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"Il lodo Bersani sull´articolo 18 più vicina l´intesa partiti-governo", di Giovanna Casadio

Al ritorno dall´Asia, Monti trova un clima politico cambiato. Sull´articolo 18 e la riforma del mercato del lavoro, sembra riprendere il dialogo. E il Professore avrà una ragione in più per essere ottimista, come ha già dimostrato a Boao, ultima tappa del suo viaggio in Estremo Oriente. Davanti a una platea di manager, economisti, politici e al vice primo ministro cinese Li Keqiang, Monti ha garantito: «La crisi dell´eurozona è stata superata, l´Italia è più solida: sono venuto qui a dirvi che potete rilassarvi e tornare a investire in Europa». Tesse anche le lodi della riforma del mercato del lavoro italiano che introduce, dice, una modernizzazione e «la flessibilità per le aziende di gestire la forza lavoro». Il premier ha convocato il consiglio dei ministri. L´articolato della riforma potrebbe essere pronto oggi.
Al centro del dialogo c´è l´ipotesi di una modifica del testo finora proposto dal governo su un punto in particolare: la possibilità di reintegro, in base all´articolo 18, anche per chi è licenziato per ragioni economiche. La decisione tra reintegro e indennizzo dovrebbe essere in ogni caso affidata al giudice. Bersani, segretario del Pd, l´ha ribadito in un colloquio con Repubblica, appellandosi a premier e partiti di maggioranza: «Cambiamo insieme l´articolo 18». Si può fare in fretta, entro maggio. Alfano raccoglie e apre al Pd: «Fare la riforma insieme è meglio che farla separati. Il problema è cosa succede se la Cgil dice no. La nostra preoccupazione è che l´agenda alla fine la faccia il sindacato e non il governo».
E la Cgil il suo “no” lo ripete. Sempre sulla stessa questione, ovvero il tema del reintegro e dell´adozione del “modello tedesco”. Susanna Camusso non abbandona questa trincea di tutela dei lavoratori, senza la quale, ricorda, lo sciopero generale sarà inevitabile: «Allo stato, faremo uno sciopero generale. Da quanto ho sentito in Asia bisogna aiutare Monti a riflettere». Non c´è alcuna possibilità – ripete – che la riforma del lavoro passi così com´è: «È indigeribile, perché è stato tolto il reintegro. Non si può dire che il paese ha bisogno di potere licenziare in modo illegittimo i lavoratori». Lancia un paio di stoccate al governo che, invece di fare i compiti a casa, vuole fare «il primo della classe». La leader Cgil usa toni soft, però polemizza anche con Napolitano. «Una questione di buon senso l´articolo 18 e gli esodati», tiene il punto Dario Franceschini.
La settimana insomma è decisiva per uscire dall´impasse sull´articolo 18. Casini, leader del Terzo Polo, è convinto che una mediazione si troverà, che si può fare in fretta – e perciò votare in prima lettura in Parlamento la riforma prima di maggio. Sul reintegro se ne lava le mani: «Lo deciderà il governo». Bersani torna sull´intesa che si può trovare prima delle amministrative di maggio: «Io ci credo». La direzione della modifica non può essere quella di «ricette esotiche, ma di esperienze che assomiglino ai modelli tedesco e danese». Il segretario Cisl, Bonanni, rilancia a sua volta: «Sull´articolo 18 la soluzione migliore è il modello tedesco secco». Opposizione a oltranza della Lega (che pensa a una petizione contro la riforma) e dell´Idv. Per Di Pietro sull´articolo 18 il governo è «superbo e arrogante».

La Repubblica 03.04.12

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“Ecco come cambia il processo del lavoro decisioni in due mesi e udienze ad hoc”, di Liana Milella

Tribunali obbligati a riservare una quota di udienze alle controversie lavoratori-aziende
Tra i vari gradi di giudizio al massimo sessanta giorni di intervallo. Una dozzina di articoli. Per riscrivere completamente il processo del lavoro. I suoi tempi, le sue scansioni, le sue regole. E alla fine decidere il destino del lavoratore e di chi vuole licenziarlo con o senza una sufficiente ragione. Dodici articoli che venerdì scorso il ministro della Giustizia Paola Severino ha mandato alla sua collega del Lavoro Elsa Fornero. Articoli che diventeranno parte integrante della riforma dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Una piattaforma per mettere le ali al processo del lavoro. Oggi quel processo è una vecchia locomotiva stanca e sbuffante. Di solito servono dai tre ai quattro anni per ottenere una sentenza di rigetto o di reintegro in una causa di lavoro. Da domani lo stesso rito diventerà un Freccia rossa: step obbligati, tra primo, secondo e terzo grado, con 30 o 60 giorni al massimo tra uno e l´altro per ricorrere e far decollare la nuova fase del dibattimento.
Hanno impiegato un paio di riunioni, al ministero della Giustizia, per disegnare il nuovo rito. Allo stesso tavolo si sono seduti i tecnici di Severino e quelli di Fornero. A guidarli Salvatore Mazzamuto, all´università di Palermo docente di diritto privato, ma da tempo impegnato in via Arenula. Prima con Angelino Alfano come suo consigliere giuridico, adesso come sottosegretario con Severino. Concentrato soprattutto sulla riforma del processo civile. È lui ad aver messo l´imprinting alla bozza dei 12 articoli.
Nei quali svetta una prima novità. D´ora in avanti, in ogni tribunale, sarà il presidente a decidere che i processi in tema di licenziamento dovranno avere quello che a via Arenula chiamano «spazio dedicato». Ogni settimana, a quei dibattimenti dovranno essere garantiti un numero sicuro e certo di ore in modo da poter essere espletati. Questa è una condizione imprescindibile, senza la quale qualsiasi innovazione o pretesa accelerazione rischia di finire nel nulla. Nessun rinvio, ma certezza che ogni settimana quei processi si faranno.
Ma ecco il nuovo rito. Se oggi il lavoratore ricorre e deve aspettare mesi e anni per conoscere la sua sorte, domani si vedrà garantito un procedimento sommario che, spiegano le fonti dei due ministeri, «ha preso in prestito come modello quello dell´articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, nel quale si affronta il capitolo del ricorso al giudice del lavoratore a causa di comportamenti anti-sindacali messi in atto dal datore di lavoro». Lì si parla di una risposta della giustizia «con decreto motivato e immediatamente esecutivo». Se palazzo Chigi, nella riscrittura dell´articolo 18, adotta in toto la proposta di via Arenula, anche per il licenziamento la magistratura fornirà una decisione immediata. Ci sarà un´ordinanza di accoglimento o di rigetto.
Ovviamente le parti, a questo punto, avranno davanti a loro il dibattimento in aula, perché potranno opporre le loro ragioni. Ma dovranno farlo in tempi rapidissimi perché – e qui sta l´altra novità importante contenuta nel nuovo rito – non ci saranno più di 30 (o da stabilire se 60) giorni per andare davanti al tribunale. La stessa scansione rapida regolerà il reclamo in appello e alla fine il ricorso in Cassazione. Una corsia preferenziale cui corrisponderanno dei tempi stringenti. Tutto ciò, ovviamente, comporterà un organico delle sezioni e dei giudici del lavoro del tutto rivisto. Ma per i conti, tribunale per tribunale, c´è ancora un po´ di tempo.

La Repubblica 03.04.12

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“Articolo 18, l’accelerazione di Bersani cambia il quadro. Oggi Monti decide”, di Mariantonietta Colimberti

Drammatici dati Istat sull’occupazione: quella giovanile è arrivata al 31,9%, è il tasso più alto dal 2004. Ha ritenuto che il partito più legato al mondo del lavoro tra le forze che sostengono il governo dovesse mettere in campo un’iniziativa per dare l’abbrivio alla riforma prima che arrivi in parlamento e anche per sgombrare il terreno della campagna elettorale da una potenziale mina pronta a esplodere sull’esecutivo. Così Pier Luigi Bersani, nell’intervista di ieri a Repubblica, ha compiuto uno sforzo politico e di assunzione di responsabilità, chiedendo a tutti di fare altrettanto. E di farlo in fretta, perché il disegno di legge possa essere approvato in un ramo del parlamento prima del 6 maggio, quando si terrà il primo turno delle elezioni amministrative.
In sostanza, il segretario dem ha affermato alcuni concetti chiari: primo, l’articolo 18 si può cambiare, ma va fatto in modo «comprensibile» per il paese, con una soluzione che «assomigli ai modelli migliori, il tedesco e il danese». Quindi, andrebbe immaginato subito un percorso che preveda il reintegro in caso di licenziamento non giustificato dalle motivazioni economiche. Secondo, si possono esaminare alcune richieste del Pdl sulla flessibilità in entrata.
Si sa che i paletti stringenti contenuti nel testo Fornero, a proposito di alcune tipologie di contratti precari, preoccupano non poco Confindustria ma soprattutto i piccoli imprenditori: a loro si potrebbe venire incontro, anche in considerazione della grave crisi economica in atto. Ma quale sarebbe il soggetto attuatore della modifica? Bersani sa che non ci sono grandi chance che il testo che Monti esaminerà oggi prima di portarlo al Quirinale possa contenere la parola “reintegro” là dove si parla di licenziamenti economici.
Per il presidente del consiglio e per il ministro Elsa Fornero significherebbe fare marcia indietro su un principio che ritengono importante nel complesso della riforma. Il segretario Pd pensa piuttosto a una rapida consultazione delle forze sociali e a un accordo tra governo e parlamento per la definizione di un emendamento. Le prime reazioni del Pdl, ieri, non sono state di chiusura, anche se Angelino Alfano ha espresso il timore che il Pd si faccia dettare l’agenda dalla Cgil, beccandosi la replica secca di Bersani.
Contraria Emma Marcegaglia: «Mi preoccupa – ha detto – il fatto che si era trovato un accordo tra sindacati e imprese e anche i principali partiti avevano condiviso questa scelta. Adesso improvvisamente si vuole cambiare la parte che riguarda la flessibilità in uscita. Chiaramente il parlamento è sovrano, ma la riforma così si reggeva. Se si cambia l’articolo 18, si cambia tutto».
Il segretario dem, però, anche ieri pomeriggio, visitando la Fiamm Energy Oasis di Lonigo (ultima tappa del suo “viaggio in Italia”), si è detto convinto della possibilità di un accordo politico. Il problema semmai, dicono i maligni, è se lo scambio possibile per il Pdl debba avvenire non tanto sulla flessibilità in entrata, quanto su altre questioni scottanti, come Rai e giustizia. Decisamente favorevole a un accordo subito Pier Ferdinando Casini: «Sarebbe irresponsabilità allo stato puro tenere aperta due mesi la partita ». Sull’articolo 18, per il leader dell’Udc «si sentiranno i partiti, si sono sentite le parti sociali, poi il governo assumerà le decisioni e noi lo sosterremo».
E ieri i nuovi dati diffusi dall’Istat sull’occupazione hanno portato benzina a coloro che ritengono che sulle questioni di lavoro e sviluppo non ci sia un minuto da perdere: a febbraio il tasso di disoccupazione è arrivato al 9,3 per cento, il più alto dal gennaio 2004; quella giovanile è al 31,9, anch’essa in crescita; nel Mezzogiorno si registra un picco del 49,2 tra le giovani donne. Disoccupazione in salita anche nell’Eurozona: a febbraio è arrivata al 10,8 per cento, il massimo da quasi quindici anni, tornando ai livelli di maggio- giugno 1997.
È tornato a spingere sulla necessità che la riforma sul lavoro arrivi a compimento il capo dello stato. In conferenza stampa da Amman, ha ricordato il caso risolto dell’Alcoa: «Se avesse chiuso, altro che licenziamenti da modifica dell’articolo 18. Bisogna fare presto, il disegno di legge sul mercato del lavoro sarà presentato entro pochi giorni. Domani sera (oggi, ndr) vedrò lo stato dell’arte».

da Europa Quotidiano 03.04.12

Università, prof italiani tra i più pagati "Ma quanto è difficile salire in cattedra", di Corrado Zunino

C´è prof e prof. E ci sono le loro buste paga. L´insegnante di scuola media e superiore guadagna poco. Tardi e poco. Il docente universitario italiano no. Guadagna in là con gli anni, diventa professore ordinario sulla soglia dei cinquanta, ma guadagna bene. Esce dal circuito ai settant´anni con uno stipendio netto tra i 5.000 e i 5.500 euro. In un´ipotesi virtuosa, ovvero stipendio base più 14 scatti d´anzianità e 5 ulteriori avanzamenti automatici, un cattedratico d´ateneo che ha esercitato a tempo pieno si congeda con 5.468,53 euro netti. Salari che in altre categorie di pari livello appartengono al passato. Nelle università resistono le buste paga pesanti: la riforma Gelmini non le ha intaccate.
Rivela tutto questo, o meglio lo ricorda, un´inchiesta diventata libro – “Paying the professoriate” – realizzata da Philip Altbach e quattro colleghi del Center for international higher education. Hanno fatto una comparazione mondiale di compensi, contratti ed eventuali benefit. I Paesi presi in esame sono 28 (otto europei) e i risultati sono stati resi omogenei sulla base del costo della vita locale e dell´inquadramento delle figure professionali. Tutte le università considerate sono pubbliche, le private non pubblicano i “salary data”. Bene, l´Italia ha i professori meglio pagati al mondo dopo il Canada. Nel dettaglio, siamo al secondo posto (dietro il Canada) nella classifica dello “stipendio lordo medio”, che da noi significa un po´ più di 3.300 euro al mese (tra i sette e i nove scatti d´anzianità). Siamo terzi nel “top level” (5.468,53, appunto). Scendiamo, invece, nella paga d´ingresso: decimo posto insieme a Olanda e Argentina (il Canada è sempre primo).
L´analisi scopre cose curiose. Le università messicane per combattere la fuga dei cervelli verso gli Stati Uniti hanno previsto per i docenti un bonus per il primo matrimonio e a Natale bottiglie di cidro e tacchini congelati. Altre rivelazioni, basate sui valori tabellari offerti dai ventotto ministeri dell´Istruzione, sono di sostanza. Sudafrica, Arabia Saudita e Malesia, per esempio, hanno “top wages” più alte degli Stati Uniti. Gli Usa, e come loro Germania, Israele e Giappone, «faticheranno ad attrarre giovani talenti se non alzeranno gli stipendi più alti». La Nigeria, d´altronde, paga i suoi insegnanti più o meno come Israele. Le recenti riforme tedesche hanno tagliato il 20-30% della parte fissa delle mensilità dei docenti, ma hanno aperto ai bonus basati sulle performance. In America Latina sette insegnanti su dieci sono part-time.
In molti Paesi le differenze tra professori d´eccellenza e la larga platea intellettuale degli atenei sono più alte che da noi. In molti stati, anglosassoni soprattutto, la paga è uno dei motivi d´attrazione in mano alle università, da noi gli stipendi sono decisi dal ministero. Nei Paesi di lingua inglese i docenti sono pagati per i periodi di insegnamento effettivo: 4 mesi, 9 mesi, poi devono andarsi a cercare consulenze altrove. Da noi, lo stipendio si prende tutti i mesi – anche in estate, con le università chiuse – e a Natale invece del tacchino arriva la tredicesima.
L´Ocse, che compara le scuole e le università di tutto il mondo industrializzato, non si era mai spinto a confrontare gli stipendi. Ora un libro colma il vuoto. E Piero Graglia, ricercatore della Statale di Milano in attesa di diventare “Po”, spiega: «Gli stipendi universitari possono essere anche buoni, ma in Italia ne potrai godere ben oltre i cinquanta».

La Repubblica 03.04.12

"L´altra faccia della riforma", di Chiara Saraceno

Ha ragione la ministra Elsa Fornero a lamentarsi di un´attenzione eccessivamente riduttiva rispetto al complesso della riforma. Allargando lo sguardo agli altri punti, aumenta tuttavia il numero degli aspetti problematici. Alcuni sono stati ricordati anche su questo giornale, primo fra tutti la persistente esclusione di molti lavoratori precari da ogni forma di ammortizzatore sociale. Ma ce n´è uno che è passato stranamente sotto silenzio. Riguarda il punto 7 della bozza del governo, dal titolo “interventi per una maggiore inclusione delle donne nella vita economica”. Esso prevede tre distinti interventi.
Il primo, l´unico da accogliere senza riserve, riguarda la messa a punto di procedure che contrastano il fenomeno incivile e illegale delle cosiddette dimissioni in bianco. È una questione che riguarda sia i lavoratori sia le lavoratrici, ma che colpisce soprattutto queste ultime in connessione con la maternità.
Altamente problematiche, nel merito e per il messaggio che mandano, sono invece le altre due proposte. Si tratta del congedo di paternità obbligatorio e del voucher per babysitter da utilizzare nei primi undici mesi di vita di un bambino in alternativa alla fruizione del congedo genitoriale. È difficile davvero capire come tre giorni distribuiti in un arco di tre mesi favoriscano quella condivisione dei compiti di cura che sta a cuore alla ministra. La proposta approvata dal Parlamento europeo un anno fa (non la direttiva sui congedi genitoriali cui la bozza impropriamente si riferisce) parlava di almeno 15 giorni. In un caso e nell´altro, se si vuole davvero incentivare e consentire la condivisione, occorre intervenire sui congedi genitoriali, che già ora sono aperti anche ai padri. Sono pochi i padri che ne prendono almeno una parte, con ciò riducendo di fatto il tempo complessivo teoricamente disponibile per dedicarsi a un bambino piccolo: dieci mesi complessivi nei primi otto anni di vita del bambino, di cui nessuno dei genitori può prendere più di sei, aumentabili a undici se il padre prende almeno tre mesi.
I motivi di questa scarsa fruizione da parte dei padri sono diversi, culturali, ma anche legati alla precarietà dei contratti di lavoro. Anche quando si ha diritto al congedo genitoriale, il timore di non vedersi rinnovare il contratto, o di essere tra i primi a venire licenziati per motivi economici, fa ritenere inopportuno avvalersene (una esperienza anche di molte donne). Gioca a sfavore anche l´esiguità dell´indennità: il 30 per cento dello stipendio (rispetto all´80 per cento del congedo di maternità), solo nei primi sei mesi e solo se fruiti nei primi tre anni di vita del bambino.
In un contesto di risorse scarse e di preoccupazione di non aumentare il costo del lavoro, una riforma a costo zero efficace sarebbe l´introduzione della possibilità di utilizzo del congedo in part time orizzontale. Consentirebbe a madri e padri di combinare lavoro (di fatto a tempo parziale) e congedo, eventualmente alternandosi, senza vedersi eccessivamente ridotto il reddito ed insieme avendo tempo per occuparsi del bambino nei primi anni di vita.
È la direzione che hanno preso molti Paesi europei, compresi quelli, come Svezia, Norvegia, Germania, che negli ultimi anni hanno addirittura allungato il periodo di congedo genitoriale ben compensato, per consentire ai bambini di avere un tempo maggiore di cure e tempo dei genitori.
In direzione opposta sembra andare l´altra misura prevista dal progetto del governo nel campo delle politiche di conciliazione, i voucher per babysitter commisurati al reddito familiare. Essa sembra infatti diretta ad incoraggiare le madri a tornare al più presto al lavoro, senza fruire del congedo genitoriale (tantomeno incoraggiando i padri a prenderlo) e senza neppure garantire loro e ai loro bambini servizi adeguati sul piano quantitativo e qualitativo. Mentre tutte le evidenze empiriche sottolineano l´importanza della qualità della cura e delle relazioni nel primo anno di vita, disinvoltamente si suggerisce che le cure materne/paterne possono essere indifferentemente sostituite dalle cure di una babysitter, comunque scelta/trovata, con qualunque competenza. Un brutto passo indietro e un uso sbagliato delle poche risorse a disposizione.

La Repubblica 03.04.12

"A tre anni dalla riforma, classi di concorso provvisorie", di Mario D'Adamo

Il ministero conferma: anche il prossimo anno alle superiori . Ogni scuola decide le confluenze in base agli indirizzi. Con danni imprevedibili per gli abilitati esclusi. Attenzione ai cosiddetti insegnamenti atipici, quelli che, in seguito alla riforma degli ordinamenti delle scuole superiori, possono confluire in più d’una delle vecchie classi di concorso (d.m. n. 39 del 30 gennaio 1998). Poiché parallelamente alla riforma degli ordinamenti non sono ancora state introdotte le previste nuove classi di concorso, sono le scuole, dirigenti scolastici e collegi dei docenti, a sceglierne una. Se l’operazione non viene svolta correttamente e rigorosamente si possono determinare inconvenienti al funzionamento delle scuole (discontinuità, ad esempio) e danni al personale docente in attesa di nomine, che potrebbe anche non ottenere l’incarico. Anche per il prossimo anno scolastico 2012/2013, il terzo della riforma, la definizione degli organici degli istituti d’istruzione secondaria di secondo grado, licei e istituti tecnici e professionali, e le conseguenti operazioni di mobilità del personale docente devono fare riferimento alle vecchie classi di concorso, integrate e modificate per farvi corrispondere discipline e ambiti dei nuovi ordinamenti dei primi tre anni corso delle scuole superiori riformate nel 2010. Il ministero, ancora una volta con una semplice nota, fornisce indicazioni per una corretta confluenza di tali discipline e insegnamenti, allegando anche tabelle esplicative relative a licei e istituti tecnici e professionali (nota del 29 marzo 2012, prot. n. 2320). Le tabelle sono meramente dichiarative dell’esistente, elencano le classi di concorso nelle quali confluiscono le varie discipline e insegnamenti e che in certi casi possono essere più d’una. La confluenza nell’una o nell’altra è decisa a livello di istituzione scolastica, deve essere relativa all’indirizzo presente nella scuola e deve salvaguardare prioritariamente la titolarità dei docenti, l’ottimale utilizzazione delle cattedre e, buona ultima, la continuità didattica. Nel caso vi sia più di un titolare di classe di concorso in cui possono confluire uno o più insegnamenti atipici si darà la precedenza ai docenti, e relativa classe di concorso, con maggior punteggio nella graduatoria unificata d’istituto; se non vi sono titolari, l’insegnamento sarà attribuito prioritariamente alle classi di concorso in esubero a livello provinciale. In mancanza di queste situazioni (titolarità, continuità, presenza di più titolari, classi di concorso in esubero…) il dirigente scolastico, acquisito il parere del collegio dei docenti e d’intesa con il direttore regionale dell’istruzione, attribuirà i contributi orari degli insegnamenti atipici a una classe di concorso coerentemente con le indicazioni del piano dell’offerta formativa e assicurando un’equa ripartizione dei posti tra le varie classi. Non bisogna dimenticare, infatti, che è su questa base che poi si dispongono le supplenze annuali e le immissioni in ruolo e se una classe di concorso viene «dimenticata» gli abilitati aspiranti a un contratto di lavoro a tempo determinato o indeterminato possono venirne danneggiati. Com’è accaduto l’anno scorso, ricorda infatti il ministero, quando le ore di italiano, latino, storia e geografia sono generalmente confluite nella 51/A (materie letterarie e latino nei licei e nell’istituto magistrale) a danno della 52/A (materie letterarie, latino e greco nel liceo classico). Così solo in limitati casi gli abilitati della 52/A hanno avuto la possibilità di essere chiamati per le supplenze annuali. Le vecchie classi di concorso si sarebbero già dovute razionalizzare e accorpare, entro un anno dall’entrata in vigore del decreto legge n. 112/2008, con decreto del Presidente della repubblica «per una maggiore flessibilità nell’impiego dei docenti». Ora esse necessitano di un’urgente rimodulazione, esplicitamente richiesta dai tre decreti del 2010 di riordino delle superiori. Ma siamo ormai alle soglie del terzo anno di avvio della riforma, la rimodulazione non è alle viste e ci si deve continuare a trastullare con vecchie, barocche operazioni.

da ItaliaOggi 03.04.12

"Pallottole, incendi e silenzio mi hanno distrutto l´anima ora torno a fare la farmacista", di Attilio Bolzoni

Non posso dire di essere stata lasciata sola. Però alcune istituzioni, alcune associazioni non mi hanno sostenuta
Non mi sento più libera di fare serenamente politica. E sì, ho anche un po´ di paura. Voglio essere lasciata in pace. Chi sceglie il sindaco in un piccolo paese della Calabria? «I cittadini, solo loro». E i cittadini di Monasterace chi hanno voluto per due volte? «Me». E allora perché lei si dimette, perché se ne va? «Perché dopo gli attentati non potrei più fare serenamente il mio lavoro, perché qualsiasi decisione dovessi prendere domani mattina non mi sentirei più libera come prima». Paura? «Sì, anche un po´ di paura». Comincia così una chiacchierata con Maria Carmela Lanzetta, il sindaco di Monasterace – il comune più a nord della provincia di Reggio sullo Jonio, 3500 abitanti, i famosi Bronzi di Riace ripescati nel mare di fronte – che ha lasciato poltrona e Comune dopo le quattro fucilate sparate tre notti fa contro la sua auto. Solo l´ultimo attentato, l´ultimo avvertimento.
Fucilate di ‘ndrangheta?
«Non lo so, non ho proprio idea di chi sia stato. Non sono reticente, non lo sono mai stata ma davvero non capisco da dove può venire l´intimidazione. In Comune, negli ultimi mesi abbiamo fatto solo cose normali, normalissime: abbiamo fatto pagare l´acqua a tutti, anche ai morosi; abbiamo chiesto equamente i tributi a tutti; abbiamo cercato di far funzionare al meglio gli uffici dell´amministrazione. Niente di più e niente di meno».
È questa normalità che ha scatenato tanta violenza?
«E non è la prima volta. All´inizio dell´estate dell´anno scorso hanno dato fuoco alla mia farmacia. E la farmacia di Monasterace è della nostra famiglia dal 1954. Io, mio marito e i nostri due figli siamo vivi per miracolo. Scampati alle fiamme e al fumo. Era il 26 di giugno, me lo ricordo come se fosse ieri, il giorno del Corpus Domini. In quattro, con il volto coperto, hanno versato benzina dappertutto. Le telecamere dell´impianto di videosorveglianza li hanno ripresi mentre appiccavano l´incendio. Ero stata rieletta sindaco da una trentina di giorni appena. Poi sono passati 9 mesi e sono arrivate quelle fucilate. Dopo questo episodio non posso più andare avanti, non ce la faccio. Nel mio paese non ci sono più le condizioni per fare il sindaco con tranquillità».
Magari domani ci ripensa e torna.
«No, ormai ho deciso. Torno, ma torno a fare la farmacista. Così una volta per tutte mi lasceranno in pace».
È proprio sicura? Che cosa le ha consigliato suo marito? Cosa dicono i suoi figli?
«A casa mia mi hanno lasciato libera di decidere. E adesso io ho deciso: basta. Non posso combattere a mani nude, me ne vado perché non posso fare fino in fondo il sindaco di Monasterace. Senza libertà e senza sicurezza un sindaco non può fare il sindaco».
Anche la sua giunta ha gettato la spugna in massa? Cosa pensano di queste dimissioni i suoi assessori?
«La nostra era una lista civica di centrosinistra, tutti meravigliosi gli assessori, cinque donne e quattro ragazzi, la più vecchia ero io che ho 57 anni. Negli ultimi mesi abbiamo portato avanti tutti insieme una straordinaria battaglia per il lavoro femminile. Più di settanta donne che lavorano nelle serre e che da quasi due anni non vengono pagate. Abbiamo incontrato pure la Camusso perché la Cgil era stata buttata fuori dalle serre, ho coinvolto l´ufficio provinciale del lavoro, il prefetto di Reggio Calabria. Ho fatto quello che dovevo fare: il sindaco del mio paese».
Un sindaco solo?
«No, sola sola mai. Anche dopo le dimissioni il paese mi ha abbracciato. Hanno organizzato una fiaccolata per le strade per manifestarmi solidarietà. Davanti a casa mia da due giorni c´è la fila per farmi visita, per starmi vicino. Mi ha chiamato anche il segretario del mio partito, Bersani. Domani forse viene don Luigi Ciotti quaggiù in Calabria, Libera mi è stata sempre stata accanto in questa straordinaria avventura. E anche la chiesa locale. Sola non mi hanno lasciata, però qualcuno che doveva far sentire la sua voce in questi giorni è rimasto in silenzio».
Chi, per esempio?
«Certe associazioni, certe istituzioni».
Sei anni di battaglie per la legalità, per i diritti, per il lavoro: davvero tutto deve finire così?
«Non ho un´altra via d´uscita, lo ripeto: torno a fare la farmacista»
Non crede di deludere i suoi cittadini con questa scelta di andarsene?
«Forse, ma mi hanno distrutto l´anima. Proprio non ce la faccio. Anche perché noi avevamo degli obiettivi da raggiungere e capisco che non li raggiungeremo mai, avevamo tante cose da fare che qualcuno non ci vuole far fare. E poi tutto quello che fino a qualche giorno fa si poteva realizzare in maniera spontanea, naturale, oggi ci porrebbe troppi problemi. Ci verrebbe davvero difficile fare scelte senza pensare a questo o a quello».
Una decina di anni fa il comune di Monasterace era stato sciolto per infiltrazioni mafiose, poi è stata eletta lei.
«E a tutti ho fatto capire da che parte stare. O si sta di qui o si sta di là, indecisioni non ce le possiamo permettere in Calabria».
Di là è arrivato l´incendio alla farmacia e poi le pallottole. Non ha davvero neanche un sospetto?
«Io non so proprio chi abbia voluto tutto questo».

La Repubblica 03.04.12

"Addio al partigiano Bentivegna organizzò l'attacco di via Rasella", di Mario Avagliano

E’ morto ieri pomeriggio, nella sua abitazione romana, Rosario Bentivegna, 89 anni, detto Sasà, nato a Roma il 22 giugno 1922 (l’anno della marcia fascista, «ma non ho fatto in tempo a farla», diceva lui ironicamente), ultimo orgoglioso superstite del commando di partigiani comunisti protagonisti dell’azione di via Rasella. Il 23 marzo 1944 fu proprio Bentivegna, travestito da spazzino, ad accendere la miccia dell’esplosivo che fece saltare in aria 32 soldati del Battaglione Bozen. I tedeschi punirono i romani con l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Nelle ultime settimane Bentivegna si era gravemente ammalato. È spirato tra le braccia della compagna Patrizia Toraldo di Francia. Domani mattina alle 10,30 sarà aperta al pubblico la camera ardente allestita presso la sala Peppino Impastato della Provincia di Roma. Tra i primi a esprimere il cordoglio è stato Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, in viaggio ad Auschwitz, che ha dichiarato: «E’ morto un eroe ingiustamente accusato». Un ricordo commosso di Bentivegna è giunto anche dal presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti («Fa parte di un gruppo di uomini e donne che ha permesso a noi di vivere in un paese democratico»), dall’Anpi nazionale, della cui presidenza era membro onorario, dall’Anpi romana e dagli amici ex partigiani, da Mario Fiorentini a Massimo Rendina.

Bentivegna aveva rilasciato l’ultima intervista al Messaggero, di cui vi proponiamo alcuni brani inediti. L’ex partigiano, medaglia d’argento della Resistenza, per parte di padre aveva origini siciliane «da una famiglia garibaldina» come lui stesso amava sottolineare. Rosario, dopo essere stato da ragazzo un entusiasta balilla, sui banchi del liceo passò nelle file antifasciste, con l’adesione ai gruppi di orientamento trozkista. «Già quando avevo 13-14 anni ero colpito dalla corruzione e dal clientelismo del regime e dalle differenze sociali esistenti, per cui l’amante del portiere era considerata una puttana e l’amica del capo della polizia una gran dama».

Nell’aprile 1941, in pieno Ventennio fascista, Bentivegna fu tra gli studenti che occuparono l’Università di Roma. Arrestato e sottoposto a un pesante interrogatorio, venne rilasciato con diffida di polizia. Dopo l’8 settembre 1943, la scelta di aderire al Pci e di partecipare alla guerra di liberazione, col nome di battaglia di Paolo, «da uno degli Apostoli di Gesù». Era tanto temuto dai nazifascisti, che gli misero sulla testa una taglia di un milione e 850 mila lire, una cifra enorme a quei tempi. Nel marzo del 1943, l’episodio che gli segnò la vita: la partecipazione da protagonista all’azione di via Rasella, che ebbe nel dopoguerra lunghi strascichi giudiziari e lo coinvolse in querelle giornalistiche e politiche.

Dopo la liberazione di Roma e le nozze con Carla Capponi (più tardi si separeranno), partì per la Jugoslavia, per combattere tra le formazioni partigiane della Divisione Italia Garibaldi. Rientrò nella capitale solo nel marzo 1945, «ferocemente anti-titino», un mese dopo la nascita della figlia Elena. Gli anni del dopoguerra di Bentivegna furono scanditi da un’intensa stagione di lotte politiche e sociali vissute attraverso la militanza nel Pci e l’amata professione di medico-legale dell’Inca-Cgil, in prima linea nelle battaglie per la prevenzione sui luoghi di lavoro. Comunista sui generis, libertario e anticonformista, nel ’56 si schierò contro il partito, condannando l’invasione sovietica in Ungheria. Nel ‘68 l’impegno internazionale a fianco della Resistenza greca durante il regime dei colonnelli e l’organizzazione dei viaggi clandestini dalla Grecia all’Italia, per permettere la fuga dei comunisti greci condannati a morte.

Il terrorismo degli anni ’70 e la violenza dei gruppi di sinistra extraparlamentare furono ferocemente criticati da Bentivegna come fenomeni di avventurismo. «Per questo motivo fui minacciato dagli estremisti sia neri che rossi. Ai tempi delle Br, rifiutai la scorta e la Digos mi consigliò di prendere il porto d’armi e di girare con una pistola per difendermi. Ma io lo feci per pochi giorni: quell’affare in tasca mi pesava. Ho sempre pagato di persona la mia coerenza. E ho sempre creduto alla libertà e alla democrazia».

Nel 1985 la decisione di uscire dal Pci, per i profondi dissensi con la linea consociativa del partito di Berlinguer. Negli ultimi anni aveva preso la tessera del Pd nella sezione di via dei Giubbonari: «Sono ancora comunista perché credo nel superamento dello stato di cose presenti. Ma sono un comunista libertario, contro tutti i tiranni, contro tutti gli integralismi, anche quello dei comunisti. Nel ’56 ho condannato l’invasione in Ungheria e adesso sono contro la sharia, i kamikaze, i talebani. E fin dal 1948 sono dalla parte d’Israele e ci sto ancora».

Il Messaggero 03.04.12

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“Addio al partigiano Bentivegna organizzò l’attacco di via Rasella”

Con l’azione nel centro di Roma contribuì alla cacciata dei nazisti dalla capitale, ma per tutta la vita fu chiamato a rispondere della morte di un civile innocente e della barbara rappresaglia delle Fosse Ardeatine.
E’ morto a 90 anni Rosario Bentivegna, il partigiano dei Gap (Gruppo di Azione Patriottica), eroe della Resistenza di Roma. Bentivegna prese parte in particolare all’azione di via Rasella il 23 Marzo 1944, quando i Gap attaccarono un reparto delle truppe di occupazione tedesche uccidendo 33 militari. A quell’azione seguì la rappresaglia nazifascista, con la strage delle Fosse Ardeatine. Bentivegna è stato sposato con la partigiana Carla Capponi.

Tornato alla vita civile dopo la Liberazione, Bentivegna è stato uno stimato medico del lavoro, ma è stato a lungo inseguito dalle polemiche revisioniste sull’opportunità della più clamorosa azione militare partigiana all’interno di una città sottoposta all’occupazione nazifascista. A pochi mesi dall’ingresso degli Alleati nella capitale, i Gap romani organizzarono infatti un attacco contro una colonna di militari nazisti che transitava per via Rasella, a due passi da piazza Barberini, nel centro di Roma. L’azione, realizzata attraverso l’esplosione di un ordigno nascosto in un carretto da netturbino, provocò l’uccisione di 33 soldati occupanti e di due civili italiani, uno dei quali, Pietro Zuccheretti, aveva appena 13 anni.

La morte accidentale del bambino fu una delle principali colpe imputate a Bentivegna nel dopoguerra e fu anche oggetto di diversi procedimenti giudiziari, tutti conclusisi con il proscioglimento degli ex partigiani imputati, compreso lo stesso Bentivegna.

Altra accusa ricorrente mossa al comandante gappista,
così come ai suoi compagni, è stata quella di non essersi consegnato ai tedeschi dopo l’attacco, lasciando che i nazisti portassero a termine la feroce rappresaglia delle Fosse Ardeatine che costò la vita a 335 civili e militari italiani rastrellati nelle ore successive all’azione di via Rasella.

Comportamento che nessuno è stato in grado di dimostrare avrebbe effettivamente placato la violenza tedesca e che in ogni caso se fosse stato effettivamente seguito avrebbe di fatto impedito qualsiasi forma di Resistenza ai nazisti in Italia. La piena legittimità dell’azione partigiana portata a termine da Bentivegna e dagli altri gappisti è stata del resto ribadita più volte anche in sede giudiziaria, ultima delle quali alla fine degli anni ’90 con la condanna da parte del tribunale militare di Roma di due dei carnefici del massacro delle Fosse Ardeatine, il colonnello Herberth Kappler e il maggiore Karl Haas.

Malgrado ciò le polemiche contro Bentivegna non si sono mai placate e anche ora, in occasione della sua morte, ci sono stati commenti neofascisti su diversi forum e social network.

Ma se l’attacco di via Rasella, probabilmente il più grave subito dai tedeschi in una città posta sotto il loro controllo in tutta Europa, fu l’azione più clamorosa di Bentivegna, la sua storia partigiana è ricca di molti altri episodi di coraggio: arrestato nel 1941, dopo la scarcerazione aderì nel 1943 al Partito comunista. Con l’armistizio e la formazione dei Gruppi di azione patriottica, fu tra i più valorosi protagonisti della Resistenza, sia a Roma (assalto a militari tedeschi in piazza Barberini, attacco a un corteo fascista in via Tomacelli) che nella zona della Casilina, dove comandò formazioni partigiane.

Uno straordinario contributo alla Liberazione e al ritorno della democrazia per il quale Bentivegna non volle però mai essere definito un eroe. “Era un uomo straordinario, molto schietto, leale e aperto. Guai a definirlo eroe”, ricorda oggi Ernesto Nassi, vicepresidente dell’Anpi di Roma. “Rosario aveva dei valori grandi – aggiunge – e ha sofferto sempre, si è portato dietro la storia di Via Rasella tutta la vita. Sasà era di origine siciliana, era un uomo molto colto e intelligente. Insieme a lui sono stato a portare la testimonianza degli anni della Resistenza nelle scuole: quando parlava, la gente rimaneva incantata”.

Per Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma, “è morto un eroe, soprattutto per noi ebrei di seconda generazione, figli di scampati e sopravvissuti alla Shoah”. “Bentivegna è stato un uomo coraggioso che con pochissime armi ha impaurito l’occupante nazista – aggiunge da Cracovia, dove si trova per il Viaggio della Memoria nei luoghi dello sterminio degli ebrei – E’ triste che in tutti questi anni la sua figura in certi ambienti sia stata associata a quella dei vigliacchi”.

Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti parla di “notizia tristissima”. “Scompare un partigiano – prosegue – e una persona di grandissimo valore che come tanti altri durante l’occupazione nazifascista offrì con coraggio e risolutezza la propria vita nella battaglia per la libertà”.

www.repubblica.it

"Nessuna crescita sugli organici", di Pippo Frisone

Gli organici di diritto del personale docente nel 2011/12 ammontavano complessivamente a 600.839 unità. Il Governo dei tecnici e dei professori compie il miracolo e per il 2012/13 conferma l’organico dell’anno precedente. In particolare ad un aumento di 617 posti corrisponde un taglio di 617 posti. Crescono i posti nella primaria + 275 e nella media di 1° grado +342 mentre diminuiscono nell’infanzia -167 e nelle superiori -450. La situazione non è omogenea nelle diverse regioni. La ragione risiede sul diverso andamento della popolazione scolastica. In aumento nelle regioni del centro nord e in calo nelle regioni meridionali e isole. Così ci troviamo di fronte a regioni come la Sicilia (-349 ), Puglia (-289), Calabria ( -277), Campania (- 214), Basilicata (-112) che pagano un prezzo salatissimo in termini di tagli e di contro regioni come l’Emilia Romagna ( +392), la Toscana (+226) e la Lombardia (+218) , Piemonte (+182), Veneto (+173) che incrementano i posti rispetto all’anno precedente.

Ad una prima lettura dei dati sembrerebbe tutto chiaro e scontato ma così non è.

Prendiamo il caso della Lombardia. Lo scorso anno pur in presenza d’un aumento della popolazione scolastica di oltre 11mila studenti ci furono tagli per 2.531 (CM.del Miur n.21/11) che colpirono in modo straordinario la scuola primaria con 1.424 posti in meno, le superiori con -872 e le medie con -235. La previsione per il 2012/13 è di un’ulteriore crescita della popolazione scolastica di circa 12mila unità.. Tale aumento imporrebbe un incremento di posti in Lombardia ben al di sopra dei 218 previsti in tabella , nonostante l’effetto tagli della riforma Gelmini nelle classi terze di tecnici e professionali. L’applicazione dell’art.64 L.133/08 ha comportato tagli in Lombardia nel triennio 2009/10,2010/11,2011/12 per un totale di 9.593 posti di cui 3.272 nella secondaria superiore, non ancora andata a regime con la riforma.

L’assenza di tagli aggiuntivi nonostante l’incremento della popolazione scolastica, contrariamente a quanto avvenuto lo scorso anno sembrerebbe un primo timido cambio di rotta.

I 218 posti in più alla Lombardia andrebbero così distribuiti:

+32 all’Infanzia, +10 alla Primaria, +102 alle Medie, +74 alle Superiori. Per la prima volta non si distribuiranno tagli provenienti dal Miur ma posti in più. Decisivo risulterà l’andamento della popolazione scolastica all’interno delle 12 province. Un peso non secondario avrà la richiesta di tempo pieno da parte delle famiglie con Milano oltre il 93% .

Quanto alle raccomandazioni del Ministro di non superare i 20 alunni per classe, in presenza di alunni diversamente abili o di rispettare gli altri parametri nazionali ( media alunni/classi, norme sulla sicurezza, stranieri, cattedre non superiori a 18h…) sappiamo benissimo che quasi sempre lasciano posto alle deroghe per il vincolo a rientrare nella dotazione assegnata.

Il tanto sbandierato organico funzionale è stato stoppato dalla Ragioneria dello Stato assieme ai 10mila posti aggiuntivi. Gli unici posti aggiuntivi che vedranno le scuole deriveranno dai 10mila esuberi che si prevedono per il 2012/13. I docenti in esubero che non troveranno sistemazione in organico di fatto su posti interi o su spezzoni, verranno assegnati con messa a disposizione a zero ore alle scuole. Una risorsa in più per le scuole sì ma sempre fino a quando la riforma dell’ art.18 lo permetterà.

da ScuolaOggi 03.04.12