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"Occupazione in caduta libera. Giovani e donne pagano di più", di Giuseppe Vespo

Giovani, donne e meridionali. Sono loro a soffrire maggiormente nel mondo del lavoro. I primi hanno un tasso di occupazione timido, sceso in un anno dal 20,3 per cento al 19,4 per cento. Le donne sono in testa alla classifica di chi viene sacrificato per primo quando l’azienda è in difficoltà: basti il dato relativo al mese di febbraio, che segna 44mila lavoratrici senza occupazione. Il tasso di occupate è fermo al 46,7 per cento, solo sei mesi fa la Grecia impiegava più lavoratrici. E se la donna vive anche al Sud, allora in un caso su due (49,2 per cento) resta a casa perché non può fare altro. In attesa della riforma del mercato del lavoro, ieri l’Istat ha fornito cifre ricordando – se ce ne fosse bisogno – che l’occupazione nel nostro Paese è un problema e la disoccupazione è un dramma. Il tasso relativo a chi ha un posto di lavoro a febbraio è fermo al 56,9 per cento (+0,1 per cento sul 2010). Ma alla fine del 2011 il lavoro a tempo pieno segna un calo dello 0,8 per cento, mentre i tempi indeterminati calano dello 0,6 per cento. Una diminuzione solo in parte compensata dal contenuto incremento dei tempi determinati: più 1,8 per cento in un anno. Cresce invece il numero dei dipendenti a termine (+3,7%), che incidono sul totale degli occupati per il 10,3 per cento. Per contro, il dato di chi ha perso l’impiego tocca cifre record: la disoccupazione è al massimo dal 2004, e si attesta al 9,3 per cento, in crescita di più di un punto percentuale sul 2010. Mentre gli ultimi tre mesi del 2011 sono stati i peggiori degli anni Duemila: meno 9,6 per cento. E non può consolare il fatto che l’Italia sia appena sotto la media europea (10,8%), che sfiora il massimo degli ultimi 15 anni. Inunanno335mila persone hanno accresciuto l’esercito di chi non lavora, che in Italia conta oltre due milioni di persone (2.354 mila). Nel complesso, il mercato del lavoro nel nostro Paese è così formato: oltre ventidue milioni di italiani lavorano; più di due milioni cercano un’occupazione, mentre poco meno di 15 milioni di persone (37,2%), in salute, fra i 15 e i 64 anni, vengono definite «inattive», ovvero non lavorano e non cercano lavoro. Un dato stabile rispetto al 2010. Aquesto proposito, una recente ricerca si è concentrata sul costo dei cosiddetti «Neet», acronimo che definisce la generazione dei giovani «not in employment, education or training», ovvero non a lavoro, a scuola o in apprendistato. Questi ragazzi, che nel nostro Paese sono circa due milioni, costano al bilancio pubblico quasi 27 miliardi di euro all’anno, circa l’1,7 per cento del Pil. Un altro record che ci vede primeggiare in Europa. I costi dei Neet sono calcolati come «potenziale sprecato », non solo in termini di guadagni mancati per gli individui ma anche come costi sostenuti dallo Stato per provvedere in qualche modo ai diversi sussidi. È preoccupante il rapporto tra giovani e impiego. Un under 24 su tre non lavora. E a febbraio la baby disoccupazione ha raggiunto quota 31,9%, 4,1 punti sul 2010. In un mercato ingessato, «non c’è traccia di investimenti per lo sviluppo e l’occupazione – lamenta Ilaria Lani, responsabile per le politiche giovanili della Cgil – e non disponiamo di un sistema capace di accompagnare chi cerca il primo impiego». Il riferimento è al fatto che, secondo gli ultimi dati, solo il cinque per cento dei giovani troverebbe lavoro grazie ai centri per l’impiego. Mentre i più si affidano alla sorte e alle conoscenze. E mentre Bersani, in visita in una fabbrica, parla di cifre Istat drammatiche, la saggistica oggi registra l’uscita del libro «Se potessi avere mille euro al mese. L’Italia sottopagata » (Eleonora Voltolina per Laterza). Anche questo è un segno dei tempi.

l’Unità 03.04.12

"La vera sfida è inventarsi un impiego", di Walter Passerini

L’ecatombe di posti di lavoro continua. Se non fosse un gioco cinico, non ci resta che scommettere quando la disoccupazione tra i 15 e i 24 anni supererà il 33% (è al 32,6% nel quarto trimestre 2011) e quando quella generale supererà il 10% (è al 9,6% alla fine del 2011). Accadrà molto presto, perché il 2012 sarà l’anno peggiore dell’occupazione, dove verranno a convergere i posti perduti dai precari con quelli dell’esaurimento delle casse integrazione. Che fare, se non ci si vuole rassegnare alla sconfitta? Anziché litigare sui numeri (sono pochi, sono troppi), varrebbe la pena tentare un’agenda per un patto a favore dei giovani, un manifesto per l’intraprendenza.

Cinque le aree per un intervento efficace. La prima è quella della formazione e dell’orientamento. I ragazzi che dopo la maturità si iscrivono all’università rischiano di diventare vuoti a perdere. La casualità delle scelte non può essere addossata né ai giovani né ai loro genitori.

I «drop out» e i «neet» sono diventati un fenomeno sociologico, ma le colpe sono quelle della mancanza di un orientamento sia scolastico che di transizione, dalla scuola al lavoro.
La seconda area è l’inadeguatezza dei servizi all’impiego, pubblici e privati. Solo il 6% viene intercettato dagli intermediari professionali e il prevalere del tam-tam e del passaparola, impregnato di familismo e localismo, non riesce a intercettare i posti vacanti, che alcuni stimano in 500 mila. La terza area è quella delle retribuzioni e del sostegno al reddito. I giovani sono precari e sottopagati. Tutte le indagini lo confermano. Oltre al mancato incontro tra domanda e offerta, c’è anche lo spreco di risorse ad alto potenziale, passato dal «brain drain» al «brain waste», dalla fuga dei cervelli al disprezzo di quelli che restano. Il livello degli stipendi dei giovani talenti italiani è troppo basso. Far parte della Generazione mille euro è offensivo e penalizzante per lo stesso studio, per la formazione, che è sempre meno ascensore sociale e sempre più uno stigma da sfigati.

Il basso livello delle retribuzioni dei giovani si ripercuote, ed è la quarta area, sul futuro delle pensioni, su quella che viene chiamata la bomba previdenziale. Se oggi gli stipendi sono bassi, domani le pensioni dei giovani rischiano di essere un assegno di povertà e non ci sarà posto per il reddito minimo di cittadinanza.

Infine, ed è un asse imprescindibile, è necessario lanciare un piano per il lavoro autonomo e imprenditoriale dei giovani. È questa l’inversione di tendenza che dobbiamo compiere, la rivoluzione culturale che dobbiamo attuare. Il 97% del sistema delle imprese è di piccole e piccolissime dimensioni. Non possiamo illudere i nostri giovani che potranno avere un futuro da dipendenti, finché i posti saranno sempre più a lungo occupati dai loro padri.
Dobbiamo, possiamo invece lavorare, creando un tessuto culturale, di servizi, di finanziamenti, di sostegni che trasformino le nuove generazioni nei nuovi artigiani del futuro. Su questo vanno chiamati a raccolta i principali media, che concorrano alla formazione di una diversa cultura del lavoro, da dipendente a intraprendente. È necessario creare una nuova generazione di imprenditori, di lavoratori autonomi, di consulenti e di professionisti. Il lavoro sarà sempre più fare impresa. E lo slogan è quello del rettore di Harvard, nei panni di Larry Summers, che nel film «The social network» così strapazza gli atletici gemelli Winklevoss: «I migliori allievi di questa università non sono quelli che escono e trovano un lavoro, ma quelli che escono e un lavoro se lo inventano».

"Diario della mia vittoria", di Aung San Suu Kyi

L´altro giorno stavo osservando uno degli striscioni di benvenuto, che mi erano dedicati, con il tradizionale augurio di lunga vita. Quel cartello, però, aveva qualcosa di speciale: una scritta più o meno come questa: “Uno studente laureato ma senza lavoro ti dà il benvenuto”. Poi ho saputo che si trattava di un giovane proveniente dalla città di Taungu (nel Nord del Paese, non distante dalla nuova capitale dei generali Naypyidaw, ndr).
Come una pietra che prende due piccioni, lui mi chiedeva di fare il mio dovere, e allo stesso tempo mi offriva la sua accoglienza. Per portare il progresso nel nostro Paese, dobbiamo usare la parte più intelligente e brillante del nostro cervello. Oltre al benvenuto, ho letto: “Noi amiamo madre Suu”. E questo viene dal profondo del loro cuore. Nello Stato Mon ho visto un´altra cosa: due giovani gemelli vestiti molto bene e puliti, che alzavano uno dei tanti cartelli tra la folla. Anche quell´insegna aveva lo stesso significato, però aggiungeva: “Noi gemelli amiamo nonna Suu”. I due avevano proprio la stessa faccia, simili come due fagioli, ed io ero davvero colpita e felice di vederli. In posti differenti, usano parole e significati diversi per darmi il benvenuto. Ma non potrò dimenticare quel che ho visto a Myitkyeena, una scritta con queste parole: “We love you, please help us to bring peace to our Kachin land. We love you” (“Ti amiamo, per favore aiutaci a portare la pace alla nostra terra dei Kachin”).
Quella frase è stata come un´illuminazione: mi ha fatto veramente capire la profondità della sofferenza per la guerra.
A Pamaw, all´Università di Scienze dei computer, mi ha colpito un´altra cosa. Avevano scritto “Top hero” (“il più grande eroe”). A Kawhmu invece (la città della circoscrizione dove Suu Kyi è stata eletta, ndr.) ho letto: “We love public hero”, (“amiamo gli eroi pubblici, o popolari, in inglese nel testo, ndr). Ho conservato nella mente quelle parole. Perciò, nel mio discorso a Banmo, ho voluto ricordare Bertolt Brecht, il famoso autore, che trattava di eroi, e cercherò di spiegare quel che il drammaturgo ha scritto nella sua opera (La vita di Galileo, ndr): “Disgraziato il Paese, che non ha eroi!”. Però, a uno dei protagonisti fa spiegare che la verità è un´altra: “Felice il Paese, che non ha bisogno di eroi!”. Secondo me, possiamo dare due diversi significati a quell´opera. Da un lato, il Paese che ha bisogno di eroi sta affrontando grandi problemi e difficoltà, ed è sottoposto a molte situazioni spiacevoli. Dall´altro lato, la gente vive una sfida. In questa condizione, abbiamo bisogno di un eroe.
Io preferisco la seconda opinione, e sapete perché? Per quanto mi riguarda, voglio che tutti siano eroi, così non avremo bisogno di speciali eroi per il nostro Paese. Ecco perché spero che tutta la gente sarà il “Top hero”.
Per un attimo ho visto uno dei tanti uomini che reggevano un cartello, e ho pensato in quell´istante che forse io e lui non ci vedremo più. Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che siamo tutti la stessa nazione, abbiamo la medesima speranza per il nostro Paese, e infatti tutti coloro che augurano il benvenuto sono pieni di volontà e di speranza per il nostro popolo; hanno la forza di ottenere la democrazia per il nostro futuro. Vengono a manifestare con la forza del popolo, e allora noi andiamo avanti per questo.
La forza del nostro popolo ha un grande valore, dovunque vado mi salutano con il cuore, caldo e gentile, con fiori e altri doni per seguirmi lungo la stessa strada. Qualcuno mi dona fiori molto costosi, altri portano mazzi di fiorellini presi dal ciglio della strada. Io posso sfiorare solo per un attimo tutti quei fiori e quei regali, ma non importa. Quel che più conta è che sono frutto dell´amore e della gentilezza, un amore davvero prezioso, un valore immenso, come anche tutta la gente che mi saluta e mi dà il benvenuto: ogni singolo individuo è molto importante per me. Anche se non riesco a vedere né a ricordare le facce di tutti, di certo le tengo nel cuore.
Vorrei semplicemente ringraziare chi mi sostiene e mi incoraggia. Sto scrivendo queste note sulle rive del fiujme Yangon, a bordo della barca in rotta verso Pharpon e Kyaithtor; devo consegnare questo articolo in tempo per la pubblicazione su D.Wave, (Democracy Wave, il nuovo bimestrale del partito di Aung San Suu Kyi, La Lega nazionale per la democrazia, Lnd, ndr) e darlo a U Win Tin (celebre giornalista, nella direzione del suo partito Lnd, ndr). Se non sarò puntuale, rischio di perdere la faccia.
Penso al futuro, e mi dico: spero, e per questo m´impegnerò al massimo, di svolgere bene il mio dovere per la mia gente. Perché questa elezione è un evento davvero storico per il nostro Paese. Cerchiamo di condurre questa campagna nel rispetto della legge per l´ordine, e lo facciamo con tutta la nostra dignità.
Vorrei chiedere un favore: che queste elezioni siano eque, oneste.
Stavolta vorrei parlare soltanto delle donne della Lega nazionale per la democrazia (il partito di Suu Kyi, ndr). Se dovessi scegliere fra giovani e bambini, punterei i riflettori sulle donne perché nel nostro Paese gran parte di loro è dotata di profondo acume e intelligenza. Per lunghi anni – circa vent´anni – ho potuto contare sull´enorme sostegno, sull´incoraggiamento, sull´aiuto da parte di tutte le donne che erano attorno a me. Molte anziane ottantenni o novantenni, ma anche adolescenti giovani e carine, e perfino bambine, si sono fatte sentire, alzando la voce attraverso l´intero Paese.
Tra loro ci sono alcune donne che fanno lavori molto pesanti: riparano il ciglio della strada, e il pensiero mi rattrista per la terribile fatica cui esse sono sottoposte quando devono rompere le pietre, trasportare massi enormi. Le vedo da quarant´anni lungo le strade di collina e di montagna, divise in diversi gruppi, e per la maggioranza appartengono alle etnie delle montagne. Lo sforzo fisico, l´esposizione continua al sole e al vento, provocano un invecchiamento precoce sia della loro pelle e sia del corpo.
Ho impressa negli occhi l´immagine, indimenticabile, di una bambina: era inverno, il freddo era intenso, e lei aveva le guance arrossate, e sotto le sopracciglia bellissimi occhi come piccoli fiori. Giocava di fianco alla madre, che lavorava riparando il ciglio della strada, e la povere e la terra le entravano in bocca. Non riesco a non pensare sempre a loro, con un profondo senso di desolazione.
Tengo nella mente il profilo di quella mamma: quando lavora in quel modo, quando spacca le pietre, è come se creasse – se plasmasse – la propria vita. Ovunque io incontri queste donne, provo gli stessi sentimenti.
Quelle lavoratrici indossano camice a maniche lunghe, e si riparano dal sole, cercando proteggere la propria bellezza. Si spalmano sulla faccia anche la tanaka (la crema di una pianta curativa della pelle usata da secoli in Birmania, ndr), poi avvolgono un tessuto sul viso, e sulla testa calcano un cappello. Tutto questo impegno nel salvaguardare la loro bellezza mi sorprende ancora di più. Infatti, nonostante la loro vita e il loro lavoro siano obiettivamente difficili, quelle donne sembrano davvero felici e attive. E tutto ciò è incredibile, straordinario.
Al mio arrivo all´aeroporto di Myeik, in un edificio in ristrutturazione, vedo due donne che mi vengono felicemente incontro: mi abbracciano e mi baciano. Mi danno una forza immensa. Nel nostro Paese, le donne sono fra gli strati più poveri della popolazione, massacrate dal lavoro; eppure hanno una mente davvero preziosa e forte. Per tutto questo è facile capire quanto il nostro gruppo di donne abbia un valore davvero fondamentale.
Affido queste mie parole scritte perché siano pubblicato dopo le elezioni. E attraverso questi miei appunti, voglio ringraziare ancora una volta tutta la gente, di tante diverse provenienze e estrazioni: tutti coloro che mi sostengono e mi incoraggiano, anche gli anziani, i giovani, e persino i neonati. A tutti, grazie. Grazie davvero.
Il testo di Aung San Suu Kyi è stato scritto per D. Wave, Democracy Wave, la rivista della Lega nazionale per la democrazia:
il partito di Suu Kyi

La Repubblica 03.04.12

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“Suo marito mi confidò: non riusciranno a fermarla” di ANDREA TARQUINI

«Fu il suo compianto marito a spiegarmi quanto lei è forte: ‘solo uccidendola la fermeranno´. Adesso la straordinaria little lady ha vinto». Il professor Elie Wiesel, sopravvissuto all´Olocausto, Nobel per la pace, parla commosso.
Professor Wiesel, come è riuscita questa piccola donna a diventare la grande lady della democrazia?
«Cominciai a capirla tanti anni fa, quando suo marito venne a trovarmi. Mi narrò tutto di lei prigioniera, della sua lotta. Mi disse: è in pericolo, possono ucciderla pur di fermarla. Mi chiese di battermi per il Nobel. ‘Fu così´, mi diceva, ‘per Walesa, Mandela, le madri argentine. Furono salvati dal Nobel: uccidere un Nobel per la pace è troppo anche per la più spietata dittatura. Come possiamo fare per aiutarla? ´ Cominciò così».
E come continuò?
«Cominciai a seguire la sua lotta, da quel momento non smisi mai. La sua vittoria incoraggia tutte le persone che lottano per vivere liberi da pericoli e oppressione, è un evento enorme per tutti».
Il mondo vide Walesa o Mandela come coraggiosi disperati. E la lady?
«Lei ha saputo vincere contro una dittatura forse più brutale. Ma la differenza è anche nella geografia. La Birmania è lontana, semisconosciuta, da decenni è difficile entrarvi. Per i generali era più facile vincere con l´isolamento. La scelta vincente, venuta dal talento di combattente e di politica di questa straordinaria piccola grande donna, è stato anche diventare una sfida di statura mondiale».
Fisicamente appare fragile, da dove viene la sua forza?
«Lei crede che il destino umano è nelle nostre mani, non possiamo permettere a nessun dittatore di strapparcelo. Ha sempre mostrato una fortissima fede nel diritto di vivere nel rispetto reciproco e non nella paura. Non piegandosi, ha lanciato il messaggio oltre i Muri della censura. Ha saputo trovare linguaggio e gesti giusti per il messaggio: quella grande eleganza, quel suo stile da lady, per dire a tutti che la fede nella democrazia può sopravvivere per secoli. Il suo popolo non poteva ascoltarla, lei non sapeva nemmeno di essere seguita. Dietro il Muro dell´isolamento non aveva nemmeno un telefono, meno che mai un computer. Nella casa-prigione, non si è arresa».
Dove prende tanto coraggio e tanta intelligenza politica?
«Voglio chiederglielo. L´ho invitata a Washington: nel museo dell´Olocausto voglio conferirle il primo premio intitolato a me. Ma quel lungo periodo in isolamento, lei lo ha usato per imparare. Anni di riflessione strategica su filosofia politica e strategia. Che fare, come lottare. Ha capovolto la situazione: ha portato il tempo dalla parte sua, non dei dittatori. La sua mente non si è fatta prendere prigioniera, le peggiori dittature non possono incarcerare le anime. La forza le viene anche dalla memoria del padre. Lei viene da una famiglia di combattenti. Ora è simbolo mondiale, forse più di Gandhi e Walesa perché era isolata ma il mondo è più globale. La mia fede nella giustizia è tornata. Adesso spero che lei diventi premier. Il mondo democratico deve sposare la sua causa. Imparare da lei a non arrendersi mai».

La Repubblica 03.04.12

Disoccupazione record: a febbraio 9,3%, tra i giovani il 31,9% non lavora

Secondo l’Istat è il tasso più alto da gennaio 2004. A febbraio gli occupati sono 22.918mila, in diminuzione dello 0,1% (-29 mila unità) rispetto a gennaio: il calo riguarda la sola componente femminile. Il tasso di disoccupazione a febbraio è al 9,3%, in rialzo di 0,2 punti percentuali su gennaio e di 1,2 punti su base annua. Si tratta del tasso più alto da gennaio 2004 (inizio serie storiche mensili). Mentre, guardando alle serie trimestrali, è il dato iù alto dal IV trimestre 2000. Sempre a febbraio. su base annua, il numero di disoccupati aumenta del 16,6%, ovvero di 335 mila unità. Lo stato dell’occupazione rilevato dall’Istat non lascia spazio all’ottimismo.

Giovani. In crescita anche il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni). A febbraio è al 31,9%, in aumento di 0,9 punti percentuali rispetto a gennaio e di 4,1 punti su base annua. Anche in questo caso si tratta del tasso più alto da gennaio 2004. Nel quarto trimestre del 2011, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è salito al 32,6% dal 29,8% dello stesso periodo del 2010 con un picco del 49,2% per le giovani donne del mezzogiorno.

Media 2011. Nella media del 2011, il tasso di disoccupazione è pari all’8,4%, invariato rispetto al 2010. Anche se l’istat ricorda che “la disoccupazione è cresciuta nella seconda parte dell’anno”. Per quanto riguarda i giovani, il tasso di disoccupazione è cresciuto di 1,3 punti percentuali, portandosi nella media del 2011, al 29,1%, con un massimo del 44,6% per le giovani donne residenti nel mezzogiorno.

Occupati e inattivi. A febbraio gli occupati sono 22.918mila, in diminuzione
dello 0,1% (-29 mila unità) rispetto a gennaio. Il calo riguarda la sola componente femminile. Nel confronto con lo stesso mese dell’anno precedente l’occupazione segna un aumento dello 0,1% (16 mila unità). Il tasso di occupazione si attesta al 56,9%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale e in aumento 0,1 punti in termini tendenziali.

Inattivi. Il numero degli inattivi tra 15 e 64 anni rimane sostanzialmente stabile su base annua, a sintesi del calo della componente italiana (-84.000 unità) e dell’ulteriore crescita di quella straniera (+105.000 unità). Tra gli inattivi, cresce il numero di quanti non cercano lavoro ma disponibili (+5,5%, pari a 73.000 unità) e di quanti cercano non attivamente (+4,3%, pari a 63.000 unità) mentre si riduce quello degli inattivi che non cercano e non disponibili a lavorare (-0,8%, pari a -100.000 unità). Il tasso di inattività si attesta al 37,8%, un decimo di punto in meno rispetto a un anno prima. Alla crescita del Centro si contrappone la contenuta flessione del Nord e del Mezzogiorno. In tale area, il tasso di inattività raggiunge nella media 2011 il 34,5% per gli uomini e il 63,2% per le donne.

Eurozona. La disoccupazione nell’Eurozona sale al 10,8% a febbraio, il massimo da quasi 15 anni. A gennaio era al 10,7%. Nell’Ue a 27 paesi la disoccupazione avanza dal 10,1% al 102% e in Italia si attesta al 9,3%, contro il 23,6% della Spagna e il 21% della Grecia. Nell’Eurozona la disoccupazione torna ai livelli di maggio-giugno 1997 e sotto al 10.9% di aprile 1997.

da www.repubblica.it

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Disoccupazione, dramma tra i giovani: uno su tre non riesce a trovare lavoro
I dati Istat riferiti al mese di febbraio (+0,2%). Se si considerano i 15-24enni sale al 31,9% (+0,9 punti)
Il tasso di disoccupazione a febbraio si attesta al 9,3% in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto a gennaio e di 1,2 punti su base annua, il top dal 1992. Lo comunica l’Istat sulla base dei dati provvisori. Nel quarto trimestre 2011, riferisce l’istituto, il tasso di disoccupazione è stato pari al 9,6%, nove decimi di punto in più rispetto ad un anno prima. Si tratta del tasso più alto dal quarto trimestre del 1999. In totale si sono infatti registrate 44mila donne occupate in meno rispetto a gennaio.

STIME – A febbraio, spiegano i tecnici dell’Istat, ricordando che si tratta di stime e dati destagionalizzati, «il mercato del lavoro continua a caratterizzarsi per la discesa dell’occupazione e la crescita della disoccupazione. Quindi il dato di febbraio testimonia «un quadro preoccupante d’inizio 2012». In particolare, gli occupati sono 22.918 mila, in diminuzione dello 0,1% (-29 mila unità) rispetto a gennaio. Il calo riguarda la sola componente femminile. Nel confronto con lo stesso mese dell’anno precedente l’occupazione segna un aumento dello 0,1% (16 mila unità). Il tasso di occupazione si attesta al 56,9%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale e in aumento 0,1 punti in termini tendenziali. Il numero dei disoccupati, pari a 2.354 mila, aumenta dell’1,9% (45 mila unità) rispetto a gennaio. Su base annua il numero di disoccupati aumenta del 16,6% (335 mila unità). Il livello di disoccupazione maschile, con 1,275 milioni di uomini in cerca di lavoro, raggiunge anche il record storico, il dato più alto dal IV trimestre del 1992, data d’inizio delle serie. Inoltre, gli inattivi tra 15 e 64 anni diminuiscono dello 0,2% rispetto al mese precedente. In confronto a gennaio, il tasso di inattività risulta in diminuzione di 0,1 punti e si attesta al 37,2%.

GIOVANI – Tragica la situazione tra i giovani. A febbraio il tasso di disoccupazione giovanile sale al 31,9% (+0,9 punti rispetto a gennaio e +4,1 punti su base annua). Lo rileva sempre l’Istat indicando il tasso di disoccupazione nella fascia dei 15-24enni attivi. Nel quarto trimestre del 2011, comunica l’istituto, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è salito al 32,6% dal 29,8% dello stesso periodo del 2010 con un picco del 49,2% per le giovani donne del Mezzogiorno.

GLI ADULTI – L’aumento dell’occupazione italiana più adulta (+164.000 unità, nella classe con almeno 55 anni), soprattutto di quella a tempo indeterminato, si contrappone al persistente calo su base annua di quella più giovane (-253.000 unità, fino a 34 anni). L’Istat spiega che la permanenza sul posto di lavoro di chi ha 55 anni o più è dovuta sia al progressivo invecchiamento della popolazione sia all’inasprimento dei requisiti anagrafici e contributivi per l’accesso alla pensione.
IN EUROPA – Ma anche in Europa il numero totale di disoccupati ha raggiunto livelli mai registrati prima, sia nell’area euro che nell’intera Unione europea a 27. Lo precisano da Eurostat, in merito ai dati sulla disoccupazione di febbraio. Nell’area euro l’ente di statistica comunitario ha contato 17 milioni 134 mila disoccupati a febbraio, nell’Ue27 invece 24 milioni 550 mila: in entrambi i casi si tratta di nuovi record, ha spiegato un tecnico di Eurostat. Quanto al tasso di disoccupazione, il 10,8 per cento registrato sull’area euro rappresenta un massimo dal giugno del 1997, e quindi anche un massimo dal lancio effettivo della valuta unica. Per l’Ue a 27 il 10,2 per cento raggiunto dalla disoccupazione è invece un nuovo record assoluto: non si era mai registrato un valore così elevato nelle tabelle di Eurostat.

da www.corriere.it

"Il Paese dei meno uguali. Dieci ricchi hanno quanto 3 milioni", di Massimo D'Antoni

Se nelle fasi di crescita può essere normale una certa tolleranza riguardo al sistema attraverso il quale i vantaggi sono distribuiti tra i diversi gruppi sociali, tale tolleranza sembra scomparire in una fase come quella corrente, in cui si tratta di dividersi costi e sacrifici. Così si spiega la reazione giustamente scandalizzata rispetto ai dati fiscali pubblicati qualche giorno fa. E così forse si spiega anche l’attenzione che, dall’inizio della crisi, sta ricevendo il tema della diseguaglianza, relegato per decenni alle discussioni accademiche.
Nei decenni più recenti la crescita ha concentrato i suoi benefici sul 10% (o l’1% quando non addirittura lo 0,1%) più ricco della popolazione delle economie avanzate. Il fenomeno si è manifestato prima e in misura più netta nei Paesi anglosassoni, successivamente (dagli anni novanta) nel nostro Paese, per toccare nell’ultimo decennio anche i Paesi tradizionalmente più egualitari del centro e nord Europa. E se ancora gli economisti discutono se tali crescenti diseguaglianze debbano essere considerate una causa della crisi, vi sono pochi dubbi che esse siano quanto meno il sintomo di uno sviluppo squilibrato e alla lunga non sostenibile.
L’Italia è un Paese ad elevata diseguaglianza dei redditi, alleviata solo in parte dal sistema fiscale e di welfare. Una diseguaglianza che ha tra le sue ragioni determinanti la struttura frammentata del mercato del lavoro e il basso tasso di occupazione, per cui molte famiglie contano su un’unica fonte di reddito. L’ultimo quindicennio, segnato da una sostanziale stagnazione delle retribuzioni e della produttività, non ha certo alleviato il problema.
È una situazione che preoccupa soprattutto rispetto alle urgenze poste dalla crisi, e alla necessità di affrontare la cura di austerità e gli aggiustamenti richiesti dai vincoli europei. Come ricordato nei giorni scorsi anche da alcuni rapporti riservati indirizzati ai ministri dell’economia dell’Unione, la crisi non è affatto finita. E anche una volta, superata l’emergenza dei debiti pubblici, resta da affrontare il problema di garantire la sostenibilità dell’unione monetaria nel medio/lungo periodo. Il primo decennio di moneta unica ha messo in luce quanto sia inefficace affidare il riequilibrio alla mera disciplina dei conti pubblici. Economie eterogenee che condividono la stessa moneta dovrebbero disporre di un meccanismo in grado di riassorbire le divergenze nei tassi di crescita dei prezzi e della produttività. Non essendo disponibili gli strumenti tipici di un vero Stato federale (mobilità del lavoro, trasferimenti fiscali tra Paesi), il riequilibrio dovrà trovare altre strade. La soluzione implicita nella corrente ricetta europea è che l’aggiustamento debba interessare principalmente il mercato del lavoro. Le politiche fiscali restrittive, con la conseguente caduta di domanda e occupazione, dovrebbero sostituire, via deflazione di prezzi e salari, le tradizionali svalutazioni. Una strada dolorosa ed estremamente pesante sul piano sociale, i cui costi si ritiene possano essere tanto minori quanto più rapido sarà l’aggiustamento, e quindi quanto più invocate la «riforme strutturali» renderanno flessibile il mercato del lavoro.
Ma siamo certi che questa sia la strada migliore? Quei Paesi che, come la Germania, con più successo hanno controllato la propria inflazione e il costo del lavoro sono semmai caratterizzati da istituzioni del lavoro centralizzate e forti, e dal coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni industriali. Se anche accettassimo dunque la premessa per cui l’aggiustamento deve essere interamente a carico dei Paesi periferici (il che rischia di essere tristemente vero in assenza di cambiamenti negli obiettivi di inflazione e di mutamenti nella politica economica dei Paesi più forti), di fronte alla necessità di controllare la dinamica salariale, sarebbe comunque preferibile perseguire tale obiettivo per via concertata piuttosto che attraverso la deregolamentazione del lavoro.
Gli effetti negativi per i lavoratori potrebbero essere infatti almeno in parte compensati dal mantenimento di un adeguato sistema di welfare; sarebbe possibile esigere la contropartita di un’adeguata politica di investimenti pubblici e privati per l’occupazione, di politiche fiscali redistributive. Insomma, tra la via tedesca della concertazione e quella anglosassone in cui ci si affida alle virtù di un mercato non regolato, è la prima quella che meglio risponde alle esigenze del Paese. Nonché la sola che potrebbe garantire che l’uscita dalla crisi non avvenga al prezzo di ulteriori aumenti nelle diseguaglianze retributive, esito prevedibile della liberalizzazione del mercato del lavoro. Ciò che ancora non è chiaro è se questa sia anche la linea del governo italiano.

l’Unità 2.4.12

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Ecco la fotografia delle disparità. Una forbice che cresce da anni

«In Italia i dieci individui più ricchi posseggono una quantità di ricchezza che è all’incirca equivalente a quella dei tre milioni di italiani più poveri».
A dirlo è uno studio di Bankitalia dal titolo “Ricchezza e disuguaglianza in Italia”, secondo cui in definitiva il nostro è un Paese «relativamente ricco, con un livello di disuguaglianza comparabile a quello degli altri Paesi europei». Il che fa pensare che anche in altre nazioni esistano una decina di Ferrero (dolci), Del Vecchio (occhiali), Armani, Prada, Rocca (acciaio), Berlusconi, Bertelli (moda), Pessina (chimica), Benetton, Polegato (calzature) che insieme raccolgono patrimoni per 55,77 miliardi di euro la cui ricchezza è pari a quella di tre milioni di poveri. Un po’ meno diseguale sembra invece la distribuzione del reddito.
Lo studio di palazzo Koch, firmato da Giovanni D’Alessio, analizza il trend della ricchezza ovvero l’insieme dei beni materiali e immateriali di cui una famiglia dispone dal 1965 ad oggi. Ebbene, «nel 2010 la ricchezza complessiva delle famiglie era pari a circa 8.638 miliardi di euro». Una cifra cresciuta nei decenni al ritmo del 4,6 per cento all’anno, arrivando a 7,5 volte il corrispettivo della ricchezza complessivamente accumulata nel 1965. I periodi di maggiore incremento della ricchezza vanno dal 1985 al 1993 e dal 1996 al 2007. I peggiori, il 1977, il 1981-85, il ‘93-‘94 e il 2008.
Oggi l’Italia è ancora un Paese piuttosto ricco conclude lo studio ma la ricchezza degli italiani è composta sempre più dal patrimonio accumulato in passato e sempre meno dal reddito. Negli ultimi anni inoltre, si è invertita la distribuzione della ricchezza tra le classi di età: oggi, al contrario che in passato, gli anziani sono più ricchi dei giovani che non riescono ad accumulare.

L’Unità 02.04.12

"Ammettere i propri errori: solo così si ottiene la fiducia", di Agnes Heller

Chi ha ruoli istituzionali alle volte fa ricorso alla manipolazione e alla retorica ma deve poi saperlo riconoscere
Esistono valori che devono essere condivisi come la libertà di parola e la possibilità di intervenire nel dibattito pubblico. Cos´è che caratterizza il concetto politico moderno di verità? La verità politica moderna è confutabile e può essere smentita. Se per la scienza determinate teorie e affermazioni non sono né vere né false, in quanto non sono recepite come affermazioni scientifiche (ad esempio la previsione del giorno del giudizio nel 2220, o l´avvistamento di angeli nell´oceano Pacifico), lo stesso criterio va applicato alla politica. Possiamo sognare ad esempio un mondo senza mercati, o magari senza stati; ma idee del genere non sono politiche, e quindi politicamente non sono né giuste né sbagliate.
La verità di un´idea politica può essere rivendicata quando tiene conto della verità dei fatti. Certo, la verità dei fatti è sempre interpretata, e le diverse interpretazioni possono essere contrastanti, ma esiste un centro, un nocciolo duro al quale tutte devono fare riferimento. (…) E´ necessario conoscere sia la situazione attuale che i suoi precedenti, e comprendere a che punto stiamo. La comprensione dev´essere basata sui fatti. Ogni suggerimento di azioni da intraprendere deve fare riferimento a dati di fatto interpretati. In un ordinamento politico democratico equilibrato e ben funzionante, il dibattito avrà per oggetto l´interpretazione di quei fatti. Diverse interpretazioni portano a progetti diversi.
Ma anche i valori rientrano nella categoria dei fatti, esistono e sono validi. Una democrazia moderna è basata su determinati valori, che ogni politico democratico è tenuto a convalidare, al pari dei cittadini. L´affermazione fondativa che tutti gli uomini sono nati liberi e hanno diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della civiltà, così come l´uguaglianza davanti alla legge, costituiscono norme o valori; e a quest´elenco si aggiungono la libertà di stampa, la libertà religiosa e tutte le libertà di uno Stato democratico. Questi valori, che sono i principi (archai) del linguaggio filosofico tradizionale, vanno considerati come verità fuori discussione, evidenti di per sé stesse. Ma dato che non ci provengono da poteri trascendenti non sono valori rivelati, bensì costituiti dagli uomini. La loro verità ha bisogno di essere sostenuta, riconfermata e simbolicamente sottoscritta dai cittadini di uno Stato democratico. Certo, nel mondo moderno questi principi non sono universalmente accettati, e quindi non sono validi per tutti: non lo sono, ad esempio, per i razzisti. Ma proprio per questo sono principi dei tempi moderni, che in quanto tali possono essere messi in discussione. Tuttavia, chi li contesta nella loro totalità si pone al di fuori della sfera politica: è il caso di tutti Paesi totalitari.
Ma supponiamo che tutti i principi di base, e soprattutto l´affermazione fondamentale che tutti gli esseri umani, senza distinzione alcuna, sono nati liberi, sia accettata come una verità di per sé evidente. Come è noto, normalmente non si discute pro o contro questi principi, bensì in base ad essi. Ma allora, di cosa si discute? (…)
L´interpretazione di un principio è l´«ultima ratio» in politica. I discorsi politici possono essere molto complessi, ma il problema che ci interessa qui è quello della verità. Ora, perché la pretesa di affermare una verità sia rispettabile, la prima condizione è che la suddetta affermazione sia aperta alla discussione. Un´altra condizione è che chiunque abbia qualcosa da dire e sia interessato o parte in causa, abbia la possibilità (e sottolineo: la possibilità, non l´obbligo) di partecipare al dibattito su un piano di parità. La libertà di parola è la condizione.
In questo dibattito entrano in gioco tre tipi di verità: la verità ultima dei principi in quanto tali, l´interpretazione dei principi, che è sempre aperta alla discussione, e la cosiddetta vera conoscenza, quella dei fatti addotti a sostegno di una tesi, anch´essi interpretati, e la cui interpretazione è a sua volta soggetta a contestazione. Tra questi, due tipi di verità: quelle dell´interpretazione dei valori e dei fatti per lo più non sono accettati da tutti, e saranno sempre oggetto di nuove contestazioni. La dinamica della società moderna, che è la condizione del cambiamento sociale, presuppone l´assenza dell´assoluto in queste elementari istanze di verità. La contestazione della verità serve qui da modello per qualunque tipo di discorso moderno sulla verità, ivi compreso il dibattito sulla giustizia distributiva e retributiva, e persino sul diritto alla guerra. (…)
Ma allora, cos´è la menzogna, cos´è la disinformazione? Si parla generalmente di menzogna quando qualcuno, pur conoscendo la verità su una data questione, non è interessato a farla sapere, e decide quindi di darne una versione opposta o comunque diversa. Questo concetto di verità (in base al quale chi mente lo fa per una scelta deliberata, per motivi di piacere, interesse o autodifesa) è tipico della vita quotidiana, ed è altresì uno dei concetti predominanti di verità nella sfera legale. Ma è pure presente in politica, sebbene in forma assai più complicata.
Davanti alla legge si è chiamati a dire tutta la verità e nient´altro che la verità. Nella sfera politica non è permesso dire il contrario della verità, ma è consentito non dirla per intero. E´ una questione di giudizio: a seconda delle circostanze, dei compiti, delle prospettive o altro, una persona o un´istituzione investita di autorità può dire tutta la verità, o dirla soltanto in parte. Di fatto, ciò avviene anche nei comportamenti quotidiani. In una sua lettera, Kant scrisse che chi omette di dire spontaneamente tutta la verità non può essere accusato di menzogna; ma se interrogato, è tenuto a dare una risposta veritiera. Peraltro, in questo caso avremmo potuto fare a meno di scomodare Kant: basterebbe aver letto il «Misantropo» di Molière.
Ma torniamo alla concezione di Kant sul tema del giudizio. La fiducia è condizione indispensabile alla vita, e quindi anche alla vita politica. Ma nel mondo politico moderno la fiducia non può essere incondizionata. I re non sono più tali per grazia di Dio. Tutti gli esseri umani sono ugualmente dotati di ragione e di coscienza. Perciò, anche se accordano la propria fiducia a questa o quella persona, le donne e gli uomini moderni riservano a se stessi il giudizio finale. Cosa ci conferisce questo diritto di decidere in ultima istanza, in materia di opinioni o di scelte politiche? E´ un diritto incondizionato? Possiamo fidarci incondizionatamente della nostra capacità di giudizio indipendente? Ovviamente, la risposta non può che essere negativa.
Le condizioni per poterci fidare del nostro giudizio non sono diverse da quelle che poniamo per fidarci del giudizio altrui. Si presuppone l´adesione ai valori moderni; la conoscenza dei problemi da affrontare, i quali a loro volta devono essere posti in relazione con i suddetti valori; la verifica, per quanto possibile, delle informazioni inerenti, e infine l´ammissione della propria fallibilità. Questi i presupposti per orientarsi nella ricerca della verità in campo politico.
L´ammissione della propria fallibilità è norma comune in tutte le sfere moderne del mondo politeistico (economia, diritto, politica); ma in nessuna sfera essa è necessaria quanto in quella politica. Se la retorica e l´arte della persuasione giocano un ruolo in tutte le sfere sopra menzionate, mai come in politica la loro importanza è predominante. In campi come quello della biofisica, oppure in materia di investimenti, i tentativi di fare opera di persuasione sono assai meno frequenti, dato che solo in politica la retorica può essere coronata dal successo.
Se la capacità di ammettere la propria fallibilità è una delle maggiori virtù di ogni cittadino, è certamente la più grande di tutte per un politico.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Repubblica 02.04.12

«Evasione, tanto clamore ma così non cambia nulla. Lo Stato esce perdente», di Bianca Di Giovanni

L’ex ministro delle Finanze: «Gli italiani la giustificano, i blitz suscitano indignazione temporanea, poi niente. Ma fare qualcosa costa consenso Nel concreto questo governo non è molto diverso da quello precedente». Dopo gli ultimi «clamorosi» (come sempre) blitz dei finanzieri, dopo le ultime grida di indignazione sulle dichiarazioni dei redditi, dopo gli ennesimi appelli alla condanna sociale dell’evasione, nell’ex ministro Vincenzo Visco comincia a farsi strada un dubbio inquietante. «Nella psicologia degli italiani alla fine l’evasione è introiettata, giustificabile e magari giustificata, tanto che c’è bisogno di grandi manifestazioni di indignazione, con tutti che si stracciano le vesti, per poi convincersi che alla fine nulla cambia, che il problema è irrisolvibile».
È quasi un gioco speculare, quello descritto dall’ex ministro, in cui più si alza la voce, più sotto sotto si giustifica. Perché per Visco indignarsi serve a poco: semmai bisogna analizzare il fenomeno in profondità fornire dati scientifici, organizzare una macchina complessa. Ma la lotta a un fenomeno di massa come quello italiano richiede anche una forte determinazione politica, perché combattere l’evasione costa molto in termini di consenso. «Per questo non credo che questo governo sia così diverso da quello precedente. Questa maggioranza non consente di pagare quei costi». Dunque gli allarmi continui per lei sono una sorta di lavacro?
«Quello che si è detto in occasione della pubblicazione delle denunce dei redditi era sostanzialmente identico a quello che si era detto l’anno prima. Basterebbe che i giornalisti andassero a riprendere i loro vecchi articoli per dimostrarlo. Nulla di nuovo, eppure molto clamore. C’è cattiva coscienza, e c’è anche l’occasione per la gente di lamentarsi dicendo: non cambia proprio nulla».
Befera ha detto che i confronti tra dipendenti e imprenditori erano impropri trattandosi di una media. È d’accordo? «Le medie sono degli indici statistici, e danno delle informazioni esatte. Poi certo servirebbero approfondimenti in rapporto alla natura del contribuente. A questo punto dico che bisognerebbe tirare fuori più dati. Noi avevamo preparato una serie di approfondimenti su piccole imprese e studi di settore, ma poi Tremonti ha fermato tutto. Befera ha detto che tra le imprese si contano anche quelle fallite: si potrebbe obiettare che anche tra i lavoratori si contano quelli licenziati o i part-time. Con analisi più raffinate, si potrebbero depurare le statistiche da questi casi. Si è detto che tra i dipendenti coi sono anche alti magistrati e professori universitari, che hanno un reddito molto più alto di un operaio. Ma questo è vero anche per la “famiglia” degli imprenditori: c’è differenza tra un grande industriale e un piccolo artigiano. Non c’è alcun motivo per sostenere che la dispersione sia diversa tra i due gruppi. Il vero dato che emerge è un altro». Quale?
«C’è un addensamento dei contribuenti attorno alle soglie degli studi di settore. Vuol dire che la gestione di questi strumenti non è stata delle migliori. Di fatto questo dato dimostra che si spingono i contribuenti ad avvicinarsi a quelle soglie, anche quelli che realmente stanno sotto, per mettersi l’anima in pace. Così gli studi di settore vengono considerati come una minimum tax, cosa che non sono: quelli sono solo degli indicatori. Ciascuno deve dichiarare il suo reddito, non quello presunto».
Un altro elemento riguarda la popolazione dei più ricchi, composta essenzialmente da dipendenti.
«Questo è un effetto della legge: gran parte dei redditi da capitale è soggetto a un’imposta sostitutiva, così come quelli da fabbricati. I ricchi di solito hanno azioni, obbligazioni e proprietà immobiliri, che non compaiono nell’Irpef. Tra i piccoli imprenditori, poi c’è un altro fenomeno: quello della suddivisione degli utili tra i familiari che lavorano nell’impresa. Anche in questo caso servirebbero dati più analitici».
Insomma, serve più studio contro l’evasione?
«Prima di tutto bisogna essere consapevoli che la lotta all’evasione è una cosa seria, di lungo periodo, che si fa con la buona amministrazione e le buone norme. E soprattutto con un grande accordo politico, perché combattendo l’infedeltà si hanno contraccolpi politici. Mi chiedo se questo governo non sia in parte la continuità del vecchio. Si deve decidre se davvero si vuole mettere in campo una strategia d’attacco, o se si vuole continuare con i redditometri, una forma sotterranea di forfettizzazione. Quanto ai blitz, fanno parte di un apparato dimostrativo, contro cui non ho nulla, a parte il fatto che non sono decisivi. Mi pare che oggi si continuino a confondere le persone. Come quel dato dei 12-15 miliardi già recuperati. Quello non è altro che il frutto dell’azione ordinaria dell’amministrazione. Accade ogni anno, e per metà è il risultato degli incroci telematici. In molti casi non si tratta di evasione, ma di errori dei contribuenti. Se fosse vero, non ci ritroveremmo ogni anno ad indignarci».
Eppure questo governo ha reintrodotto le sue misure antievasione.
«Non tutte: solo l’elenco clienti e fornitori. Ma serve molto di più: le norme sulle costruzioni, quelle sulle professioni. La strategia dev’essere ad ampio raggio: occorre scrutrinare milioni di persone, che in media evadono somme medio-basse».
Sembra proprio che non ci sia mai riusciti.
«Non è vero: se si leggono gli andamenti degli ultimi 20 anni si scopre che molto è stato fatto dopo il ‘95, con il recupero di 4 punti di Pil, e nel 2007 con l’emersione di 3 punti di Pil solo dell’Iva. Se si vuole si può fare».

L’Unità 02.04.12