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Apprendistato: maggioranza scellerata, autolesionista e classista

Dichiarazione di Mariangela Bastico. La norma sull’apprendistato a 15 anni, e la maggioranza che approvandola se ne assume ogni responsabilità, è scellerata, autolesionista e classista.
Ostinandosi a rubare un anno di istruzione ai ragazzi si condannano i giovani “alla legge del figlio di papà”, per cui chi ha genitori professionisti o dirigenti è sicuro di andare meglio a scuola e di avere una professione migliore e più remunerativa. Gli altri andranno a lavorare presto, in mansioni più basse, meno pagati. Anzi dovranno andarci il più presto possibile, un anno prima di quanto la legge vigente prevede. Ciò avviene mentre tutte le indagini (Ocse e Banca d’Italia) ci indicano un percorso esattamente contrario: investire in conoscenza.

Con questa norma il Governo si appropria di un anno di diritto all’istruzione sottraendolo ai ragazzi, abbassa a 15 anni l’età di ingresso al lavoro, riduce le opportunità di futuro e blocca la mobilità sociale. Rinuncia anche ad un investimento che darebbe una resa del 7%. Bankitalia ha calcolato in una interessante indagine sul rendimento dell’istruzione che questo è l’investimento più remunerativo per i singoli e per il Paese: mediamente il 7%, fino all’8% al Sud.

Siamo di fronte a un’operazione inaccettabile e classista e a una maggioranza che si assume una responsabilità immensa di fronte agli studenti e alle famiglie di tutto il Paese.

"L'ultima beffa agli immigrati spunta la sanatoria trappola", di Paolo Rumiz

In gran segreto il governo ordina: via chi ha chiesto la sanatoria ma ha un’espulsione alle spalle
La linea dura applicata a Trieste, Riimini e Perugia. Clemenza a Milano, Venezia e Bologna.
Come criminali comuni, magnaccia o spacciatori di droga. Gli immigrati che hanno fatto domanda di sanatoria ma in passato non hanno rispettato un decreto di espulsione vanno rispediti a casa.Non ovunque, ma così, come gira agli uffici stranieri delle questure. Qua e là, alla chetichella, partendo dalla provincia, che nessuno mangi la foglia in anticipo. Uno sì e l’altro no, in modo che tutti restino col fiato sospeso. Funziona così la sanatoria Maroni: inflessibile in alcune province, a maglie larghe altrove. Una dicotomia interpretativa che colora la carta d’Italia come le chiazze del morbillo.

Durezza a Trieste, Rimini, Perugia. Clemenza a Milano, Venezia, Bologna e in altre province. Incertezza ovunque, di conseguenza. La voce si è sparsa e gli immigrati si scoprono a bagnomaria, con un contratto regolare in mano ma senza sapere ancora se saranno espulsi o no. In gran parte africani, gli stessi che la mafia ha preso a fucilate a Rosarno. I più visibili, quelli espulsi più di frequente, dunque più ricattabili e di conseguenza a costo più basso sul mercato del lavoro. L’incertezza del diritto in Italia la vedi sulla pelle degli stranieri.

La storia si gioca negli ultimi sette mesi, da quando parte la sanatoria Maroni. A monte, la contraddizione insita nella precedente legge Bossi-Fini, che all’articolo 14 individua nella mancata ottemperanza all’espulsione l’unico reato veniale del codice per il quale è previsto l’arresto obbligatorio. Come dire: non hai fatto niente, ma ti ficco dentro lo stesso. Di fronte a questa incertezza del diritto, molte organizzazioni vogliono vederci chiaro. I condannati per mancata obbedienza al decreto di espulsione possono fare domanda, sì o no?

La Confartigianato di Rimini per esempio, città che in seguito vedrà espulsioni, pone il quesito al Viminale. Ottiene circostanziata risposta ufficiale via mail in 48 ore: la richiesta si può fare. Data: 23 settembre 2009. Anche il buon senso dice che non può essere altrimenti. Che cosa si deve sanare se non una precedente illegalità? Che senso avrebbe impedire la legalizzazione di coloro che sono stati illegali? Insomma: lasciate che le pecorelle vengano a noi con fiducia.

Tutto sembra mettersi bene. Il ministero raccomanda alle prefetture, che devono istruire le domande, di lavorare con larghezza. Ovunque si instaura un clima di efficienza ecumenica. Traduttori, mediatori culturali, rispetto. L’Italia sembra improvvisamente un altro Paese. Ma attenzione: la raccomandazione del Viminale non avviene per iscritto ma con telefonate dirette a ogni prefetto d’Italia. L’elettore medio non deve sapere che questo governo tratta gli immigrati come persone.

Ma i prefetti non si formalizzano e la macchina s’avvia. Scatta l’emersione. Decine di migliaia di stranieri escono dalle catacombe, trovano datori di lavoro per un contratto, spesso minimale ma sufficiente. Pagano l’Inps e le varie tasse di regolarizzazione. Firmano montagne di carte. Fanno lo stesso i cittadini italiani che li hanno assunti. Ma l’ultima parola spetta alla questura, che deve controllare la fedina degli stranieri.

E qui il clima cambia di colpo. Alcune questure convocano gli immigrati, comunicano il respingimento della domanda e, contestualmente, il decreto di espulsione. Il pollo è lì, si è autoconsegnato con i documenti in mano, e viene caricato su un aereo. La sua colpa è appunto quella individuata dalla Bossi-Fini: avere ignorato la condanna all’espulsione. Il tutto gli viene spiegato senza preavviso prefettizio e senza dar tempo al malcapitato di consultare un legale. Via subito. Il caso di Trieste.

La voce gira, e gli immigrati si organizzano, cercano patrocinio legale. Alcuni consegnano i passaporti ai loro datori di lavoro, non si sa mai. Tutti fiutano il trappolone, temono che la larghezza iniziale sia stata propedeutica alla chiusura successiva. E intanto partono nuove domande al Viminale. Il giornale di Trieste, per esempio, segnala la cosa al ministro, il quale risponde, ma con un appunto anonimo, cioè senza firma, compilato dalla stessa questura.

C’è scritto: la condanna per mancata obbedienza all’espulsione è da considerarsi reato grave, tant’è vero che comporta arresto obbligatorio. La cacciata dall’Italia è dunque legittima. L’esatto contrario di quanto sostenuto ufficialmente il 23 settembre. Ora nemmeno al ministero ci capiscono più niente. Gli uffici cui fanno capo le prefettura ignorano quanto pensano e fanno al piano di sopra gli uffici delle questure. Il marasma è tale che le stesse questure chiedono istruzioni, vedi Pavia e Alessandria. E il ministro risponde con appunti senza firma perché non può sostenere un nonsenso e contraddirsi.

“Noi applichiamo la legge” dichiara il questore di Trieste, il quale peraltro aggiunge subito dopo che il reato in questione “può rientrare” tra quelli ostativi alla concessione della sanatoria. “Può rientrare”, si badi bene: non “rientra”. Dunque quell’interpretazione è, per sua stessa ammissione, facoltativa. Ed è quanto avviene, per l’appunto, in giro per l’Italia. Chi vuol mostrare i muscoli col ministro espelle; gli altri no. E le prefetture, laddove subalterne alle questure, si adeguano all’anarchia interpretativa. Sulla quale sarebbe ora che il ministro si pronunciasse in prima persona, in nome dello stato di diritto.
La Repubblica 04.03.10

"Quei cittadini che votano ma non pagano le tasse", di Paolo Balduzzi e Massimo Bordignon

Torna agli onori della cronaca la Circoscrizione estero. Per facilitare l’esercizio di un diritto dei connazionali che risiedono in altri paesi sarebbe bastato il voto per corrispondenza. Invece la legge sul voto degli italiani all’estero finisce per garantire una rappresentanza senza tassazione: cittadini che non pagano tasse in Italia e non usufruiscono dei servizi influenzano con il loro voto le tasse che gli italiani residenti pagano e i servizi che ricevono. Viceversa, gli immigrati regolari nel nostro paese sono soggetti a una tassazione senza rappresentanza.
Le cronache sono piene in questi giorni delle mirabolanti avventure di Nicola Di Girolamo, senatore del Pdl, accusato di essere stato eletto al Parlamento italiano nella Circoscrizione estero, ripartizione Europa, grazie ai voti della ‘ndrangheta. Ma accuse di brogli e contestazioni sono state avanzate anche nei confronti di altri deputati e senatori eletti in quella Circoscrizione. Chi sono dunque gli italiani all’estero e come votano? Ed è giusto che votino? Perché le contestazioni?

IL VOTO DEGLI ITALIANI ALL’ESTERO

La legge 459 del 27 dicembre 2001 riconosce il diritto di voto per i referendum e le elezioni dei due rami dal Parlamento a tutti gli italiani residenti all’estero, iscritti all’Aire (Agenzia per gli italiani residenti all’estero, gestita dal ministero dell’Interno) o iscritti agli schedari consolari (gestiti dal ministero degli Affari esteri; i consolati dovrebbero automaticamente aggiornare i dati dell’Aire). Alla data dell’ultima elezione, il referendum del 2009, gli aventi diritto al voto in questa categoria erano 3.024.879. Si noti che secondo la legge sulla cittadinanza del nostro paese (legge 91/1992, articolo 1), per essere italiani, e dunque per godere dei diritti politici, basta nascere da almeno un genitore italiano. Ciò assicura la cittadinanza anche a coloro che, nati all’estero ma avendo subito optato per la cittadinanza italiana, non hanno poi mai risieduto sul territorio italiano, né ne hanno mai imparato la lingua. (1)
È a questi cittadini che si rivolge la legge 459/2001. La norma segue e completa una riforma costituzionale (legge costituzionale 1/2001) che introduce, agli articoli 56 e 57, la Circoscrizione estero e ne definisce la rappresentanza parlamentare: dodici deputati e sei senatori.
Sono due le sostanziali novità introdotte della legge ordinaria. La prima è rendere più semplice l’esercizio del diritto di voto per gli italiani che risiedono all’estero, prevedendo il voto per corrispondenza. In alternativa, l’elettore può decidere di votare in Italia nella circoscrizione del territorio nazionale in cui risulta iscritto; e se non ha mai risieduto in Italia, ma è italiano per discendenza diretta, la sua circoscrizione è quella del genitore, del nonno o di altro antenato. In secondo luogo, rende operativa la Circoscrizione estero: stabilisce infatti la sua ripartizione in quattro aree – Europa, America meridionale, America settentrionale e centrale, e Africa, Asia, Oceania e Antartide. Ma stabilisce anche che i candidati stessi (e di conseguenza gli eletti) debbano essere residenti all’estero.
Se l’obiettivo della legge fosse stato solo quello di rendere più facile l’esercizio del voto da parte degli italiani residenti all’estero, sarebbe stato sufficiente il voto per corrispondenza o qualunque altra forma di voto a distanza. Con la Circoscrizione estero si fa di più: si consente agli italiani all’estero di diventare elettorato passivo.
È possibile che l’intenzione del legislatore, con l’introduzione della Circoscrizione estero, fosse solo quella di offrire una funzione di rappresentanza. Ma nonostante il numero esiguo, questi parlamentari hanno acquisito un’importanza superiore alle previsioni. Durante la XV legislatura, hanno di fatto garantito al governo Prodi la fiducia al Senato, condizionandone l’azione di governo. Nell’attuale legislatura, invece, le vicende del senatore Pdl Nicola Di Girolamo, e le contestazioni su altri eletti all’estero, stanno mettendo in serio imbarazzo il Parlamento.

I LIMITI DELLA LEGGE

I punti deboli della legge 459/2001 sono numerosi. Innanzitutto, le ripartizioni della Circoscrizione estero sono molto ampie e quindi rischiano di essere poco rappresentative; addirittura, una comprende ben tre continenti. In un contesto di tale distanza tra eletto ed elettore, anche la possibilità di esprimere preferenze sui candidati (consentito a questi elettori, a differenza di quello che succede agli italiani residenti) può non funzionare come effettivo meccanismo di selezione e controllo della classe politica. Inoltre, i candidati potrebbero essere poco conosciuti dagli elettori e, soprattutto, poco controllabili dai partiti che li selezionano. Il caso Di Girolamo è significativo: nessuno sembra più ricordare chi lo ha proposto, ed è subito cominciato all’interno del Pdl il valzer delle responsabilità tra chi avrebbe dovuto valutarne la candidatura. Infine, come illustrano le cronache recenti, il voto espresso per corrispondenza solleva dubbi sulla sua trasparenza, regolarità e gestibilità amministrativa. Le operazioni di scrutinio sono lente e facilmente imprecise. Per esempio, a quasi due anni dalle elezioni politiche del 2008, i dati sugli scrutini delle schede per la Circoscrizione estero sul sito del ministero dell’Interno risultano ancora incompleti.
Tutti questi elementi vanno rapidamente rivisti dal legislatore e in effetti ci sono già diversi disegni di legge depositati in Parlamento. È molto probabile che a seguito del caso Di Girolamo, si arrivi a ripensarne alcuni, a cominciare dal voto per corrispondenza. Ma qualunque riforma deve tenere conto del fatto che la disciplina del voto per gli italiani all’estero si fonda su una norma della Costituzione. Senza toccare ulteriormente la Carta, il legislatore potrà al massimo modificare le modalità di espressione di voto o di selezione dell’elettorato passivo, ma non potrà eliminare la Circoscrizione estero. (2) E invece proprio su questa si dovrebbe riflettere.

RAPPRESENTANZA E TASSAZIONE

Il problema fondamentale è che il diritto di voto per gli italiani all’estero garantisce loro una effettiva “representation without taxation”: cittadini che non pagano tasse in Italia e non usufruiscono dei servizi influenzano, con il loro voto, le tasse che gli italiani residenti pagano e i servizi che ricevono. Questo è ancor più vero con la Circoscrizione estero, i cui rappresentanti parlamentari sono essi stessi cittadini non residenti in Italia. La rappresentanza senza tassazione contrasta con un principio fondamentale della democrazia, e se è in qualche modo accettabile per cittadini italiani che sono solo temporaneamente al di fuori dei confini nazionali, lo è di meno per chi ha deciso di vivere stabilmente all’estero e che in qualche caso, non conosce né le istituzioni né la lingua del paese di origine. La cosa è ancora più impressionante se si pensa che viceversa, in Italia vivono e lavorano individui che soffrono di una “tassazione senza rappresentanza”, vale a dire gli stranieri regolari. Secondo il Rapporto Caritas-Migrantes, nel 2007 gli immigrati hanno contribuito al 6,1 per cento del Pil e assicurato un gettito fiscale al nostro paese pari a 3 miliardi e 749 milioni di euro, dei quali 3,1 miliardi per i soli versamenti Irpef.
Curiosamente, il numero degli stranieri residenti in Italia, regolari e maggiorenni, è anch’esso di poco superiore ai tre milioni (dati Istat, 2009). Appare quanto meno singolare che una popolazione così ampia, che vive e lavora onestamente nel nostro paese, non possa esprimere alcun voto, neppure a livello amministrativo, pur essendo soggetta al fisco e usufruendo dei servizi offerti. Si noti che oltretutto vivono in Italia circa mezzo milione di stranieri solo di nome: sono i figli di immigrati, nati o arrivati in tenera età nel nostro paese, che hanno studiato in Italia, ne parlano perfettamente la lingua, e che sono in effetti indistinguibili dai connazionali della stessa età, eccetto che non godono degli stessi diritti. È opportuno che questa asimmetria venga risolta al più presto, accelerando il percorso per l’ottenimento della cittadinanza e dei diritti collegati.

(1) A questo numero si aggiungono i numerosissimi cittadini stranieri nati all’estero ma che possono vantare un ascendente italiano (fino al secondo grado). Questi ultimi devono però richiedere che venga riconosciuta loro la cittadinanza italiana, dopo avere risieduto sul territorio italiano per almeno tre anni (è il caso per esempio di tanti calciatori naturalizzati).
(2) L’unica strada, in questo senso, potrebbe essere quella dell’abrogazione totale della stessa legge 459/2001; ciò comporterebbe l’applicazione della disciplina precedente alle modifiche costituzionali del 2001 (così come previsto anche dall’articolo 3. comma 2 della legge cost. 1/2001: “In caso di mancata approvazione della legge di cui al comma 1, si applica la disciplina costituzionale anteriore”.
www.lavoce.info

"Quanto ci costa (davvero) il nucleare", di Tommaso Sinibaldi

Il nucleare arriva alla Corte Costituzionale, con lo scontro tra Stato e Regioni: chi decide sul territorio? Ma al dibattito manca un pezzo decisivo: i costi nascosti del nucleare, messi a carico delle future generazioni senza che nessuno lo sappia. Vi spieghiamo come, in cinque domande e risposte
1. Il problema della “morte” delle centrali nucleari si porrà nei prossimi anni in termini sempre più pressanti?

Invece di parlare di “morte” usiamo un termine più appropriato. Gli anglosassoni parlano di “decommissioning” : la migliore traduzione in italiano mi sembra “smantellamento”. Ciò premesso, certamente è così: il problema si porrà già nei prossimi anni e con un “crescendo” pressante per due ragioni. La prima è che la grandissima maggioranza delle centrali nucleari oggi operanti nel mondo sono state ordinate negli anni sessanta e settanta (quelle ordinate dopo il 1979 sono pochissime) e sono entrate in servizio negli anni settanta ed ottanta. All’inizio si assegnava ad una centrale nucleare una vita produttiva di trent’anni : poi si è quasi universalmente convenuto che tale vita poteva essere estesa a quarant’anni. Oggi quindi un assai consistente stock di centrali nucleari sta giungendo a questo traguardo. Entro il 2020 tutte o quasi le centrali nucleari oggi attive nel mondo (sono 450) compiranno quarant’anni e dovrebbero quindi essere smantellate.

2. Quindi arrivano a “morte” o, diciamo meglio, allo smantellamento in tante e tutte insieme. Questa la prima ragione. E la seconda?

La seconda è che il processo di smantellamento (decommissioning) è un processo lungo, costoso e poco conosciuto : poco conosciuto semplicemente perché non esiste ancora in materia una esperienza consolidata. Vale la pena di parlarne perché ho l’impressione che la grande opinione pubblica ne sia assai poco informata, ma il problema inevitabilmente verrà alla ribalta.

Dopo la fine della attività, cioè della produzione di energia elettrica, le centrali nucleari debbono subire un lungo processo di decontaminazione : lungo, veramente lungo perché si tratta di cinquant’anni. E’ il tempo necessario affinché la radioattività dei componenti la centrale (non stiamo parlando delle scorie di combustibile, attenzione, ma dei componenti strutturali dell’impianto) decada fino a livelli ritenuti accettabili per la demolizione vera e propria. Durante questi cinquant’anni la centrale rimane in piedi così com’è: per capirci, vista dall’esterno non cambia nulla. Ma non si tratta di un normale impianto industriale dismesso e abbandonato; durante questi cinquant’anni la centrale deve essere strettamente sorvegliata e monitorata. Naturalmente tutto questo costa e costa molto.

Paradossalmente in Italia siamo all’avanguardia in materia. Come noto dal 1987 le nostre (poche) centrali sono state fermate: quindi da oltre vent’anni sono in fase di decontaminazione. Il processo è gestito da una società pubblica, la Sogin. Nel 2007 la Sogin ha presentato un “conto” di 174,9 milioni di euro: questo “conto” viene approvato dalla Autorità per l’energia Elettrica ed il Gas e “ribaltato” sulle nostre bollette. Quindi lo stiamo già pagando noi.

Il peso di questa voce sulla nostra bolletta elettrica è modesto: l’1% circa. Ciò perché la consistenza del parco nucleare italiano era, come noto, modesta (4 centrali per circa 1000 MW complessivi).

Ma credo sia più appropriato valutare questo costo in altro modo: se le 4 centrali dismesse funzionassero a pieno ritmo (ipotesi assai ottimistica, non è mai successo) produrrebbero circa 6 mlrd di kWh /anno per un valore di circa 400 milioni di euro. In altri termini i costi annui del decommissioning rappresentano quasi la metà del valore dell’energia che questi impianti producevano (o, meglio, avrebbero potuto produrre): e questo già da 25 anni e per altri 25. Restano poi, beninteso, i costi dello smantellamento finale e del ripristino del sito.

Possiamo infine fare un altro raffronto: oggi costruire i 1000 MW del parco nucleare italiano dimesso, ex novo e secondo le tecnologie più moderne, costerebbe circa 3 miliardi di euro : i costi di decommissioning (non scontati) rappresenterebbero circa tre volte i costi di costruzione.

Sono numeri impressionanti, e altrettanto impressionante è la incertezza che c’è intorno a questi numeri. Io qui mi sono riferito (e grossolanamente) al caso italiano. Ci sono parecchie e valide ragioni (economie di scala, esperienza tecnologica maturata , etc.) per ritenere che in altri paesi con settori nucleari più “robusti” i costi unitari potrebbero essere più bassi. Ma la incertezza delle valutazioni appare sempre alta.

Prendiamo il caso della Francia che, come noto, è il paese più “nucleare” del mondo.

Nel 2005 il Ministero dell’Industria, in base ad un criterio stabilito nel 1991, valutava in 13,5 miliardi di euro il costo di decommissioning del parco nucleare francese: ma già nel 2003 la Corte dei Conti aveva valutato tale costo in una forchetta di 20-39 miliardi di euro. Esperti e ong però dicono che si deve parlare non di decine ma di centinaia di miliardi di Euro : se si guarda a ciò che sta accadendo in Inghilterra queste valutazioni non appaiono affatto campate in aria.

In tutto questo la Electricitè de France ha accantonato a questo scopo solo 2,5 miliardi di Euro.

3. Qualcuno quindi dovrà pagare…

Esattamente. Sere fa a “Porta a Porta” c’era l’ennesimo dibattito sul nucleare e Bruno Vespa, con la baldanza di chi ha un argomento chiaro ed incontrovertibile, diceva “…ma in Francia l’energia elettrica costa un 30% di meno che in Italia…”. Vorrei che qualcuno gli dicesse che quello che i francesi pagano oggi è un acconto: il saldo verrà e sarà salato. Lo potranno pagare sulla bolletta della EdF o come contribuenti, se lo stato si accollerà i costi dello smantellamento: ma alla fin fine i francesi dovranno pagare e molto.

4. Ma che cosa accade in Inghilterra?

L’Inghilterra è il paese al mondo che ha affrontato il problema del “decommissioning” del settore nucleare nel modo più completo ed organico. Ciò anche per ragioni storiche : l’Inghilterra è stata il primo paese a privatizzare il settore elettrico. Lo ha fatto dividendolo in alcune società regionali e settoriali che sono state poi messe sul mercato e vendute con successo ad azionisti privati. Le centrali nucleari sono state inglobate in una società, la British Energy, che – ed era chiaro sin dall’inizio – non ha trovato compratori. A questo punto il governo inglese, pur mantenendo, almeno teoricamente, aperta l’opzione del “che fare” del settore nucleare (rilanciare, mantenere, o chiudere) ha affrontato organicamente questa ultima opzione. Con lo “Energy Act” del 2004 ha costituito la NDA (Nuclear Decommissioning Agency), un’Agenzia pubblica che ha appunto il compito di approntare gli strumenti e valutare i costi dell’uscita dal nucleare. Nel 2005 la NDA ha prodotto la sua prima stima del costo della “uscita “ del paese dal nucleare (55,8 miliardi di sterline): nel 2007 questa valutazione è stata aggiornata in 73,6 miliardi di sterline (al cambio attuale circa 80 miliardi di euro). Conviene soffermarsi un momento su questa cifra per capire che è una cifra gigantesca. Corrisponde ad esempio a oltre il doppio del costo di costruzione ex-novo dell’intero parco nucleare inglese: ovvero è superiore al costo di costruzione ex-novo dell’intero parco termoelettrico tradizionale inglese (e quindi a maggior ragione ad esempio di quello italiano). Di fonte a questa cifra le valutazioni di cui si è detto sopra per il decommissioning del parco nucleare francese (che è circa 5 volte quello inglese) per centinaia, e non decine, di miliardi di euro appaiano fondate.

A questo punto però entra in scena il “cavaliere bianco”: la EdF (Electricitè de France) si offre di comprare la British Energy per 13 miliardi di sterline. Ma attenzione! Questo non significa affatto che i costi di decommissioning di cui sopra (73,6 miliardi di sterline) vengano cancellati: la gran parte rimane (quanto con precisione ancora non si sa), ma è possibile rinviarli di molti anni. Inoltre gli azionisti di British Energy (in pratica lo stato) incassano 13 miliardi di sterline. E’ evidente che la soluzione toglie al governo britannico molte castagne dal fuoco e quindi viene ovviamente accettata.

La gran parte degli analisti e degli esperti hanno giudicato la mossa della EdF al limite della temerarietà . Per finanziare questa operazione (ma in realtà anche per dare un po’ di ossigeno alla sua situazione finanziaria assai precaria) la EdF ha chiesto al Governo francese un aumento del prezzo dell’energia elettrica di 2 cent al kWh (circa il 25% dei prezzi attuali). Con ciò il vantaggio di prezzo dell’energia elettrica in Francia (quello sbandierato da Bruno Vespa, per intenderci) si ridurrebbe quasi a nulla. Ma è, io credo, soltanto un primo passo: i costi “nascosti” e “rinviati” del nucleare sono ancora ben lontani dall’essersi manifestati interamente.

5. Quindi in buona sostanza il nucleare è un pessimo affare?

Si, è un pessimo affare. Ma è un affare che, rispetto a qualsiasi altro investimento industriale, ha una caratteristica tutta particolare: i suoi effetti, in termini di ricavi ma soprattutto di costi, si dispiegano in tempi estremamente lunghi. Ci vogliono 8-10 anni per costruire una centrale nucleare, poi ci sono 40 anni di attività, poi 50 anni di decommissioning : arriviamo dunque al secolo. Questi tempi estremamente lunghi ed il fatto che vi siano costi ingentissimi dopo la fine della vita produttiva (caratteristica anche questa pressoché unica nel campo degli investimenti industriali) consente appunto di “nascondere” e “rinviare” i costi falsando per decenni i conti economici.

Ma oggi questi nodi vengono al pettine. La chiusura degli impianti che compiono i 40 anni di attività (e sono tanti, come si è detto) è una necessità, forse rinviabile di qualche anno, ma in sostanza ineludibile. Quindi i costi (ed i problemi) del decommissioning vengono a galla e i costi “veri” del nucleare inevitabilmente emergono.

Oggi in Europa, per i paesi che hanno una consistente presenza nel nucleare il problema vero è se continuare o no. Continuare vuol dire sostituire gli impianti esistenti e “in fin di vita” con altri impianti nucleari nuovi : questo è il problema dominante oggi in Europa. Il problema di un “rilancio”, cioè di costruire impianti nuovi al di là di quelli che servono a sostituire quelli vecchi è – direi – decisamente in secondo piano.
www.sbilanciamoci.it

G8, talpe e società fantasma: così funziona il «sistema», di Claudia Fusani

La cricca dei lavori pubblici è intervenuta ovunque fosse necessario e a qualunque costo pur di mantenere in piedi il sistema gelatinoso che ha consentito negli ultimi anni di mettere le mani su gare e appalti milionari al di là e al di fuori di ogni regola di mercato e trasparenza. I nuovi atti depositati dalla procura di Perugia – l’aggiunto Centrone e i sostituti Sottani e Tavernese – e allegati alla richiesta di misura di custodia cautelare per i funzionari pubblici Balducci, De Santis, Della Giovampaola e il costruttore Diego Anemone raccontano soprattutto gli ultimi mesi di attività della cricca, da quando sono cominciate a filtrare notizie molto vaghe sulle inchieste della procura di Roma e poi di Firenze.

Si tratta di contatti utili a monitorare e quindi neutralizzare le indagini in corso. E di accorgimenti societari per continuare ad accapparrarsi appalti senza figurare tra le ditte vincitrici. Uno dei capitoli degli allegati s’intitola: «La gravissima attività di inquinamento probatorio in atto con fuga di notizie e informazioni ricevute in tempo reale dagli indagati». Sappiamo già come il sistema fosse arrivato nel cuore della procura della Repubblica di Roma agganciando l’aggiunto Achille Toro, titolare del pool che indagava sui reati contro la pubblica amministrazione, e prima di lui entrambi i suoi figli Camillo e Stefano ripagati con assunzioni, posti di lavoro e false fatture.

Per sicurezza – dopo i giudici anche contabili e costituzionali, qualche giornalista – la cricca si era organizzata anche sul fronte degli investigatori, di chi fa materialmente le indagini, in questo caso la Guardia di Finanza a cui era stato delegato il filone romano sugli abusi per le piscine dei mondiali di nuoto. Tutto comincia con un telefono che resta nelle mani degli investigatori del Ros e che risulta intestato al Ministero dell’Interno, per la precisione a uno 007 dell’Aisi, al generale della Guardia di Finanza Francesco Pittorru. Il 4 febbraio scorso i magistrati fiorentini scrivono che Roberto Molinelli, dipendente di Anemone, «ha assunto il ruolo di intermediario tra lo stesso Anemone e il generale forse a seguito della pubblicazione degli articoli pubblicati a partire da dicembre 2008 circa i rapporti tra Balducci e Anemone».

Il generale Pittorru viene indicato nelle conversazioni indicato come “via Merulana” o “Torre” ed è chiaro che il suo compito è quello di acquisire informazioni presso i colleghi su come evolvono le inchieste. La sera del 5 genanio 2009, ad esempio, Roberto Molinelli dice ad Anemone: «Ciao Diego… eh, senti… via Merulana ha chiamato, ha detto ti manda i suoi saluti e testualmente gli dica “va tutto bene”». Sono contatti assai frequenti, verifiche quasi settimanali, segno che la tensione nella cricca sta crescendo. Tanti, troppi e milionari i fronti su cui è impegnata, dal G8 alla Maddalena ai Mondiali di nuoto ai 150 anni dell’Unità d’Italia, oltre mille milioni di euro di opera pubbliche. Il 12 gennaio 2009 Molinelli parla con Anemone e gli dice: «Ha chiamato quella persona… è appena rientrata, ribadisce che va tutto bene, è tutto a posto, e comunque se lo vuoi incontrare mi ha detto di fargli sapere come e quando, mi ha detto di chiederlo a te».

È un crescendo di incontri a cui partecipa anche Balducci e che si infittiscono quando le inchieste fanno passi avanti, ad esempio nel maggio 2009 quando la procura di Roma fa sequestrare 19 impianti per i mondiali di nuoto tra cui il Salaria Village di Anemone e di Balducci. O quando escono inchieste sui giornali. Il 21 maggio anche l’ex numero 1 del Sismi il generale della Guardia di Finanza Niccolò Pollari cerca un incontro con balducci tramite il suo segretario. Ieri Pollari ha smentito di aver mai chiesto un incontro al responsabile dei lavori pubblici Angelo Balducci. Come che sia, non c’è dubbio che il gruppo Anemone in tutte le sue forme abbia cercato nei mesi scorsi di assumere informazioni e di controllare gli esiti degli accertamenti.

Si è occupato di questo anche il commercialista del gruppo Stefano Gazzani, l’uomo dei conti all’estero. Per tutti, come sempre, c’era un ritorno. La figlia del generale Pittorru, Claudia Pittorru, ad esempio dovrebbe essere stata assunta presso il Salaria sport village della premiata ditta Anemone-Balducci. Scrivono i magistrati di Firenze nella nopta del 4 febbraio 2010: «Fino al momento non è stato possibile accertare quale attività in atto svolga la citata Claudia Pittorru anche se non è da escludere, in base ad una serie di intercettazioni, che almeno a partire dal febbraio 2010 la stessa sia stata assunta presso il Salaria sport village».

Appartiene alla prassi del «sistema gelatinoso» l’attività di mimetismo delle aziende. Nel gennaio 2010, il mago delle società Stefano Gazzani, un po’ il Mills del gruppo Anemone, quello per cui Bankitalia mesi fa aveva segnalato movimenti sospetti di contanti e spesso in viaggio per San Marino, informa l’avvocato P.L. che «martedì sarà costituita una nuova società». L’avvocato si mostra entusiasta e suggerisce un nome, Casal Monastero. «La potrei pure chiamare Casal Monastero srl, se non do fastidio a nessuno» scherza il commercialista. L’avvocato incalza: «Chi ci mettete dentro, chi ci mettete soci, amministratore e ste cose. L’importante è che sia del giro ma non sia riconducile al gruppo». La chiameranno Cogecal. È il modo per camuffare le società. E partecipare indisturbati alle gare d’appalto.
L’Unità 04.03.10

"Il vuoto al potere", di Massimo Giannini

La democrazia è in pericolo, tuonano le corti berlusconiane di fronte alla bocciatura dei listini di Roberto Formigoni e di Renata Polverini decretata dalle Corti d’appello di Milano e di Roma. Certo, una tornata decisiva di consultazioni regionali dalla quale mancasse l’insegna del partito di maggioranza relativa in Lombardia e nel Lazio sarebbe un test elettorale assai incompleto e incomprensibile. Ma nell’attesa che i tribunali amministrativi dicano l’ultima parola sui ricorsi presentati dal Pdl, e al di là delle complicate valutazioni giuridiche del caso, una considerazione politica si può e si deve trarre.

In base a quanto si è visto in questi mesi e in questi giorni, ad essere in pericolo non è la vita della democrazia, ma piuttosto la sopravvivenza del Pdl. Cos’altro è questa farsesca tragicommedia delle liste, taroccate o presentate fuori tempo massimo, se non la plastica dimostrazione di un partito che sta morendo in culla? Cos’altro dicono le convulsioni e i veleni interni al mistico Popolo delle libertà, se non il dilettantismo e l’avventurismo di un esperimento identitario che non ha funzionato perché in realtà (come avevamo scritto su questo giornale la settimana scorsa) un centrodestra italiano moderato e moderno non è mai nato, né dal punto di vista politico né dal punto di vista culturale?

Secondo la bugiarda vulgata berlusconiana, dagli anni Novanta in poi i “comunisti” hanno usato le toghe “rosse” per liquidare la vecchia Cdl per via giudiziaria: pm invasati, pool milanesi esagitati, e così via sragionando. Adesso gli stessi “comunisti” starebbero usando le toghe “grigie” per liquidare il nuovo Pdl per via amministrativa: discreti magistrati di Corte d’appello, anonimi giudici di Tar, e via sproloquiando. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Quello che il Cavaliere non dice, e i suoi scudieri non ammettono, è che questa volta non reggono il teorema dell’opposizione barricadera e dei pubblici ministeri torquemadisti né la teoria del “nemico esterno”.

Stavolta, molto più semplicemente, questo centrodestra si sta auto-liquidando per via politica. Questa è la pura e semplice verità, disvelata in modo quasi grottesco dal patetico autodafé politico in cui sono involontariamente incappati Formigoni e Polverini. La crisi è tutta interna al Pdl, e nemmeno il collante puramente ideologico del berlusconismo di guerra sembra più reggere. Dal trionfale successo del 13 aprile 2008 in poi, archiviata in troppa fretta la sorprendente parentesi da “federatore” della destra e da “uomo di Stato” dei primi due mesi, il premier si è illuso di poter affrontare e risolvere l’intera legislatura sull’onda del suo autoritarismo populista e plebiscitario. Lui è il “messaggio”, tutto il resto non conta niente. L’intera proiezione del governo si esaurisce nell’esibizione della forza e nella manipolazione della propaganda. L’intendenza seguirà, come diceva il generale De Gaulle. Ma questa è la gigantesca, miope illusione, che oggi si infrange e va in frantumi per una banale questione di firme e di timbri. Se non c’è la politica, oltre i decreti urgenti, le ordinanze in deroga e i sondaggi confidenti, l’intendenza non segue affatto. Semmai si auto-tutela, quando addirittura non si auto-distrugge, come dimostrano i sospetti e i veleni che si consumano nella Capitale sulle candidature, tra le correnti forziste e i luogotenenti finiani.

E senza una solida struttura politica basta una risibile stortura burocratica per smascherare un bluff, per capire che il partito di plastica non è diventato di ferro, e insomma per accorgersi che il re è nudo. Su questo limite genetico dovrebbe riflettere il premier. Su questo deficit originario dovrebbero interrogarsi i suoi accoliti, invece di attaccare e delegittimare l’unico che l’ha capito fin dal primo giorno, cioè il presidente della Camera Gianfranco Fini. Rischia di essere tardi, adesso. Come diceva ieri un ministro, “ormai siamo al capolinea, il Pdl così non regge più e presto ognuno di noi tornerà a fare il mestiere che faceva prima…”. Come dire: l’amalgama Forza Italia-An rischia di sciogliersi per sempre. E serve a poco urlare contro i sedicenti “furbi” che vorrebbero alterare il risultato delle elezioni (come fa il ministro per la Semplificazione) o invocare improbabili “prove di forza” (come fa la candidata del Lazio). I “furbi” di Calderoli non esistono: sono fantasmi evocati per confondere e intorbidare le acque. E la “piazza” della Polverini è a dir poco surreale: contro chi marcia, stavolta, il vasto Popolo delle libertà? Contro il Tar del Lazio? Viene da sorridere, solo a pronunciare lo slogan. Senza contare, da ultimo, che i giudici amministrativi applicano, come sempre, solo le regole. E quelle sì, assicurano la vita della democrazia.

Ma questo resta un arcano troppo complesso da far capire a Silvio Berlusconi. Fin dalla sua epica “discesa in campo”, il Cavaliere concepisce la democrazia come pura estensione della sua signoria.
La Repubblica 04.03.10

"Il senato approva la legge che modifica l'articolo 18", di Felicia Masocco

Licenziare è più facile, la giusta causa non serve più. Il Senato ha approvato definitivamente una norma che, zitta zitta, aggira l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e lascia ad un arbitro la decisione di decidere se un licenziamento sia giusto o no. L’arbitro decide «secondo equità ».
L’attacco all’articolo 18 questa volta è avvenuto in sordina, mentre le proteste, l’attenzione e le energie vengono spese per salvare posti del lavoro a rischio per la crisi. In pratica già nel contratto di assunzione e in deroga ai contratti collettivi, si stabilisce che in caso di contrasto, il datore di lavoro e il lavoratore si affidano ad un arbitrato. «È una scelta » dice il ministro Sacconi. Ma non occorre essere dei geni per capire che un disoccupato che voglia lavorare mette la firma e accetta l’arbitrato. L’opposizione e la Cgil parlano di controriforma. Guglielmo Epifani ha annunciato di essere pronto a rivolgersi alla Corte costituzionale, «così si rende il lavoratore più debole ». Era stata proprio al Cgil, mesi fa a dare l’allarme su quanto stava accadendo. Della settimana scorsa invece l’appello dei giuslavoristi, tra questi Tiziano Treu, senatore Pd: «L’articolo 18 potrebbe diventare un optional», denuncia chiedendo al ministro Sacconi, insieme al collega Pietro Ichino, di non usare impropriamente il nome di Marco Biagi, autore della norma a detta del titolare del Welfare. «L’articolo 31 del disegno di legge delega – spiega invece Treu – prevede due possibilità per ricorrere all’arbitrato. La prima attraverso contratti collettivi: le parti possono stabilire i limiti in cui l’arbitrato può essere esercitato. Poi, però, se le parti falliscono, può intervenire il ministro per decreto. C’è poi una seconda possibilità consentita dalla norma volute dal governo e dalla sua maggioranza. Ecioè che il singolo lavoratore accetti un accordo secondo cui il proprio contratto di assunzione preveda il ricorso all’arbitrato per risolvere le controversie». Questo nel disegno originale non c’era. Maurizio Sacconi è dunque riuscito laddove aveva fallito nel 2002, allora era sottosegretario, ma regista assoluto delle politiche del lavoro tento di abrogare l’articolo 18. A fermarlo furono 3 milioni di persone che il 23 marzo seguirono in piazza Sergio Cofferati in difesa dell’articolo 18, appunto, e contro il terrorismo. Quattro giorni prima, infatti, Marco Biagi era stato assassinato dalle Br. La Cgil quella battaglia la portò a termine senza Cisl e Uil che avendo firmato il Patto per l’Italia avevano annacquato il contrasto alle politiche del governo. I sindacati sono divisi anche stavolta. I leader di Cisl e Uil, pur contrariati sembrano criticare più il metodo che il merito: «La politica regoli se stessa», dice Raffaele Bonanni, «i temi sociali vanno affidati alle parti, altrimenti sono palloni che si sgonfiano». Sulla stessa linea è Luigi Angeletti, «il tema deve essere oggetto di confronto tra le parti».
L’Unità 04.03.10

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Il Senato dice sì al ddl delle polemiche. Pd e sindacati: “Aggirato l’articolo 18”

Via libera all’articolo 31 sul lavoro che contiene norme per risolvere le controversie nelle aziende. Ira delle sigle, Sacconi cita Marco Biagi.
A otto anni dal duro scontro tra la Cgil e il governo Berlusconi sull’art.18, si riaccende la polemica sulla norma dello Statuto dei Lavoratori che prevede il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti. A farla scoppiare la parte sull’arbitrato del disegno di legge delega sul lavoro, che il senato ha oggi approvato in via definitiva, trasformandola in norma di legge. L’opposizione e la Cgil non hanno dubbi: è un attacco all’art.18; tesi respinta con forza dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, convinto si tratti dell’ «ennesima prova della malafede di chi vuole sempre accendere la tensione sociale». E una polemica – a suo parere – dal sapore elettoralistico: «in due anni di iter parlamentare nessuno ha mai gridato allo scandalo. Oggi, in vista delle elezioni, si grida alla lesa maestà», dice Sacconi che aggiunge: «Questo testo è il frutto di un intenso lavoro parlamentare e ha un origine: l’autore fu Marco Biagi», il giuslavorista ucciso il 19 marzo del 2002 dalle Br. Pochi giorni dopo dello stesso anno (il 23 marzo) la Cgil guidata da Sergio Cofferati riuscì a portare in piazza, a Roma, 3 milioni di persone a difesa dell’art.18. Oggi il leader Cgil Guglielmo Epifani parla di ’controriformà e si dice pronto a presentare ricorso alla Corte Costituzionale.

Insomma, le premesse per una nuova battaglia sembrano esserci tutte. Contrariati appaiono anche Cisl e Uil, ma i toni sono diversi: «la politica regoli se stessa», dice il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, perchè i temi sociali vanno affidati alle parti; il tema deve essere oggetto di confronto tra le parti, afferma il numero uno della Uil, Luigi Angeletti. Insorge pure l’opposizione: per l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, «si introduce un nuovo ’correttivo chirurgicò che questa volta però lascia il segno»; secondo il presidente dell’Idv, Antonio Di Pietro, «si fomenta la violenza contro il mondo del lavoro», e annuncia la convinta partecipazione allo sciopero generale della Cgil del 12 marzo.

Ad entrare nel merito della norma il vice presidente della commissione lavoro di palazzo Madama, Tiziano Treu, tra i firmatari dell’appello dei giuristi contro il disegno di legge del governo. «L’art.18 potrebbe diventare un optional», denuncia l’ex ministro chiedendo a Sacconi, insieme al collega Pietro Ichino, di non usare impropriamente il nome di Biagi.

«L’art.31 del ddl – afferma Treu – prevede due possibilità per ricorrere all’arbitrato. La prima attraverso contratti collettivi: le parti possono stabilire i limiti in cui l’arbitrato può essere esercitato. Poi, però, se le parti falliscono, può intervenire il ministro per decreto. C’è poi una seconda possibilità consentita dalla norme volute dal governo e dalla sua maggioranza. E cioèche il singolo lavoratore accetti un accordo secondo cui il proprio contratto di assunzione preveda il ricorso all’arbitrato per risolvere le controversie». Ma per Sacconi, si potrà ricorrere all’arbitrato solo se il lavoratore lo vuole. E, rispetto all’ obiezione che un giovane pur di strappare l’assunzione accetterebbe qualsiasi cosa, risponde: «non si deve pensare che il lavoratore sia un minus habens».

Epifani: noi falsi? Il governo dica solo se abbiamo ragione o no. Sacconi non dice la verità
In questo nuovo schema, imboccata la strada dell’arbitrato, non si può più rivolgersi al giudice
La Stampa 04.03.10

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“Lavoratori più deboli e ricattabili, ricorreremo alla Corte costituzionale”
La contrattazione servirà per definire le procedure, non a modificare quello che stabilisce questa legge, di ROBERTO MANIA
Un lavoratore “più debole e “ricattabile””: sarà questo – dice Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil – l’effetto della nuova legge sul processo del lavoro voluta dal governo. E contro questa legge annuncia che la Cgil ricorrerà alla Corte costituzionale.

Perché la Cgil ritiene ancora più grave questa iniziativa legislativa rispetto a quella del 2002 sull’articolo 18 che scatenò la protesta?
“Perché è una norma di carattere generale che interviene sul complesso delle procedure per la difesa dei diritti dei lavoratori. Nella prima versione della legge era addirittura prevista l’obbligatorietà del ricorso all’arbitrato che poi è diventato facoltativo. Tuttavia il punto vero è che nel momento dell’assunzione il datore di lavoro può chiedere a un lavoratore di rinunciare alla via giudiziale per la tutela dei propri diritti. E, in quel particolare momento, il lavoratore è più debole e più “ricattabile”. Per questo potrebbe accettare la proposta precludendosi per tutta la durata del rapporto di lavoro di ricorrere al giudice”.

Il ministro del Lavoro Sacconi ha parlato di una polemica da parte dei “soliti noti” (tra questi sicuramente la Cgil) che confermerebbe “la malafede di chi vuole sempre accendere la tensione sociale”. Lei sta cercando lo scontro sociale?
“Non capisco perché Sacconi parli di malafede. Questa non è una questione di malafede e buonafede. Sacconi dovrebbe dire se ciò che sostiene la Cgil è vero o meno”.

Comunque maggioranza e governo spiegano che spetterà ai contratti fissare i paletti per l’accesso all’arbitrato. Non crede che in sede contrattuale potranno essere apportati miglioramenti?
“La contrattazione servirà per definire le procedure ma non certo a modificare quello che stabilisce la legge.
Sarà una contrattazione molto vincolata e, dunque, non libera”.

Ma il ricorso all’arbitrato non è per i lavoratori un’opportunità in più per difendersi?
“Lo era prima di questa legge. In questo nuovo schema una volta imboccata la strada dell’arbitro non si può più andare dal giudice. Sacconi non dice la verità”.

La legge è in Parlamento da quasi due anni: perché non ve ne siete accorti prima?
“Non è vero che non ce ne siamo accorti. Abbiamo sollevato il problema molto tempo fa. Intorno alle nostre posizioni si sono ritrovati giuristi moderati come Romagnoli e Treu. La stessa Associazione nazionale dei magistrati ha condiviso le nostre preoccupazioni. È il ministro Sacconi che non vuole rendersi conto che la sua scelta renderà più deboli i lavoratori. Tanto più – e in questo ha ragione Bersani – in una fase di crisi come l’attuale. La legge non solo è sbagliata ma è anche fuori tempo”.

Farete ricorso alla Consulta?
“Lo stiamo valutando. L’impressione è che ci sia più d’una norma in contrasto con la Costituzione”.

Non trova che l’opposizione sia stata un po’ assente in questa vicenda?
“Aver portato a casa un dibattito parlamentare sulla crisi economica è un buon risultato. Certo su questa legge non c’è stata quella forza, anche sul piano culturale, che sarebbe stata necessaria”.

La prossima settimana, il 12 marzo, ci sarà lo sciopero generale della Cgil. Non ha provato a coinvolgere anche Cisl e Uil visto che nelle ultime settimane hanno alzato i toni critici nei confronti del governo?
“Sul fisco avevamo lavorato a una proposta comune poi Cisl e Uil hanno organizzato un’iniziativa col governo e gli imprenditori. Ora sento che Angeletti, Bonanni e pure la Marcegaglia chiedono un cambio di fase. È quello che chiediamo noi che, però, siamo anche conseguenti e facciamo lo sciopero per l’occupazione, per una diversa politica sul fisco e sui migranti”.
La Repubblica 04.03.10