L’incubo giudiziario è finito, ma l’Italia, nel frattempo, ha perso una scienziata di valore, disposta a mettere le sue competenze al servizio della propria comunità nonché di quella scientifica internazionale. La ricercatrice Ilaria Capua, quella che per prima al mondo isolò il virus dell’influenza aviaria, era anche parlamentare di Scelta Civica e sedeva in Commissione Cultura e Istruzione della Camera e ne era, come me vicepresidente. Una donna dal forte profilo professionale, pacata, molto ironica e molto determinata. Quando venne indagata con l’accusa di aver fatto commercio di virus e delle sue scoperte, su di lei si scatenò una bufera mediatica e politica. L’Espresso venne in possesso di un dossier “riservato” la sbatté in prima pagina come “trafficante di virus”, i deputati del M5S in Commissione l’attaccarono chiedendone – come resta agli atti del 9 aprile 2014 – “formalmente le sue dimissioni dalla carica di vicepresidente della Commissione. Ritiene, infatti, che tale carica richieda, a chi la ricopra, trasparenza, stato d’animo e statura adeguati”. Peraltro a quella data a Ilaria Capua nulla era stato contestato formalmente (e fu così per molti mesi ancora). Dopo due anni, la vicenda giudiziaria si è completamente sgonfiata: assolta perché “il fatto nono sussiste”. Ilaria Capua, secondo me, è stata vittima di quattro situazioni patologiche italiane (ma non solo). 1) La sindrome del palio di Siena, ovvero godo più della tua sfortuna che della mia buona sorte. Per l’Italia lo accerta anche l’Eurispes nella sua indagine annuale: l’invidia è una brutta bestia e non si può non pensarlo visto che l’avvio dell’indagine partì da una denuncia anonima, probabilmente nata all’interno del centro regionale di ricerca veneto per il quale, all’epoca, lavorava. 2) Una informazione a caccia più di possibili scoop che di notizie suffragate da elementi di prova: siamo, comunque, sicuri che arriveranno le scuse da parte de L’Espresso, ma il danno di immagine e professionale è stato gravissimo. 3) La giustizia sommaria impartita da autoproclamatisi giudici, che nell’emettere le sentenze fuori dai tribunali si ergono ad autorità morale. Mi spiego. I colleghi di Commissione del M5S ne chiesero le dimissioni perché il presunto reato che le veniva contestano non era compatibile con la carica che ricopriva. Ora che il reato non c’è, a quegli stessi colleghi sarà venuto almeno il dubbio che l’avviso di garanzia è uno strumento a garanzia dell’indagine, vale a dire che non è una sentenza? 4) La ricerca in Italia non interessa, in generale, e non interessa chi la pratica anche quando viene offeso. E badate che questo è un peccato capitale per un Paese che ha bisogno di scommettere su innovazione e ricerca se vuole uscire dalla stagnazione in cui l’ha gettato la crisi economica. Ora Ilaria Capua si è dimessa dal Parlamento e se ne è andata a lavorare negli Stati Uniti (la comunità scientifica internazionale l’ha sempre apprezzata, a partire dal gesto altruistico di mettere a disposizione di tutti le sue scoperte sull’aviaria, senza chiedere né brevetti né riconoscimenti economici). Lei, in questi due anni, ha sicuramente perso la serenità personale, ma noi, nel frattempo, abbiamo sciupato il suo talento e le sue potenzialità che, mai, aveva esitato a mettere a servizio del suo Paese. Speriamo che qualcuno sia disposto a chiedere scusa: sono stata io stessa, oggi, a sollevare il caso in Commissione Cultura e Istruzione della Camera.
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Violenza sulle donne, cosa ho detto al settimanale Tempo
Nel numero in edicola oggi giovedì 7 luglio del settimanale carpigiano Tempo, i redattori mi hanno chiesto di fare il punto sui provvedimenti legislativi adottati per contrastare il tragico fenomeno della violenza sulle donne. Ecco cosa ho risposto.
Brexit, adesso gli immigrati da far tornare a casa siamo noi
Per la serie “si è sempre a sud di qualcuno”. Gli italiani, bombardati dalle immagini degli sbarchi, hanno paura di essere invasi dagli immigrati. Con la Brexit scoprono, improvvisamente, di essere loro gli immigrati invasori da rimandare a casa. La conferma arriva indirettamente dalla lettera che un centinaio di accademici italiani, tutti docenti nelle più prestigiose università inglesi, hanno scritto al presidente del Consiglio Matteo Renzi. Nell’immaginario collettivo l’immigrato è nero, malmesso, disposto a lavorare per pochi euro, rubando così posti di lavoro. Ma l’immigrato può essere anche bianco, ben vestito e molto colto. La paura dell’immigrazione discriminata è stata una delle molle che ha spinto la vittoria dei “Leave” in Gran Bretagna. Ora la favorita alla successione dell’attuale premier Cameron, il ministro degli Interni Theresa May, ha fatto balenare l’idea che, con la Brexit, anche gli europei che lavorano e vivono da tempo in Gran Bretagna diventeranno stranieri. E così i docenti di italiano e letteratura italiana hanno scritto a Renzi chiedendogli di essere “solidale” con gli europei d’Inghilterra e di contrastare le spinte a mettere in moto celermente il meccanismo che garantirà l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. I tempi dell’applicazione dell’ormai famoso art. 50 del Trattato che regola la secessione di uno Stato membro dall’Unione non saranno, ovviamente, stabiliti dal solo Governo italiano. E sicuramente sulla decisione peseranno i timori che il virus Brexit si diffonda anche in altri Paesi, soprattutto con l’avvicinarsi del 2 ottobre, data delle consultazioni convocate in Austria e in Ungheria. E’, comunque, interessante e tragico assistere a questo ribaltamento dei ruoli: dopo le ondate emigratorie degli inizi del ‘900 e dopo la fine della Seconda guerra mondiale, gli italiani sono di nuovo nei panni degli “emigranti” non graditi. E la sensazione, quando ti tocca direttamente, è di quelle che colpisce allo stomaco.
Bangladesh, una strage vicina, una strategia di risposta da individuare
L’italiano sopravvissuto, Gian Galeazzo Boschetti, è modenese. Tra gli imprenditori del tessile uccisi c’era chi aveva rapporti di lavoro diretti con il distretto del tessile carpigiano. La strage di Dacca coinvolge anche il territorio modenese.g Effetti della globalizzazione. Anche ciò che accade in un altro continente ci tocca direttamente. E’ per questo che a chi invoca una guerra contro i terroristi non resta che chiedere “Ma guerra a chi?”. L’attentato è stato attribuito in un primo momento all’Isis, ma non è più così certo. Chi indaga in Bangladesh segue anche la pista di Al-Qaeda, come pure quella di gruppuscoli estremisti locali che si sono solo ispirati alle compagini integraliste più conosciute. Guerra all’Islam, allora? Eppure, proprio nell’attentato di Dacca, abbiamo visto all’opera il fanatismo dei terroristi che in nome di Allah si sono fatti giustizieri, ma anche il giovane studente universitario musulmano che per difendere le sue due amiche indiane si è fatto martirizzare. L’unica domanda, mi sembra, che dovremmo porci è: “Erano intercettabili? Avevano mandato segnali che potevano essere meglio e in anticipo intercettati? Era possibile, insomma, prevedere e quindi prevenire la strage?”. E allora la risposta non può essere che “maggiore intelligence”, dobbiamo cercare di meglio capire, conoscere e indagare per mettere in campo tutte le possibili azioni e strumentazioni che ci consentano di giocare d’anticipo. Difficilissimo, naturalmente. Ma non ci sono altre opzioni.
Università pubblica, quali scenari per il futuro
Oggi, giovedì 30 giugno, sono stata chiamata a intervenire al seminario nazionale dal titolo “Università pubblica, quali scenari per il futuro”. Il seminario si tiene a Roma presso il Dipartimento PDTA sulla via Flaminia
Più studenti all’università, per un sistema universitario nazionale solidale, sostenibile, smart
In tarda mattinata, la Camera ha approvato una mozione, a mia prima firma, che impegna il Governo ad assumere precise misure per non sprecare il talento e il valore di migliaia di giovani diplomati che ogni anno, per decisione autonoma o per costrizione, non proseguono gli studi o la loro formazione. Tra le misure proposte e accolte dal Governo, ci sono la stabilizzazione delle risorse del Fondo integrativo per il diritto allo studio e il loro progressivo incremento, l’istituzione di una “no tax area” per gli studenti con reddito familiare basso e la relativa compensazione per i bilanci degli atenei statali nonchè l’indicazione di interventi migliorativi per la ripartizione del Fondo di finanziamento degli atenei statali, in particolare per contrastare i divari territoriali.
Per chi fosse interessato, cliccare qui per leggere il testo della mozione approvata. La discussione in Aula aveva preso avvio diverse settimane fa: ecco il mio intervento, lungo (me ne rendo conto), ma credo di poter dire anche circostanziato, senza tema di essere smentita.
In calce, chi avesse interesse all’argomento, ma poco tempo a disposizione, pongo la mia dichiarazione di voto favorevole alla mozione.
Buona lettura!
Signora Presidente, Onorevoli Colleghi,
sono decine di migliaia i giovani diplomati che ogni anno non proseguono gli studi o la loro formazione.
Questa è una gran brutta notizia, anzi, è un errore strategico per il Paese, che spreca i loro talenti, rinuncia ad investire sulla loro intelligenza, sulla loro preparazione
È un problema non da poco poiché sappiamo che sarà il talento e non il capitale a fare la differenza per la crescita di una nazione, perché a fronte della ristrutturazione planetaria delle gerarchie economiche e una profonda trasformazione demografica, le società mature come la nostra potranno reagire solo se si baseranno sulla conoscenza, per dar vita ad una società solidale, sostenibile e smart – cioè intelligente.
Non siamo attrezzati, oggi per affrontare questa sfida.
Abbiamo la maggiore dispersione scolastica in Europa, la minore percentuale di accesso all’università, il minor numero di laureati nella fascia 25-34 anni tra tutti i paesi dell’OCSE.
Le matricole sono sempre più liceali e sempre meno diplomati delle scuole tecniche e professionali. Il che significa che non garantiamo mobilità sociale e uguaglianza sostanziale.
Eppure avere più formazione, e in particolare più laureati converrebbe a tutti: al Paese e alle singole persone.
I dati smentiscono nettamente il luogo comune della laurea “pezzo di carta”: il laureato vive più a lungo, guadagna di più, ha sofferto meno gli effetti della crisi.
Se scomponiamo i dati su scala regionale, emerge poi un problema nel problema: al Sud si registrano i minori tassi di accesso all’università, quelli più alti di abbandono precoce e di fuori corso, il minor numero di laureati, la più alta percentuale di mobilità, in particolare verso le università del Nord.
Una sperequazione che non può essere ignorata, per non assistere inermi alla perdita di un pezzo di Paese, in termini di giovani talenti inespressi e di opportunità perdute.
Chi studia questi fenomeni sa che una delle cause sta nella debolezza del nostro sistema di diritto allo studio. Solo l’8,2% degli studenti ottiene una borsa di studio. In altri paesi europei siamo sopra al 20%, fino addirittura all’80% in alcuni paesi più avanzati. Ricordo poi che solo in Italia esiste la figura dell’”idoneo non beneficiario”, presente soprattutto al Sud, cioè uno studente che ha diritto alla borsa di studio, ma non la ottiene per carenza di risorse.
L’ultima legge di stabilità il Governo ha incrementato di ben 55 milioni i finanziamenti statali per il diritto allo studio: una scelta giusta ed importante che rivendichiamo con forza. Questo risultato ora deve essere stabilizzato e progressivamente incrementato, per dare certezza e aumentare l’efficacia di questo diritto costituzionalmente garantito.
E’ uno degli impegni che chiediamo al Governo, al quale si aggiunge di emanare al più presto il decreto destinato a fissare i livelli essenziali delle prestazioni del diritto allo studio e i nuovi criteri di ripartizione tra le regioni del fondo statale, in modo che si tenga conto del reale fabbisogno regionale. Solo così eviteremo di penalizzare i giovani meridionali che vanno a studiare in altre regioni, soprattutto al Nord, dove questo diritto è più concretamente esigibile.
Le tasse universitarie pagate dagli studenti sono poi troppo alte per troppe famiglie. L’Italia è al terzo posto in Europa, quando in molti paesi europei l’istruzione universitaria è gratuita o quasi. Occorre intervenire per garantire la progressività dell’imposizione e la salvaguardia dei redditi bassi e del ceto medio impoverito.
Proponiamo quindi di valutare una no-tax area per gli studenti con reddito familiare molto basso e di compensare gli atenei per il calo di gettito. Non servirebbero risorse ingenti, ma solo orientare una piccolissima parte del bilancio dello Stato ad uno scopo da sempre trascurato: favorire un maggiore accesso all’università delle fasce deboli della popolazione.
Altro fronte sul quale intervenire è quello che riguarda le modalità di ripartizione del fondo di finanziamento ordinario alle università statali, in particolare della cosiddetta quota base che vale quasi 4,5 miliardi ogni anno.
Nel 2015 è stato introdotto il metodo del costo standard per studente in corso, apprezzabile per la valutazione dei costi degli atenei e per la trasparenza dei meccanismi di calcolo ma, a nostro avviso, questo strumento meriterebbe, dopo la prima applicazione, un attento studio per migliorarlo e rafforzarne i tratti di equità e giustizia.
Il cosiddetto addendo perequativo, ad esempio, per legge dovrebbe essere commisurato ai “differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui opera l’università”: in realtà esso pesa per una percentuale minima sul costo standard totale per le regioni meridionali e insulari, tradendo così lo spirito e la lettera della legge.
Un altro aspetto da ricalibrare è quello della numerosità ottimale dei corsi, che conteggia i soli studenti regolari in corso, in misura eguale per tutti gli atenei. Si tratta di una penalizzazione territoriale di atenei, indipendente dalla loro qualità, perché la formula non tiene dei contesti, vale a dire della densità di popolazione, dell’attitudine ad immatricolarsi in loco, del ritardo nel conseguire il titolo per motivazioni non dovute al basso impegno: è il caso degli studenti lavoratori e part-time, o di quelli costretti ad un difficile pendolarismo dalle carenze infrastrutturali, sia del Sud che del Nord.
Vede, signora Presidente, l’uso acritico di formule aritmetiche potrebbe portare alla chiusura di corsi a carattere specialistico, soprattutto nelle aree interne e marginali.
Prendiamo i corsi di laurea in geologia, un esempio non a caso per un Paese reso fragile e insicuro dal dissesto idrogeologico come il nostro: nessuno di questi corsi raggiunge al Sud la numerosità ottimale di studenti e quindi riceve finanziamenti nettamente inferiori ai costi reali. In altre parole, questo corso è per ogni ateneo del Sud un’operazione “in perdita”, ma “suicida” sarebbe per il territorio interessato, la scelta di sopprimerlo. La risposta non può essere come qualcuno ipotizza che corsi come questi si facciano solo al Nord, perché significherebbe contribuire più di quanto non accada ora alla desertificazione tanto dei giovani talenti quanto delle agenzie formative e di sviluppo territoriale rappresentate dagli atenei e dai centri di ricerca. La risposta, semmai, sta nel razionalizzare l’offerta formativa garantendo la presenza di determinati studi almeno a livello regionale ed elaborare formule di riparto dei finanziamenti che siano eque e di sostegno al contrasto delle sperequazioni sociali, economiche e infrastrutturali.
So bene di aver compiuto un errore portando il discorso su questioni tecniche. Ma l’ho fatto volontariamente: per portare l’Aula alla consapevolezza che oggi la politica universitaria è affidata a tecnicismi, per la gran parte disposti da atti amministrativi. Non facciamo l’errore di ritrarci davanti ad essi, di sottrarci al nostro ruolo di decisori. Riappropriamoci della politica universitaria e valutiamo costi culturali, sociali ed economici di ogni decisione, per realizzare un sistema universitario nazionale solidale, sostenibile, smart, proprio come la società che vogliamo. Un sistema adeguato alle sfide del futuro ma equo rispetto ai territori e rispetto agli studenti.
E’ ciò che la nostra mozione chiede al Governo di condividere. E’ per questo che invito tutti i colleghi a votarla favorevolmente
Quel capitale umano che non sappiamo sfruttare
Ancora una classifica importante in cui l’Italia non brilla. A stilarla è il World Economic Forum che, con l’edizione 2016 dello Human capital Index, prova a misurare la capacità dei singoli Paesi di valorizzare il capitale umano a propria disposizione. Il talento, non il capitale – dicono al World Economic Forum – sarà il fattore chiave che lega innovazione, competitività e crescita nel 21esimo secolo. Ebbene, l’Italia in questa graduatoria si piazza solo 34esima, decisamente dietro tutte le potenze mondiali (Giappone, Canada, Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti sono tutti nelle prime 24 posizioni). Sul gradino più alto del podio c’è la Finlandia per la sua capacità di sviluppare i talenti dei giovani. Bene anche il Giappone che dimostra di sapersi avvalere dei talenti degli ultra 55enni. L’Italia, invece, sembrerebbe essere incapace di utilizzare il suo capitale umano, giovani e adulti “persi” in egual misura. Uno spreco che mette insieme vecchi problemi, che intrecciati tra loro ci rimandano un quadro decisamente preoccupante: pochi laureati, scarsa partecipazione alla forza lavoro (immaginiamo soprattutto le donne), alta disoccupazione (aggiungiamo noi, soprattutto giovanile), mancanza di formazione sul lavoro. Pare ci salvi dal precipitare più a fondo il sistema educativo da 0 a 14 anni e la varietà di competenze dei nostri laureati. Insomma gli investimenti fatti in passato sulle scuole dell’infanzia e primarie e il “genio” italico: un po’ poco per vincere la scommessa della globalizzazione.