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L'Aquila, cittadini tra le macerie E' la protesta delle "mille chiavi"

Era la giornata delle chiavi da appendere alle transenne del corso per tornare a chiedere, come domenica scorsa, la riapertura del centro storico, dopo il sisma dello scorso 6 aprile. Ma i manifestanti, almeno un migliaio, hanno raggiunto quell’ universo di vicoli e vicoletti, della zona rossa dell’Aquila, da dieci mesi interdetti.
Vicolo dopo vicolo, a piccoli gruppi, sono tornati in luoghi che possono solo ricordare come erano prima del 6 aprile. Hanno calpestato traverse, con case sventrate, dove le macerie non sono state neanche raggruppate e porte e finestre sono spalancate, in balia di chiunque. Fuori dai riflettori, hanno espresso la loro indignazione contro i ritardi nella rimozione delle macerie, e la loro protesta si è rivolta contro l’informazione che, secondo loro, non rende giustizia di una realtà drammatica. Ha aderito anche la presidente della provincia, Stefania Pezzopane.

A farne le spese una troupe del Tg1, guidata dalla giornalista Maria Luisa Busi, all’Aquila per un servizio per il settimanale di approfondimento Tv7. Gli aquilani li hanno apostrofati a suon di «scodinzolini, scodinzolini!», accusando l’emittente nazionale di aver diffuso un’immagine falsata della situazione in Abruzzo. La giornalista dirà poi di comprendere la situazione «perchè quel che ho visto in questi giorni con i miei occhi, è molto più grave di come talvolta è stato rappresentato: migliaia di persone sono ancora in albergo, le case non bastano e la vera ricostruzione non è partita».

Proprio questo è quello che la gente ha contestato al sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, tirando in ballo anche la questione delle macerie per cui, domenica prossima, è annunciata una nuova manifestazione. Una rivendicazione che è di tutti: dai giovani in piedi sui cumuli di macerie, con striscioni e cartelli, alle mamme con il passeggino a spasso tra via Sassa e via Patini e, ancora, gli aquilani più anziani radunati in un angolo di piazza Palazzo a cantare: «L’Aquila bella mè, tu che me sci vist’ è nasce tu che mi sci vist’ è cresce, te vojo revedè». Il resto del centro, però, è silenzio: nessuno davanti alle macerie in quella che è stata la propria casa o la propria scuola ha il coraggio di dire una parola di troppo.

«È il regalo più bello che potevo farmi per il mio compleanno di domani – commenta Donatella Capulli, tra i manifestanti – perchè non avrei mai sperato di poter tornare oggi qui, dove sono nata».
L’Unità 21.02.10

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L’Aquila: la protesta delle chiavi dei cittadini nel centro storico
A una troupe del Tg1 «Scodinzolini! Scodinzolini!». La Busi prende le distanze: «Qui la situazione è grave»
L’AQUILA – Replica della manifestazione della scorsa settimana all’Aquila. Un migliaio di cittadini hanno forzato la zona rossa del centro storico – chiusa dall’epoca del terremoto – e hanno appendeso le chiavi dei propri appartamenti che devono ancora essere ristrutturati. Una protesta simbolica per la ricostruzione del centro storico del capoluogo abruzzese, fortemente danneggiato dal sisma del 6 aprile dello scorso anno. Stavolta però i manifestanti non si sono accontentati di varcare le transenne per raggiungere piazza Palazzo, ma hanno proseguito raggiungendo via Sallustio, una delle arterie principali e poi tutti i vicoli interdetti ai cittadini da dieci mesi.
SINDACO CONTESTATO – Insieme ai manifestanti questa volta c’era anche il sindaco Massimo Cialente e la presidente della Provincia, Stefania Pezzopane. Cialente, vice commissario della ricostruzione, è stato contestato da alcuni partecipanti per i ritardi negli interventi nel centro storico e nella rimozione delle macerie. Il centro era presidiato dalle forze dell’ordine, che però non sono intervenute visto il carattere pacifico della manifestazione.

CIALENTE – «Con l’atmosfera che si sta creando a livello nazionale per le inchieste sugli appalti, sta partendo un meccanismo negativo e problematico per la ricostruzione», ha detto il sindaco. «Bisogna mettersi nei panni dei dirigenti del Comune dell’Aquila, che sono intimoriti di fronte a un sistema che interviene al primo sbaglio o, addirittura, interviene senza sapere chi ha sbagliato o meno». Ma secondo il sindaco, i cittadini hanno ragione a protestare: «Gli aquilani esprimono la loro rabbia e hanno ragione: c’è una preoccupazione crescente per i ritardi e nulla è stato fatto per affrontare il problema del lavoro». Il primo cittadino aquilano riconosce che la rimozione delle macerie è oggi il problema principale: «Da soli non ce la possiamo fare, non è possibile smaltire 4 milioni di tonnellate di macerie come se fossero sacchetti di immondizie. Neanche la Protezione civile è stata in grado di risolvere il problema, ma se non si rimuovono le macerie non è possibile la ricostruzione».

CONTESTATA TROUPE DEL TG1 – Decine di persone hanno contestato anche una troupe del Tg1 guidata da Maria Luisa Busi per un servizio per il settimanale di approfondimento Tv7. I manifestanti, parafrasando il direttore del Tg1 Augusto Minzolini, hanno gridato «Scodinzolini! Scodinzolini!» accusando l’emittente di avere diffuso un’immagine falsata della situazione in Abruzzo. Maria Luisa Busi, che ha ammesso una contestazione «molto forte nei confronti del Tg1», ha preso le distanze: «Capisco la situazione e capisco gli aquilani. Posso dire che io sono qui per fare il mio lavoro onestamente e non posso rispondere dell’informazione a livello generale che il Tg1 ha fatto dopo il terremoto. Posso solo dire che quello che ho visto all’Aquila in questi giorni con i miei occhi, è molto più grave di come talvolta è stato rappresentato: migliaia di persone sono ancora in albergo, le case non bastano e la ricostruzione non è partita». Il segretario aquilano del Pd, Michele Fina, ha espresso in una nota “solidarietà” “alla giornalista Maria Luisa Busi” e a chi lavorava con lei “per essersi trovati nel bel mezzo di una contestazione durante lo svolgimento del proprio lavoro” ma sottolinea che «ovviamente le critiche non erano rivolte a chi oggi si è recato a L’Aquila per raccontare l’ennesima manifestazione pacifica organizzata dai cittadini aquilani, ma al direttore del Tg1 Minzolini che negli ultimi mesi ha letteralmente scherzato con la nostra tragedia».
Il Corriere della Sera 21.02.10

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Quelle chiavi appese alle transenne “Rimuoveremo da soli le macerie”, di Jenner Meletti

La prima volta nella zona rossa: “Tutto è rimasto come 10 mesi fa”. “Domani compio gli anni e mi sono fatta un regalo: ho rivisto la casa nella quale sono nata” “Per molti è stato uno shock scoprire che nulla è stato fatto. Eppure la tv dice il contrario”
Torneranno anche domenica prossima. «E saremo armati: di badili, secchi, carriole. Cominceremo a portare via le macerie e le metteremo in una discarica. Vogliamo vedere se avranno il coraggio di denunciarci». C´è un po´ di sole, quando tutto comincia. Appuntamento ai Quattro Cantoni, dove i ragazzi si incontravano per i primi appuntamenti e gli adulti per le chiacchiere e l´aperitivo. Prima, quando l´Aquila c´era. «Mettiamo le chiavi delle nostre case appese a questa rete. Diventeranno il simbolo della nostra protesta. Racconteranno a tutti che noi vogliamo tornare fra le nostre mura». Bastano pochi minuti per capire che oggi sta accadendo qualcosa di nuovo. Non ci sono le «solite» due o trecento persone dei comitati «3.32» o «Un centro storico da salvare», che da mesi gridano a tutti la rabbia di una città rimasta senza centro storico. Mille persone attaccano le loro chiavi alle reti (chiavi che sono simboliche, ovviamente, perché nel centro già entrano i ladri e non c´è bisogno di aiutarli) e altre persone arrivano. Ecco, le barriere vengono spostate e si entra a piazza Palazzo, dove i muri rotti di Comune e Provincia si guardano in faccia. Si discute, in questo che da sempre è il luogo degli incontri e della politica. Il sindaco Massimo Cialente viene messo sotto accusa e cerca di difendersi. Ma altre persone continuano a entrare nella piazza. Per la prima volta gli aquilani – almeno duemila – «violano» la zona rossa per poter tornare almeno qualche minuto davanti alla loro casa.
«Domani compio gli anni – dice Donatella Capulli – e oggi mi sono fatta il regalo: ho rivisto la strada dove sono nata». Via Sallustio, piazza San Pietro. Ognuno va a cercare le proprie finestre. Tutto come dieci mesi fa. Muri spaccati mostrano armadi aperti, con i vestiti ancora allineati. Una bottiglia di birra rimasta sul tavolo da quella notte del 6 aprile. Case che dietro la facciata hanno solo un mucchio di rottami. A volte è peggio. «La fontana davanti a casa mia – dice Patrizia Tocci – è stata ricoperta di lamiere, pietre, caldaie. E la colpa non è del terremoto ma di chi non ha rispetto per la nostra storia. Se questa è la cura per la nostra città allora è meglio spargere il sale sulle rovine e metterci il cuore in pace».
Per la prima volta ci sono persone in tutte le strade e in tutti i vicoli. Più ci si allontana dalla piazza del municipio, più profondo è il silenzio. Uomini e donne si tengono per mano, guardano le pietre e le rovine e ricordano quanto era bello, la domenica, passeggiare e incontrare amici. «Anche noi – dice Mattia Lolli del comitato 3.32 – siamo stati sorpresi da tanta partecipazione. Per tanti è stato uno choc. Tanti aquilani, chiusi nelle new town o negli hotel al mare, credevano ai miracoli annunciati e pensavano che qui in città, come dice la tv, tutto fosse risolto. Hanno sbattuto la faccia sulla realtà».
Per qualcuno questo sarà ricordato come «il giorno della liberazione». «Oggi migliaia di persone – racconta Eugenio Carlomagno, del comitato Centro storico da salvare – si sono liberate dalla paura e hanno deciso: dobbiamo riappropriarci della nostra città. Non a caso la rivolta è avvenuta oggi, in questo inverno di pioggia e di neve. Chiusi nelle case antisismiche, nei moduli abitativi provvisori, abbiamo capito che non sapevamo dove andare: non c´è un teatro, non c´è una biblioteca, non ci sono più i bar del centro. Ci siamo accorti di essere persone che debbono solo comprare cibo al supermercato, mangiare e guardare la televisione. Abbiamo detto basta».
Anche Stefania Pezzopane, la presidente della Provincia, ha appeso una chiave alla barriera di plastica e fil di ferro. «Simbolicamente, è quella del palazzo della Provincia. L´Aquila è un capoluogo, ci sono decine di edifici pubblici. Ricostruendo quelli, ci sarebbe un volano anche per la ricostruzione privata. Sotto il palazzo provinciale, ad esempio, ci sono tanti negozi. Siamo fermi perché agli enti locali non hanno dato nemmeno i soldi necessari per rimettere in piedi i loro edifici. Questi soldi sono stati consegnati al Provveditore alle opere pubbliche». Per la cronaca, è il funzionario che la banda di speculatori ha definito «un uomo nelle nostre mani».
Alcune strade sono sbarrate da tubi e puntellamenti. «Molte ditte hanno fretta di puntellare pure le case da abbattere – dice Eugenio Carlomagno – perché così si prenotano per la ricostruzione. “Abbiamo già messo lì i nostri tubi”, diranno al commissario. “Se volete possiamo farvi lo sconto”». Secondo Antonio Perrotti, architetto di Italia nostra e del Comitatus Aquilanus, la ricostruzione non è stata progettata e non per motivi tecnici. «Ci hanno circondato di new town, come nuovi colonizzatori. E presto ci diranno: aquilani scusateci ma per il centro non c´è un euro». Ma nel primo giorno in cui il centro torna a essere vivo, in piazza Palazzo un gruppo di anziani intona un canto di speranza. «L´Aquila bella mè/ tu che me sci vist´ ‘e nasce/tu che me sci vist´ ‘e cresce, te vojo revedè». Tu che mi hai visto nascere, tu che mi hai visto crescere, ti voglio rivedere.
La Repubblica 22.02.10

"Ci basta la verità", di Ezio Mauro

L´inchiesta sulla Protezione Civile è l´irruzione della realtà – una gran brutta realtà – nell´universo magico del berlusconismo che racconta a se stesso e al Paese, dagli schermi asserviti della televisione unica, un´epopea populista di successi ininterrotti, all´insegna del «fare». Oggi si scopre che quel «fare» senza regole nasconde il malaffare. E il disvelamento è immediato, con i cittadini dell´Aquila che entrano a forza nel centro storico morto e sepolto, denunciando la mistificazione televisiva e costringendo il sindaco ad ammettere che «la Protezione Civile ci ha salutati e se n´è andata, e noi dopo dieci mesi siamo davanti a 4 milioni e mezzo di metri cubi di macerie».
Si capisce l´agitazione politica che domina il Presidente del Consiglio. Prima ha insultato i magistrati («vergognatevi»), poi ha taciuto per una settimana provando la carta propagandistica di una legge anticorruzione che è durata lo spazio di fanfara di un telegiornale, perché nemmeno nelle favole le volpi possono scrivere i regolamenti dei pollai. Infine ieri è tornato a parlare di complotto «che annulla i risultati miracolosi», ha attaccato l´opposizione e come sempre quando le difficoltà lo sovrastano ha denunciato «il superpartito di Repubblica» come il vero artefice di questo scandalo e di questa crisi.
Vorremmo tranquillizzarlo: un giornale non è un partito. Ma vorremmo anche spiegargli che in Occidente un giornale ha il dovere di illuminare la realtà, raccontandola, e di rappresentare la pubblica opinione che vuole conoscere e sapere, per giudicare. Noi continueremo a farlo. Berlusconi può aiutarci: dica quel che sa sugli appalti, i favori e la corruzione gelatinosa della Protezione Civile, sulla ragnatela che coinvolge Palazzo Chigi. Ancora una volta, la strada è semplice: dica la verità ai cittadini.
La Repubblica 22.02.10

"Quando Modena non si vedeva", di Luca Mercalli

I nebbioni di un tempo non ci sono più. La «scighera» che ovattava le vie di Milano, quella descritta da Giovanni Testori in «Nebbia al Giambellino», è quasi un ricordo sbiadito: «Venendo fuori dalle finestre lunghe, strette e uguali delle cantine.
Dai canali, dai fossi, dai mucchi d’immondizie e di concime, prima diffidente, a brandelli che ora si allungavano, ora si rapprendevano, poi via via più densa, crudele e aggressiva, fin dalle prime ore della mattina la nebbia aveva preso a fasciare gli ultimi casamenti… non solo le immagini e i corpi, ma anche i rumori e i suoni erano stati smangiati da quel mare che aveva continuato ad avanzare in ogni direzione, lento, umido e ostinato; anche le sirene delle fabbriche, che pure avevano tentato di superarlo coi loro fischi pomeridiani, ne erano rimaste sconfitte, spegnendosi in una catena di echi e di singhiozzi».

Quarant’anni fa l’inverno padano era segnato da lunghe settimane immerse in un fluido lattiginoso, chi doveva prendere l’aereo era afflitto dal dubbio di ritardi e cancellazioni, chi partiva in auto temeva di finire in un incidente o di perdersi tra strade tutte uguali, dove toccava sporgersi dal finestrino per identificare sull’asfalto la linea bianca salvatrice.

A Torino-Caselle si contavano circa 80 giorni di nebbia all’anno, con un massimo di 108 nel 1970. Oggi la media è dimezzata, con 39 giorni. All’Osservatorio di Modena la «fumana» negli anni 1955-1960 veniva registrata perfino in 200 giorni all’anno, incluse le segnalazioni di breve durata. A partire dal 1990 le osservazioni nebbiose riguardano solo una ventina di casi all’anno. La tendenza alla riduzione della nebbia negli ultimi 30 anni è confermata a livello europeo. Nel lavoro di Robert Vautard del Cnrs di Gif sur Yvette e di Geert Jan van Oldenborgh del servizio meteo olandese, comparso su Nature nel 2009, la si attribuisce almeno in parte alla diminuzione di inquinamento dell’aria da biossido di zolfo, un gas che in effetti in quegli anni abbondava a causa della combustione di carbone e di petrolio ad alto tenore di zolfo. Le particelle di solfati sono molto igroscopiche e favoriscono la formazione delle goccioline di nebbia.

L’introduzione di norme antinquinamento più severe, e la diffusione del metano come combustibile da riscaldamento e da generazione elettrica, hanno dunque ridotto una delle cause di formazione della nebbia, ma non la sola. Gioca anche l’urbanizzazione che limita la superficie evaporante – i canali e i fossi descritti da Testori nelle periferie non ci sono più – e poi la frequenza delle alte pressioni invernali che generano inversione termica e calma di vento e che si sono presentate con particolare ostinazione alla fine degli Anni 80. Ma in fondo, se c’è meno nebbia non può che farci piacere. Può essere più difficile ambientare certi romanzi e stagionare certi salami, però ci sono meno incidenti, meno disagi per tutti e più sole sui nostri inverni.
La Stampa 22.02.10

"Superiori, la riforma cancellerà i precari", di Fabio Luppino

Finirà così. Finirà che a partire dal prossimo settembre tutti gli insegnanti precari usciranno dalla scuola. Il ministero rassicurerà, ritornerà a promettere ammortizzatori sociali senza avere il becco di un euro e quant’altro. La riduzione oraria nelle superiori, così come nelle elementari e nelle medie (dove è operativa da un anno) abbinata al prosciugamento totale dei fondi per l’autonomia a questo porteranno. Ci saranno ancora forse una piccola porzione di incarichi annuali e supplenze temporanee nei licei. Anche no, vediamo perché. Esattamente in queste settimane le scuole stanno facendo delle proiezioni teoriche su quanti insegnanti serviranno, ipotizzando anche sulle iscrizioni che però si chiudono a fine marzo, la cui consistenza si saprà dopo Pasqua. Gli istituti tecnici hanno il taglio di ore più significativo perché la riforma partirà dal primo anno e toccherà anche i successivi tre, ad esclusione del quinto. Quattro ore perdute per ogni anno: 16 ore in tutto. Ci sono professori che già oggi sanno che le loro diciotto ore canoniche non le avranno più. Saranno spezzati su più scuole. Soprattutto in aree o troppo grandi o troppo piccole si creerà un discreto disagio con insegnanti che dovranno correre da una scuola all’altra, spesso distanti, con incastri di orari non agevoli, ovviamente tutto a loro spese: togliete su uno stipendio medio di milleequattrocento euro almeno cento per spostamenti obbligati perché il ministero vuole risparmiare e troverete, si fa per dire, un mondo di professionisti felici. Ma il problema è anche un altro. I cosiddetti spezzoni utilizzati per completamento orario sono possibilità rubate a colleghi precari che proprio quelli andavano a prendere per insegnare, vivere e fare un po’ di punteggio. Non ci saranno più. Sarà, dunque, un’altra guerra tra poveri, tra garantiti ma per nulla soddisfatti nel rapporto costi personali/ ricavi e non garantiti. I sindacati su questo punto avrebbero, poi, alzato le braccia puntando ad una tutela ferrea degli insegnanti di ruolo. Ricorrendo all’espediente dell’organico funzionale i sindacati dei prof tentano di evitare la frammentazione dell’attività di un docente su più scuole: consentire in quella di appartenenza il completamento orario con attività a progetto per coloro che dall’anno prossimo non arriveranno a completare le18da contratto previste nella propria materia. Esempio: ne hai quattordici in diritto, le altre quattro resterebbero a disposizioni per fare supplenza o per altre attività previste dalla scuola. Il ministero vorrebbe elevare a 21 quand’anche a 22 l’orario dei primi in graduatoria di ruolo e non occuparsi dei cosiddetti perdenti posto per contrazione oraria, ma almeno su questo i sindacati non dovrebbero cedere. Per i precari, comunque, non ci sarà granché da fare. E quando la riduzione oraria scatterà integrale anche nei licei il processo di sparizione cattedre temporanee sarà completato. Sarà contento Tremonti per il ritorno in bilanci, meno migliaia di famiglie italiane. Il processo, dunque, è inesorabile. La Cgil ha annunciato ricorso alla Corte costituzionale sulla cosiddetta riforma Gelmini: in effetti ci sono gli estremi per affermare la violazione del principio di eguaglianza perché vi è disparità di trattamento tra tecnici e licei. Ma i tempi di un pronunciamento sono lunghi e il taglio orario entrerà comunque in vigore. Quel che viene da chiedersi è perché una battaglia politica più consistente dal sindacato e dal centrosinistra non sia stata fatta prima. I primi a chiederselo sono i professori.
L’Unità 22.02.10

«Le politiche regionali», di Gian Carlo Sacchi

E’ probabile che i prossimi consiglierei regionali siano chiamati ad un funzione costituente. L’applicazione del nuovo Titolo quinto della Costituzione ed altre riforme già annunciate in tale direzione, nonché l’applicazione della legge sul federalismo fiscale, impegneranno i nuovi amministratori oltre la semplice tutela del proprio territorio e non più come replicanti delle appartenenze politiche del parlamento nazionale. In tutti i Paesi federali, quali noi vorremmo essere (?), infatti, viene rafforzata la mediazione nel rapporto locale – statale, in modo da rappresentare le caratteristiche e le necessità delle diverse realtà e ricercare l’unitarietà in termini di obiettivi e di risultati.

Educazione,istruzione e formazione, nell’ambito dei servizi alla persona, sono uno dei pilastri delle politiche regionali, in quanto decisive sia per la garanzia dei diritti di cittadinanza che per lo sviluppo anche economico delle comunità.

La campagna elettorale è appena iniziata, ma non sembra esserci tutta questa consapevolezza e sensibilità nei programmi dei candidati e dei partiti, anzi le annunciate riforme governative nel settore sembrano passare sotto silenzio se si pensa, tra l’altro, alla coincidenza delle elezioni con le iscrizioni per il nuovo anno.

E’ la prima volta nella storia repubblicana che all’introduzione di nuovi ordinamenti corrispondono tagli delle risorse finanziarie statali. In passato, pur tra diverse culture politiche, il dibattito riformatore verteva sui contenuti; ogni innovazione introdotta veniva assunta dal bilancio dello stato per essere poi applicata seppure con diversi dispositivi di governo.

Con l’introduzione dell’autonomia delle scuole si è iniziato il cammino verso l’autoregolazione dell’offerta formativa, accompagnata da finanziamenti diretti da parte dello stato e dalla possibilità da parte delle istituzioni scolastiche di reperire fondi sul territorio, compresi i contributi richiesti alle famiglie. L’autonomia pertanto aumenta se ci sono altri soldi.

Se lo Stato toglie risorse al sistema rimarranno sostanzialmente quelle che le Regioni possono dare agli utenti, mettendo sempre di più nelle mani di questi ultimi la scelta e quindi introducendo la “competizione” nell’offerta.

Così si andrà verso la privatizzazione selvaggia se mancano i “livelli essenziali delle prestazioni” che garantiscono l’equità e quindi sanciscono il diritto allo studio, oltre ad aumentare il divario tra gli istituti e i territori, che dipenderà sempre di più dalle condizioni economiche e culturali, e possono anche indurre le famiglie all’abbandono.

Le Regioni che in un loro masterplan avevano avanzato la data di settembre 2009 per subentrare allo Stato nella gestione di tutto il sistema formativo, non sono state interpellate se non marginalmente nelle riforme degli ordinamenti nazionali, men che meno quest’ultimo si è preoccupato di avviare la definizione dei suddetti livelli, risultato che tutti i territori subiscono i così detti “tagli lineari” senza poter intervenire nemmeno sulla leva fiscale, per salvaguardare le innovazioni realizzate in questi anni, non per eccesso di fantasia, me per alimentare l’aggiornamento dei percorsi formativi in relazione alle esigenze dei territori stessi.

Sembra che la situazione sia davvero confusa. C’è chi pensa che se il finanziamento statale si ritrae esso vada sostituito con quello degli enti locali, ma in questo modo si cozza soprattutto contro le realtà dei piccoli comuni, il patto di stabilità, la quasi totale assenza anche per loro di risorse nazionali, e chi invece vorrebbe che i cittadini si sollevassero contro lo stato per costringerlo ad adempiere ai suoi obblighi, fermo restando il perpetuarsi di un centralismo non si sa quanto efficace per il futuro gestionale dell’intero sistema.

Esiste una terza via ? Forse occorre prepararsi a livello decentrato a negoziare gli standard, in modo da accelerare anche le ricadute di tipo fiscale o comunque la riorganizzazione complessiva ed il reperimento delle risorse. Nei Paesi del Nord Europa l’efficienza dipende anche dalla vicinanza del servizio all’utente, dalla condivisione degli standard medesimi da parte della comunità e dalla razionalizzazione e ottimizzazione dei costi. Tale consapevolezza, unita alle ricerche, anche a carattere internazionale, sui risultati dell’efficacia formativa, è necessaria per definire in modo partecipato (quali indicatori ?) la qualità del servizio, avviare modalità di autoregolazione e di interlocuzione tra tutti i soggetti che provvedono alla sua erogazione, in un’ottica di sussidiarietà.

E’ ancora in vigore la possibilità di sperimentare accordi territoriali per migliorare l’utilizzo del personale e delle risorse in quelle realtà nelle quali gli enti locali sono in grado di farsi carico della rete scolastica e dell’offerta formativa. Una norma introdotta nel 2007 può vedere alcune regioni impegnate ad elaborare modalità di buon governo del sistema e di riorganizzazione della spesa.

Quanto costa e quanto vale un sistema formativo territoriale, definito all’interno dei predetti livelli essenziali, o anche di standard internazionali, o elaborati in loco, organizzato in reti e/o piani di zona ? Chi mette le risorse ? Possono essere indirizzate sulla base di valutazioni o di scelte dell’utenza ? Si tratta di una pluralità di interventi frutto, come si è detto, di accordi territoriali che può condurre ad agire sulla leva fiscale.

Alle spalle ci deve essere una efficace programmazione territoriale, con l’intento di integrare le politiche dei servizi alla persona; deve essere riconosciuta la rappresentanza delle scuole autonome, all’interno di una legislazione regionale che governi l’intero sistema e che costituisca la base per la concertazione delle politiche a livello nazionale. Ma purtroppo le regioni che hanno legiferato su tutta la materia sono molto poche e risulta ancora ambigua la loro posizione in merito allo stesso federalismo. I livelli essenziali, infatti, sono una garanzia per i cittadini, ma impegnano prima di tutto le amministrazioni regionali a garantire una serie di interventi che ancora in molte parti del nostro Paese non si vedono. Anche se è richiamata più volte la sussidiarietà e sarà reso disponibile un “fondo compensativo”, si tratta comunque di un forte investimento di carattere sociale e politico.

Occorre ripartire dalle autonomie e dai territori, per andare davvero verso l’Europa, aiutando quelli che non ce la fanno a superare le loro difficoltà, senza essere irretiti dal centralismo burocratico, che reca un doppio danno, spingendo le realtà così dette forti verso il privatismo e facendo permanere quelle deboli nell’assistenzialismo.

Il tutto all’interno di un quadro di modifiche istituzionali che vede stato e regioni già vicini all’intesa per l’applicazione del suddetto titolo quinto, dal quale il primo dovrà pensare ai diritti di tutti i cittadini, non attraverso una gestione centralizzata, ma l’indicazione degli obiettivi (standard, livelli essenziali) che devono tenere insieme il sistema nazionale, e le altre si impegneranno a garantire i predetti riferimenti attraverso il sostegno all’accesso e la qualificazione per il progressivo miglioramento, derivanti anche dalle necessarie valutazioni.

E’ in tale contesto che va inserita una nuova politica del personale. Una sentenza della Corte Costituzionale (2004) ne ha previsto la gestione “funzionale” da parte delle medesime regioni, se queste si sono dotate di strumenti legislativi per garantire un funzionamento efficiente ed efficace del servizio. Non si tratta di mettere in campo astratte misure di verifica delle prestazioni, quanto di considerarle la variabile decisiva per il conseguimento dei risultati che la scuola raggiunge nel suo complesso, sia nei confronti dell’apprendimento, sia della crescita della comunità sociale, con pieno riconoscimento dell’autonomia professionale.
da ww.edscuola.com

Telecom, uomo Mediaset nella cassaforte delle frequenze

Il contratto lo ha già firmato. Lo stipendio – raccontano – non è esattamente quello di un impiegato. L’ incarico lo porta in uno snodo chiave della galassia di Telecom Italia. Piero Vigorelli – giornalista con una lunga militanza in casa Mediaset, vice direttore uscente del Tg5 – è a un passo dalla presidenza di “Telecom Italia Media Broadcasting”. La sua nomina arriverà nelle prossime ore, forse già martedì secondo il Sole 24 Ore. Vigorelli non approda a un posto qualunque di una società qualunque. Finisce ai vertici della società proprietaria di tutti i ripetitori televisivi e delle frequenze di Telecom. La società è, insomma, la cassaforte delle due reti nazionali che trasportano il segnale de La7 e dei canali Mtv: emittenti che cercano una qualche opposizione alle corazzate televisive di Mediaset. Sulle stesse reti di Telecom sono ospitati i canali della pay-tv emergente Dahlia tv, a sua volta in concorrenza con Mediaset Premium. Da settimane, esponenti tra i più autorevoli del Pd e dell’ Italia dei Valori seguivano le voci improvvise che riguardavano Piero Vigorelli. Voci che davano il giornalista a un passo dalla direzione del telegiornale della 7. L’ attuale direttore Antonello Piroso invece ha resistito al suo posto e Vigorelli si accomoda ora in un ruolo manageriale. La politica si chiede quali significati abbia il suo arrivo in Telecom e se la nomina porti con sé una qualche forma di avvicinamento tra il colosso telefonico e il gruppo Mediaset. Per quindici anni al quotidiano il Messaggero, giornalista parlamentare e poi corrispondente da Parigi, nel 1994 Vigorelli diventa direttore dei telegiornali regionali della Rai anche grazie alla benedizione del presidente dell’ epoca, Letizia Moratti. Lui stesso ha raccontato il clima di quei giorni, ai piani alti della televisione di Stato. Le bacheche della Rai erano tappezzate di prime pagine del manifesto, che salutavano il primo trionfo di Berlusconi alle Politiche con un titolo funesto, angosciato: “Ha vinto il peggiore”. A quel titolo, Vigorelli reagì portandosi in borsa, al suo ingresso nei corridoi di Viale Mazzini, la bandiera tricolore di Forza Italia. Provocazione che gli è valsa, da allora, l’ etichetta di ultrà del mondo berlusconiano.
La Repubblica 21.02.10

Giuslavoristi in rivolta: "Stop alla controriforma", di G. Vespo

L’appello è apparso sulle pagine de l’Unità di ieri: «Fermiamo la controriforma del diritto del lavoro ». Il manifesto fa riferimento al disegno di legge 1167-B in esame al Senato e finora sono 106 i giuslavoristi, gli avvocati e i professori, che lo hanno sottoscritto. Nomi pesanti del mondo accademico e politico: da Umberto Romagnoli a Tiziano Treu, passando per Luciano Gallino.
Il testo sembra che parli di tecnicismi per gli addetti ai lavori. Invece tratta temi che riguardano direttamente tutti. Almeno tutti quelli che lavorano, cercano un lavoro o lo cercheranno in futuro. Precari e a tempo indeterminato. In particolare sono due gli articoli messi sotto lente dal manifesto: il 31 e il 32 del suddetto disegno di legge. In soldoni, prevedono due grandi rivoluzioni nel diritto del lavoro: la prima riguarda le controversie tra datore di lavoro e dipendente. La seconda riguarda i tempi per l’impugnazione dei licenziamenti, dei contratti di lavoro a termine o di collaborazione. Il comma nove dell’articolo 31 cancella praticamente il ruolo del giudice del lavoro, e stabilisce che in caso di contenziosi tra il datore di lavoro e il dipendente sia un arbitro a decidere. Come? Attraverso il principio dell’equità, ovvero – secondo chi ha sottoscritto l’appello – «senza il doveroso rispetto di leggi e contratti collettivi». Ma c’è di più: i contratti di cui dovrà occuparsi l’arbitro – che sarà scelto dalle parti -verranno scritti e certificati da apposite commissioni, ovvero da enti bilaterali costituiti da sindacati e imprenditori. E la clausola che stabilisce che le controversie vanno affidate all’arbitro potrà essere aggiunta «anche al momento della stipula del contratto individuale di lavoro».Che vuol dire? Che al giovane che cerca un impiego, l’imprenditore potrà dire: «Ti assumo solo se accetti questa condizione».
E IL GIUDICE? Che fine fa il togato? Secondo l’appello dei giuslavoristi, il giudice, «anche qualora dovesse continuare residualmente a svolgere la propria funzione, vedrebbe depotenziati i propri poteri in quanto limitati al solo accertamento del presupposto di legittimità dei provvedimenti datoriali, escludendo quindi ogni indagine sulla ragionevolezza degli stessi ». In sostanza un timbracarte. Inoltre, continua il testo, «in una materia particolarmente delicata come quella dei licenziamenti, il giudice potrà sentirsi condizionato nella sua autonomia, dovendo tenere conto delle nozioni di giusta causa e giustificato motivo espresse dalle parti in sede di certificazione». Cioè, non dovrà considerare soltanto dei diritti custoditi dal codice civile ma quello che hanno stabilito gli enti che hanno scritto il contratto. Tant’è che l’allarme dei notabili, a questo proposito, aggiunge: «Nozioni che, qualora fossero definite nel contratto d’assunzione, finirebbero per capovolgere i fondamentali del diritto del lavoro, nato per tutelare il contraente debole nel rapporto di lavoro ». Insomma, è chiaro chi fa le spese di questa impostazione: «Il risultato è quello di lasciare il lavoratore ancora più solo nella “libera” dinamica dei rapporti di forza con il datore di lavoro, cui viene attribuita la facoltà di deroghe peggiorative rispetto a leggi e contratti collettivi». «Si tratta di un tentativo rozzo di modificare lo Statuto», riassume il professore Umberto Romagnoli. A questo va aggiunto che, con l’ultima legge Finanziaria, sono state introdotte delle spese a carico del lavoratore che voglia ricorrere ai giudici. «Contributi» che possono arrivare fino a 500 euro. «In buona sostanza, il governo – si legge sempre nell’appello – pur omettendo di intervenire sull’articolo 18(contro la cui abolizione scesero in piazza 3milioni di persone, ndr) mira a svuotare dall’interno l’impianto normativo di tutela dei lavoratori ».
G.Vespo
L’Unità 21.02.10

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“Torniamo indietro di almeno cento anni”

Umberto Romagnoli, professore emerito di Diritto del lavoro all’Università di Bologna, lei è il primo firmatario dell’appello «Fermiamo la controriforma del diritto del lavoro». Perché ha aderito a questa iniziativa? «Perché è un disegno di legge pericoloso. È un tentativo rozzo ma insidioso di mangiucchiare l’edificio normativo dello Statuto dei lavoratori e dell’articolo 18. Non credo che diventerà legge, ma se lo fosse sarebbe un passo indietro di cento anni. Un ritorno ai probiviri,un modo per fare tabula rasa dei diritti e delle situazioni giudiriche soggettive di un secolo». Ci spieghi perché. «È semplice . È previsto che il lavoratore possa essere assunto con contratti scritti e certificati da appositi enti bilateri, composti da rappresentanti sindacali e imprenditoriali. In questi contratti può essere inserita una clausola che prevede che in caso di controversie le parti si debbano rivolgere ad un arbitro e non al giudice del lavoro. Questo arbitro potrà prendere le sue decisioni sulla base del principio di equità, ovvero a sua discrezione, depotenziando i diritti scritti. Inoltre, se l’arbitro dà ragione al datore di lavoro, il lavoratore non può fare appello al giudice ordinario». Sono novità assolute? «No. L’esperienza dell’arbitrato è già presente nel nostro ordinamento, ma in tema di lavoro è utilizzata in modo molto marginale. Il lavoratore ha ovviamente più fiducia nel giudice. Stessa cosa si può dire degli enti bilaterali: esistono già, ma hanno altre funzioni». Perché adesso si vuole dare maggior peso a questi istituti? «In questo modo da una parte vengono indeboliti i diritti dei lavoratori, dall’altra si tagliano fuori i giudici del lavoro, che evidentemente danno fastidio. Già nel primo “Libro Bianco” del 2002 sono presenti pesanti giudizi sull’operato di questi magistrati. Un sentimento che ha origini lontane. Vede, con lo Statuto dei lavoratori la giurisprudenza ha cambiato passo: prima era molto arcigna con il lavoratore. A questo proposito, qualcuno ricorderà i cosiddetti pretori d’assalto, quelli che utilizzavano il diritto in favore dei più deboli. Ecco, io penso che ad esempio in Confindustria sia ancora vivo questo ricordo, come un’immagine negativa. E tutto questo si traduce in un orientamento generale che può essere visto come punitivo nei confronti delle malefatte dei pretori d’assalto ». Nell’appello che lei ha sottoscritto si fa riferimento anche ad una «gabella » per il lavoratore che vuole rivolgersi ai giudici. Si parla di un contributo, inserito con la Finanziaria 2010, che può raggiungere anche 500 euro. «Anche questo è un segnale dell’inversione di rotta. Finora si è cercato di semplificare e rendere quasi gratuito il processo del lavoro». Che tempi ci sono perché questi provvedimenti diventino legge? «Non lo so. Mi auguro che non lo diventino mai. Ma ci sarà bisogno di un forte ostruzionismo»
L’Unità 21.02.10