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Dl Enti locali, si può assumere per i servizi 0-6 anni

scuola materna

La Camera approva il dl Enti locali e, all’articolo 17, introduce ulteriori novità, rispetto al testo varato dal Consiglio dei ministri nel giugno scorso, in materia di assunzioni del personale insegnante ed educativo delle scuole d’infanzia e degli asili comunali. Con queste nuove norme si garantisce continuità e stabilità ai servizi educativi 0-6 anni gestiti dai Comuni e si prevedono maggiori tutele occupazionali per il personale docente ed educativo. L’articolo 17 del dl Enti locali, infatti, prevede, in deroga alla normativa vigente sul turn-over per il pubblico impiego, la possibilità per i Comuni di assumere a tempo indeterminato personale docente ed educativo per le scuole d’infanzia e i nidi. “Lo potrà fare attraverso un piano di assunzione straordinario triennale, ricorrendo a specifiche procedure di stabilizzazione (nel triennio scolastico 2016-2019) di contingenti del personale impiegato a tempo determinato. Rispetto al testo originario del decreto legge in Commissione Bilancio sono state introdotte altre misure. Gli Enti locali hanno ora la facoltà di esperire ulteriori procedure concorsuali finalizzate a valorizzare le esperienze professionali maturate all’interno dei medesimi Enti che gestiscono i servizi per l’infanzia, inclusi coloro che abbiano maturato un’esperienza lavorativa di almeno 150 giorni di lavoro nell’Amministrazione che bandisce il concorso. Le nuove misure si applicano sia ai Comuni che, nel 2015, abbiamo rispettato i vincoli previsti dal Patto di stabilità, sia a quelli che non sono stati in grado di farlo. E’ un provvedimento sollecitato da tempo sia dall’Anci che dai rappresentanti del personale  Andrà a vantaggio sia dei lavoratori, che si vedono riconosciuta la propria professionalità e possono finalmente uscire dal precariato, sia dei bambini della fascia d’età da 0 a 6 anni e delle loro famiglie che potranno godere della continuità di servizi apprezzati dal punto di vista pedagogico e sempre più necessari all’organizzazione familiare. Fino ad ora, infatti, proprio per i vincoli imposti sul turn-over del personale, ogni anno i Comuni avevano dovuto fare ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato.

Contribuzione universitaria, riprendiamo da dove abbiamo lasciato

Camera

Ecco il testo del mio intervento in Aula lunedì 18 luglio nel corso della discussione generale sulla proposta di legge Vacca (M5stelle) di modifica alla disciplina in materia di contribuzione universitaria

Signora Presidente, Onorevoli Colleghi,
il 29 giugno abbiamo approvato una mozione sull’accesso all’università, un obiettivo purtroppo fuori portata per decine di migliaia di giovani diplomati ogni anno. Il Governo ha preso importati impegni a questo proposito, ma riparliamo prematuramente del tema, avendo al nostro esame la proposta di legge Vacca sulle tasse universitarie.
Credo sia inutile ripetere dati già ampiamente riportati durante la recente discussione della mozione. Il punto fondamentale, citato anche dalla relatrice, è che l’Italia è l’ultima di tutti i paesi dell’OCSE, non solo di quelli dell’Unione Europea, per numero di laureati sulla popolazione, anche nelle fasce più giovani. Senza incentivare con opportune misure il conseguimento della laurea – soprattutto tra i ceti meno abbienti che ne sono più lontani ma anche nel ceto medio impoverito dalla lunga crisi economica e quindi sempre più in difficoltà a mantenere i figli all’università – lasceremo bloccato l’ascensore sociale e rimarremo sempre più il fanalino di coda a livello internazionale.
Una prima misura sarebbe l’esonero dal pagamento delle tasse universitarie al di sotto di un certo livello di reddito e patrimonio familiare. Non a caso, uno degli impegni presi dal Governo nell’accogliere la mozione è di modificare – nel rispetto dell’autonomia delle università statali – la disciplina vigente sulla contribuzione studentesca alle università statali, stabilendo per tutti gli studenti con ISEE al di sotto di una determinata soglia l’esenzione dal pagamento della contribuzione, garantendo al tempo stesso un adeguato ristoro delle minori entrate delle università. In altre parole, si tratta di introdurre una no-tax area.
Ebbene, la proposta di legge al nostro esame dispone un misura in questo senso per i redditi ISEE fino a 11.000 euro. Si registrerebbe una unità di intenti tra l’impegno governativo e la proposta Vacca e quindi una contraddizione con il mandato alla relatrice a riferire in senso contrario alla proposta.
Ma, come ha già ben spiegato la collega Ascani, non vi è alcuna contraddizione, quanto piuttosto la volontà precisa e forte della Commissione di rispettare un impegno approvando una norma organica, completa, equa sulla base di un’analisi consapevole di tutti i dettagli in gioco.
Per spiegare questo punto di vista, ritengo necessario illustrare più dettagliatamente i contenuti della proposta e ricostruire brevemente le fasi del suo esame in Commissione, sin dall’avvio dei lavori nell’estate del 2013.
La proposta Vacca ha come oggetto principale il ripristino della formulazione originaria della norma – mi riferisco al comma 1 dell’art. 5 del DPR 306 – che dal 1997 regolamenta gli importi delle contribuzioni universitarie, fissandole complessivamente, per ogni ateneo, al massimo al 20% dei finanziamenti statali ricevuti.
Il governo Monti intervenne sulla norma escludendo dal calcolo le tasse pagate dagli studenti fuori corso: in questo modo il rapporto da rispettare – il 20% – diventa più facilmente raggiungibile, in particolare da quegli atenei che lo sforavano stabilmente, non solo o non tanto per mala gestione o per insensibilità sociale verso gli studenti, quanto per la costante insufficienza dei finanziamenti statali.
Da parlamentare mi opposi a quella modifica: la giudicavo un escamotage tecnico a favore delle università, che però, di fatto, alleggeriva le responsabilità del governo rispetto al finanziamento del sistema universitario e rischiava di ribaltare sugli studenti, soprattutto i fuori corso, un maggiore carico contributivo. Se questo non è avvenuto, lo si deve solo ad una sorta di moratoria triennale che fu introdotta nella legge per volontà parlamentare e ad un impegno assunto direttamente dalla Conferenza dei Rettori. Impegno onorato, certamente, ma che è scaduto nell’anno accademico in corso. In più voglio ricordare che una recente sentenza, riguardante l’Università di Pavia, ha messo in dubbio addirittura la legittimità dell’intero impianto normativo vigente.
Se ne potrebbe dedurre che dovrei essere favorevole al ripristino della norma originaria. Però… c’è un però, che vorrei spiegare.
La prima preoccupazione del legislatore dovrebbe essere quella di garantire il principio di una contribuzione equa e progressiva. Il DPR 306, per la verità, lo dispone in modo tanto chiaro quanto inapplicato; infatti recita “Le università graduano l’importo dei contributi universitari secondo criteri di equità e solidarietà, in relazione alle condizioni economiche dell’iscritto, utilizzando metodologie adeguate a garantire un’effettiva progressività, anche allo scopo di tutelare gli studenti di più disagiata condizione economica”.
Ma la norma del 20%, tanto nella sua variante originaria quanto in quella vigente, non ha mai garantito e non può garantire equità e solidarietà. Non solo perché non è stata mai rigidamente rispettata – diversi atenei, a fronte del progressivo calo del finanziamento statale, non hanno proceduto o non hanno potuto procedere alla corrispondete diminuzione delle tasse imposta dal curioso meccanismo della legge – e perché presenta, peraltro, profili di difficile verifica contabile a posteriori. Ma soprattutto perché, per un ateneo, dover rispettare esclusivamente un rapporto numerico budgetario che riguarda l’intera platea studentesca è cosa ben diversa che predisporre, a priori, una regola di contribuzione che adegui la contribuzione richiesta ad ogni singolo studente in modo progressivo rispetto alla ricchezza reale della sua famiglia e quindi alla sua capacità di contribuire alla copertura del costo dei servizi offerti dall’università.
Ecco il punto davvero dirimente: il nostro sistema contributivo, nei fatti, è né equo né solidaristico. Il nostro Paese, infatti, è il terzo in Europa per carico fiscale sugli studenti e, per giunta, il carico si addensa spesso in modo “piatto” sulle fasce più numerose di studenti, che sono quelle provenienti da famiglie a reddito medio. Come Partito Democratico abbiamo quindi cercato una soluzione che ottemperasse realmente ai principi di equità e solidarietà e garantisse un vantaggio reale agli studenti in maggiore difficoltà economica. Si tratta di un cambio di prospettiva: non riportare indietro le lancette dell’orologio sul rapporto del 20%, ma concentrarsi sulla progressività delle contribuzione, annullandola per le fasce a basso reddito.
Quest’ultimo punto, come detto, è presente anche nella proposta Vacca ma in posizione residuale rispetto all’impianto generale, che resta pienamente confermato nonostante i difetti che si sono evidenziati in quasi vent’anni di esperienza. Per noi invece è diventato il vero bandolo della matassa, memori peraltro delle analisi accurate e propositive condotte da varie associazioni studentesche. Dall’UDU in una sua mozione congressuale, dalla RUN durante l’audizione in Commissione, dalla LINK in una recente campagna pubblica.
Così, grazie all’ascolto di tante voci – associazioni studentesche, mondo accademico, esperti – nelle audizioni svolte nell’autunno e inverno 2013-2014, grazie ad un certosino lavoro di analisi sulle contribuzioni universitarie deliberate da molti atenei e alla comparazione con quanto avviene negli altri paesi europei, il PD ha elaborato una propria proposta di legge, a mia prima firma, che nel luglio del 2014 abbiamo chiesto venisse abbinata a quella del collega Vacca.
Recupero molto brevemente i capisaldi della nostra proposta: prevedere una no-tax area sotto 21.000 euro di ISEE; garantire gradualità e progressività nella contribuzione nella fascia tra 21.000 e 30.000 euro di ISEE; porre un limite massimo di 900 euro al valore medio della contribuzione, rapportandolo però al reddito medio della regione interessata; rimborsare alle università il mancato introito dovuto all’introduzione della no-tax area tramite un incremento dedicato del FFO per un totale di 300 milioni di euro.
Una proposta innovativa, quasi rivoluzionaria, ambiziosa, in grado di avvicinarci all’Europa.
Essa fu accolta con favore o con benevolenza dagli studenti, sebbene non siano mancate critiche alla “regionalizzazione” della contribuzione. Di converso, suscitò perplessità tra chi ha la responsabilità di gestire gli atenei e ancora di più tra chi ritiene che la contribuzione universitaria abbia un valore educativo, cioè è uno strumento per sollecitare gli studenti a non accumulare ritardi nel proprio percorso di studi. In realtà sono ben altri i fattori che incidono sulla regolarità degli studi: sul tema, che meritera attenzione da parte del decisore politico, tornerò alla fine.
Anche l’atteggiamento del governo non fu incoraggiante, tanto che le obiezioni della Ministra Giannini espresse in comitato ristretto nel novembre 2014 determinato una lunga sospensione dei lavori, ripresi solo nel maggio di quest’anno, grazie allo stimolo esercitato dal gruppo del M5S che, utilizzando le prerogative regolamentari a garanzia delle minoranze, ha chiesto e ottenuto di inserire la proposta Vacca nel calendario dei lavori d’Aula.
Per onestà intellettuale, non ho nessuna difficoltà a riconoscere che è stata questa scelta del M5S ad aver consentito di riprendere l’esame dei testi abbinati per tentare di individuare una proposta condivisa, sostenibile finanziariamente, in grado di operare una sintesi dei progetti sul tavolo tenendo anche conto di quanto, nel frattempo, gli stessi atenei hanno elaborato e messo in atto.
Già, perché a questo proposito le novità non sono poche. Nel giro di due anni, dopo l’esperienza pionieristica della no-tax area deliberata dall’Università di Firenze per l’a.a. 2014-2015, ne sono seguite altre a Pisa, a Palermo, a Bari, a Torino. Ciascuna con una propria specificità, ognuna da studiare attentamente, per gli esiti sui bilanci e sui dati delle immatricolazioni.
Si tratta di interventi recenti e recentissimi, comunque significativi, che questi atenei hanno assunto autonomamente, quasi sempre sulla spinta positiva esercitata dagli studenti presenti negli organi di governo e facendovi fronte, non va dimenticato, con le scarse disponibilità dei propri bilanci.
Quindi, mentre il Parlamento taceva, il sistema universitario andava avanti. La no-tax area non è più un tabù. Due settimane fa anche la CRUI l’ha inserita tra le proprie ipotesi di lavoro, come misura di diritto allo studio, chiedendo il supporto di nuovi finanziamenti statali.
Potrei dire, banalmente, che è cambiata l’aria o, meglio, dovrei dire che il tema si è progressivamente imposto per la sua ragionevolezza e intrinseca bontà.
Anche il governo ha assunto un atteggiamento di più attenta interlocuzione: il 18 maggio, il Sottosegretario Faraone ha espresso un chiaro interesse per la proposta, mettendo a disposizione il proprio impegno – come ricordava la relatrice Ascani – per reperire le risorse necessarie a partire dalla prossima legge di stabilità. Si tratta di un impegno coerente con quello messo nero su bianco nella mozione approvata il 29 giugno, che ha dato ancor maggior motivazione ai lavori del comitato ristretto. Ma la notizia della immediata calendarizzazione in Aula chiesta dal M5S ha avuto l’effetto di una doccia gelata. Peccato, perché questa incomprensibile accelerazione ha impedito al comitato ristretto di giungere ad un testo base condiviso. Dato che, vorrei robadirlo, di condiviso avevamo l’obiettivo – la no tax area – ma era in via di studio il come arrivarci.
La materia che stiamo affrontando non solo è delicata, come tutte quelle di natura fiscale, ma ha anche uno specifico e rilevante carattere tecnico, poiché occorre incrociare le riflessioni sulla diversa capacità contributiva degli studenti con le esigenze di bilancio degli atenei, cioè con circa 60 situazioni diverse sul territorio nazionale.
Pertanto occorre procedere con ponderazione, il contrario di quanto impone la richiesta di andare in Aula. Faccio un esempio.
Solo il 7 e 8 giugno scorso abbiamo ricevuto dal Ministero del Lavoro e dal MIUR alcuni dati necessari per dar le gambe solide e coerenti ad un provvedimento davvero efficace.
Ma i dettagli tecnici sono più complessi di quanto si possa immaginare e più pronunciata è la carenza di dati affidabili. Faccio un altro esempio. Non disponiamo a tutt’oggi di certezze su un dato fondamentale: quanto paga in media uno studente universitario che appartiene ad una famiglia con un detrminato valore ISEE?
Questa “curva di contribuzione” non è a disposizione dell’Ufficio Statistica del MIUR, eppure si comprende quanto sarebbe importante conoscerla per valutare ogni scelta normativa. Certo, potrebbe essere elaborata raccogliendo i dati di tutti gli atenei statali ma si tratterebbe di un lavoro lungo e comunque non facile. Come gruppo parlamentare, con l’aiuto di esperti di statistica, abbiamo iniziato ad elaborare alcune stime della curva di contribuzione a partire dai dati INPS e MIUR disponibili. I primi risultati sono confortanti ma occorre più tempo per avere stime sicure o, meglio ancora, dati certi. D’altra parte solo così è possibile calcolare l’impatto della futura norma sui bilanci degli atenei e quindi, di riflesso, sul bilancio dello Stato.
A questo proposito mi soffermo brevemente sul punto della compensazione agli atenei da parte dello Stato, necessaria a riequilibrarne le entrate dopo l’introduzione della no-tax area. Se per il relatore Gallo, come ha affermato nel corso della discussione in Commissione, la compensazione può essere anche parziale e quindi non ne serve una valutazione precisa, per me è cruciale prevedere una compensazione totale. La no-tax area diventa effettivamente una misura a vantaggio degli studenti, tutti, solo se non va a gravare sulle risorse proprie delle università. In caso contrario, dovendosi trovare un bilanciamento nel finanziamento ordinario al netto delle spese fisse e incomprimibili – quali retribuzioni, affitti, utenze… – l’agibilità di manovra sarebbe talmente ristretta da approdare inevitabilmente alla riduzione delle spese per i servizi agli studenti! Personalmente non sono disposta ad avallare un simile esito.
Dopo la ricezione dei dati a cui ho fatto riferimento, ancorché parziali, il comitato ristretto ha svolto due sole sedute, il 15 e il 29 giugno. Oltre a quanto già detto sulla curva di contribuzione, credo sia facile capire che molti altri elementi non banali devono essere esaminati e quindi ben maggiore dovrebbe essere il tempo a nostra disposizione per elaborare una proposta credibile e attuabile. Elementi quali, come definire la platea dei beneficiari della no-tax area rispetto al reddito familiare, all’anno di corso e al tipo di corso di laurea? Quali meccanismi introdurre affinché sia realmente progressiva ed equa la contribuzione per gli studenti che hanno un ISEE immediatamente superiore a quello che consente l’esonero?
Sono questioni che meritano profondità d’analisi e per le quali l’ingiustificabile urgenza di approdare alla discussione in Aula sarebbe di certo cattiva consigliera. Tenuto peraltro conto che nessuna misura di legge potrà essere applicata prima dell’anno accademico 2017/2018. Ripeto: un’urgenza ingiustificata, dettata solo da un’agenda di natura strumentale e propagandistica.
Infine, la vasta discussione che si è sviluppata, all’interno del PD e nel confronto con le altre forze parlamentari, ha mostrato con evidenza che il problema del basso accesso all’università delle fasce deboli della popolazione non può e non deve essere affrontato solo con provvedimenti di settore ma con uno spettro organico di interventi e di impegni finanziari, che mettano su nuove e più solide basi sia la normativa che gli investimenti statali.
Non vi è dubbio intanto che i provvedimenti di de-contribuzione per le fasce meno abbienti devono essere accoppiati col consolidamento del sistema del diritto allo studio universitario, provvedendo a stabilizzare il finanziamento disposto dall’ultima legge di stabilità e a completare l’attuazione del D.Lgs. 68 del 2012 che regola l’intera materia, correggendolo nei punti che si sono rivelati più problematici, quali, ad esempio i criteri di riparto delle risorse statali tra le regioni.
Si dovrebbe altresì intervenire sul tema, molto trascurato, dell’accompagnamento degli studenti più in difficoltà, in particolare quelli che accumulano ritardo nel superamento degli esami, così da ridurre l’enorme tasso di abbandono o di cambio del corso di laurea prescelto, fenomeni che colpiscono in misura più pronunciata, come dimostrano i dati statistici disponibili, proprio gli studenti ad ISEE familiare più basso e che provengono da istituti tecnici o professionali. Sarebbe insomma inutile un esonero dalle tasse senza unirlo ad opportune forme di accompagnamento culturale e sostegno didattico.
Si dovrebbe ancora intervenire sull’importo della borsa di studio per gli studenti meritevoli e a bassissimo reddito, in quanto l’importo attuale è del tutto insufficiente per un loro vero mantenimento agli studi universitari, soprattutto nel caso in cui, per affrontarli, debbano trasferirsi in una città universitaria.
Insomma, sarebbe parziale intervenire solo sul tema della contribuzione universitaria. I tempi sono maturi per un dibattito che potrebbe portare ad una legge con consenso parlamentare molto vasto ed esteso, ben oltre i confini della maggioranza. I tempi ci sono perché, come dicevo, qualunque normativa non entrerà in funzione prima dell’anno accademico 2017/18. Gli strumenti conoscitivi, cioè i dati effettivi del sistema, si possono perfezionare in tempi ragionevoli. Sulle idee di fondo non è affatto lontano un largo accordo.
Perché dunque sprecare questa occasione di intervenire organicamente e a largo spettro sul tema dell’accesso all’università? Perché non dare senso all’espressione “università di massa” – citata anche dalla relatrice Ascani – spesso abusata quanto irrealizzata? Perché non ripensare la normativa per intero, senza apportare le ennesime toppe ad una normativa ormai antiquata e già largamente rappezzata?
Ritengo quindi che sarebbe opportuno riprendere il cammino in Commissione da dove lo abbiamo interrotto qualche giorno fa: per poter davvero dare le risposte piene e complete che il Paese, i giovani, le università si attendono, non l’ennesima aggiunta ad una normativa congestionata, fragile, confusa.

Libertà di pensiero, tesi di laurea, e l’argomentare di Luigi Manconi

Fin dove la mia opinione personale, anche se controcorrente, è espressione della libertà di pensiero sancita dalla Costituzione, e quando, invece, inizia l’apologia di un comportamento considerato reato e, quindi, la connivenza che diventa “concorso morale” nella commissione del reato stesso? Argomento delicatissimo che impegna le coscienze dei singoli, gli studiosi del diritto e l’applicazione della legge da parte dei magistrati. Un caso, in particolare, mi aveva colpito nei giorni scorsi: la condanna, appunto per “concorso morale”, da parte dei giudici piemontesi, di una giovane laureanda in antropologia. Oltre che sulla sua presenza – dichiaratamente da osservatrice – nei luoghi dove era avvenuta la mobilitazione, i giudici hanno ritenuto probante quanto scritto in una tesi di laurea nella cui stesura era stata utilizzata la prima persona plurale. Quel “noi”, da espediente retorico è diventato indizio di connivenza con le ragioni dei manifestanti e, quindi, elemento su cui basare la condanna (per inciso, a due mesi di reclusione). Ammetto, questa sentenza mi ha profondamente turbata. E, ieri, il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti umani, con il suo articolo su Il Post ha dato espressione a questo mio turbamento. Una tesi di laurea, per sua stessa natura, è un testo di tipo accademico, non immediatamente destinato alla divulgazione. Quello che la studentessa scrive in un testo accademico non è piuttosto un argomentare scientifico? O questo fa di lei, tout-court un “cattivo maestro”, per quanto in erba? Lettura molto interessante che consiglio vivamente http://www.ilpost.it/2016/07/17/manconi-procura-torino-no-tav/.

Verso il referendum costituzionale

Venerdì scorso, si è concluso il breve (ma intenso) ciclo di incontri dedicato alle Riforme Costituzionali, organizzato nell’ambito della festa dell’Unità di Terre d’Argine (Carpi, Campogalliano, Novi e Soliera), che chiude i battenti tra poche ore.

Non sono state 3 conferenze, nemmeno 3 dibattiti: abbiamo preferito organizzare 3 lezioni (con aperitivo finale, per riprendersi dalle fatiche dello studio) sul testo riformato, al fine di sollecitare il confronto, far emergere dubbi e approfondire questioni controverse, e soprattutto far scaturire domande, che in ambienti più formali di solito vengono represse. Ecco perché le lezioni sono iniziate con la distribuzione del raffronto tra il testo vigente della Costituzione e il testo di legge costituzionale, che entrerà in vigore se al referendum di ottobre prevarranno i Sì.

Se stiamo all’attenzione dei partecipanti, alla loro continuità di presenza, al numero di domande e alla durata media delle lezioni, credo si possa dire che abbiamo raggiunto l’obiettivo: fare conoscere il testo riformato, approfondirlo e discuterlo, affinché si arrivi al referendum con senso critico e consapevolezza. Abbiamo quindi cercato di rifuggire qualsiasi approccio propagandistico, poiché riteniamo che la conoscenza diretta del nuovo testo sia il miglior sostegno alla campagna per il Sì al referendum.

Abbiamo chiesto di “snocciolare” le modifiche apportate alla Carta ad alcuni dei protagonisti che hanno contribuito alla stesura del nuovo testo riformato.

Al sottosegretario alle Riforme costituzionali e ai rapporti con il Parlamento, Luciano Pizzetti, abbiamo chiesto di affrontare i temi del superamento del bicameralismo paritario e del nuovo procedimento legislativo.

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L’info grafica sul Nuovo procedimento legislativo, realizzata dal Servizio Studi della Camera dei Deputati, credo possa aiutare ad orientarsi.

Al capogruppo Pd in Commissione Affari costituzionali e relatore della riforma alla Camera, Emanuele Fiano, è stato affidato il compito di riflettere sulla rappresentanza nella Carta costituzionale riformata, in rapporto anche alla nuova legge elettorale (qui, alcune risposte a possibili quesiti).

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L’ultima lezione ha visto la deputata Marilena Fabbri, componente della Commissione Affari costituzionali della Camera, illustrare le novità introdotte dalla revisione del Titolo V e i nuovi rapporti tra Stato e Regioni.

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Si tratta di temi affatto facili, che possono essere chiariti dalla info grafica sul Nuovo articolo 117 realizzata dal Servizio studi della Camera dei Deputati.

Povertà, la Camera ha approvato il reddito di inclusione

Disperato

L’Istat ci informa di un dato drammatico: nel 2015 le famiglie povere sono 1 milione e 582 mila (incluse quelle che ricevono la pensione sociale), composte da 4 milioni e 598 mila persone, dato che rispetto alla media nazionale le famiglie in difficoltà sono quelle numerose. La Camera giovedì 14 luglio ha approvato la Legge Delega sul contrasto alla povertà, che poggia su un Fondo, istituito dalla legge di stabilità, che dispone di 600 milioni per il 2016 e di 1 miliardo dal 2017, a regime.

E’ la prima volta che l’Italia mette a disposizione risorse strutturali, e non “una tantum”, per un “reddito di inclusione” a chi è in condizioni di povertà assoluta e le accompagna con un coerente piano strategico e operativo. Si tratta dell’avvio di un percorso su basi solide e certe, che si dispone saranno incrementate. Sia chiaro, il nuovo Fondo non sostituisce altri finanziamenti a favore dei cittadini in condizioni di necessità, come il Fondo per la non autosufficienza, il fondo Affitti, il fondo per le famiglie… Abbiamo, finalmente, una misura concreta, realistica e realizzabile, garantita uniformemente sul territorio nazionale, basata sul contributo economico e la presa in carico della famiglia bisognosa per l’accesso alle prestazioni sociali e ai servizi alla persona.

La discussione è stata molto vivace, in particolare per le “proteste” – uso consapevolmente questo termine – più che per le critiche di merito, del M5S. Il reddito di cittadinanza è una “stella polare” del MoVimento, pertanto è palpabile la sofferenza (mista a nervosismo) per la discussione di un provvedimento che affronta in modo sistemico la povertà assoluta e che mostra la strada alternativa a quella da loro proposta. Una sofferenza (ma in questo caso forse si tratta di fastidio) palese negli interventi contro l’emendamento PD che definisce il contributo economico come “reddito di inclusione”. C’è qualcuno, evidentemente, che crede di avere il copyright sulle parole e sulle idee, convinto che prima di lui ci sia stato il nulla. In tema di povertà voglio ricordare che la sperimentazione di un reddito minimo fu introdotta dal primo governo Prodi (ministra Livia Turco) nel 1998, poi cancellato dal governo Berlusconi.

Ne approfitto per un chiarimento sul significato del reddito di cittadinanza, ben diverso dal reddito minimo (le parole sono importanti…).

Il reddito di cittadinanza è un reddito ai componenti di una comunità su base individuale, senza prova dei mezzi o richiesta di lavoro, e di importo uguale per tutti: quindi è un assegno che si riceve senza dover dimostrare di essere povero o in cerca di lavoro. Eccetto che in Alaska, non esistono esempi concreti di applicazione del reddito di cittadinanza.

Il reddito minimo garantito è invece una prestazione monetaria destinata ai bisognosi, che devono dimostrare di essere in condizioni di necessità. L’importo è differenziato a seconda delle condizioni del beneficiario. Seppure con molte varianti, il reddito minimo è presente in tutti i paesi europei, tranne Italia e Grecia. Il Fondo istituito in legge di stabilità 2016 e il Ddl contro la povertà che istituisce il reddito di inclusione, ora approvato, sono passi nella giusta direzione, anche se non conclusivi, per colmare il gap rispetto agli altri paesi europei.

 

Ad oggi non sono state presentate in Parlamento proposte per introdurre un reddito di cittadinanza. Anche quella del M5S, in realtà, dispone una forma di reddito minimo condizionato.

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Legge 107, chi ha paura della parità tra i sessi?

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Sono sotto i nostri occhi le conseguenze degli stereotipi di genere e della violenza contro le donne, come quella agita contro il “diverso” (ma diverso da chi? E in cosa, diverso?) per colore della pelle, religione o orientamento sessuale. Ci indigniamo (non tutti…), ma quando si ribadisce che per combattere le discriminazioni ed educare al rispetto dell’altro occorre cominciare, anche, dalla scuola, subito qualcuno comincia ad erigere muri. Sta succedendo di nuovo, come era già stato con l’avvio della riforma prevista dalla legge 107. Non appena si sente parlare di educazione di genere, per ragioni diverse (e sempre più spesso in malafede), c’è chi lamenta che si voglia esautorare le famiglie nell’educazione dei figli, mentre altri si producono nella narrazione di balle spaziali. Questa mattina, ad esempio, il quotidiano Libero supera anche la più fervida fantasia e annuncia che i ragazzi a scuola saranno obbligati a studiare omosessualità. Ma vi par possibile? Ma dai, siamo seri! Un falso così mal propinato che non vale nemmeno spendere parole per smascherato. Serve invece da spunto per un’altra riflessione. La scuola, da sempre, collabora con le famiglie all’educazione dei ragazzi, e perché questo processo dia i risultati attesi occorre che esso sia fondato su un solido patto, che sostanzia anche il Piano dell’offerta formativa che la legge 107 non ha voluto calato dall’alto. È del resto indubitabile che l’ostilità verso l’altro, il ” – per sesso, per razza, per religione – sta crescendo, come anche la violenza e la sopraffazione che ne conseguono. Stanno a dimostrarlo la tragica impennata, dall’inizio dell’anno, dei femminicidi e le violenze contro le donne; l’omicidio a sfondo razziale avvenuto a Fermo, i pestaggi e gli insulti agli omosessuali. E’ quindi, oggi più che mai necessario, che fin dalla scuola si insegni ai ragazzi il rispetto verso l’altro e si combattano gli stereotipi con le armi della comprensione critica della società. La legge 107 stabilisce che tra gli obiettivi dell’offerta formativa delle istituzioni scolastiche vi debba essere lo sviluppo delle competenze di cittadinanza attiva e democratica, l’educazione alle differenze, la consapevolezza dei diritti e dei doveri e il rispetto della legalità. Obiettivi, mi sembra, sacrosanti che non possono essere sminuiti agitando i fantasmi della teoria gender o di presunti insegnamenti coatti. Aggiungo – pur con il dovuto rispetto verso i colleghi di altre forze politiche e i rappresentanti dei media – che non può essere che, per qualche voto in più o qualche lettore in più, partiti o testate, che solo a parole dovrebbero essere di informazione, soffino sul fuoco alimentando la diffidenza, se non il vero e proprio odio verso l’altro.

Lunedì alla Camera il film “La notte non fa più paura”

Invito proiezione

Lunedì 18 luglio, alle ore 17.30, a Roma, presso la sede della Camera dei deputati, verrà presentato “La notte non fa più paura”, il primo film sul terremoto in Emilia, iniziativa organizzata da noi parlamentari della zona del sisma 2012. Interverranno gli assessori della Regione Emilia-Romagna alla Ricostruzione Palma Costi e alla Protezione civile Paola Gazzolo, l’ex presidente della Regione Vasco Errani e l’ex capo del Dipartimento nazionale della Protezione civile Franco Gabrielli.