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"La scacchiera di Adam Smith", di Barbara Spinelli

Oltre un decennio è passato, e ancora in Italia si inveisce contro un articolo dello Statuto dei lavoratori che incendia gli animi come se possedesse vizi ferali, da cui deriverebbero tutti i mali.
Possibile che in piena recessione, con la disoccupazione giovanile salita al 32 per cento, l´infelicità e il malessere dipendano in modo così totale dalla tutela giuridica del lavoratore allontanato per falsi motivi economici, contemplata nell´articolo 18? Possibile che i pochi casi di reintegrazione dei licenziati (un migliaio in 10 anni) siano a tal punto distruttivi della ripresa, della stabilità economica, della reputazione esterna, dell´interesse di investitori stranieri? Neppure la Confindustria pare crederci, tanto che il nuovo presidente, Squinzi, considera la burocrazia ben più devastante dell´articolo 18 («Non è l´articolo a fermare lo sviluppo»). Né si può abusare dell´Europa: la lettera della Bce non parla nei dettagli dell´articolo, ma di una «revisione delle norme che regolano assunzione e licenziamento (…), stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro». Le autorità europee sono «indifferenti alle classi» (class-indifferent), ha detto un economista greco, Yanis Varoufakis: fissano obiettivi, non come raggiungerli.
Se i detrattori dell´articolo 18 sono così rigidi vuol dire che dietro la loro battaglia c´è un´ideologia forte, restia alle confutazioni. C´era in Berlusconi, ma c´è anche in quello che Ezio Mauro chiama «integralismo accademico». Una norma dello Statuto diventa sineddoche, cioè la parte che spiega il tutto: come quando si dice vela e s´intende nave. Si dice articolo 18 ma s´intende la filosofia, la genealogia, la storia dell´incandescente articolo. Con questa filosofia e questa storia si regolano i conti, e più precisamente con alcuni principi base della socialdemocrazia: lo Statuto dei lavoratori del ´70, e la concertazione praticata nei primi ´90 tra governi, imprenditori, sindacati.
Ambedue sono la riposta che la nostra classe dirigente seppe dare al ribellismo sociale, nonché al terrorismo. Ambedue generarono un Patto sociale permanente che in Italia era inconsueto, che consentì ai sindacati di preferire le riforme alla rivoluzione o ai particolarismi rivendicativi. Che li spinse a unirsi, a rendersi autonomi dai partiti. Che diede loro un´inedita padronanza di sé, del destino nazionale (Amartya Sen parla di empowerment, di potere su di sé dato agli emarginati, perché diventino cittadini responsabili).
Tutto questo è socialdemocrazia, non comunismo o consociativismo: anche se da noi il nome era altro. Chi se la prende con tale patrimonio trucca un po´ le carte. La crisi del 2007-2008 non sembra passata da queste parti, intaccando vecchi dogmi e anatemi: per molti resta una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che prodigiosamente colpevolizza non i mercati poco imbrigliati, ma le riforme socialdemocratiche e la carta d´identità dell´Europa postbellica che è stata la creazione (non a caso concepita durante la guerra) del Welfare. È così che alcune parole decadono, annerite: la concertazione, il consenso o dialogo sociale. Perfino dialettica è parola invisa a chi, certo d´avere scienza infusa, non vede che il conflitto di idee e progetti è sale della democrazia.
Vale dunque la pena ripensare gli anni ´70-´90, che produssero la variante socialdemocratica italiana che è il patto sociale permanente. Lo Statuto dei lavoratori, divenuto legge nel ‘70, viene approvato dal Senato il giorno dopo Piazza Fontana. La concertazione e la politica dei redditi furono perfezionate da Amato e Ciampi nel ´92 e ´93, quando un sistema politico infettato dalla corruzione e tanto più vulnerabile al terrorismo venne messo in riga da Mani Pulite. Salvaguardare la coesione sociale d´un Paese così provato era prioritario, e per ottenerla fu inventata non una democrazia più autoritaria ma più plurale, che del conflitto sapesse far tesoro «coinvolgendo (sono parole di Gino Giugni, ministro del lavoro di Ciampi) una platea di soggetti assai più ampia di quella uscita dal voto».
Sin dal ‘94 Berlusconi mise in questione tale eredità. La concertazione divenne il nemico, come testimonia il Libro Bianco sul lavoro presentato nel 2001 dal ministro del Welfare Maroni: la codecisione doveva finire, soppiantata da mere consultazioni. Che il bersaglio non fosse il comunismo ma la socialdemocrazia è attestato dalla biografia di Giugni: è nel partito socialdemocratico di Saragat che il padre della concertazione si fece le ossa. In un libro-intervista del 2003, Giugni disse che con lo Statuto dei lavoratori «la Costituzione entrò in fabbrica», e che la concertazione rese la democrazia più plurale, efficace: «Perché ci sia intesa bisogna partire dalla diversità», scrisse, aggiungendo che la critica della concertazione in nome delle prerogative sovrane del Parlamento era infondata, anche quando veniva da economisti illustri come Mario Monti (Giugni, La lunga marcia della concertazione, Mulino).
Gino Giugni fu gambizzato nell´83 dalle Br. Altri economisti a lui vicini, riformatori del diritto del lavoro, furono assassinati (Tarantelli, D´Antona, Biagi). Tutti erano fautori della concertazione. Ricordiamo quel che disse D´Antona, sull´articolo 18 e la reintegrazione dell´operaio licenziato per fittizi motivi economici: «Il superamento delle forme più rigide di garantismo può portare a rivedere in cosa consiste un licenziamento legittimo, ma non a sottoporre a revisione i rimedi che si offrono nei confronti dei licenziamenti non rispondenti a tale requisito». Il regolamento dei conti non è finito, con un´epoca che vide congiungersi concertazione, lotta alla corruzione, antimafia. Noi commemoriamo Falcone e Borsellino, e Tarantelli, D´Antona, Biagi. Ma volentieri ne dimentichiamo i metodi e le fedi.
Dicono che l´articolo 18 non ha da essere tabù, e certo i difetti non mancano: i processi sterminati sono fonte d´incertezza. Ma i tabù sono materia combustibile, non si spengono senza pericolo. Ci deve essere una ragione per cui all´articolo s´aggrappa anche chi – precario, disoccupato – non ne usufruisce. Anche chi, col tristo nome di esodato, non ha più lavoro e non ancora pensione. Esistono tabù civilizzatori, eretti contro future derive. I tabù non sono idoli, feticci. È colma di tabù, l´Europa uscita da guerre e dittature che fecero strame di antichi divieti (non ucciderai, non negherai giustizia alla vedova e all´orfano, ai deboli e diversi). Per Hitler era tabù intollerabile anche il Decalogo.
Gli economisti neo-liberali che denunciano mercati troppo regolati hanno forse in mente una società perfetta, che funziona senza lentezze né dubbi. Si dicono ispirati da Adam Smith. Ma Smith teorizzò la mano invisibile che in un libero mercato trasforma l´interesse egoista in pubblica virtù, restando il filosofo morale che era. In quanto tale se la prese con gli ideologi, chiamati «uomini animati da spirito di sistema». L´uomo di sistema, scrive nella Teoria dei sentimenti morali, «tende a essere molto saggio nel suo giudizio e spesso è talmente innamorato della presunta bellezza del suo progetto ideale di governo, che non riesce a tollerare la minima deviazione da esso. Sembra ritenere di poter sistemare i membri di una grande società con la stessa facilità con cui sistema i pezzi su una scacchiera.(…) Nella grande scacchiera della società umana ogni singolo pezzo ha un principio di moto autonomo, del tutto diverso da quello che la legislazione può decidere di imporgli».
Forse vale la pena rileggere Smith il moralizzatore, oltre che l´economista: l´avversario di tutti coloro che «inebriati dalla bellezza immaginaria di sistemi ideali» si lasciano ingannare dai loro stessi sofismi, e alla società chiedono troppo, non ottenendo nulla.

la Repubblica 04.04.12

"Vertice sull’articolo 18. Pressing di Bersani Monti prova a chiudere" di Nini Andriolo

Un lungo incontro riservato con Bersani, prima del vertice annunciato per la tarda serata di ieri con Casini, Alfano, Passera, Catricalà e Fornero. Monti rientra dalla Cina e tenta di dipanare la matassa dell’articolo 18 con l’obiettivo di recarsi oggi al Quirinale e inviare la riforma al Senato già nelle prossime
ore. L’appuntamento con il segretario Pd, che aveva tenuto il punto sul reintegro per i licenziamenti economici illegittimi, si annunciava come il più delicato. Il testo messo a punto nei giorni
scorsi da Elsa Fornero introduce «limature» che «complicano, e non semplificano» lo stesso progetto originario. La nuova formulazione consentirebbe il reintegro nel caso in cui il giudice dovesse accertare i motivi discriminatori del licenziamento. Al lavoratore,
in sostanza, non spetterebbe più l’onere della prova. Ma verrebbero introdotti nel provvedimento criteri macchinosi per impedire «abusi». Meccanismi che, appunto, rischierebbero di annebbiare un principio che Bersani aveva ribadito più volte: «il lavoratore deve essere pienamente padrone dei propri diritti».
Fino al pomeriggio di ieri, di fronte alle reciproche aperture tra Pd e Pdl, il governo non sembrava intenzionato a tornare sui propri passi e a sposare pienamente la tesi del «reintegro». Dopo aver decretato la «chiusura della partita» sull’articolo 18, non
era facile per il governo cedere al pressing della maggioranza e delle organizzazioni sindacali per modificare il testo nella formulazione annunciata.
IL RISERBO DURA UN ATTIMO
«Il 23 marzo hanno voluto troncare la trattativa – spiega Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil – Il risultato è che per settimane non si è avuto alcun testo di legge… ». Ieri pomeriggio Monti ha voluto incontrare Bersani, riservatamente, a Palazzo Giustiniani. Dopo un incontro con il ministro Passera, il premier ha lasciato Palazzo Chigi dall’ingresso secondario, senza scorta e senza l’abituale Lancia Thesis. Il faccia a faccia con il segretario Pd, nell’ufficio di Monti al Senato, però, è divenuto di dominio pubblico immediatamente, anche per le misure di sicurezza rafforzate nella zona di Palazzo Madama. Bersani ha ribadito la necessità di applicare il modello tedesco, prevedendo nella riforma dell’articolo 18 il reintegro anche per motivi economici. Monti avrebbe affermato che il governo non opporrebbe ostacoli se la maggioranza dovesse trovasse un’intesa in Parlamento. Durante la giornata di ieri il premier aveva incontrato, altrettanto riservatamente, anche Elsa Fornero. Il testo della riforma «dal mio punto di vista è praticamente pronto», aveva dichiarato il ministro. «Sento in giro ottimismo eccessivo sulla possibilità di risolvere tutto oggi (ieri, ndr) – scriveva su Twitter il Pd Enrico Letta – Occhio ai boomerang, poi è più complicato».

L’Unità 04.04.12

"Black list, il Pd difende il principio", di Raffaella Cascioli

Sventato il tentativo di Pdl, Lega e Idv, passa la modifica del governo. Aspettando la delega fiscale, che dovrebbe essere varata venerdì dal consiglio dei ministri, oggi il senato potrebbe votare la fiducia al decreto fiscale che passerebbe così alla camera. Non senza novità di rilievo. Scompaiono infatti le liste nere dei commercianti che non rilasciano scontrini fiscali. Tuttavia, le agenzie fiscali e la guardia di finanza, nell’ambito della pianificazione degli accertamenti fiscali, terranno conto anche delle segnalazioni non anonime di violazione tributaria, incluse quelle relative all’obbligo di emissione di scontrino o ricevuta fiscale.
In un momento in cui la lotta all’evasione fiscale è prioritaria non solo per i conti pubblici ma anche per il governo e i contribuenti onesti, è stato merito del Pd se il principio delle cosiddette black list è stato mantenuto. La norma, contenuta nel decreto fiscale licenziato ieri pomeriggio dalle commissioni bilancio e finanze del senato ed approdato in aula, è infatti il risultato della riformulazione di un emendamento da parte del governo approvato dalla maggioranza. Un via libera arrivato dopo il tentativo, respinto grazie al voto compatto del Pd, di abrogare del tutto il comma relativo agli inadempienti.
Una soppressione che non è passata visto che ci sono stati 13 voti a favore della soppressione (di Pdl, Lega e Idv) e 13 contro (Pd). «Non è passato il tentativo di sopprimere del tutto le black list – ha dichiarato Marco Stradiotto del Pd – anzi nella riformulazione del governo si è senz’altro migliorato il testo originario». Di qui la riformulazione della norma da parte del governo nella persona del sottosegretario all’economia Vieri Ceriani. «Grazie al Pd è stato sventato il tentativo di Pdl e Lega, spalleggiati dal parere positivo dei relatori e dell’Idv, di abrogare il comma sulle cosiddette black list – hanno spiegato i senatori Pd Giuliano Barbolini e Mauro Agostini – l’emendamento del governo mantiene fermo l’impegno di contrasto alle violazioni tributarie, incluse quelle relative all’obbligo di emissione di ricevute e scontrino fiscale. Il Pd è da sempre coerente rispetto all’esigenza di combattere con determinazione l’evasione fiscale».
Tra gli emendamenti approvati ieri le commissioni hanno fatto slittare di un mese, ovvero da maggio a giugno, il divieto per le pubbliche amministrazioni di pagare pensioni e stipendi in contanti oltre i mille euro, mentre una modifica, avanzata dal Pd e approvata dalla maggioranza, accorpa al 20 agosto tutte le scadenze per i pagamenti Iva senza maggiorazioni. E sull’Imu, dopo i chiarimenti sull’acconto, ieri i senatori hanno votato per un alleggerimento della tassa sull’agricoltura; niente Imu sulle case dissestate e inabitabili mentre niente da fare per gli anziani nelle case di riposo: se hanno una casa dovranno pagare la tassa.
Se, a fronte dei 650 emendamenti presentati in aula, è scontato il voto di fiducia che sarà posto dal governo, peraltro autorizzato ieri dal consiglio dei ministri, sul provvedimento si è registrata per la prima volta dall’inizio del governo Monti un singolare siparietto tra i due relatori al provvedimento, Mario Baldassarri e Antonio Azzollini. I due fin dall’inizio in aula nel presentare il provvedimento hanno parlato due lingue diverse. Con il primo che più che relatore di maggioranza appariva di minoranza. Baldassarri ha infatti annunciato la presentazione di un esposto «alle autorità competenti contro la Ragioneria e il governo per palesi falsi e giudizi politici» dopo la bocciatura dell’esecutivo e della Ragioneria sull’emendamento del Terzo polo per il calo delle tasse a famiglie e imprese. Di tutt’altro tenore l’intervento di Azzollini.

da Europa Quotidiano 04.04.12

"Emergenza crescita", di Paolo Guerrieri

Durante il suo viaggio in Asia il presidente Monti ha più volte dichiarato – con una certa enfasi – che la crisi dell’area euro possa considerarsi di fatto superata. Anche grazie al più solido sentiero di sviluppo imboccato dall’Italia. Sono affermazioni che per un verso possono non sorprendere, visto il fine propagandistico che in parte le ha animateEr. a necessario spingere alcuni Paesi asiatici a investire in Italia. Tuttavia queste affermazioni sono destinate a suscitare qualche preoccupazione se dovessero trovare conferma nelle future scelte e azioni del premier e del suo governo. Perché va precisato, innanzitutto, che non è affatto vero – purtroppo – che la crisi della zona euro sia ormai alle nostre spalle. Analisi e pareri autorevoli, provenienti anche da Bruxelles, hanno cercato di spiegare a più riprese che l’attuale fase di relativa calma è del tutto temporanea, in quanto dovuta in misura prevalente all’immensa liquidità creata dalla Banca centrale europea a sostegno del sistema bancario e, indirettamente, dei mercati dei titoli sovrani dei Paesi più indebitati. Si è guadagnato del tempo prezioso, ma restano da risolvere i due ordini di problemi, tra loro collegati, che erano e restano alla radice della crisi: l’eccesso di debiti e il ristagno della crescita in Europa. Le politiche di austerità di bilancio adottate finora, pur se corredate da politiche di riforme strutturali a livello nazionale destinate a dare frutti nel medio e lungo termine, hanno provocato una fase recessiva in tutti i Paesi periferici e un periodo di ristagno nel resto dell’Europa. A parità di condizioni c’è il rischio concreto che la recessione in molti Paesi europei duri ancora a lungo. L’agognata ripresa, di cui si parla guardando al prossimo anno, potrebbe rivelarsi così più un auspicio che una fondata previsione. Forti perturbazioni e tensioni tornerebbero in questo caso a caratterizzare i mercati finanziari e le collocazioni dei debiti di molti Paesi. Se questi sono gli scenari attesi, non c’è proprio da rilassarsi. Vanno raddoppiati, semmai, gli sforzi. In primo luogo in Europa per cercare di correggere là dove possibile, a partire dai Paesi forti, politiche troppo restrittive e inaugurare politiche di crescita, finora assenti, all’altezza delle sfide poste dalla crisi globale. Ma molto resta da fare anche nel nostro Paese che sperimenta sulla sua pelle, in misura particolarmente intensa, le ripercussioni di questo corso negativo dell’economia europea. Cifre allarmanti e tutte negative sono circolate in questi giorni sulla nostra produzione e disoccupazione, in particolare dei giovani. Non ci si può limitare a considerarle alla pari di trend ineluttabili, solo da monitorare. Se al governo Monti va riconosciuto il merito di aver avviato in questi mesi il consolidamento dei conti pubblici e varato alcune riforme importanti, gli va altresì chiesto ora di intervenire per evitare che la recessione in corso imbocchi la direzione di un pericoloso avvitamento verso il basso. Il rischio serio che stiamo correndo nelle condizioni attuali è un circolo vizioso che possa divenire a un certo punto inarrestabile e senza sbocchi, deprimendo il potenziale di crescita della nostra economia. L’esempio della Grecia, che vede oggi in lista d’attesa il Portogallo e, poi, la Spagna, dovrebbe insegnare qualcosa a questo riguardo. Va scongiurato mettendo in atto una serie di misure a rapido impatto – molte di esse peraltro assai note – che possano agire a sostegno contemporaneamente della domanda e dell’offerta. Si pensi, ad esempio, a interventi tesi ad alleviare le condizioni di restrizione finanziaria di molte piccole e medie imprese e/o dei debiti scaduti della Pubblica amministrazione. Tutti provvedimenti di cui si parla da tempo, ma che non possono essere più rinviati e vanno varati subito, se vogliamo evitare decine di migliaia di nuovi fallimenti e la perdita di altrettanti posti di lavoro. L’altro problema urgente da affrontare riguarda il nostro sistema produttivo, oggi seriamente indebolito. Il governo ha messo in programma una serie di interventi, in tema di energia e infrastrutture ad esempio, diretti a incidere sul contesto esterno in cui operano le imprese. Ma nulla per ora che riguardi direttamente le stesse imprese e il sistema produttivo. Si continua a operare in una logica di meri salvataggi, senza offrire delle alternative alle imprese in difficoltà per quel che riguarda possibilità di riconversione e ristrutturazione. È una grave carenza dal momento che la forza e solidità di un possibile rilancio della nostra economia dipenderanno anche dalla intensità e diffusione dei processi di ristrutturazione e risanamento produttivo che saremo in grado di realizzare in questa fase. Manca una qualsivoglia politica industriale – per dirla in breve – che in una situazione come questa, nel secondo Paese manifatturiero europeo, dovrebbe rappresentare una priorità assoluta. Con un disegno complessivo e due grandi obiettivi: il sostegno e la riconversione delle imprese in difficoltà; la promozione dei cambiamenti strutturali nell’organizzazione delle imprese, necessari per affrontare con successo la concorrenza futura. Questi ultimi andrebbero avviati subito, anche se avranno effetti differiti nel tempo. D’altra parte altri Paesi in Europa lo stanno facendo, inclusa la Germania. C’è dunque da augurarsi che qualcosa di simile si verifichi anche da noi, in modo che la clamorosa assenza di temi di politica industriale dall’agenda del governo possa essere in tempi brevi sanata.

L’Unità 04.04.12

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Serve la ripresa, non la politica del “Laissez faire”, di Paolo Leon

Mentre si realizzano le peggiori previsioni sulla doppia crisi, certamente causata dalle misure di austerity in Italia e in Europa, dobbiamo capire se vie d’uscita ci sono sostanzialmente precluse o se un governo di tecnici può inventarne di nuove. Oltre al fatto che senza nuova domanda, molte imprese chiudono, c’è anche la restrizione creditizia, ormai denunciata da mesi, che si incarica di allargare le difficoltà anche alle imprese che pure sono capaci di trovare domanda per i propri prodotti. Se aggiungiamo la fuga di imprese italiane e straniere verso lidi che presentano costi del lavoro più bassi mentre i distretti industriali si desertificano, sembra che il governo stia lasciando andare la produzione nazionale al suo destino. L’ironia della sorte ci dà un governo che, dovendo oscillare continuamente tra destra e sinistra, non sembra avere un pensiero proprio, e si trova a suo agio solo con la cultura del “laissez faire”. Anche nel cuore profondo del liberismo di Monti, tuttavia, qualche dubbio alberga, altrimenti non perderebbe tanto tempo a far propaganda in giro per il mondo: anche Monti sa che la disoccupazione aumenta, che il potere di poche grandi imprese non è toccato, che l’equità è come una foglia al vento se non può portare qualche indizio sulla crescita dei posti di lavoro. Nessuno però lo sta aiutando, perché dei diversi programmi di crescita possibili, nessuno sembra essere stato progettato in qualche dettaglio. Non vedo traccia di una “green economy”, almeno nel senso di un programma non solo legato all’energia, ma anche all’innovazione, alla sostituzione di importazioni (pale, pannelli, motori, ecc.), al riuso dei rifiuti e delle materie seconde. Non vedo un deciso passaggio del settore automobilistico verso carburanti meno inquinanti e a minor costo. Non vedo traccia di un’azione di obsolescenza programmata nelle imprese, dopo anni di bassi investimenti, quasi tutti su beni acquistati piuttosto che costruiti in proprio (buy, non make). Non vedo il tentativo di ricostruire produzioni ora abbandonante, dall’alluminio, all’acciaio, al rame. Sembra scandalosa l’idea di una proprietà pubblica industriale volta a ricostruire una capacità imprenditoriale privata: se è lecito nazionalizzare le banche inglesi, sarà lecito farlo anche nell’industria. Non vedo nessun “salto tecnologico” sul quale poggiare una ripresa del manifatturiero e dei servizi. Le cose sono state lasciate andare da Tremonti, e non sono riprese da Monti. Non si può opporre che altre urgenze esistevano, dalla riduzione del deficit alla lotta all’evasione, dalla riduzione delle pensioni all’eliminazione dell’art. 18. A parte ogni possibile critica alle misure finora adottate, non è vero che non si possano perseguire obiettivi brevissimi e obiettivi appena un po’ più lunghi: solo il povero Presidente Ford non poteva masticare il chewing gum e camminare nello stesso tempo. Non si può opporre che non ci sono fondi: sono gli investimenti che creano i risparmi, e non viceversa. Così, una vera politica industriale tende ad autofinanziarsi, se è fatta bene, ben pensata, e strutturata con l’accordo dell’Unione Europea. Mi si può opporre che l’Europa non vuole nessuna politica industriale, che i conservatori europei ritengono che solo risparmiando si può investire, che se aumenta la disoccupazione, è colpa dei disoccupati che non vogliono raccogliere pomodori: ma nessuno ci ha detto che dobbiamo subire tante stupidaggini. Monti ha già messo in campo la sua suadente tattica di tenere stretto l’avversario Merkel, ma si vede subito che non basta, né si possono aspettare le elezioni tedesche del 2013. Forse occorre staccarsi più duramente dall’abbraccio della Merkel e minacciare un’azione in sede comunitaria, usando il potere di veto su tutto ciò che non favorisce la ripresa. Per un governo tecnico che non si aspetta la rielezione, questa strategia è più facile e avrebbe il consenso generale degli italiani.

L’Unità 04.04.12

"La nemesi padana", di Gad Lerner

L´indecoroso epilogo della rivoluzione leghista, scivolata dalle valli del Nord nella bambagia governativa di Roma, per approdare infine sotto l´Equatore nel paradiso speculativo della Tanzania, deturpa irrimediabilmente la biografia di Umberto Bossi. Il leader politico che si pretendeva addirittura fondatore di una nazione, viene accusato ora di avere usufruito di soldi pubblici, denaro non contabilizzato, anche per sostenere i costi della sua famiglia. Il suo vero punto debole, la famiglia, da quando Bossi s´è adoperato nel tentativo di perpetuare il suo carisma per via dinastica nell´inadeguata figura del figlio Renzo. Proprio lui che aveva fatto della sobrietà popolana – un´abitazione modesta, uno stile di vita scapigliato ma rustico – la sua cifra esistenziale, per sistemare la prole ha commesso leggerezze mai digerite dalla base militante. Né giova alla reputazione di Bossi la casa in Sardegna intestata al Sindacato padano di cui è segretaria la sua “badante” Rosi Mauro.
Fine di un mito: la Lega Nord rischia di crepare per indigestione. E rimarrà scolpito come nemesi storica l´atto di ribellione compiuto da un militante dell´hinterland milanese che il 23 gennaio scorso ha presentato il suo esposto alla Procura contro l´accumulo disinvolto di risorse pubbliche, i famigerati rimborsi elettorali, da lui giustamente riconosciuto come scandaloso.
Quanto a Roberto Maroni, che ieri si è affrettato a chiedere la rimozione del già screditato tesoriere Francesco Belsito per fare pulizia nel partito, osando perfino criticare il vertice che l´aveva protetto, bisognerà pur ricordargli l´incarico di ministro degli Interni ricoperto fino al novembre scorso: possibile che Maroni non disponesse al Viminale degli strumenti necessari a verificare per tempo la spregiudicatezza dell´uomo preposto a gestire le finanze della Lega? Anziché scagliarsi contro Roberto Saviano che denunciava le relazioni pericolose intrattenute da alcuni politici nordisti con le cosche calabresi, non sarebbe toccato a Maroni per primo fare la pulizia che tardivamente invoca? Ha avuto forse da ridire Roberto Calderoli quando il Carroccio gli affiancò proprio Belsito, con l´incarico di sottosegretario, nel suo Ministero della Semplificazione normativa?
Nel Comitato amministrativo federale della Lega Nord, insieme all´indagato Belsito, siedono due grossi calibri come Roberto Castelli e Piergiorgio Stiffoni. L´8 marzo scorso dichiararono di aver esaminato accuratamente il bilancio del partito senza trovarvi alcuna irregolarità, e giustificarono così la decisione di confermare “fiducia assoluta” al presidente del Consiglio regionale lombardo, Davide Boni, inquisito per corruzione. Già avevano mentito, negando che la Lega avesse effettuato investimenti speculativi in Tanzania; investimenti per milioni di euro confermati viceversa ieri dallo stesso Belsito. Con quale credibilità i dirigenti leghisti possono proclamarsi adesso “parte lesa”?
La vetusta insinuazione di una “giustizia a orologeria” che si accanirebbe contro un partito coraggioso ritornato all´opposizione, difficilmente commuoverà un´opinione pubblica sbalordita dalle cifre accumulate grazie a una legge ingiusta. La quale permette a ristrette oligarchie che si sottraggono a ogni verifica democratica (la Lega Nord non tiene il suo Congresso federale da ben dieci anni, in barba allo Statuto) di arricchirsi spendendo molto meno di quel che incassano. E di amministrare in totale opacità queste risorse, con rendiconti irregolari. Ciò che induce la magistratura a ipotizzare per la prima volta l´accusa di truffa ai danni dello Stato, visto che si tratta pur sempre di soldi pubblici.
Francesco Belsito non è un leghista della prima ora, bensì uno spregiudicato profittatore che ha avuto accesso al “cerchio magico” nella fase degenerativa del movimento, coincisa con la menomazione fisica di Bossi e lo stringersi dell´alleanza con Berlusconi. Ma ormai il Carnevale è finito per davvero. Nessuno può sognare più un ritorno alla Lega delle origini.
Lo sa bene per primo Roberto Maroni, che ora resta in disparte nell´attesa di un passo indietro di Umberto Bossi, confidando che l´apparato leghista lo riconosca quale legittimo successore. Un´attesa che rischia però di essergli fatale: nelle settimane scorse Maroni ha commesso l´errore di offrire copertura a Davide Boni, evitando di pretenderne le dimissioni dalla carica istituzionale che ricopre. Calcolava forse che tale indulgenza lo avrebbe favorito nel presentarsi come salvatore dell´intero movimento, ma ora la sua indignazione giunge a scoppio ritardato. Il gruppo dirigente della Lega è composto da quadri giunti alla quarta, quinta legislatura, un ceto di capipartito che ormai ha ben poca credibilità quando sollecita le pulsioni dell´antipolitica nell´elettorato. Lo stesso Maroni rischia quindi di rimanere travolto dalle macerie del movimento che aspira a rinnovare.
Fa paura il vuoto politico evidenziato dagli scandali che si susseguono nel finanziamento pubblico dei partiti, da Lusi a Belsito. Nei giorni scorsi, sulla spianata di Pontida, una mano sconosciuta aveva corretto l´enorme scritta “Padroni a casa nostra” in “Ladroni a casa nostra”. De profundis. Solo che, uno scandalo dopo l´altro, un partito azzoppato dopo l´altro, anche la democrazia rappresentativa rischia di uscirne mortalmente ferita.

La Repubblica 04.04.12

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“Il mito infranto del Cerchio Magico”, di FILIPPO CECCARELLI

NON doveva essere poi così magico, questo cerchio, se per rompersi basta un pacchettino di assegni versati «per sostenere i costi della famiglia Bossi». Pranzi, cene, viaggi, alberghi, ristrutturazioni di ville, lungo l´asse gloriosa che unisce Montecarlo ai Castelli romani e i futuristi a Luigi Lusi passando per Scajola. «Difendiamo, proteggiamo e promuoviamo la famiglia» sparò a tutta pagina la Padania nel dicembre scorso. Il quotidiano invitava i leghisti a inviare «le foto più belle dei vostri figli e del nucleo famigliare in cui vivete». In foto si vedeva un giovane Bossi in bicicletta con un Trota piccolissimo, riccioluto e un po´ sgomento sul seggiolino davanti. Pochissime foto arrivarono in realtà al giornale, tanto che presto la trepida campagna fu sospesa: segno che già allora la famiglia del Capo era vista con qualche sospetto.
Pure comprensibile: la stentata maturità, l´elezione facile, e magari la successione del Trota, che «ha il nostro progetto di libertà nel sangue» l´aveva presentato il suo amico e capogruppo Reguzzoni, tra l´altro genero dell´intramontabile Speroni, che a suo tempo aveva assunto l´altro figlio di Bossi a Strasburgo. Il maggiore: Riccardone, celebrato corridore di rally sul quotidiano padano, comparso in foto con le modelle alle Maldive nei giorni degli sbarchi a Lampedusa, che a un certo punto s´era messo in testa di andare all´Isola dei famosi. E infine – che però non è la fine, dovendosi qui ricordare che anche un fratello di Bossi, grande appassionato di ciclismo, ebbe sia pure per poco il beneficio di un posto d´assistente a Strasburgo… E comunque per ora ci sarebbe ancora un altro figlio, Roberto Libertà, quello della candeggina, pure lui in odore di politica.
E allora viene in testa quella fatale noticina sul diario di Leo Longanesi (Parliamo dell´Elefante, Longanesi, 1983), in data 26 novembre 1945: «La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: Ho famiglia». Sì, certo, vale anche per il drappo con la ruota solare o sole delle Alpi che dir si voglia. E pensare che quando Umberto e la Manuela vollero finalmente regolarizzare la loro unione davanti al sindaco di Milano Formentini, la cerimonia fu messa in vendita su videocassetta per la gioia dei militanti. Che di lì a poco, in un congresso videro dei bambini giocare sul palco, ed erano sempre Renzo e Roberto: incarnazioni profetiche di un familismo che innestatosi sul ceppo pseudo-etnico e carismatico della Lega non poteva che degenerare in logiche tribali e ora, come si scopre, anche pidocchiose e patrimoniali. «Figli certi! Certi!» ringhiava il Senatùr nel 2001 contro i candidati del centrosinistra che avevano figli adottivi. Ah, la sacra famiglia!
Famiglia allargata, oltretutto, fino a comprendere nella sua cerchia figure come Rosi Mauro, sindacalista brindisina e lungochiomata, detta «la badante» per l´occhiuta passione con cui accudisce il leader malato – indimenticabile l´espressione atterrita dinanzi al rigatone che la Polverini gli infilava in bocca – e si è addirittura trasferita a vivere a Gemonio. Più altri intermittenti privilegiati: oltre al suddetto Reguzzoni, davvero molto rigido nel pensiero e nella parola, va menzionato il senatore Bricolo, molto attento ai Valori cristiani; e poi anche questo Belsito, che francamente lo risulta un po´ meno. Fino ad arrivare all´assessore lombarda Monica Rizzi, «Monica della Valcamonica», che ha ceduto il posto al Trota e gli ha fatto largo con sistemi non proprio ortodossi nella giungla leghista di Brescia e della bassa.
Questa bionda Monica, di cui sono stati messi in forse gli studi in psicologia, reca se non altro il merito di riportare a una qualche forma di magia un cerchio invero risultato piuttosto materialistico. È infatti legata a una vera maga, a sua volta in rapporti con gli extraterrestri, il che non le ha impedito di aprire un´agenzia investigativa intitolata al conte Cagliostro. E anche questi particolari sono forse da intendersi come la conferma che quando i poteri stanno per crollare, ecco che occultismi, spiritismi e altre diavolerie si prenotano un posto in prima fila.
Su di un piano più razionale il cerchio magico (l´espressione è di Bossi, 1995, però l´attribui al «mago» allora malefico Berlusconi) si spiega forse con il pessimismo, prima di tutto della Manuela, sul futuro della Lega e la salute del suo fondatore. In altre parole: il meglio è passato, occorre pensare al domani. Ieri il senatore Torri ha detto, e anche giustamente dal suo punto di vista, che Bossi «ha dato la vita in senso fisico, materiale e morale per la libertà del Nord». Ciò che sta accadendo da qualche tempo ha tutta l´aria di una specie di risarcimento, o auto-risarcimento. Come sempre succede in questi casi, il confine tra le due entità è sfuggente, ma decisivo. E ancora di più quando a stabilirlo sono i carabinieri, la Guardia di Finanza e la magistratura.

La Repubblica 04.04.12

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“Il tramonto del Senatue”, di Stefano Folli

«La Lega deve essere trasparente come un cristallo», sostiene il governatore del Veneto, Zaia. Impossibile non essere d’accordo: tutti i partiti, non solo il Carroccio, dovrebbero esserlo. Eppure la frase, pronunciata oggi, ha due significati. Può essere solo un’affermazione di maniera, di quelle senza tempo: valida dieci anni fa, due anni fa o fra tre anni.

Oppure può essere l’annuncio di una rivoluzione nel mondo leghista, quanto meno di una radicale rifondazione. Perché la vicenda Belsito dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio che il partito di Umberto Bossi, nella sua veste attuale, è ormai morente.
L’assetto di potere che lo ha retto negli ultimi anni è destinato a disintegrarsi di fronte alle accuse che colpiscono l’improbabile tesoriere e chi ne ha appoggiato le iniziative. Certo, da un punto di vista legale occorrerà attendere che l’inchiesta trovi riscontri definitivi. Ma sul piano politico quello che emerge è inquietante.
Altro che trasparenza. Lo scandalo che investe il vertice del Carroccio rivela un panorama che dire opaco è eufemistico. Sembra di assistere all’ultimo capitolo di una saga politica che già da anni era entrata in una crisi irreversibile, parallela al declino fisico del leader storico. Del resto, la falsa bandiera della secessione conteneva fin dall’inizio i germi di un’ambiguità che nel tempo non poteva non logorare la Lega, sospesa fra i falsi miti celtici evocati nel «pratone» di Pontida e una gestione spesso spregiudicata del potere concreto, quello garantito dal lungo sodalizio di governo con Berlusconi.

Sta di fatto che l’alternativa alla pseudo-secessione, cioè il federalismo fiscale e istituzionale, alla fine si è risolta in un fallimento, oltre che in un potenziale aggravio dei conti pubblici. Un gioco politico a somma zero dietro il quale, nel frattempo, si allargava la zona grigia su cui oggi i magistrati vogliono far luce.
Ieri sera tutti garantivano che Umberto Bossi è estraneo al marciume. Questo è possibile e al momento non ci sono riscontri che contraddicono tale convinzione. Ma si tratta di un aspetto persino secondario perché Bossi è un uomo provato dalla malattia che da tempo ha perso il suo antico, ferreo controllo sul partito. E in ogni caso, anche se non tocca il vecchio leader, l’indagine travolge un «establishment»: tutti coloro che fingevano di non sapere o si voltavano dall’altra parte.
Per lo stesso Maroni, che si presenta come oppositore del «vecchio regime» e uomo del domani, non sarà facile imporsi come il rifondatore del Carroccio. Perché non c’è dubbio che nel prossimo futuro la Lega avrà bisogno di essere ricostruita dalle radici, anche sul piano ideale, ripartendo dalla buona amministrazione negli enti locali. E non è detto che ci sia una classe dirigente davvero innovativa, in grado di attraversare subito il fiume. Vedremo già in maggio, nel voto amministrativo, come reagiranno gli elettori.
Quello che si coglie con chiarezza – e non riguarda solo la Lega, come è noto – è l’indecenza dell’attuale normativa sul finanziamento ai partiti. La pratica dei «rimborsi elettorali», decine di milioni di euro elargiti senza alcuna garanzia di correttezza e trasparenza, è inaccettabile per un’opinione pubblica bombardata ogni giorno dalle tristi notizie sulla recessione e la disoccupazione. «Moralizzare» dovrebbe essere la parola d’ordine trasversale dei partiti in cerca di nuova credibilità. Fare pulizia e impedire gli abusi. Ma nessun vertice finora ha affrontato questo tema. Attendiamo fiduciosi.

Il Sole 24 Ore 04.04.12

Fassina: "due modifiche e poi si. Basta automatismi, il giudice decida sul reintegro", da Il Messaggero

“Siamo autonomi dalla Cgil, se passano le nostre richieste è una buona riforma”. Mentre i leader della maggioranza, Alfano, B ersani e Casini, si incontrano con il premier Mario Monti sulla riforma del lavoro, il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina. ribadisce i paletti del suo partito per il via libera al provvedimento.
«I punti sui quali riteniamo che la riforma del governo debba essere corretta sono due. Per quanto riguarda il contrasto alla precarietà dunque la cosiddetta flessibilità in entrata: l`aumento di sei punti percentuali dei contributi per i lavoratori parasubordinati e di una parte delle partite Iva, e una loro esclusione dall`assicurazione sociale per l`impiego.

E per quanto riguarda l`articolo 18, noi del Pd riteniamo che quando il lavoratore viene licenziato senza giustificato motivo il giudice debba poter avere a disposizione la possibilità del reintegro».

Ma le ragioni economiche rientrano o no nella possibilità di licenziamento?
«Certo, quello è già previsto dalla legislazione vigente. L`assurdità sta nel fatto che si sta ridimensionando la sanzione per le imprese quando il motivo economico non sussiste.
Questo è il dato. Stiamo ridiscutendo della sanzione quando il giudice verifica che il motivo economico non sussiste. Noi riteniamo che vada mantenuto non l`automatismo come adesso ma la possibilità per il giudice di reintegrare il lavoratore, ripeto la possibilità, nel caso di licenziamento per ragioni economiche che viene ritenuto illegittimo».

Concretamente su questi due punti quali margini di manovra vede?
«Per noi sono cose fondamentali. In Parlamento faremo la nostra parte affinché queste proposte vengano accolte perché si tratta di elementi che hanno a che fare con l`interesse generale del Paese e non con quelli particolari del Pd. Da parte nostra c`è la volontà di portare avanti la riforma in tempi rapidi».

E se questi due punti vengono accolti, il Pd vota la riforma anche se la ,Cgil dovesse dire di no?
«Per noi si tratta di due cambiamenti che ci consentirebbero di dire che l`intervento del governo rappresenta una buona riforma del mercato del lavoro».

Il Messaggero 04.04.12

"Quella trappola dei voucher per la baby sitter", di Donata Gottardi*

Non c’è solo l’articolo 18. La discussione sulla riforma del mercato del lavoro deve riguardare anche le altre parti. Quella dedicata agli «interventi per una maggiore inclusione delle donne nella vita economica» tradisce clamorosamente l’obiettivo. Non la prima parte, che contiene un convincente intervento sulle dimissioni in bianco: opera mediante estensione di meccanismi già esistenti, come la convalida, e si applica correttamente a tutti i lavoratori. Questa pratica sleale nata per liberarsi delle lavoratrici quasi sempre in connessione con la maternità, si sta estendendo ai lavoratori con la evidente finalità di rendere irrilevante la disciplina di tutela del licenziamento, qualsiasi essa sia, aggirandola a monte. È un atto dovuto per evitare frodi alla legge e dovremmo chiederne l’inserimento nella parte sulla revisione della disciplina del licenziamento individuale. Gli altri due punti solo a una lettura superficiale possono sembrare soddisfacenti. Al primo è stata dedicata molta enfasi nella presentazione alla stampa. Si è detto che finalmente nel nostro Paese, in anteprima rispetto al resto dell’Unione europea, abbiamo il congedo di paternità. Il congedo di paternità, modello europeo? No. Sono 3 giorni retribuiti che il padre lavoratore deve obbligatoriamente prendere al momento della nascita o entro i 5 mesi successivi. Intanto speriamo spettino anche in caso di adozione. Poi speriamo che vengano riconosciuti come diritto e non come obbligo, dato che, per un periodo così limitato, il lavoratore non dovrebbe essere esposto al rischio di ritorsioni. E non qualifichiamo questo intervento come uno dei modi per la redistribuzione dei ruoli familiari. Anche se questi 3 giorni fossero fruiti non per festeggiare la nascita, ma per condividere la cura in un momento di difficoltà, sarebbero un periodo insufficiente per un aiuto effettivo. Non a caso il Parlamento europeo chiede il congedo di paternità di 15 giorni. Il secondo punto è preoccupante: ha come obiettivo quello di spingere la madre lavoratrice a tornare subito al lavoro, quando il figlio ha da 3 a 4 mesi, ottenendo in cambio, per 11 mesi, un generico voucher per una baby-sitter individualmente scelta. È evidente la supremazia del mercato e la sudditanza all’imperativo della continuità del lavoro, che mette all’angolo la promozione dell’allattamento al seno, l’importanza del rapporto fisico ed affettivo nel primo anno di vita, il rientro al lavoro mediato dalla riduzione di orario. Ma il voucher è in alternativa a cosa? Si parla di «congedo facoltativo di maternità». Che non esiste. Che si chiama «congedo parentale» e che, appunto, è un diritto della madre e del padre. Così si torna indietro di decenni. Altro che redistribuzione dei ruoli! Sarebbe invece proprio sul versante dei congedi parentali da intervenire: per renderli più equilibrati nella loro utilizzazione tra madri e padri lavoratori; per renderli più convenienti, dato che l’indennità è bassa (30% della retribuzione) o addirittura inesistente (dopo 6 mesi); per renderli meno esposti alle discriminazioni, radicate soprattutto quando a fruirne sono i padri lavoratori; per renderli fruibili anche nei lavori precari e instabili. Invece il dubbio, non tanto infondato, è che si voglia scambiare l’intero pacchetto di congedi parentali con il voucher per baby-sitter. E a tradire questa intenzione sono gli 11 mesi concessi, che sono esattamente la durata massima del congedo parentale per la coppia di genitori. E cosa conta che la normativa europea li consideri un diritto, non rinunciabile e in parte nemmeno trasferibile tra i due genitori lavoratori? E cosa conta che i congedi parentali possano essere fruiti frazionatamente entro gli 8 anni di vita del figlio? L’importante è che la madre torni al lavoro, monetizzi il congedo con un voucher di assistenza individuale. Ebbene, sì! Il 2012 assomiglia molto al passato, , un passato così risalente che ormai quasi solo gli storici (le storiche!) della materia possono ricordare.

*Professore ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Verona

L’Unità 04.04.12