicamente, di fronte al Paese e al Parlamento, di aver commesso un grave errore. Sarebbe stato necessario che se ne assumesse la responsabilità, chiedendo scusa agli elettori e agli eletti. Da qui si doveva partire: a quel punto, ne sono sicuro, tutti avrebbero lavorato per risolvere il problema, e l’opposizione avrebbe dato la sua disponibilità a un accordo. Bisognava battersi a tutti i costi per questa soluzione della crisi, e inchiodare a questo percorso chi l’aveva causata. Ma purtroppo la maggioranza, ancora una volta, ha deciso di fuggire dalle sue responsabilità, e di forzare la mano”. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: “Di nuovo, assistiamo sgomenti al graduale svuotamento delle istituzioni, all’integrale oblio dei valori, al totale svilimento delle regole: questo è il male oscuro e profondo che sta corrodendo l’Italia”.
Su questo piano inclinato, dove si fermeranno lo scivolamento civico e lo smottamento repubblicano? “Vede – osserva Ciampi – proprio poco fa stavo rileggendo il De senectute di Cicerone: ci sarebbe bisogno di quella saggezza, di quell’amore per la civiltà, di quell’attenzione al bene pubblico. E invece, se guardiamo alle azioni compiute e ai valori professati da chi ci governa vediamo prevalere l’esatto opposto”. Aggressione agli organi istituzionali, difesa degli interessi personali: l’essenza del berlusconismo – secondo l’ex capo dello Stato – “è in re ipsa, cioè sta nelle cose che dice e che fa il presiedente del Consiglio: basta osservare e ascoltare, per rendersi conto di dove sta andando questo Paese”. Già qualche mese fa Ciampi aveva rievocato, proprio su questo giornale, l’antico principio della Rivoluzione napoletana di Vincenzo Cuoco sulla felicità dei popoli “ai quali sono più necessari gli ordini che gli uomini”, e poi il vecchio motto caro ai fratelli Rosselli, “non mollare”, poi rideclinato da Francesco Saverio Borrelli nel celebre “resistere, resistere, resistere”.
Oggi l’ex presidente torna su queste “urgenze morali”, per ribadire che servono ancora tanti “atti di coraggio”, se vogliamo difendere la nostra democrazia e la nostra Costituzione. “I miei sono lì, sono le firme che non ho voluto apporrre su alcune leggi che mi furono presentate durante il settennato, e che successivamente mi sono state rinfacciate in Parlamento, come se si fosse trattato di atti “sediziosi”, o decisioni “di parte”. E invece erano ispirati solo ai principi del vivere civile in cui ho sempre creduto, e che riposano sulla sintesi virtuosa dei valori e delle istituzioni”. Tra i 2001 e il 2006 Ciampi non potè rinviare alle Camere tutte le leggi-vergogna del secondo governo Berlusconi, perché in alcune di esse mancava il vizio della “palese incostituzionalità” che solo può giustificare il diniego di firma da parte del capo dello Stato. Ma dalla riforma Gasparri sul sistema radiotelevisivo alla riforma Castelli sull’ordinamento giudiziario, Ciampi pronunciò alcuni “no” pesantissimi.
Nonostante questo, anche a lui tocca oggi constatare che quella forma di “pedagogia repubblicana”, necessaria ma non sufficiente, è servita a poco o a nulla. “Cosa vuole che le dica? Purtroppo questo è il drammatico paesaggio italiano, né bello né facile. E questo è anche il mio più grande rimpianto di vecchio: sulla soglia dei 90 anni, mi accorgo con amarezza che questa non è l’Italia che vagheggiavo a 20 anni. Allora ci svegliavamo la mattina convinti che, comunque fossero andate le cose, avremmo fatto un passo avanti. Oggi ci alziamo la mattina, e ogni giorno ci accorgiamo di aver fatto un altro passo indietro. E’ molto triste, per me che sono un nonuagenario. Ma chi è più giovane di me non deve perdersi d’animo, e soprattutto non deve smettere di lottare”. Sabato prossimo Ciampi non andrà in piazza, per sfilare in corteo contro il “pasticciaccio” di Berlusconi: “Non ho mai aderito a manifestazioni, e comunque le gambe non mi reggerebbero…”, dice. Ma chissà: magari con vent’anni di meno ci sarebbe andato anche lui.
La Repubblica 09.03.10
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“Una crisi di regime”, di Stefano Rodotà
Che cosa indica la decisione del Tar del Lazio che, ritenendo inapplicabile l’assai controverso decreto del Governo, ha confermato l’esclusione della lista del Pdl dalle elezioni regionali in questa regione? In primo luogo rivela l’approssimazione giuridica del Governo e dei suoi consulenti, incapaci di mettere a punto un testo in grado di superare il controllo dei giudici amministrativi. Ma proprio questa superficialità è il segno della protervia politica, che considera le regole qualcosa di manipolabile a proprio piacimento senza farsi troppi scrupoli di legalità. E, poi, vi è una sorta di effetto boomerang, che mette a nudo le contraddizioni di uno schieramento politico che, da una parte, celebra in ogni momento le virtù del federalismo e, dall’altra, appena la convenienza politica lo consiglia, non esita a buttarlo a mare, tornando alla pretesa del centro di disporre anche delle materie affidate alla competenza delle regioni. Proprio su quest’ultima constatazione è sostanzialmente fondata la sentenza del Tar del Lazio. La materia elettorale, hanno sottolineato i giudici, è tra le competenze delle regioni e, partendo appunto da questo dato normativo, la Regione Lazio ha approvato nel 2008 una legge che ha disciplinato questa materia.
Lo Stato non può ora invadere questo spazio, sostituendo con proprie norme quelle legittimamente approvate dal Consiglio regionale. Il decreto, in conclusione, non è applicabile nel Lazio.
I giudici amministrativi, inoltre, hanno messo in evidenza come non sia possibile dimostrare alcune circostanze che, in base al decreto del 5 marzo, rappresentano una condizione necessaria per ritenere ammissibile la lista del Pdl. In quel decreto, infatti, si dice che il termine per la presentazione delle liste si considera rispettato quando «i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale». Il Tar mette in evidenza due fatti. Il primo riguarda l´assenza proprio del delegato della lista che ha chiesto la riammissione. E, seconda osservazione, non è possibile provare che lo stesso delegato, presentatosi in ritardo, avesse con sé il plico contenente la documentazione richiesta.
Se il primo rilievo sottolinea l´approssimazione di chi ha scritto il decreto, il secondo svela la volontà di usare il decreto per coprire il “pasticcio” combinato dai rappresentanti del Pdl. Che non è frutto, lo sappiamo, di insipienza. È stato causato da un conflitto interno a quel partito sulla composizione della lista, trascinatosi fino all´ultimo momento, anzi oltre l´ultimo momento fissato per la presentazione della lista.
È una morale politica, allora, che deve essere ancora una volta messa in evidenza. Per risolvere le difficoltà di un partito non si è esitato di fronte ad uno stravolgimento delle regole del gioco. La prepotenza ha impedito anche di avere un minimo di pazienza, visto che la riammissione da parte dei giudici dei listini di Formigoni e Polverini ha eliminato il rischio maggiore, quello di impedire in regioni come la Lombardia e il Lazio che il partito di maggioranza avesse un suo candidato.
Si dirà che, una volta di più, i giudici comunisti hanno intralciato l´azione di Berlusconi e dei suoi mal assortiti consorti? È possibile. Per il momento, però, dobbiamo riconoscere che proprio i deprecati giudici hanno arrestato, sia pure provvisoriamente (si attende la decisione del Consiglio di Stato), una deriva verso la sospensione di garanzie costituzionali.
Non possiamo dimenticare, infatti, che la democrazia è anche procedura: e il decreto del governo manipola proprio le regole del momento chiave della democrazia rappresentativa. La democrazia è tale solo se è assistita da alcune precondizioni: e le sciagurate decisioni della Commissione parlamentare di vigilanza e del Consiglio d´amministrazione della Rai hanno obbligato al silenzio una parte importante dell´informazione, rendendo così precaria proprio la precondizione che, nella società della comunicazione, ha un ruolo decisivo. Non dobbiamo aver paura delle parole, e quindi dobbiamo dire che proprio la congiunzione di questi due fatti, se dovesse permanere, altererebbe a tal punto le dinamiche istituzionali, politiche e sociali da rendere giustificata una descrizione della realtà italiana di oggi come un tempo in cui garanzie costituzionali essenziali sono state sospese.
Comunque si concluda questa vicenda, il confine dell´accettabilità democratica è stato comunque varcato. Una crisi di regime era già in atto ed oggi la viviamo in pieno. Nella storia della Repubblica non era mai avvenuto che una costante della vita politica e istituzionale fosse rappresentata dall´ansiosa domanda che accompagna fin dalle sue origini gli atti di questo Governo e della sua maggioranza parlamentare: firmerà il Presidente della Repubblica? Questo vuol dire che è stata deliberatamente scelta la strada della forzatura continua e che si è deciso di agire ai margini della legalità costituzionale (un tempo, quando si diceva che una persona viveva ai margini della legalità, il giudizio era già definitivo). Questa scelta è divenuta la vera componente di una politica della prevaricazione, che Berlusconi ha fatto diventare guerriglia continua, voglia di terra bruciata, pretesa di sottomettere ogni altra istituzione. Da questa storia ben nota è nata l´ultima vicenda, dalla quale nessuno può essere sorpreso e che, lo ripeto, rivela piuttosto quanto profondo sia l´abisso nel quale stiamo precipitando,
A questo punto, la scelta di Napolitano, ispirata com´è alla tutela di “beni” costituzionali fondamentali, deve assumere anche il valore di un “fin qui, e non oltre”, dunque di un presidio dei confini costituzionali che arresti la crisi di regime. Ma non mi illudo che la maggioranza, dopo aver lodato in questi giorni l´essere super partes di Giorgio Napolitano, tenga domani lo stesso atteggiamento di fronte a decisioni sgradite in materie che già sono all´ordine del giorno.
Ora i cittadini hanno preso la parola, e bene ha fatto il Presidente della Repubblica a rispondere loro direttamente. Qualcosa si è mosso nella società e tutti sappiamo che la Costituzione vive proprio grazie al sostegno e alla capacità di identificazione dei cittadini. È una novità non da poco, soprattutto dopo anni di ossessivo martellamento contro la Costituzione. Oggi la politica dell´opposizione dev´essere tutta politica “costituzionale”. Dopo tante ricerche di identità inventate o costruite per escludere, sarebbe un buon segno se la comune identità costituzionale venisse assunta come la leva per cercar di uscire da una crisi che, altrimenti, davvero ci porterebbe, in modo sempre meno strisciante, a un cambiamento di regime.
La Repubblica 09.03.10
Un'altra bocciatura per il Pdl!
Il Tar del Lazio respinge il ricorso del Pdl per l’esclusione della lista dalle regionali. Letta: “Adesso faranno chiudere il Tar?” Roma e provincia off limits per il Pdl. È stata questa òa decisione della seconda sezione bis del Tar Lazio. La richiesta di sospensiva è respinta dai giudici amministrativi presieduti da Eduardo Pugliese. Nel merito si deciderà a maggio ma, la scelta dei giudici lascia intuire che nessuno di loro fosse abbastanza convinto dalle ragioni del ricorrente da sospendere l’esclusione della lista dalle elezioni regionali del 28-29 marzo decisa dall’ufficio elettorale del tribunale e, poi, dalla Corte d’Appello.
E non è tutto. Anche il decreto “interpretativo”, approvato venerdì sera con un colpo di mano, a quanto pare, non servirà a nulla. Come spiegato nella sentenza “le elezioni regionali del Lazio sono disciplinate dalla legge regionale numero 2/2005″ e non dalla normativa nazionale “interpretata” dal governo. Quella legge “prevedeva la presentazione dei documenti necessari alla candidatura della lista entro le ore 12 dello scorso 27 febbraio”, ma “nel verbale dei carabinieri presenti nell’ufficio elettorale della corte di appello di Roma è scritto che alle ore 12 erano presenti solo 4 delegati di lista e che tra questi non risultava il delegato della parte ricorrente”. Insomma: tempo sprecato! Al governo toccherà cominciare a pensare alla marcia su Roma…
Il vicesegretario del Pd Enrico Letta da Varese ha così commentato la sentenza del Tar del Lazio: “Ora c’è da chiedersi se verrà convocato questa sera da Berlusconi un consiglio dei ministri urgente per fare un decreto legge che abolisca il Tar del Lazio”.
Finocchiaro presidente del gruppo Pd al Senato afferma: “Siamo all’ennesimo passaggio di una vicenda che conferma il delirio di onnipotenza, l’arroganza e al tempo stesso l’incapacità di questo governo e di questa maggioranza che impongono al paese un decreto che si è dimostrato, la sentenza di stasera ce lo conferma, una forzatura superflua e inutile. Sarebbe stato più corretto e onesto aspettare i gradi di giudizio della magistratura. La protervia della maggioranza e del governo ci hanno avvicinato ad una crisi istituzionale e ad uno scontro tra poteri di cui il paese non ha certamente bisogno. Si è trattato di un comportamento irresponsabile. Noi siamo consapevoli che la rappresentanza nelle competizioni elettorali deve essere la più ampia possibile e deve essere garantita. Ma non si possono calpestare le regole. Il Pdl lo ha fatto. E quello che è avvenuto questa sera lo conferma”.
Ed è d’accordo il responsabile del forum Giustizia, Andrea Orlando, che aggiunge: “La pronuncia del Tar dimostra che lo strappo prodotto con l’approvazione del decreto da parte del governo, oltre a costituire un atto di arroganza, non risolve neppure tecnicamente il problema, aggiungendo un pasticcio al pasticcio che avevano già combinato. L’ordinanza dice due cose. La prima di assoluto buon senso, e cioè che se uno entra in un tribunale e si chiude nel bagno non può essere equiparato a chi presenta nei tempi previsti le firme necessarie. La seconda ha implicazioni anche di carattere politico: il Tar afferma, infatti, che il governo non poteva invadere le competenze delle Regioni. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensano i “federalisti” della Lega”.
Estremamente ironico il senatore Stefano Ceccanti che analizza così la situazione: “Salve verifiche ulteriori, credo di aver capito quanto segue:
1. Il Tar boccia dicendo che la competenza dovrebbe essere regionale e che comunque le condizioni poste dal decreto (scongelare dal freezer le liste delle ore 12) non sono verificabili perché per ore sono state incustodite.
2. Con questi argomenti anche se la corte d’appello prendesse (per assurdo) per buone le nuove liste, un controricorso al tar confermerebbe la linea di oggi
3. Possono tentare un ricorso al Consiglio di Stato, ma ci vuole tempo e si mette a rischio la data delle elezioni: da un pasticcio all’altro, fanno tutto da soli
4. se anche il Consiglio di stato desse loro ragione sulla sospensiva, rimettendo il Pdl sulla scheda, bisognerebbe aspettare il giudizio del Tar sul merito a maggio (visti gli argomenti sarebbe quasi sicuramente negativo con elezioni annullate) e poi fare un nuovo ricorso al Consiglio di Stato sul merito
5. Il Tar ha quindi confermato la prudenza del Presidnete della repubblica sulla costituzionalità, ma ha soprattutto dimostrato che si tratta dell’ennesima legge ad personam rivelatasi inapplicabile e controproducente.
Auguri”.
Chiude Filippo Penati, candidato alla presidenza della Lombardia: “Se venisse confermata la volontà del Pdl di ricorrere al Consiglio di Statocontro la sentenza del Tar del Lazio, è evidente che tale circostanza farebbe venire meno le ultime perplessità che mi rimangono per fare lo stesso in Lombardia”.
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“Così stiamo sfidando la crisi guardandola in faccia”, intervista a Vasco Errani
“Sono convinto che in questa regione, per le scelte che abbiamo fatto, per le grandi innovazioni che stiamo portando avanti in tutti i settori, si possa prevedere un buon risultato”. Così Vasco Errani in un’intervista al quotidiano l’Unità, a cura di Gigi Marcucci. Una chiacchierata in cui vengono affrontati i temi della politica, dell’economia e dell’attualità.
Presidente Errani, questa è diventata una regione contendibile? C`è stato un indebolimento del modello emiliano?
«Io ho sempre detto che tutte le volte che si va ad elezioni è una prova vera, non ci sono riserve in cui potersi riparare. Però sono convinto che in questa regione, per le scelte che abbiamo fatto, per le grandi innovazioni che stiamo portando avanti in tutti i settori, si possa prevedere un buon risultato. Guardiamo a queste elezioni con serenità. Il modello emiliano viene di solito proposto come un`idea statica. L`Emilia-Romagna è un motore di questo Paese, fa politiche di segno diverso da quelle che fa il governo. Non c`è indagine, studio, rilevazione che non ci collochi in una posizione di eccellenza a livello europeo».
Come spiega i successi raccolti dalla Lega tra Piacenza e Reggio Emilia?
«La Lega investe su sentimenti di paura, di incertezza che in una società che cambia ci sono. Ma il dato più significativo è che la Lega è azionista di riferimento del governo Berlusconi e rispetto alle scelte di questa regione – ad esempio, territorio, piano energetico, federalismo – attua politiche in controtendenza. Siamo noi oggi che possiamo dire alla Lega che si è romanizzata».
Molte paure sono indotte dalla crisi: come ha influito su questa regione? Se ne esce come ci siamo entrati oppure ci sono politiche da riconsiderare?
«Da una crisi così profonda si esce cambiando, perché è il mondo a cambiare. Noi abbiamo guardato in faccia la crisi, non siamo tra quelli che si nascondono dietro un dito. La crisi in una regione così proiettata all`export ha un peso significativo. Ma qui per attraversare la crisi abbiamo fatto un patto con le imprese, le loro associazioni, i sindacati, che ha messo al centro l`idea della coesione sociale. Abbiamo dato risposte a migliaia di lavoratori e alle loro famiglie. Poi puntiamo sull`economia della conoscenza, con grandi investimenti in ricerca e nell`innovazione, sul biomedicale, le nanotecnologie e sulle energie ecocompatibili».
Anche da qui il vostro no al nucleare?
«Alla crisi si danno due risposte. Il governo propone i Tremonti bond, il nucleare e nessuna politica industriale. Sul versante opposto c`è l`Emilia-Romagna, con il suo sforzo per l`innovazione, i finanziamenti alle piccole imprese e l`attenzione alle energie rinnovabili».
La Cgil bolognese ha parlato di «politica debole» che ha espresso la giunta Delbono.
«La Regione ce l`ha un progetto, è quello di lavorare su innovazione e coesione sociale e su politiche che siano in grado di rafforzare il grande valore dell`Emilia-Romagna, la capacità di tenere insieme l`economia e la società, la comunità che si fa carico dei più deboli, che risponde a problemi di redistribuzione del reddito e di uguaglianza. Penso ad esempio alla scelta straordinaria fatta sulla non autosufficienza: 415 milioni nel 2010, l`Italia attraverso la finanziaria ne investirà 400».
Il sindacato osservava però che una politica debole può inciampare anche in incidenti come quello di Delbono, che certo non ha contribuito a tenere alta la considerazione che i cittadini hanno della politica.
«Il caso Delbono ha avuto un peso che non abbiamo sottovalutato. Delbono stesso ha fatto una scelta di grande responsabilità e ha detto: prima di tutto viene la città. Questo segna nei comportamenti reali la differenza reale tra noi e la destra».
Abbiamo visto come Delbono ha imboccato una via di uscita da questa situazione. Il problema è: come ci si è entrati?
«Delbono ha riconosciuto le sue leggerezze. Esistono le responsabilità dell`amministrazione e quelle delle persone. Delbono facendo quella scelta ha dimostrato di assumersi consapevolmente delle responsabilità».
L`Udc in Emilia Romagna correda sola, in altre è vostra alleata. Qui è il fiero avversario o l`alleato del Pd che non si vede?
«Io mi fido della forza mia e della mia coalizione. L`Udc ha fatto una scelta autonoma che rispetto. Le coalizioni in questa elezione sono chiare e senza alcuna confusione. L`Udc ha fatto una scelta sul piano nazionale per la quale si è caratterizzata in molte regioni autonomamente perché ha il suo progetto politico. Questo va rispettato da parte di tutti. Ciò non toglie che ci sia un confronto anche duro tra noi e l’Udc».
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