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"Il Presidente e l'Europa dimenticata", di Boris Biancheri

Il chiasso prodotto dalle povere vicende di casa nostra finisce con l’assordarci a tal punto che non prestiamo quasi orecchio a quel che succede nel mondo. Diamo ogni dovuta attenzione al lapidario commento lasciato cadere dal presidente della Repubblica Napolitano durante la sua visita a Bruxelles in merito al «pasticcio» Polverini – Formigoni.
Oppure restiamo colpiti dall’imbarazzato richiamo per consultazioni del nostro ambasciatore affinché chiarisca i suoi rapporti con l’ex senatore Di Girolamo. Ma finiamo col dare per scontato ciò che si è passato nei colloqui che il Presidente della Repubblica ha avuto con i vertici dell’Unione Europea, della Commissione e del Parlamento dove si giocano le sorti non di questa o quella candidatura regionale e provinciale ma del futuro dell’intera Europa. Eppure le parole pronunciate da Napolitano a Bruxelles sono di quelle che ormai si sentono raramente.

Che l’avvenire del nostro continente dipenda dalla capacità degli Stati europei di dotarsi di istituzioni comuni in grado di prendere decisioni di portata generale e che l’interesse di ogni singolo Paese vada visto attraverso quello dell’Unione nel suo complesso era, sino a qualche anno fa, quasi un luogo comune. Non sempre quelli che pronunciavano simili affermazioni ci credevano fino in fondo, molte riserve mentali, molti latenti scetticismi si nascondevano dietro la retorica europeista dei nostri politici e delle classi dirigenti. Ma, tutto sommato, quella retorica era anche il segno che gli ideali ispiratori della costruzione europea erano ormai talmente accettati che, a ribadirli, si dava prova, più che di talento politico, di buona educazione. Poi è successo quello che è successo. Prima sono stati i referendum in alcuni Paesi europei sul progetto di costituzione e sul Trattato di Lisbona che hanno rivelato la frattura esistente tra le ambizioni europeiste e il sentimento di certe opinioni pubbliche. Poi è sopravvenuta la crisi economica e finanziaria che ha indotto i governi a dare priorità agli affari di casa loro e se ne è vista una conseguenza quando quegli stessi governi hanno collocato ai vertici delle Istituzioni comuni, nella difficile fase in cui la nuova dirigenza si alterna a quella vecchia, delle personalità scelte forse più per i loro limiti che per le loro virtù, come il belga Von Rompuy (che sa bene come sopravvivere nel suo Paese tra etnie litigiose) o l’inglese Catherine Ashton che costituisce ancora un’incognita per tutti.

A loro, come al presidente della Commissione Barroso e al presidente del Parlamento Europeo Buzek, Napolitano ha ripetuto con forza che bisogna far funzionare le istituzioni quali esse sono, senza pensare a nuovi trattati o a modifiche che, anziché perfezionarle, rischierebbero di farle naufragare del tutto, ma ancor più senza permettere che esse vengano aggirate da intese dirette tra alcuni Stati nazionali che agiscono in base a loro logiche settoriali e contingenti. E l’allusione ai contatti riservati – ma neppur tanto – tra alcuni partner su come pilotare la barca europea tra le secche della crisi non poteva essere più evidente.

Mai come adesso, infatti, si ha la sensazione della scomparsa di un’Europa protagonista della scena politica ed economica mondiale, nel silenzio degli stessi europei e tra i sorrisi di chi, in America soprattutto ma anche altrove, all’Europa ha sempre voluto credere poco. Non si tratta solo della riluttanza ad assumere chiare posizioni di sostegno in ordine alla crisi della Grecia per timore delle reazioni che ciò può suscitare nella propria opinione pubblica, si tratta anche dell’assenza di una strategia e perfino dello studio di una possibile strategia nei confronti della Cina, o dei rapporti transatlantici, o della Russia, in un momento di incertezza e di riassetto globale dei rapporti internazionali. Sulla copertina dell’ultimo Time Magazine figura un globo terracqueo nel quale l’Europa addirittura non c’è e dove il mare ne ha preso il posto.

Ha ragione il presidente Napolitano quando impiega un linguaggio che ricorda quello dei tempi eroici della costruzione dell’Unione. Egli ne conosce bene le possibilità e i meccanismi, anche per essere stato per cinque anni parlamentare europeo ed è proprio al Parlamento che con maggior vigore ha fatto appello perché reagisca al ritorno di striscianti nazionalismi e tragga dai poteri che gli sono propri quegli impulsi di innovazione e di progresso unitario e democratico che tutti i governi, non escluso il nostro, sembrano incapaci di produrre.
La Stampa 05.03.10

"Perchè siamo un Paese sull'orlo del baratro", di Nadia Urbinati

Il nostro paese è sul crinale di un baratro politico e criminale e non sarà questa maggioranza a ripristinare la fiducia nella politica e nei partiti. Come altre volte in passato, un´altra Italia sarà necessaria a rimediare al disastro di una violazione sistematica e proterva della legalità e del civismo, nella pubblica amministrazione come nella società civile (la quale non è per nulla innocente). Questa maggioranza non lo può fare per ragioni che sono politiche prima che giudiziarie, connaturate ad essa e al messaggio che ha in questi anni confezionato e propagandato per creare una sua solida base elettorale.
All´origine della difficoltà del premier e del suo governo di varare lo sbandierato provvedimento anti-corruzione c´è questa endogena incapacità (e impossibilità) di distinguere tra interesse e giustizia, di vedere la corruzione e soprattutto di rinunciare ai suoi sperimentati vantaggi elettorali. Questa incapacità e impossibilità è contenuta nel messaggio contraddittorio che viene da Palazzo Chigi. Infatti, se il sistema di malaffare che ci rende ancora una volta così vergognosamente popolari nel mondo è davvero opera dei proverbiali quattro gatti e di birbantelli, allora che bisogno c´è di un intervento urgente? Non ce n´è proprio. Ma allora, perché dar voce a questa nuova fanfara dell´emergenza quando nel frattempo si rappresenta lo stato delle cose in un modo che non giustifica alcuna impellenza?
Una spiegazione facile è che l´idea del fare pulizia è molto popolare; e quando si è a ridosso di elezioni e si vuole, si deve, incrementare la propria popolarità. La propaganda della pulizia può pagare, e soprattutto lo può per un tempo che si vuole limitato. Un anno e mezzo fa, per la precisione nell´autunno del 2008, il presidente del Consiglio aveva annunciato la creazione di una nuova unità speciale che avrebbe dovuto eliminare la corruzione nelle amministrazioni pubbliche e garantire più trasparenza. La task-force non doveva avere il compito di polizia, ma di “intelligence”. Proponendo una politica dell´emergenza per fronteggiare l´emergenza corruzione, il capo del governo parlò allora della corruzione come di una antica patologia nel nostro paese.
Mai parole furono più vere, eppure chi si ricorda oggi di quella task-force? La propagandata fa rumore e passa, non si sedimenta nella memoria. E la nuova ondata propagandistica mira a fare proprio questo: mostrare che si vuol “fare”; usare una strategia moralizzante per creare una nebbia di malaffare nella previsione che, finita la campagna elettorale, l´oblio del circo mediatico che macina tutto così in fretta da non lasciare quasi traccia farà il suo corso. Proprio come la task-force di un anno e mezzo fa, tra qualche mese ci si ricorderà a mala pena di questo can can di nomi.
Ma c´è una ragione ancora più radicale che suggerisce di diffidare di questi propositi di mettere in piedi un´impresa di pulizia morale, una ragione sintetizzabile in una domanda: come può un´oligarchia che con tempo e fatica si è consolidata in questi anni di politica berlusconiana fare leggi contro se stessa e per auto-liquidarsi? Ecco allora che si comprende l´uso dell´espressione “birbantelli”: pochi ed esemplari agnelli sacrificali serviranno a chiudere presto il caso e a rimettere in moto la macchina senza troppe perdite collaterali.
Entrambe queste ragioni – la propaganda della moralizzazione e l´esemplarità del fare – inducono a pensare che non siamo proprio a un ritorno al passato, ma semmai a una escalation e in effetti a un grande peggioramento rispetto a mani pulite atto primo. Poiché allora un´intera classe dirigente fu spazzata via, non solo alcuni birbanti (la tattica dei “mariuoli” di Bettino Craxi allora non funzionò); nessuno aveva il potere di creare salvagenti perché la fine della Guerra fredda aveva reso quella vecchia oligarchia arrugginita, vulnerabile e nuda. Ma questa nuova oligarchia ha costruito i suoi anti-corpi in un ambiente ben diverso, un ambiente non protetto da alleanze internazionali; essa è quindi più forte, più radicata e resistente di quella che vedemmo naufragare diciotto anni fa. Infatti, oggi esiste un´oligarchia che non è ancora sotto accusa da parte dell´opinione pubblica perché ha nel frattempo costruito una macchina per creare un´opinione pubblica addomesticata e recettiva ai disvalori pubblici, grazie in primo luogo all´uso monopolistico dei media e alla pratica sistematica di nascondimento del vero.
Propaganda ed esemplarità si alimentano a vicenda: dunque i proclami propagandistici sulle poche mele marce e la promessa di un decreto anti-corruzione affinché l´acqua torni presto nel proprio alveo e scorra come sempre. Ecco il paradosso: una politica che si presenta come moraleggiante e che è contemporaneamente sovvertitrice di ogni valore legale ed etico. Queste due dimensioni si sono per anni alimentate a vicenda generando quel mostruoso connubio di attenzione morbosa dei media e di altrettanto sconvolgente immutabilità delle cose, con la conseguenza di un peggioramento radicale della situazione legale e etica. È per queste ragioni che ci troviamo su un baratro dal quale questa maggioranza non può salvarci.
La Repubblica 05.03.10

Superiori senza legge, ma il 27 scade l'iscrizione

Una situazione surreale. Sono in corso le iscrizioni alle superiori,ma la cosiddetta riforma epocale Gelmini non è ancora legge. Il modo dozzinale di procedere del governo che stavolta pagano le famiglie. Il pasticcio delle liste è la conseguenza di cosa sia il diritto e l’iter legis per il centrodestra. La pura formalità trattata con arroganza toglie il diritto alla contesa politica. Ma in un campo che riguarda milioni di ragazzi il governo sta procedendo con il meccanismo che oggi gli è scappato di mano come se niente fosse. Sono in corso le iscrizioni alle scuole superiori. La scadenza è il 27 di questo mese. La cosiddetta riforma Gelmini non è ancora legge, però. I regolamenti varati dal governo non hanno avuto la firma del capo dello Stato, né, tanto meno, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, atto, l’ultimo, che perfeziona e mette in vigore una legge.
COSA È IN VIGORE? Un pasticcio vero che riguarda centinaia di migliaia di ragazzi e le loro famiglie. A quale tipo di scuola si stanno iscrivendo? In punta di diritto non a quella riformata e anzi si stanno ponendo in essere le condizioni per dei ricorsi amministrativi capaci di bloccarne gli effetti. In quale caso si sceglie in forza di una legge che non c’è? «La riorganizzazione della scuola superiore imposta dal ministro Gelmini si sta sempre più rivelando come un’iniziativa improvvisata – dicono Francesca Puglisi e Davide Zoggia, della segreteria pd, responsabili scuola ed enti locali- Mancano ormai venti giorni al termine ultimo per le iscrizioni e il governo non ha ancora pubblicato sulla Gazzetta ufficiale i regolamenti di riordino. Forse Gelmini pensa che le leggi si possano render tali pubblicandole sul sito internet del ministero, ma le cose non stanno così». «Lo stesso governo- aggiungono- ha portato via agli enti locali la facoltà di organizzare l’offerta formativa territoriale: dopo tanto parlare di federalismo, la destra si comporta nella maniera più centralista. Molti enti locali rivendicano il loro diritto ad essere protagonisti su formazione e scuola e cercano di dare una risposta alle famiglie, che rischiano di non avere tempo per scegliere consapevolmente gli indirizzi di studio, e alle scuole per potersi organizzare ». TUTTO VERO SOLO SUL WEB In questo momento la legge non c’è, è indubbio. Cosa devono fare le famiglie? E, soprattutto, cosa devono rispondere le scuole alla richiesta di chiarimenti? Il ministero continua, appunto ad inondare di comunicazioni online sulle scuole e sulla riforma, ma di effettivo non c’è nulla. Una repubblica delle banane. Così come la deroga che è stata data ai presidi per fare i bilanci. Un mese in più per redigere un documento il cui valore è del tutto virtuale. Sì, perché i capi d’istituto (a cui è stata inviata settimane fa una circolare con l’invito ad usare i fondi propri per l’offerta formativa per pagare i supplenti) avranno segnato a credito centinaia di migliaia di euro che non avranno mai. Sono i soldi che lo Stato gli deve dare per anticipi impropri che le scuole sono state costrette a fare. Nel complesso si tratta di cifre che toccano il miliardo di euro. Soldi virtuali, come, al momento, la riforma della scuola secondaria superiore.
L’Unità 05.03.10

Giù le mani dall'art. 18

“L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori potrebbe diventare un optional”. A denunciarlo è il senatore del Pd Tiziano Treu, vicepresidente della commissione Lavoro. Il disegno di legge sul lavoro è stato approvato mercoledì in Senato e contiene norme sull’arbitrato per risolvere le controversie di lavoro all’articolo 31 del ddl, approvato con 144 sì, 106 no e 3 astenuti.
La norma su arbitrato e conciliazione consente a qualunque lavoratore individualmente di chiedere l’arbitrato in qualunque stadio di eventuali controversie. In pratica è un attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che prevede l’impossibilità del licenziamento senza giusta causa in aziende con più di quindici dipendenti.

Anna Finocchiaro, Presidente del gruppo PD a Palazzo Madama, dirama una nota per denunciare come si sia “scritta una brutta pagina per i lavoratori italiani. E’ l’ennesimo ‘regalo’che questo governo ha fatto alle famiglie dei lavoratori italiani. Per sconfiggere la crisi questo governo non vuole mettere in campo nessuna misura veramente efficace ma è pronto a trovare nuovi strumenti che colpiscono i diritti minimi di chi, magari a fatica, conserva ancora un posto di lavoro. E’ questa la filosofia aberrante del governo Berlusconi”.

Stefano Fassina, responsabile Economia e Lavoro della segreteria del PD bolla le norme contenute nel Collegato Lavoro in approvazione al Senato come “l’ennesimo passo della contro-riforma della regolazione del mercato del lavoro portata avanti dal ministro Sacconi e dalla maggioranza. Dopo l’eliminazione delle misure sulle dimissioni in bianco, le deroghe alle norme e l’indebolimento delle sanzioni sulla sicurezza sul lavoro, la rimozione dei limiti ai contratti a termine, il re-inserimento dei contratti a chiamata, la cancellazione della responsabilità in solido dell’appaltatore con il sub-appaltatore per arginare il lavoro nero, ora si arriva a smantellare le tutele contro gli ingiusti licenziamenti. Per il ministro Sacconi, i diritti e la retribuzione dei lavoratori sono la variabile compensativa delle inefficienze di sistema e delle rendite corporative accuratamente difese. Nonostante i tentativi di retorica riformista, è un disegno che guarda al passato più lontano per un mercato del lavoro selvaggio, senza diritti, diametralmente opposto a quanto servirebbe per
spingere le nostre attività produttive verso la competizione di qualità. Il Pd continuerà a battersi in Parlamento e nel Paese per affermare la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici, “il lavoro decente” invocato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e da Benedetto XVI nella Caritas in veritate”.

Il meccanismo è quello dello smantellamento delle garanzie. “L’articolo 31 del Ddl – spiega Treu – prevede due possibilità’ per ricorrere all’arbitrato in funzione della risoluzione delle controversie tra datore di lavoro e lavoratore. La prima attraverso contratti collettivi, ed è la strada piu’ sicura. In questo modo, infatti, le parti possono stabilire i limiti in cui l’arbitrato puo’ essere esercitato. Poi, pero’, resta il fatto, che se le parti falliscono nel trovare un accordo, puo’ intervenire il ministro per decreto”.
C’e’ poi una seconda possibilità consentita dalla norme volute dal governo e dalla sua maggioranza. Spiega Treu: “che il singolo lavoratore accetti un accordo secondo cui il proprio contratto di assunzione preveda il ricorso all’arbitrato per risolvere le controversie, incluso il ricorso all’arbitrato secondo equità. Cosa, quest’ultima, che implica la possibilità di bypassare le norme inderogabili di legge e quindi diritti come l’articolo 18 o come le retribuzioni o le ferie. E’ grave inoltre che un simile accordo può essere stretto anche in corso di rapporto di lavoro”.

Stavolta la propaganda non basta. “E’ molto importante che i media abbiano acceso i riflettori su un
provvedimento orrendo del governo in tema di lavoro” dichiara il senatore del Pd Achille Passoni che, nel 2002 come esponente della segreteria della Cgil, organizzò quella che rimane la più grande manifestazione della storia della Repubblica portando in piazza oltre tre milioni di lavoratori proprio in difesa dell’articolo 18.
“E’ naturale che la manomissione possibile dell’articolo 18 sia elemento centrale di questa attenzione in quanto effettivamente si apre con la norma, voluta dal governo Berlusconi, un’autostrada alla cancellazione del diritto a non essere licenziati senza giusta causa. Ma è l’insieme del provvedimento che abbassa le tutele per chi lavora e dà un duro colpo al diritto del lavoro che, nel nostro Paese, significa storicamente garanzia per la parte più debole, cioè il lavoratore. Sull’articolo 18 – conclude Passoni – bisognerà sviluppare una forte iniziativa politica e un’alta
vigilanza sindacale in grado di arginare un vero e proprio buco nella diga dei diritti che si realizzerebbe applicando queste pessime norme”.

E se il governo vuole rendere i lavoratori più deboli e ricattabili la Cgil annuncia un ricorso in Corte Costituzionale. Parola del segretario generale del sindacato Guglielmo Epifani, che in un’intervista al quotidiano “La Repubblica”, attacca la legge sul processo del lavoro, in ballo in Parlamento da quasi due anni (il 28 ottobre del 2008 era stata approvata alla Camera).
«L’impressione è che ci sia più di una norma in contrasto con la Costituzione», ha detto Epifani
Rispondendo alle parole del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, che ha parlato di una polemica da parte dei ’soliti noti’, Epifani ha dichiarato: «Non capisco perché Sacconi parli di malafede. Questa non è una questione di malafede e buonafede. Sacconi dovrebbe dire se ciò che sostiene la Cgil è vero o meno». Per Epifani in sede di contrattazione non si potrà «certo modificare quello che stabilisce la legge». Il sindacalista ha osservato come il ricorso all’arbitrato fosse un’opportunità in più per difendersi «prima di questa legge», ma come «in questo nuovo schema una volta imboccata la strada dell’arbitro non si può più andare dal giudice. Sacconi non dice la verità».

E’ lo stesso Treu, che ha denunciato per primo il pericolo a replicare a Sacconi: “”Non c’entra nulla la campagna elettorale. Che questa norma fosse devastante per i lavoratori, il Pd lo denuncia da più di un anno e per verificarlo basta guardare i resoconti parlamentari e le agenzie. Ma il ministro Sacconi è evidentemente distratto. Che l’arbitrato possa essere stabilito solo in presenza di Contratto collettivo nazionale è una possibilità e noi la abbiamo auspicata. Però invito il ministro a
leggere bene la norma, in particolare il comma 5 dell’articolo 31 del provvedimento all’esame del Senato, secondo cui qualunque lavoratore individualmente può chiedere l’arbitrato in qualunque stadio di eventuali controversie. Quindi, anche di fuori dei contratti collettivi nazionali
e, in tal caso, anche senza certificazione. Dire, come sostanzialmente fa Sacconi, che c’è la volontà del lavoratore che non è un minus habens significa dimenticare la storia del diritto del lavoro che è stato costruito proprio per proteggere i lavoratori nei momenti di debolezza. Penso ad esempio – conclude Treu – al momento prima dell’assunzione, prima del rinnovo di un contratto a termine. In questi momenti il lavoratore potrebbe essere costretto a firmare un mandato in bianco a un arbitro e il certificatore potrebbe anche accertare una volontà che, in questo caso, sarebbe coatta”.

Il capogruppo del Pd nella commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, nota come il governo rispetta l’autonomia delle parti sociali a corrente alternata: “Quando fa comodo dichiara che non si debbono operare invasioni, quando conviene si possono apportare modifiche al diritto del lavoro senza alcuna consultazione preventiva delle parti sociali. Sul tema dell’arbitrato, che incide profondamente sulle tutele del lavoratore indebolendo la strada giudiziaria, si introduce un nuovo ‘correttivo chirurgico’ che questa volta però lascia il segno. Alla Camera, come Pd, abbiamo presentato emendamenti per la soppressione di queste norme, respinti dalla maggioranza. E’ da un anno che denunciamo la silenziosa controriforma del mercato del lavoro, costruita con una sommatoria di interventi mirati. Adesso la goccia ha fatto traboccare il vaso: mi auguro che ci si renda conto che abolire le tutele del licenziamento in bianco, cancellare i libri paga, matricola e presenza, cancellare la responsabilità dei committenti nella catena degli appalti, reintrodurre il lavoro a chiamata e lo staff leasing, rappresenta la cancellazione del protocollo sul welfare del 2007 e la scelta di imboccare una strada che porta ad un ampliamento della precarietà e del lavoro nero che, a parole, il governo vorrebbe combattere. Sarebbe opportuno che l’esecutivo decidesse di ritirare queste norme estremamente dannose e si aprisse al confronto con le parti sociali”.
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Liste Pulite, Bersani invia alla Commissione Antimafia tutte le candidature del PD

Lettera del segretario PD a Pisanu: “Applichiamo il codice di autoregolamentazione. Fuori chi è stata condannato, anche in via non definitiva”. Bersani , ha inviato oggi al presidente della Commissione Antimafia, Giuseppe Pisanu, l’elenco completo degli oltre 600 candidati del Pd alle Regionali.
Il Pd ha fatto sottoscrivere a tutti i candidati, al momento dell’accettazione della candidatura stessa, l’adesione, oltre che al codice etico del partito, anche il codice di autoregolamentazione approvato dalla Commissione Antimafia il 18 febbraio. Questo documento impegna i partiti a non inserire nelle proprie liste persone che hanno ricevuto condanne, anche non definitive, per reati gravi. Il Pd, con una lettera del 2 marzo a Pisanu, ha aderito al codice.
Oggi Bersani, nell’inviare l’elenco dei candidati del Pd, ha spiegato, nella lettera di accompagnamento rivolta a Pisanu, che il Pd ha coinvolto la Commissione nazionale di garanzia per compiere verifiche sui candidati qualora emergano problemi successivamente alle elezioni.
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Mafia a Modena, i parlamentari Pd interrogano Maroni

Chiedono al ministro dell’Interno se risponde a verità quanto riportato oggi dal Corriere della Sera sul radicamento di organizzazioni criminali. Come valuta il ministro Maroni le dichiarazioni del Procuratore capo di Modena, Vito Zincani, sulla presenza delle organizzazioni criminali nel modenese? A porre la domanda sono i quattro deputati modenesi del Pd – Manuela Ghizzoni, Ricardo Franco Levi, Ivano Miglioli e Giulio Santagata – che, in una interrogazione, chiedono al ministro dell’Interno se risponde a verità quanto riportato oggi dal Corriere della Sera (“ormai a Modena non si parla più di infiltrazioni, ma di parziale radicamento del fenomeno criminale”).

In territorio modenese si sarebbe insediata, secondo il quotidiano milanese, “una vera e propria crime company, capace di insinuarsi e infettare i gangli dell’economia, non tanto attraverso i tradizionali strumenti della minaccia e della violenza ma con grosse quantità di denaro, una potenza finanziaria infinita”.

I parlamentari modenesi chiedono anche – qualora le dichiarazioni riportate dal Corriere fossero confermate da riscontri oggettivi – come e con quali mezzi il governo intenda agire per sradicare le organizzazioni mafiose dal territorio modenese.

"Bertolimpionico", di Massimo Gramellini

Meglio sorridere sul “dopobertolaso”, ma quello che c’è dietro il sorriso è molto serio, e la strada è ancora in discesa . Si può ancora vivere senza Grandi Eventi? La risposta l’ha data ieri sera al Tg5 il grandeventista Bertolaso: no. Egli intende proporre l’Abruzzo terremotato come sede delle Olimpiadi invernali 2018. Dopo il G8, i Giochi della neve. E perché non anche il Nobel, la Champions, il Giubileo, l’ostensione della Sindone e magari l’Expo? Attualmente è destinata a Milano, ma è giusto che vi rimanga solo in caso di terremoti dalle parti di Cinisello Balsamo. Altrimenti meglio spostarla all’Aquila o sul Lambro inquinato, sempre che la Protezione Civile non intenda già farvi disputare le gare di canottaggio delle Olimpiadi estive.
Il Cile dovrebbe affrettarsi a chiedere i prossimi campionati del mondo di calcio e Haiti la sede permanente dell’Onu, prima che la stessa venga trasferita accanto a un inceneritore di Napoli. Nessuno mette in dubbio la bellezza delle montagne abruzzesi. A lasciare esterrefatti è l’ideologia del Grande Evento aspira-soldi come unica soluzione per risolvere i piccoli e grandi disastri della vita. Solo la fiaccola olimpica potrà togliere le macerie dal centro dell’Aquila? Parrebbe di sì. In fondo, quattro anni dopo, i torinesi rimpiangono ancora quei quindici giorni da favola in cui gli autobus arrivavano puntuali e i bar restavano aperti a mezzanotte. Si proceda quindi con il decreto Bertolimpionico. Articolo 1: l’Italia è un Grande Evento permanente. Articolo 2: Balducci e Anemone sono nominati commissari straordinari fino a esaurimento dei fondi.
La Stampa 03.03.10