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"Ecco l'esito di un gioco a somma zero", di Mario Piemontese

È proprio vero che il prossimo anno non ci saranno tagli agli organici del personale docente? Ecco l’esito di un gioco a somma zero.
Squadre
Nord: Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Umbria, Veneto.
Sud: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia.

Vincenti
Il Nord ha vinto 1.338 posti.
Emilia Romagna (+392), Friuli Venezia Giulia (+60), Lazio (+15), Liguria (+35), Lombardia (+218), Marche (+0), Piemonte (+182), Toscana (+226), Umbria (+37), Veneto (+173).

Perdenti
Il Sud ha perso 1.338 posti.
Abruzzo (-26), Basilicata (-112), Calabria (-277), Campania (-214), Molise (-39), Puglia (-289), Sardegna (-32), Sicilia (-349).

Nord
Il Nord ha avuto un incremento lordo di 1.577 posti.
85 posti della secondaria di I grado e 154 della secondaria di II grado, in tutto 239, sono passati all’interno dello stesso ordine e grado di scuola da Regioni del Nord che hanno perso posti a Regioni sempre del Nord che hanno vinto posti.
Secondaria di I grado: Marche (-36) e Veneto (-49).
Secondaria di II grado: Lazio (-120), Marche (-8) e Umbria (-26).
1.338 posti provengono dal Sud: infanzia (+175), primaria (+435), secondaria di I grado (+357), secondaria di II grado (+371).

Sud
Il Sud ha avuto una perdita lorda di 1.510 posti.
13 posti dell’infanzia, 27 della primaria e 132 della secondaria di I grado, in tutto 172, sono passati all’interno dello stesso ordine e grado di scuola da Regioni del Sud che hanno perso posti a Regioni sempre del Sud che hanno vinto posti.
Infanzia: Molise (+8) e Sardegna (+5).
Primaria: Abruzzo (+27).
Secondaria di I grado: Abruzzo (+10), Basilicata (+2), Campania (+88) e Sardegna (+32).
1.338 posti sono andati al Nord: infanzia (-342), primaria (-160), secondaria di I grado (-15), secondaria di II grado (-821).

Infanzia
Il Sud ha una perdita lorda di 355 posti: 13 posti restano al Sud (Molise (+8) e Sardegna (+5) ), 175 vanno all’infanzia del Nord e 167 alla primaria del Nord.
La perdita netta per l’infanzia è di 167 posti, tutti del Sud, che vanno a finire alla primaria del Nord.

Primaria
Il Sud ha una perdita lorda di 187 posti: 27 posti restano al Sud (Abruzzo (+27)), 160 vanno alla primaria del Nord.
Il Nord ha un incremento netto di 435 posti: 160 posti provengono dalla primaria del Sud, 167 dall’infanzia del Sud e 108 dalla secondaria di II grado del Sud.
L’incremento netto per la primaria è di 275 posti, tutti provenienti dal Sud (167 dall’infanzia e 108 dalla secondaria di II grado).

Secondaria di I grado
Il Sud ha una perdita lorda di 147 posti: 132 posti restano al Sud (Abruzzo (+10), Basilicata (+2), Campania (+88) e Sardegna (+32)) e 15 vanno a finire alla secondaria di I grado del Nord.
Il Nord ha un incremento lordo di 442 posti: 85 provenienti dal Nord (Marche(-36) e Veneto (-49)), 15 dalla secondaria di I grado del Sud e 342 dalla secondaria di II grado del Sud.
L’incremento netto per la secondaria di I grado è di 342 posti, tutti provenienti dalla secondaria di II grado del Sud.

Secondaria di II grado
Il Sud ha una perdita netta di 821 posti: 371 vanno a finire alla secondaria di II grado del Nord, 108 alla primaria del Nord e 342 alla secondaria di I grado del Nord.
Il Nord ha un incremento lordo di 525 posti: 154 provenienti dal Nord (Lazio (-120), Marche (-8) e Umbria (-26)) e 371 dalla secondaria di II grado del Sud.
La perdita netta per la secondaria di II grado è di 450 posti, tutti del Sud, che vanno a finire alla primaria del Nord (108) e alla secondaria di I grado del Nord (342).

In sintesi

Il Sud ha perso 1.338 posti.
342 posti dall’infanzia sono passati: all’infanzia del Nord (175) e alla primaria del Nord (167).
160 posti dalla primaria sono passati alla primaria del Nord.
15 posti della secondaria di I grado sono passati alla secondaria di I grado del Nord.
821 posti della secondaria di II grado sono passati: alla primaria del Nord (108), alla secondaria di I grado del Nord (342) e alla secondaria di II grado del Nord (371).

Il Nord ha vinto 1.338 posti
175 posti dell’infanzia provengono dall’infanzia del Sud.
435 posti della primaria provengono: dall’infanzia del Sud (167), dalla primaria del Sud (160) e dalla Secondaria di II grado del Sud (108).
357 posti della secondaria di I grado provengono: dalla secondaria di I grado del Sud (15) e dalla secondaria di II grado del Sud (342).
371 posti della secondaria di II grado provengono dalla secondaria di II grado del Sud.

La determinazione degli organici non può essere l’esito di un gioco a somma zero. Non facciamoci prendere in giro dai Professori.

da Rete Scuole

"In nome della madre una storia esemplare", di Sebastiano Vassalli

Quella di Denise, la figlia di Lea Garofalo uccisa e sciolta nell’acido vicino a Milano nel 2009, è una storia esemplare. Non solo è un dramma personale e familiare, ma è anche il nostro dramma. Una storia terribile, quella di Lea Garofalo uccisa e sciolta nell’acido vicino a Milano nell’autunno del 2009. Una storia che mescola vicende personali e legami di ‘ndrangheta in un groviglio così intricato da non essere quasi raccontabile: siamo di fronte ad una di quelle vicende a cui si riferiva Louis-Ferdinand Céline quando diceva che, in letteratura, non darebbero un risultato realistico ma grottesco. Ne verrebbe fuori un pasticcio, una caricatura.
Più raccontabile, invece, e a suo modo esemplare, è la storia della figlia di Lea, Denise: che ora ha diciannove anni (ne aveva diciassette all’epoca dei fatti), ed è stata la testimone chiave di un processo che ha condannato all’ergastolo sei imputati. Il padre della ragazza, due suoi zii e altri tre mafiosi. Il dramma di Denise è innanzitutto un dramma personale e familiare: figlia di un padre-mostro e nipote di altri due mostri (usciamo, una buona volta, dal «politicamente corretto», e chiamiamo i mostri con il loro nome), Denise ha avuto il coraggio e la lucidità di fare la cosa giusta. Ma il suo dramma è anche una storia esemplare: è il nostro dramma, perché dietro questa vicenda c’è la Calabria. Una terra stremata dall’emigrazione, che ha disperso nel mondo le sue forze migliori ed è ormai in qualche misura alla mercé di quelle peggiori. Una terra sempre più rassegnata. Diversamente dalla Sicilia: che non ha risolto tutti i suoi problemi, figuriamoci!, ma insomma ha le forze e le capacità per combatterli.
La Calabria di oggi quelle forze sembra non averle, e in compenso ha una mafia ancora più violenta e invasiva di quella siciliana, che è arrivata ad infettare gran parte dell’Italia del nord, dalla Liguria alla Lombardia, dal Piemonte all’Emilia Romagna.
Indro Montanelli diceva dei siciliani che sono italiani esagerati, nel bene e nel male. Dei calabresi di oggi si potrebbe forse dire che sono italiani rassegnati. Non credono che le cose, nella loro terra, possano cambiare. Pensano che la situazione sia irreversibile (Sciascia diceva: «Irredimibile») e che l’unico modo per tenersene fuori sia non parlarne. Perciò la storia di Denise è una storia importante, come erano importanti le scritte nei cortei dei ragazzi di Locri: «E adesso ammazzateci tutti». Perché ci dà un speranza.
Denise è una ragazza di quest’epoca, che studia all’università e che vuole vivere in un modo dove a dettare le leggi e ad applicarle non siano i mostri come suo padre. I ragazzi di Locri sono, anzi purtroppo erano perché non se ne è più sentito parlare, dei ragazzi come lei che volevano crescere in una società non mafiosa e avere ad adulti altre possibilità oltre a quelle di emigrare o di diventare mafiosi. C’è ancora, per fortuna, una Calabria non rassegnata alla ‘ndrangheta, che ogni tanto esce allo scoperto: ma che sostegno trova nel resto del Paese? Che cosa si fa per aiutarla?
Sono domande che possono sembrare retoriche e che non lo sono. Anche se i mali profondi di quella terra, bellissima e sfortunata, dipendono da ragioni strutturali, che nessun governo e nessuno potrebbe cambiare dall’oggi al domani con un tocco di bacchetta magica. Ci sono cose che si potrebbero fare a costo zero, o quasi, e che non si sono mai fatte. Non spetta a me indicarle, ma ci sono. Cose che servirebbero a ridare fiducia alla generazione di Denise e dei ragazzi che ancora vanno a scuola, perché non si rassegnino già prima di diventare adulti. Cosa che ridarebbero fiato e speranza a che vuole stare dalla parte della legalità contro i mostri.
Altrimenti i giudici non basterebbero mai, i poliziotti non basteranno mai, i collaboratori di giustizia saranno sempre più rari e anche le storie esemplari, come quella di Denise e dei ragazzi di Locri, avranno un loro valore simbolico e ideale ma, in definitiva, non serviranno a niente.

Il Corriere della Sera 01.04.12

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“Sindaco Lanzetta, resista. Per aiutare tutte le donne”, di Goffredo Buccini

L’ultimo episodio intimidatorio nella notte tra mercoledì e giovedì. Quando tre colpi di pistola calibro 7.65 vengono sparati da sconosciuti contro l’auto di Maria Carmela Lanzetta, 57 anni, farmacista e, soprattutto, sindaco di Monasterace (Reggio Calabria), un paesino di circa 3.500 abitanti che si affaccia sul Mar Ionio. Prima ancora, tra il 25 e il 26 giugno, qualcuno aveva incendiato la farmacia della Lanzetta: in quell’occasione i danni furono ingenti. E così la donna, del Pd, ha detto basta: si è dimessa dalla carica di primo cittadino (al suo secondo mandato). Nel paese, però, in centinaia sono scesi in piazza, venerdì sera, per manifestarle solidarietà e vicinanza. Una fiaccolata silenziosa ha attraversato le stradine per ribadire con forza la voglia di legalità e sicurezza. Soprattutto: per convincer il sindaco a ritirare le dimissioni. La solidarietà è arrivata anche dal mondo politico. Il segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani, ha annunciato «un’iniziativa per sollecitare l’intervento del governo, delle forze dell’ordine e della magistratura».

Gentile sindaco Maria Carmela Lanzetta,
accetti queste righe in segno di ammirazione e rispetto. L’ammirazione è dovuta alla sua storia: qualche anno fa, da rappresentante d’una società civile della quale noi giornalisti amiamo spesso riempirci la bocca a vanvera, lei fece un passo avanti; nel 2003 il consiglio comunale di Monasterace, il suo paese in provincia di Reggio Calabria, era stato sciolto per infiltrazioni mafiose, due ‘ndrine spadroneggiavano sugli appalti, un certo buonsenso da don Abbondio avrebbe suggerito a molti più robusti di lei di restarsene chiusi tra le mura domestiche.
Lei, mamma di due ragazzi, lasciò la sua farmacia, entrò in politica (ora milita nel Partito democratico), riuscì a vincere le elezioni col viso dolce e il sorriso pulito che adesso scopriamo dalle foto dei quotidiani, salì in municipio alla guida di una giunta piena di giovani e di donne. Il clima di intimidazione dovette sentirlo da subito, perché con lei l’aria in Comune era cambiata, la pacchia dei boss finita, lo Stato aveva un degno rappresentante e persino le operaie delle serre ortofrutticole, sfruttate e senza paga, grazie a lei non si sentirono più abbandonate al loro destino.
Il rispetto è doveroso guardando alla sua scelta più recente: dopo il secondo attentato in nove mesi, lei ha deciso di dimettersi. Quando, a giugno del 2011, le avevano bruciato la farmacia, aveva resistito, commossa da quei concittadini che le si erano stretti attorno. Ma mercoledì scorso i picciotti del disonore si sono fatti di nuovo vivi, a colpi di pistola: hanno sparato contro la sua macchina, una pallottola s’è conficcata nel muro del suo palazzo. E lei ha pensato di non poter mettere più a repentaglio la vita dei suoi figli. S’è arresa, le ragioni della madre hanno prevalso.
In uno Stato sgangherato come il nostro, fare il proprio dovere diventa spesso eroismo. E certo non può chiederle di restare un minuto in più sulla poltrona di sindaco chi se ne sta comodamente a discettare di questa vicenda da una rassicurante distanza di qualche centinaio di chilometri.
Tuttavia noi crediamo che lei possa dare ancora ascolto alle tante voci che le si levano attorno, nella sua Calabria. Voci di donne, soprattutto. Di donne spesso tanto diverse da lei per cultura e condizione, e per le quali lei può fare molto, a patto di restare ciò che è. Non pensiamo soltanto alle «sue» operaie delle serre. Pensiamo anche alle tante figlie, sorelle e mogli cresciute o trapiantate nelle famiglie di ‘ndrangheta e che adesso iniziano a mostrare la voglia di ribellarsi in questa che sembra un’improvvisa primavera delle donne calabresi.
Lei conosce meglio di noi i loro nomi, le loro storie. Pensiamo a Lea Garofalo, i cui carnefici sono appena stati condannati all’ergastolo dalla Corte d’assise di Milano, a Maria Concetta Cacciola, a Giuseppina Pesce, alle «pentite» coraggiose ma anche a tante ragazze qualsiasi che stanno scegliendo proprio ora da quale parte schierarsi, che s’accingono a dire «no» alle leggi arcaiche di una società fondata sulla sopraffazione. Noi non sappiamo se davvero le donne salveranno il mondo ma crediamo fortemente che, nel loro piccolo, le donne calabresi salveranno la loro terra, riscattandosi e riscattandoci. Quelle donne, sindaco, guardano a persone come lei. Come facciamo noi, del resto, da una distanza che va accorciata di parecchio. Perché Monasterace deve diventare questione che ci riguarda tutti: una nostra casa da difendere quel suo ufficio al Comune, dove ci auguriamo di vederla ancora molto a lungo.

Il Corriere della Sera 01.04.12

Profumo: "Basta con i vecchi compiti a casa", di Marina Cavallieri

Lezioni interattive, lavoro di squadra, più internet in classe e meno a casa. Insomma, bisogna cambiare i compiti. La formula esatta ancora non esiste ma più che una riforma è necessaria una rivoluzione, qualcosa che nasca nelle aule prima che nei ministeri.
Non solo in Francia ma anche in Italia si discute del rito scolastico più inossidabile, i compiti, odiato dagli studenti, sopportato dai genitori, imposto come un dogma dai professori. Ma sempre immutato. Nella scuola ci sono stati negli anni alcuni cambiamenti, molti slittamenti, qualche rivoluzione mancata, ma i compiti sono sempre rimasti, emblema del dovere, senza che nessuno osasse toccarli. Ora, dice il ministro dell´Istruzione, è venuto il momento. «Oggi i ragazzi ricevono molti stimoli anche dall´ambiente extrascolastico, e quindi deve cambiare la struttura dei compiti e delle lezioni», ha chiarito Francesco Profumo durante una visita a due istituti di Ancona. «Se oggi si dà una versione di greco o latino, mi racconta mia moglie che è insegnante, quasi sempre la traduzione si trova su internet. C´è anche un sito specializzato, basta inserire tre parole… Insomma, dobbiamo essere più “smart” dei ragazzi». Più furbi. È necessario, dice Profumo, che gli studenti inseguano noi, e non che noi, gli adulti, inseguiamo loro.
Le proposte del ministro prevedono innanzitutto più lavoro di squadra, meno studio solitario, una maggiore possibilità per i ragazzi di cooperare intorno ad un progetto, magari con i loro linguaggi e le nuove tecnologie: «Un po´ più di complessità, un po´ più di connettività, lavoro da fare in parte insieme, in parte ognuno a casa sua, anche con orari più flessibili». La riflessione di Profumo parte dal fatto che gli studenti hanno molte fonti di informazioni, internet, i social network, una mole di notizie in cui però si possono perdere e che invece devono imparare a controllare. Quindi i compiti devono servire a capire come selezionare le informazioni, a discernere il vero dal falso, a navigare sviluppando capacità critiche. «Una parte di compiti ci vuole – sostiene Profumo – perché il fatto di essere impegnati direttamente rende i ragazzi responsabili e li aiuta a maturare». Però ci vorrebbero anche «delle attività un po´ più libere, con una base logica forte, con capacità di sintesi e di analisi, magari lavorando insieme». La ricetta del ministro prevede anche più formazione sui test, per fare in modo che i ragazzi non arrivino alle selezioni per l´università impreparati.
Una formula ancora tutta da mettere a punto. «La verità è che per compiere questa rivoluzione bisogna formare gli insegnanti», spiega Mario Rusconi, vicepresidente dell´Associazione nazionale presidi. «Si potrebbero fare meno compiti a casa se ci fossero più lezioni interattive, ci sono alcuni insegnanti che le fanno, nel mio liceo, il Newton di Roma, ci sono professori che fanno lezione in inglese ma è tutto lasciato alla volontà individuale. Non c´è l´obbligo di aggiornamento e se uno vuole può rimanere sempre con i metodi di quando ha iniziato. È questo il punto da aggredire: la formazione degli insegnanti». Anche i genitori rilanciano e mettono la soluzione nelle mani della scuola. «La scuola esige modalità del secolo scorso, anzi dell´Ottocento, è fuori tempo», dice Mariella Nava, dell´Associazione genitori democratici. «Ma per cambiare deve cambiare la testa degli insegnanti, in questo senso ci deve essere un investimento del governo».

La Repubblica 01.04.12

"Riparare l'errore", d Claudio Sardo

L ’emergenza economica dunque non è finita. Sarebbe gradita qualche autocritica da parte di chi ha posto lo scalpo dell’articolo 18 in cima all’agenda politica. Anche da parte del governo che, pur di lanciare un segnale ai «mercati» (segnale
non pervenuto), ha sacrificato una ragionevole intesa che avrebbe
rafforzato, quella sì, l’immagine del Paese. Speriamo almeno che si ripari presto al danno. Anche perché la coesione sociale resta la migliore garanzia di efficacia per le misure innovative sul mercato del lavoro, che ora il Parlamento deve vagliare e migliorare. I più recenti interventi di Mario Monti sembrano messaggi di pace rivolti almeno alla sua maggioranza. Meglio un premier che recupera la sobrietà rispetto ad uno che accende polemiche. Ma la prova decisiva sarà nei fatti.
Il testo della riforma ancora non è stato presentato in Parlamento (ritardo non proprio lodevole, che rinverdisce la pratica di precedenti governi). Sarebbe una sorpresa positiva se Monti riconoscesse l’errore e, da subito, conformasse al modello tedesco la modifica dell’articolo 18. Si temono invece ulteriori pasticci, con correzioni parziali che rischiano di complicare il quadro giuridico. Tuttavia il giudizio finale spetta alle Camere. E in quella sede andrà ricomposto lo strappo sociale.
In caso di licenziamento immotivato o ingiusto, il reintegro nel posto di lavoro va reinserito quantomeno come sanzione a disposizione del giudice. È già un segno di grande apertura dei sindacati (che il governo avrebbe fatto bene a valorizzare) la disponibilità ad inserire l’indennizzo economico come sanzione alternativa. Del resto questa soluzione abbasserebbe la barriera che oggi divide il mercato del lavoro sulla base delle dimensioni di impresa e potrebbe persino limitare il contenzioso giudiziario (come avviene in Germania).
Comunque un punto è chiaro fin d’ora: se Monti vuole davvero una soluzione condivisa, deve riportare il reintegro nell’articolo 18. In caso contrario imboccherà la strada della rottura: e sarà una scelta politica, non tecnica. La coesione sociale resta una riserva di energie per l’Italia. È incomprensibile il deprezzamento che ne viene fatto da chi sostiene che i diritti, come i corpi intermedi, sono un costo che dobbiamo ridurre. Se la crisi economica persiste, se non bastano mai i compiti a casa, se le dotazioni del fondo salva-Stati sono sempre insufficienti come la liquidità della Bce, come si può sostenere che lo scalpo dell’articolo 18 possa restituire competività al Paese attirando investimenti esteri? La verità è che questa discussione non ha come orizzonte l’uscita dalla crisi ma il governo dell’esistente. I mercati non attendono certo che alla pesante manovra correttiva del dicembre scorso (i cui effetti non si fermeranno alle addizionali Irpef, ma presto verranno incrementati dalla stangata
Imu e speriamo non sfocino in un aumento dell’Iva a ottobre) si aggiungano dei simboli ideologici. I mercati aspettano l’inversione di tendenza rispetto alla recessione in atto. È questa la vera priorità nell’emergenza. È questo il cuore del mandato del governo Monti. La coesione politica e sociale è condizione perché si possa cambiare l’agenda del Paese e concentrare le forze sullo sviluppo, che vuol dire contrastare l’illegalità, ridurre il peso fiscale sul lavoro, accorciare i tempi dei pagamenti delle Pubbliche amministrazioni, consentire ai Comuni virtuosi di riprendere i loro programmi, etc. Si possono ancora chiedere sacrifici agli italiani, ma solo a condizione di ridurre le diseguaglianze e le insopportabili ingiustizie fiscali. Si può lavorare insieme nella transizione a condizione che le ricette sbagliate dell’Europa di centrodestra non vengano presentate come dogmi di fede.
Monti ha detto che i partiti dovranno continuare i compiti anche dopo il 2013, quando il suo governo non ci sarà più. Se voleva dire che l’Italia non potrà deragliare dalla ricerca di una maggiore competitività e da un serio controllo dei conti pubblici, ha perfettamente ragione.Ma se i compiti sono le solite politiche recessive, se sono quelli che non consentono all’Europa di uscire dalla crisi, allora speriamo proprio che i paradigmi cambino.
E che il centrosinistra possa tornare al governo presentando una proposta alternativa, più orientata alla crescita, più europeista, più attenta alla dimensione sociale. Siamo troppo piccoli per questa ambizione? La dimensione dell’alternativa è oggi europea. L’Europa sì che può farcela a rompere la spirale rigore – recessione – impoverimento- diseguaglianze.Ma il centrosinistra italiano può contribuire a questo progetto insieme alle altre forze progressiste del Continente. È questa la sfida del 2013. Che comincia anche per noi con le prossime elezioni francesi.❖

L’Unità 01.04.12

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“IL CONTAGIO DEL RIGORE”, di Paolo Soldini

Niente da fare: i fantasmi dei fallimenti continuano ad aggirarsi
per l’Europa. Nonostante l’aumento dei fondi salva-stati a 700 miliardi di euro decretato dai ministri economici e finanziari dell’eurozona e a dispetto delle previsioni ottimistiche di Nicolas Sarkozy, il quale sostiene che «si è voltata pagina». E anche a dispetto del premier italiano Mario Monti, secondo il quale gli «aspetti finanziari» della crisi si sarebbero esauriti.
Non la pensano così gli esperti della Commissione e del Consiglio Ue che venerdì scorso hanno consegnato ai ministri due rapporti riservati dai toni assai meno rosei. Nei due studi, di cui hanno riferito per cenni la «Stampa» e il «Financial Times» si sosterrebbe che il rischio del contagio non è affatto bandito e potrebbe anzi «riemergere con un preavviso molto breve, come si è visto qualche giorno fa, e rilanciare il triangolo potenzialmente perverso tra debiti sovrani, rischi per le banche e i fondi d’investimento e la crescita» (e qui forse si sarebbe potuto scrivere, meglio: la mancanza di crescita). L’allusione a ciò che si è «visto qualche giorno fa» era chiaramente riferita alla Spagna, dove c’è stata una brusca impennata del costo degli interessi sul debito. Ancora una volta, dunque, si delinea lo scenario della crescita di un rischio default di un paese che potrebbe trascinare tutti nel disastro e al quale i governi e le istituzioni della Ue rispondono nell’unico modo in cui, dall’inizio della crisi dei debiti sovrani, hanno saputo e voluto fare, sia pure alcuni (la Germania) molto, molto malvolentieri: pompando denaro in fondi che, alla fine, serviranno tutt’al più a garantire i grandi investitori finanziari, molti dei quali sulla crisi hanno speculato allegramente. In un certo senso, l’evoluzione delle cose sta dando ragione a Wolfgang Schäuble, quando lamentava l’inclinazione europea ad aumentare i fondi per riempire «un pozzo che in realtà è senza fondo». Depurata da un bel po’ di demagogia pro domo sua, l’affermazione del super ministro di Angela Merkel non è del tutto insensata. Anche se tanto Schäuble che la sua cancelliera dovrebbero riflettere su come e quanto la logica di rispondere al rischio aumentando la quantità di denaro per contrastarlo non sia altro, in realtà, che l’altra faccia della medaglia che piace tanto loro e sulla quale hanno scommesso tutto, fino all’imposizione del fiscal compact: l’idea che la crisi dell’eurozona si risolva solo con l’arma della disciplina di bilancio e dei diktat imposti ai paesi che cercano di non farsela puntare addosso.
È davvero impressionante quanto sia mancato, in tutti questi mesi, ogni stimolo ad allargare, quanto meno, il discorso alla necessità di misure e di politiche per favorire ripresa e occupazione e alleviare le condizioni materiali dei ceti più schiacciati dalle scelte lacrime e sangue. Fino al paradosso di soprassedere ad ogni azione di controllo e regolazione dei mercati finanziari che pure tutti riconoscono essere stati, con il loro comportamento, uno dei fattori scatenanti della crisi. Questa sorta di «pensiero unico
della disciplina di bilancio» (prevalentemente ma non solo tedesco) dovrebbe essere riconosciuto per quello che è: non l’unica risposta possibile alla crisi dell’euro, ma come una precisa scelta politica. A dimostrare questa verità non c’è solo la Grecia, alla quale, quali che fossero stati errori e mancanze, è stato imposto un corso economico non solo crudele, ma del tutto insensato, fatto insieme di tagli, sacrifici e obblighi recessivi e della pretesa che il Paese si mettesse però nella condizione di pagare i suoi debiti. Ora ci sono il Portogallo e, soprattutto la Spagna. La manovra annunciata dal governo conservatore di Mariano
Rajoy è del tutto simile, almeno nella logica ispiratrice, a quella
imposta ad Atene: tagli quasi lineari del 17% delle spese dei ministeri, congelamento degli stipendi pubblici, aumenti delle bollette di luce e gas. Con, in più, un tocco «italiano»: uno scudo fiscale per il rientro dei capitali evasi con una tassa liberatoria del 10% (da noi fu il 5%).
Eppure il debito spagnolo, a differenza di quello greco (e anche di quello italiano) è relativamente contenuto e le durissime misure decretate servono, in realtà, «soltanto» a riportare il deficit di bilancio dall’8,5 intorno al tetto del 5% previsto dal fiscal compact. Un abbattimento forse necessario, ma sulla cui sostenibilità c’è da dubitare seriamente in un paese in cui la disoccupazione generale viaggia verso il 25% e quella giovanile verso il 50%. Sono proprio quelle di Rajoy le priorità dell’economia spagnola? La domanda non riguarda solo Madrid.

L’Unità 01.04.12

Il confine di Mario "Spread sotto 340", di Carmelo Lopapa

L´allarme viaggia sotto traccia, non deve contagiare gli investitori, soprattutto stranieri. Non deve preoccupare gli italiani, alle prese con sacrifici e tasse. Ma la preoccupazione accompagna gli ultimi giorni del viaggio orientale di Monti. E condizionerà il calendario al rientro in Italia. «Dobbiamo impedire in tutti i modi che lo spread superi di nuovo stabilmente quota 340 o la natura del nostro debito pubblico potrebbe trascinarci nel gorgo della Spagna», raccomandazione e timore che il Professore confida in queste ore solo ai più stretti collaboratori.
L´imprevista impennata del differenziale coi titoli tedeschi oltre quella soglia-sicurezza, dopo settimane di quiete, la chiusura venerdì appena in calo – a 332 sui Bund – costituiscono un campanello d´allarme che a Palazzo Chigi e in via XX Settembre non stanno affatto sottovalutando. La situazione è stata sotto monitoraggio costante anche da parte del viceministro dell´Economia Vittorio Grilli, rientrato ieri sera dall´Ecofin di Copenaghen. Anche perché la settimana è stata segnata da forti tensioni sui listini e «i mercati sono ancora troppo fragili», ripete il numero due di Monti al dicastero. Sullo sfondo delle apprensioni italiane c´è la crisi finanziaria che sta travolgendo la Spagna. L´Italia non è fuori dalle sabbie mobili, il momentaneo salvataggio della Grecia non elimina affatto i rischi. Il precetto dettato dall´inquilino di Palazzo Chigi dalla Cina è secco: «Solo se teniamo lo spread sotto 340 siamo in grado di gestire le possibili ripercussioni del virus iberico». Un virus altamente contagioso, soprattutto per le economie indebolite da debiti pubblici faraonici, Italia e Portogallo in prima linea.
Senza tenere conto del fatto che ogni cento punti base di spread, di scarto tra Btp e Bund tedeschi, comportano la perdita (o il guadagno) di circa 2 miliardi di euro. Linfa vitale che le finanze italiane non possono permettersi di perdere. Monti resta ottimista sul medio-lungo termine. Anche perché nella settimana appena conclusa l´asta dei titoli italiani a 5 anni (per 2,5 miliardi)e 10 anni (per 3,2 miliardi) è andata a gonfie vele. Ma se lo spread è sceso da 517 fino di quasi 200 punti è anche grazie alle iniezioni di liquidità della Bce. Un supporto decisivo che – il premier lo sa bene – non si ripeterà nei prossimi tre mesi. Ecco perché è già corso ai ripari spostando buona parte del debito pubblico sulle banche italiane. Grazie al maxi-prestito della Banca centrale, gli istituti hanno acquistato in blocco i nostri titoli e questo ha consentito intanto di trasferire il controllo dell´«esposizione» entro i confini nazionali. In seconda battuta, il calo drastico dello spread ha convinto anche investitori stranieri a partecipare alle aste, facendo rialzare il tasso di credibilità dell´economica italiana. Ma quel che si è chiuso è il primo trimestre di recessione conclamata. E la «spagnola» che fa tremare adesso i mercati costituisce un fattore troppo alto di rischio. La ricetta sulla quale Monti si prepara a insistere con i partner europei prevederebbe un ulteriore innalzamento del Fondo salva-Stati. Venerdì il Firewall è stato aumentato a 800 miliardi, dall´Eurogruppo. Il premier è convinto che occorrerà alzare ancora oltre la soglia se si vorrà sortire un effetto deterrente contro le speculazioni e abbattere ulteriormente lo spread. La situazione insomma è ancora molto scivolosa. È un messaggio che Palazzo Chigi lascia filtrare soprattutto all´indirizzo dei partiti italiani alla vigilia della trattativa sul mercato del lavoro che ora si sposta in Parlamento. La precarietà finanziaria è anche il motivo per il quale Monti ha già deciso che il tesoretto derivante dalla lotta all´evasione non verrà impiegato per adesso nella riduzione del debito. Tanto meno impedirà di innalzare l´Iva di due punti, come già previsto per la seconda metà dell´anno, forse in autunno. A dispetto di chi già si adagiava su più ottimistiche previsioni. Quel fondo fiscale potrebbe tornare utile in caso di aggravamento della crisi.

La Repubblica 01.04.12

"L'Europa tra Scilla e Cariddi", di Mario Deaglio

Nel dodicesimo canto dell’Odissea, Omero racconta che Ulisse non aveva scelta: se fosse passato troppo vicino a Cariddi, la sua nave sarebbe stata affondata in quel terribile gorgo; se, per contro, fosse passato troppo vicino a Scilla, avrebbe salvato la nave ma quel mostro a sei bocche gli avrebbe divorato sei buoni compagni. Ulisse non disse nulla ai suoi uomini, passò vicino a Scilla e perse sei buoni marinai. Optò quindi per il male minore, ma tale opzione provocò la rivolta del suo equipaggio che lo costrinse a fermarsi sull’isola Trinacria dove uccise alcuni buoi sacri, fonte di nuovi guai.

Sia pure in forme molto diverse, tutti i governi dei Paesi ricchi devono affrontare il dilemma di Ulisse: per evitare di vedere le loro economie affondate dai mercati finanziari, ossia dal gorgo di Cariddi, devono adottare misure che provocano scontento sociale e politico, ossia le avvicinano alle bocche di Scilla.

Le forme dello scontento vanno dallo sciopero generale spagnolo all’imprevisto successo, nei sondaggi pre-elettorali francesi, del candidato comunista Jean-Luc Mélenchon.
A differenza di Ulisse, il vero pericolo è di subire contemporaneamente i due mali: di non riuscire a evitare né un ostacolo né l’altro, di vedere le economie avanzate, in particolare quelle europee, stritolate da un mercato finanziario fuori controllo e al tempo stesso scosse da un risentimento di fondo verso politiche non rapidamente efficaci.

Del rischio finanziario è un ottimo esempio la cancellazione – a seguito di un litigio tra il presidente Jean-Claude Juncker e il ministro austriaco delle Finanze Maria Fekter – della conferenza stampa conclusiva della riunione dell’Eurogruppo, svoltasi venerdì a Copenhagen. Se avesse tenuto quella conferenza stampa, Juncker avrebbe dovuto ammettere che l’Europa ha quasi soltanto «riverniciato», non realmente rafforzato, il fondo anti-crisi e che non si è ancora trovato l’accordo sul nome del suo successore: due non-decisioni indicative l’una del persistere della debolezza finanziaria e l’altra della mancanza di una vera volontà politica europea.

La debolezza finanziaria è molto evidente. Sui conti pubblici della Grecia è stato posto solo un vistoso rattoppo e il suo primo ministro ha dichiarato venerdì che gli aiuti ottenuti forse non basteranno (un modo diplomatico per chiederne dei nuovi); il Portogallo può vantare una forte riduzione del deficit pubblico, accompagnata, però, nel 2012, da una contrazione produttiva di oltre il 3 per cento; le sorti finanziarie di Italia e Spagna rimangono appese agli spread e soggette a un esame giornaliero; anche i rigorosissimi Paesi Bassi dovranno operare dei tagli per rimanere sotto il «tetto» del 3 per cento e il deficit francese, pur lievemente ridotto rispetto alle previsioni, rimane sopra il 5 per cento.

L’intera zona euro rischia così di avvitarsi in una spirale perversa: deficit pubblico – tagli alle spese per cancellarlo – riduzione della produzione a seguito dei tagli – minor gettito fiscale a seguito di tale riduzione – nuovo deficit pubblico (sia pure inferiore al precedente) invece dello sperato pareggio. Ne è un esempio la Spagna che ha dovuto varare la manovra finanziaria più severa – e più impopolare – dai tempi di Franco e che, nonostante questo, alla fine del 2012, avrà, se tutto va bene, un deficit pubblico pari a oltre il 5 per cento del prodotto interno lordo. Le analisi dell’Ocse, diffuse venerdì, mostrano che, nel loro complesso, le tre maggiori economie europee (Germania, Italia e Francia) hanno tristemente celebrato con la fine di marzo il secondo trimestre di caduta produttiva. Altri segnali di grave debolezza provengono dalla produzione industriale italiana, specie nel settore auto.

L’Unione europea non può semplicemente accettare una situazione del genere e continuare a inchinarsi ai mercati finanziari perdendo di vista la sostenibilità sociale delle manovre in corso e considerando gli andamenti di tali mercati come una (l’unica?) variabile indipendente, alla quale bisogna sempre adeguarsi senza discutere. Dovrebbe invece da un lato porre ordine in tali mercati, impedendo ondate speculative troppo brusche e rimuovendo l’opacità che ne caratterizza certi segmenti e dall’altro spostare in avanti gli obiettivi di pareggio dei bilanci pubblici e di riduzione dei debiti pubblici troppo frettolosamente fissati nel patto fiscale o «patto di bilancio» dei primi di marzo. Un pareggio troppo frettoloso potrebbe destabilizzare il sistema europeo per un lungo periodo.

Potrebbe poi introdurre qualche forma di tassazione dei circuiti finanziari (spesso sinteticamente indicata come «Tobin tax»): gli introiti di tale imposta, come anche una parte degli introiti derivanti dalle manovre dei vari Paesi, dovrebbero essere subito reimmessi nell’economia sotto forma di misure di stimolo invece di venire passivamente sacrificati al dio Moloch del pareggio da raggiungere al più presto possibile.

Se non si vuole seguire questa linea, non va scartata a priori la proposta avanzata venerdì a Cernobbio da Nouriel Roubini – l’economista turco-americano, laureato alla Bocconi che è stato uno dei pochi a prevedere la crisi – di immettere una fortissima liquidità nel sistema fino a far svalutare l’euro del 30 per cento. Per non finire nelle bocche di Scilla o sugli scogli di Cariddi l’Europa deve in ogni caso fare un salto di qualità e smetterla con il suo compiaciuto linguaggio burocratico, con le conferenze stampa annullate per nascondere i contrasti, con una visione troppo miope e troppo pericolosa.

la Stampa 01.04.12

"Tre chiavi per aprire la gabbia della crisi", di Eugenio Scalfari

I problemi da risolvere sono tanti, economici e politici, ma tre sovrastano tutti gli altri perché rappresentano la chiave che può aprire la porta oltre la quale c´è la salvezza, e sono: l´evasione fiscale, il precariato, la creazione di nuovi posti di lavoro.
Ce n´era un quarto, la messa in sicurezza dei conti pubblici e del debito sovrano, ma questi sono già stati risolti nei primi tre mesi del governo Monti dalle congiunte azioni dei due Mario, quello che lavora a Palazzo Chigi e l´altro che sta a Francoforte nella sede turrita della Bce. Le dimensioni dell´evasione appaiono lampanti dalla tavola dei redditi resa nota nei giorni scorsi, aggiornata al 2010. Di solito, nelle società dove le imposte sono normalmente pagate, la distribuzione del reddito configura una trottola con un vertice sottile, una coda altrettanto sottile e un grosso corpo al centro; i ricchi, i poveri e la grossa pancia dove si addensa il ceto medio. Ma in Italia non è così, non è mai stato così. In Italia la grossa pancia poggia quasi a terra, sorretta da un piolo corto, mentre in alto si impenna un sottilissimo vertice. La grande pancia di questa trottola sui generis non si può definire ceto medio perché la fascia dei redditi che la compongono sta tra i 12 e i 20mila euro annui. Non sono tecnicamente poveri ma stentano molto a campar la vita e sono composti da pensionati, lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi con partite Iva e piccoli imprenditori.
Le prime due categorie pagano le imposte fino all´ultimo centesimo col sistema della ritenuta alla fonte cui non possono sfuggire; le altre categorie dichiarano il loro reddito e sono soggette agli accertamenti del fisco.
L´evasione è fondatamente stimata in 280 miliardi di reddito che equivalgono ad un minor gettito fiscale di 130 miliardi. Le sue dimensioni ammontano a un quinto del reddito nazionale. Criminalizzare nominativamente i contribuenti collocati nelle suddette categorie sarebbe scorretto, ma che gli evasori si trovino lì, in quella vastissima pancia schiacciata verso il basso nell´anomala trottola sopra descritta, è una certissima realtà, inesistente negli altri Paesi di capitalismo evoluto. Una lotta seria per recuperare il maltolto che danneggia al tempo stesso il fisco e la vasta platea dei contribuenti (forzatamente) onesti, non è mai stata fatta ma fino agli anni Ottanta dello scorso secolo la figura della distribuzione del reddito aveva la forma della piramide.
L´anomalia dell´evasione di massa è diventata intollerabile negli ultimi trent´anni e – vedi caso – è andata crescendo di pari passo con la crescita del debito pubblico.
Evidentemente c´è un nesso tra questi due fenomeni.
Quest´anno i primi risultati della lotta contro l´evasione sembrano positivi: 13 miliardi sono stati già recuperati; la cifra prudenzialmente prevista dall´Agenzia delle entrate è di 20 miliardi, ma potrebbe essere anche di più. Il governo non vuole ipotecare la sua distribuzione ma è logico pensare che il primo obiettivo debba essere quello di evitare l´inasprimento dell´Iva previsto – se necessario – dal prossimo settembre. Altri obiettivi, non necessariamente alternativi, potrebbero essere sgravi fiscali ai ceti medio-bassi, riduzione del cuneo fiscale e contributivo, infine una diminuzione delle aliquote Irpef cioè un generale sgravio fiscale socialmente modulato.
Il buon risultato della lotta all´evasione costituisce dunque la pre-condizione per risolvere le altre due emergenze: la creazione di nuovi posti di lavoro e la lotta contro il lavoro precario.

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C´è un´altra verità da tenere molto presente per avviarsi verso la porta oltre la quale c´è l´uscita dalla crisi attuale: l´importanza di diminuire la pressione fiscale. I conti pubblici sono stati messi in sicurezza, il pareggio del bilancio sarà raggiunto senza altre manovre, ma la pressione fiscale è poco diffusa (evasione) e troppo alta.
Purtroppo la diminuzione della spesa corrente, che pure rappresenta uno degli obiettivi dell´attuale governo, non si è verificata poiché la sua diminuzione si è finora ottenuta soltanto trasferendola a carico di Regioni e Comuni. Alcuni autorevoli economisti (Boeri, Penati, Giavazzi, Alesina) segnalano da tempo questo tema. Oggi certamente il rigore è necessario ma tagliare la spesa è meglio che accrescere la fiscalità. Spostare in futuro il peso delle imposte da quelle dirette a quelle indirette è una riforma da meditare con estrema cautela perché le indirette di solito hanno effetti socialmente regressivi per contrastare i quali sarebbe necessaria una patrimoniale ordinaria a bassa aliquota. Comunque la spesa corrente va contenuta, magari compensandola con l´aumento degli investimenti pubblici attualmente ridotti quasi allo zero.

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Oltre a quelli economici incombono con crescente urgenza alcuni problemi politici che richiedono un più attento coordinamento per i prossimi appuntamenti parlamentari e la riforma del lavoro che dovrebbe finalmente decollare con i cambiamenti necessari a recuperare una pace sociale gravemente turbata.
Se l´obiettivo di Monti e Fornero è quello di rassicurare gli investitori sul fatto che la concertazione con le parti sociali è ormai definitivamente archiviata, ci permettiamo di osservare quanto segue: ai fini dell´occupazione, della stabilità e dello sviluppo, la concertazione tra il governo e le parti sociali è di grandissima importanza purché non intacchi l´autonomia e la responsabilità di ogni istituzione. Non si deve confondere la concertazione con il consociativismo. Quest´ultimo, indebolendo l´autonomia e la responsabilità delle istituzioni, snerva le decisioni e impedisce di chiamare l´opera di governo con il suo nome appropriato che è «azione». Il consenso invece – che proviene dalla concertazione – è l´aria che deve sempre respirare un governo democratico, specie in una democrazia complessa e difficile che ha come riferimento economico il mercato aperto. Gli accordi di concertazione sono stati, a partire da quello del luglio 1992, la trama istituzionale su cui si è raccolto il consenso del Paese.
Leggete con attenzione questa frase che viene subito dopo i due punti.
Non è mia, ma potrebbe esserlo tanto è attuale e calzante con i fatti di questi ultimi giorni. Si tratta d´una citazione letterale del discorso che Ciampi, ancora presidente del Consiglio, tenne a Verona nell´aprile 1994, dopo aver già rassegnato le dimissioni a pochi giorni dalle elezioni che dettero inizio all´era berlusconiana: «La concertazione è la trama istituzionale su cui si è raccolto il consenso del Paese».
Questo è il punto di fondo e fu un tecnico emerito a dirlo dopo averne sperimentato gli esiti come capo del governo. Ci auguriamo che su questa inoppugnabile realtà meditino insieme Monti, i leader dei partiti, i ministri Passera e Fornero e Susanna Camusso. L´impasse sull´articolo 18 va superato con un accordo imposto dalla logica. Se il lavoratore licenziato per motivi economici ricorre al giudice com´è suo diritto e il giudice non ravvisa l´esistenza di quei motivi economici, la motivazione del licenziamento cade e con essa viene meno la limitazione dei poteri del giudice prevista dall´attuale bozza di legge. Il giudice cioè ha la potestà di annullare il licenziamento oppure di stabilirne l´indennizzo. Se questa potestà gli fosse negata saremmo davanti ad un impedimento del libero convincimento del magistrato, tutelato dalla Costituzione.

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L´altro e anch´esso incombente problema politico non riguarda il governo ma i partiti ed è la necessaria e urgente riforma della legge elettorale.
Anche qui c´è una bozza che diventerà, stando ai reciproci impegni dei tre partiti della «strana» maggioranza, una proposta di legge entro il corrente mese d´aprile.
Stando alla bozza, si tratta d´un meccanismo elettorale che ha la sua base nella proporzionalità del voto affidata a liste di candidati in collegi a base territoriale limitata; una soglia di sbarramento al 5 per cento, diritto di tribuna per i partiti che non superano la soglia e, infine, iscrizione sulla scheda elettorale del nome del leader del partito. È abolito l´apparentamento di coalizione tra partiti. Nulla invece si dice sul premio di maggioranza al partito che ottenga il maggior numero di voti, ma l´ipotesi più logica in un meccanismo dove ogni partito si presenta da solo, è che il premio sia abrogato o condizionato al raggiungimento d´un livello molto elevato e prossimo alla maggioranza assoluta dei voti espressi.
Viene dunque sancita la fine del bipolarismo. Le coalizioni si faranno nel nuovo Parlamento ad elezioni avvenute poiché è fin troppo ovvio prevedere che nessun partito da solo potrà mai raggiungere il 50,1 dei voti espressi.
Gli elettori non voteranno la coalizione ma il partito, il suo programma e i candidati in liste non bloccate. Può dispiacere la fine del bipolarismo, ma può piacere che in una legislatura con forte impegno costituente il consenso popolare sia equamente distribuito e la proporzionalità sia moderatamente corretta in favore della governabilità.
Sembra però del tutto inutile e inutilmente scorretto nei confronti del capo dello Stato l´iscrizione sulle schede elettorali del nome di riferimento dei leader di partito. A che cosa serve? A nulla per quanto riguarda la formazione del governo per la quale resta ferma l´indicazione costituzionale che attribuisce la nomina del presidente del Consiglio al capo dello Stato senza alcuna indicazione di procedure consultative. È stata questa la procedura adottata da Napolitano per la nomina di Monti e fu questa la procedura adottata da Pertini per la nomina di Spadolini e da Scalfaro per la nomina di Ciampi. Ci auguriamo che continui ad esser questa fino a quando l´attuale Costituzione sarà vigente e le sue norme non saranno manipolate dalla partitocrazia nella prima Repubblica e dal populismo nella seconda.

Post scriptum. Formulo gli auguri più sinceri e affettuosi a Pietro Ingrao in occasione del compimento dei suoi 94 anni, nel corso dei quali è stato dirigente autorevole del Partito comunista italiano ed anche presidente della Camera dei deputati al servizio dello Stato democratico e della Costituzione.

La Repubblica 01.04.12