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"Esodati, 350mila senza futuro. Pd: servono 700 milioni di euro" di Mario Tedeschi

Un limbo moderno e tutto italiano quello degli esodati, ex lavoratori rimasti senza stipendio e senza pensione: hanno lasciato il posto dopo un accordo con l’azienda, convinti com’erano di raggiungere presto il meritato riposo, ma sono rimasti beffati dalla riforma Fornero, che ha spostato in avanti l’età pensionabile. Oggi queste persone si trovano troppo giovani per la pensione e troppo vecchie per lavorare. E lo «scandalo» nello «scandalo», per usare parole di Susanna Camusso, è che neanche l’Inps ha idea di quanta gente si trovi in questa condizione. Eccole le prime vittime (involontarie) della riforma «Salva Italia», che ha colpito chi ha smesso di lavorare da tempo ma anche chi pensava di andare presto in pensione.
Per loro i sindacati confederali hanno deciso di scendere in piazza a Roma il 13 aprile, ma nell’attesa che si levi la protesta il Partito democratico ha pensato di fare un po’ di conti, e qualche proposta.

Ieri i Democratici hanno presentato un testo di legge e diciotto interrogazioni parlamentari, ciascuna delle quali richiama il caso di una persona in carne e ossa e della sua spesso tragica situazione. In primo luogo, il Pd contesta al governo l’assenza di cifre certe. Dopo «l’audizione di ieri (mercoledì, ndr) del numero uno dell’Inps, Antonio Mastrapasqua – ha spiegato ai giornalisti Cesare Damiano – si è scoperto che non ci sono dati a disposizione. E preoccupa il fatto che si sia in presenza di una riforma che si basa su dati non certi». Finora il governo ha parlato di circa 240 milioni di euro da mettere sul piatto del sostegno al reddito di queste persone, ma con questa cifra – sostiene capogruppo in commissione Lavoro alla Camera – si riuscirebbe ad alleviare le difficoltà «solo di 65 mila lavoratori esodati. Quando è chiaro che il numero si aggira attorno alle 350 mila persone. E dunque le risorse dovrebbero quanto meno triplicare», raggiungendo oltre i 700milioni di euro.
Fornero, ricorda l’ex ministro del Lavoro, «ha promesso di presentare una legge ad hoc entro giugno. Noi vigiliamo affinché questo avvenga realmente». Ma nel frattempo, il governo «avrebbe potuto accantonare parte dei risparmi derivanti dalla riforma (12 miliardi nel 2015) per correggere queste storture e finanziare i nuovi ammortizzatori sociali». Cosa che non è avvenuta. Per questo il Pd incalza con un pacchetto di 18 interrogazioni, che fanno riferimento a casi di lavoratori «intrappolati». Come quella di Maria Paola, single 58enne con un alto profilo professionale: ex dipendente di un grande gruppo italiano entrato in crisi, doveva andare in pensione nel gennaio 2014 e adesso con la nuova riforma rischia di andarci nel 2018, quando compirà 65 anni.

Anche per Maria Paola, il Pd ha presentato una proposta di legge con un solo articolo di due commi. Il primo fissa al 31 dicembre 2011 (non più al 4 dicembre 2011, com’è oggi) la data entro la quale andava stipulato il contratto di mobilità aziendale che consente al lavoratore di mantenere i vecchi requisiti previdenziali. Il secondo è una modifica interpretativa per mantenere le vecchie regole per chi abbia «maturato il diritto» alla pensione nei 24 mesi successivi alla data di entrata in vigore della riforma. I Democratici chiedono di intervenire anche sulle ricongiunzioni onerose, quelle di chi ha versato i contributi in più casse previdenziali diverse. Perché oggi, per cumulare quanto versato negli anni a più enti bisogna sborsare migliaia di euro.

l’Unità 30.03.12

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“Camusso: Il Parlamento ha il dovere morale di ascoltare i lavoratori”, di Giuseppe Vespo

La controriforma del mercato del lavoro non passerà. Susanna Camusso lancia la sfida al governo Monti dal palco della Camera del Lavoro di Milano, per l’occasione talmente affollata da costringere la segreteria milanese della Cgil a montare degli amplificatori fuori dall’edificio. La sindacalista è alle prese con un tour per l’Italia per spiegare le ragioni della mobilitazione: pensioni, esodati – che sono i temi al centro della manifestazione unitaria del 13 aprile – ma soprattutto difesa dell’articolo 18 e dei diritti dei lavoratori. «La gente ha capito di cosa stiamo parlando – dice Camusso dal palco milanese – e se il Paese lo vorrà, la controriforma del lavoro non passerà».Maper riuscire nell’impresa c’è bisogno di tutti, anche di «Confindustria e delle associazioni», che hanno chiesto delle modifiche alla norma. Il sindacato ha organizzato la sua campagna suddividendo le 16 ore di sciopero indetto in due blocchi: le prime otto ore sono destinate agli scioperi, alle assemblee e alle diverse iniziative nei vari luoghi di lavoro; le altre otto ore saranno spese in blocco nello sciopero generale che arriverà quando il disegno di legge sul Lavoro approderà alle fasi finali della discussione parlamentare. «Continueremo il25aprile e il Primo maggio e in tutti gli appuntamenti che abbiamo davanti e continueremo quando il dibattito sarà in Parlamento». La data dello sciopero generale sarà decisa «quando capiremo che è il momento in cui bisogna dare la risposta generale ». Perché la guerra sul lavoro si vince sul terreno del consenso: sull’articolo 18 «il governo ha deciso uno strappo, ha immaginato che il consenso fosse tale da consentire questa operazione, ma non ha funzionato». Un concetto che la sindacalista ribadisce anche su twitter, sicura com’è che «sui licenziamenti facili» Monti «non ha convinto nessuno», perché «la riforma cambia brutalmente diritti in essere». La strategia di Corso d’Italia è chiara: conquistare lavoratori e società civile per puntare alle Camere, che hanno «il dovere morale, non il dovere tecnico, di guardare a cosa pensa il Paese e a cosa pensano i lavoratori ». Concetti che mettono in allarme il Pdl, che vuole portare a casa il pacchetto del governo così com’è, escludendo qualsiasi passo indietro. È presto per dire come andrà a finire ma la Cgil sente di avere «il passo di chi resiste e continua a farlo e non quello di chi ha preoccupazioni o qualche paura. Non siamo sicuri di vincere, ma siamo sicuri della nostra battaglia. Noi non basiamo le nostre ragioni sui sondaggi che sono mutevoli ma sulla conoscenza della realtà e dei suoi problemi». Parole che la segretaria di Corso Italia ripeterà nei prossimi giorni alle riunioni con i delegati di Bologna, Parma, Cremona e Pavia. Intanto da Milano rilancia la lotta su pensionati e esodati, entrambi pesantemente colpiti dal pacchetto governativo «Salva Italia ». In particolare i secondi, oggi si trovano senza pensione e senza stipendio: per Camusso è «scandaloso » che neanche l’Inps «sia in grado di quantificare il problema », ovvero il numero di queste persone.

L’Unità 30.03.12

“Esodati, 350mila senza futuro. Pd: servono 700 milioni di euro” di Mario Tedeschi

Un limbo moderno e tutto italiano quello degli esodati, ex lavoratori rimasti senza stipendio e senza pensione: hanno lasciato il posto dopo un accordo con l’azienda, convinti com’erano di raggiungere presto il meritato riposo, ma sono rimasti beffati dalla riforma Fornero, che ha spostato in avanti l’età pensionabile. Oggi queste persone si trovano troppo giovani per la pensione e troppo vecchie per lavorare. E lo «scandalo» nello «scandalo», per usare parole di Susanna Camusso, è che neanche l’Inps ha idea di quanta gente si trovi in questa condizione. Eccole le prime vittime (involontarie) della riforma «Salva Italia», che ha colpito chi ha smesso di lavorare da tempo ma anche chi pensava di andare presto in pensione.
Per loro i sindacati confederali hanno deciso di scendere in piazza a Roma il 13 aprile, ma nell’attesa che si levi la protesta il Partito democratico ha pensato di fare un po’ di conti, e qualche proposta.

Ieri i Democratici hanno presentato un testo di legge e diciotto interrogazioni parlamentari, ciascuna delle quali richiama il caso di una persona in carne e ossa e della sua spesso tragica situazione. In primo luogo, il Pd contesta al governo l’assenza di cifre certe. Dopo «l’audizione di ieri (mercoledì, ndr) del numero uno dell’Inps, Antonio Mastrapasqua – ha spiegato ai giornalisti Cesare Damiano – si è scoperto che non ci sono dati a disposizione. E preoccupa il fatto che si sia in presenza di una riforma che si basa su dati non certi». Finora il governo ha parlato di circa 240 milioni di euro da mettere sul piatto del sostegno al reddito di queste persone, ma con questa cifra – sostiene capogruppo in commissione Lavoro alla Camera – si riuscirebbe ad alleviare le difficoltà «solo di 65 mila lavoratori esodati. Quando è chiaro che il numero si aggira attorno alle 350 mila persone. E dunque le risorse dovrebbero quanto meno triplicare», raggiungendo oltre i 700milioni di euro.
Fornero, ricorda l’ex ministro del Lavoro, «ha promesso di presentare una legge ad hoc entro giugno. Noi vigiliamo affinché questo avvenga realmente». Ma nel frattempo, il governo «avrebbe potuto accantonare parte dei risparmi derivanti dalla riforma (12 miliardi nel 2015) per correggere queste storture e finanziare i nuovi ammortizzatori sociali». Cosa che non è avvenuta. Per questo il Pd incalza con un pacchetto di 18 interrogazioni, che fanno riferimento a casi di lavoratori «intrappolati». Come quella di Maria Paola, single 58enne con un alto profilo professionale: ex dipendente di un grande gruppo italiano entrato in crisi, doveva andare in pensione nel gennaio 2014 e adesso con la nuova riforma rischia di andarci nel 2018, quando compirà 65 anni.

Anche per Maria Paola, il Pd ha presentato una proposta di legge con un solo articolo di due commi. Il primo fissa al 31 dicembre 2011 (non più al 4 dicembre 2011, com’è oggi) la data entro la quale andava stipulato il contratto di mobilità aziendale che consente al lavoratore di mantenere i vecchi requisiti previdenziali. Il secondo è una modifica interpretativa per mantenere le vecchie regole per chi abbia «maturato il diritto» alla pensione nei 24 mesi successivi alla data di entrata in vigore della riforma. I Democratici chiedono di intervenire anche sulle ricongiunzioni onerose, quelle di chi ha versato i contributi in più casse previdenziali diverse. Perché oggi, per cumulare quanto versato negli anni a più enti bisogna sborsare migliaia di euro.

l’Unità 30.03.12

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“Camusso: Il Parlamento ha il dovere morale di ascoltare i lavoratori”, di Giuseppe Vespo

La controriforma del mercato del lavoro non passerà. Susanna Camusso lancia la sfida al governo Monti dal palco della Camera del Lavoro di Milano, per l’occasione talmente affollata da costringere la segreteria milanese della Cgil a montare degli amplificatori fuori dall’edificio. La sindacalista è alle prese con un tour per l’Italia per spiegare le ragioni della mobilitazione: pensioni, esodati – che sono i temi al centro della manifestazione unitaria del 13 aprile – ma soprattutto difesa dell’articolo 18 e dei diritti dei lavoratori. «La gente ha capito di cosa stiamo parlando – dice Camusso dal palco milanese – e se il Paese lo vorrà, la controriforma del lavoro non passerà».Maper riuscire nell’impresa c’è bisogno di tutti, anche di «Confindustria e delle associazioni», che hanno chiesto delle modifiche alla norma. Il sindacato ha organizzato la sua campagna suddividendo le 16 ore di sciopero indetto in due blocchi: le prime otto ore sono destinate agli scioperi, alle assemblee e alle diverse iniziative nei vari luoghi di lavoro; le altre otto ore saranno spese in blocco nello sciopero generale che arriverà quando il disegno di legge sul Lavoro approderà alle fasi finali della discussione parlamentare. «Continueremo il25aprile e il Primo maggio e in tutti gli appuntamenti che abbiamo davanti e continueremo quando il dibattito sarà in Parlamento». La data dello sciopero generale sarà decisa «quando capiremo che è il momento in cui bisogna dare la risposta generale ». Perché la guerra sul lavoro si vince sul terreno del consenso: sull’articolo 18 «il governo ha deciso uno strappo, ha immaginato che il consenso fosse tale da consentire questa operazione, ma non ha funzionato». Un concetto che la sindacalista ribadisce anche su twitter, sicura com’è che «sui licenziamenti facili» Monti «non ha convinto nessuno», perché «la riforma cambia brutalmente diritti in essere». La strategia di Corso d’Italia è chiara: conquistare lavoratori e società civile per puntare alle Camere, che hanno «il dovere morale, non il dovere tecnico, di guardare a cosa pensa il Paese e a cosa pensano i lavoratori ». Concetti che mettono in allarme il Pdl, che vuole portare a casa il pacchetto del governo così com’è, escludendo qualsiasi passo indietro. È presto per dire come andrà a finire ma la Cgil sente di avere «il passo di chi resiste e continua a farlo e non quello di chi ha preoccupazioni o qualche paura. Non siamo sicuri di vincere, ma siamo sicuri della nostra battaglia. Noi non basiamo le nostre ragioni sui sondaggi che sono mutevoli ma sulla conoscenza della realtà e dei suoi problemi». Parole che la segretaria di Corso Italia ripeterà nei prossimi giorni alle riunioni con i delegati di Bologna, Parma, Cremona e Pavia. Intanto da Milano rilancia la lotta su pensionati e esodati, entrambi pesantemente colpiti dal pacchetto governativo «Salva Italia ». In particolare i secondi, oggi si trovano senza pensione e senza stipendio: per Camusso è «scandaloso » che neanche l’Inps «sia in grado di quantificare il problema », ovvero il numero di queste persone.

L’Unità 30.03.12

“Esodati, 350mila senza futuro. Pd: servono 700 milioni di euro” di Mario Tedeschi

Un limbo moderno e tutto italiano quello degli esodati, ex lavoratori rimasti senza stipendio e senza pensione: hanno lasciato il posto dopo un accordo con l’azienda, convinti com’erano di raggiungere presto il meritato riposo, ma sono rimasti beffati dalla riforma Fornero, che ha spostato in avanti l’età pensionabile. Oggi queste persone si trovano troppo giovani per la pensione e troppo vecchie per lavorare. E lo «scandalo» nello «scandalo», per usare parole di Susanna Camusso, è che neanche l’Inps ha idea di quanta gente si trovi in questa condizione. Eccole le prime vittime (involontarie) della riforma «Salva Italia», che ha colpito chi ha smesso di lavorare da tempo ma anche chi pensava di andare presto in pensione.
Per loro i sindacati confederali hanno deciso di scendere in piazza a Roma il 13 aprile, ma nell’attesa che si levi la protesta il Partito democratico ha pensato di fare un po’ di conti, e qualche proposta.

Ieri i Democratici hanno presentato un testo di legge e diciotto interrogazioni parlamentari, ciascuna delle quali richiama il caso di una persona in carne e ossa e della sua spesso tragica situazione. In primo luogo, il Pd contesta al governo l’assenza di cifre certe. Dopo «l’audizione di ieri (mercoledì, ndr) del numero uno dell’Inps, Antonio Mastrapasqua – ha spiegato ai giornalisti Cesare Damiano – si è scoperto che non ci sono dati a disposizione. E preoccupa il fatto che si sia in presenza di una riforma che si basa su dati non certi». Finora il governo ha parlato di circa 240 milioni di euro da mettere sul piatto del sostegno al reddito di queste persone, ma con questa cifra – sostiene capogruppo in commissione Lavoro alla Camera – si riuscirebbe ad alleviare le difficoltà «solo di 65 mila lavoratori esodati. Quando è chiaro che il numero si aggira attorno alle 350 mila persone. E dunque le risorse dovrebbero quanto meno triplicare», raggiungendo oltre i 700milioni di euro.
Fornero, ricorda l’ex ministro del Lavoro, «ha promesso di presentare una legge ad hoc entro giugno. Noi vigiliamo affinché questo avvenga realmente». Ma nel frattempo, il governo «avrebbe potuto accantonare parte dei risparmi derivanti dalla riforma (12 miliardi nel 2015) per correggere queste storture e finanziare i nuovi ammortizzatori sociali». Cosa che non è avvenuta. Per questo il Pd incalza con un pacchetto di 18 interrogazioni, che fanno riferimento a casi di lavoratori «intrappolati». Come quella di Maria Paola, single 58enne con un alto profilo professionale: ex dipendente di un grande gruppo italiano entrato in crisi, doveva andare in pensione nel gennaio 2014 e adesso con la nuova riforma rischia di andarci nel 2018, quando compirà 65 anni.

Anche per Maria Paola, il Pd ha presentato una proposta di legge con un solo articolo di due commi. Il primo fissa al 31 dicembre 2011 (non più al 4 dicembre 2011, com’è oggi) la data entro la quale andava stipulato il contratto di mobilità aziendale che consente al lavoratore di mantenere i vecchi requisiti previdenziali. Il secondo è una modifica interpretativa per mantenere le vecchie regole per chi abbia «maturato il diritto» alla pensione nei 24 mesi successivi alla data di entrata in vigore della riforma. I Democratici chiedono di intervenire anche sulle ricongiunzioni onerose, quelle di chi ha versato i contributi in più casse previdenziali diverse. Perché oggi, per cumulare quanto versato negli anni a più enti bisogna sborsare migliaia di euro.

l’Unità 30.03.12

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“Camusso: Il Parlamento ha il dovere morale di ascoltare i lavoratori”, di Giuseppe Vespo

La controriforma del mercato del lavoro non passerà. Susanna Camusso lancia la sfida al governo Monti dal palco della Camera del Lavoro di Milano, per l’occasione talmente affollata da costringere la segreteria milanese della Cgil a montare degli amplificatori fuori dall’edificio. La sindacalista è alle prese con un tour per l’Italia per spiegare le ragioni della mobilitazione: pensioni, esodati – che sono i temi al centro della manifestazione unitaria del 13 aprile – ma soprattutto difesa dell’articolo 18 e dei diritti dei lavoratori. «La gente ha capito di cosa stiamo parlando – dice Camusso dal palco milanese – e se il Paese lo vorrà, la controriforma del lavoro non passerà».Maper riuscire nell’impresa c’è bisogno di tutti, anche di «Confindustria e delle associazioni», che hanno chiesto delle modifiche alla norma. Il sindacato ha organizzato la sua campagna suddividendo le 16 ore di sciopero indetto in due blocchi: le prime otto ore sono destinate agli scioperi, alle assemblee e alle diverse iniziative nei vari luoghi di lavoro; le altre otto ore saranno spese in blocco nello sciopero generale che arriverà quando il disegno di legge sul Lavoro approderà alle fasi finali della discussione parlamentare. «Continueremo il25aprile e il Primo maggio e in tutti gli appuntamenti che abbiamo davanti e continueremo quando il dibattito sarà in Parlamento». La data dello sciopero generale sarà decisa «quando capiremo che è il momento in cui bisogna dare la risposta generale ». Perché la guerra sul lavoro si vince sul terreno del consenso: sull’articolo 18 «il governo ha deciso uno strappo, ha immaginato che il consenso fosse tale da consentire questa operazione, ma non ha funzionato». Un concetto che la sindacalista ribadisce anche su twitter, sicura com’è che «sui licenziamenti facili» Monti «non ha convinto nessuno», perché «la riforma cambia brutalmente diritti in essere». La strategia di Corso d’Italia è chiara: conquistare lavoratori e società civile per puntare alle Camere, che hanno «il dovere morale, non il dovere tecnico, di guardare a cosa pensa il Paese e a cosa pensano i lavoratori ». Concetti che mettono in allarme il Pdl, che vuole portare a casa il pacchetto del governo così com’è, escludendo qualsiasi passo indietro. È presto per dire come andrà a finire ma la Cgil sente di avere «il passo di chi resiste e continua a farlo e non quello di chi ha preoccupazioni o qualche paura. Non siamo sicuri di vincere, ma siamo sicuri della nostra battaglia. Noi non basiamo le nostre ragioni sui sondaggi che sono mutevoli ma sulla conoscenza della realtà e dei suoi problemi». Parole che la segretaria di Corso Italia ripeterà nei prossimi giorni alle riunioni con i delegati di Bologna, Parma, Cremona e Pavia. Intanto da Milano rilancia la lotta su pensionati e esodati, entrambi pesantemente colpiti dal pacchetto governativo «Salva Italia ». In particolare i secondi, oggi si trovano senza pensione e senza stipendio: per Camusso è «scandaloso » che neanche l’Inps «sia in grado di quantificare il problema », ovvero il numero di queste persone.

L’Unità 30.03.12

"San Suu Kyi come un Mandela birmano", di Timothy Garton Ash

Se Aung San Suu Kyi sarà eletta al Parlamento birmano, questa domenica, il mondo inevitabilmente si chiederà se la Nelson Mandela d´Asia abbia infine trovato il suo presidente de Klerk. O, se preferite un paragone europeo, se la Václav Havel d´Asia abbia incontrato il suo Michail Gorbaciov. Sono partite le riprese del terzo episodio della saga «da prigioniero a presidente»? Io sono convinto che questo giorno arriverà, ma non facciamoci illusioni: gli ostacoli all´orizzonte non mancano e ci vorrà forza e buon senso, dentro e fuori la Birmania, per superarli. Qualunque cosa succeda, Aung San Suu Kyi si è meritata da tempo la comparazione con Havel e Mandela. Come Mandela, ha sopportato decenni di prigionia e ne è uscita con una straordinaria assenza di rancore. Come Havel, oltre a essere la dissidente principale del suo Paese, è anche stata capace di analizzare la condizione politica e sociale in un´ottica universale. Ascoltate il primo dei due discorsi che ha tenuto alla Bbc l´anno scorso, leggete il manifesto sulla libertà di espressione che ha appena scritto per la rivista Index on Censorship (per il numero speciale del quarantennale). Sono un tipico esempio di testo politico della dissidenza (con un aspetto nuovo legato al fatto che parla sempre da buddista devota). Sul piano morale e intellettuale, non c´è il minimo paragone fra lei e il presidente Thein Sein, il leader militare in abiti civili del Myanmar (il nome ufficiale della Birmania).
SUL piano politico, però, l´apertura di cui Thein Sein si è fatto promotore è estremamente significativa: oltre ad Aung San Suu Kyi sono stati rilasciati centinaia di altri prigionieri politici, tra cui esponenti dell´importante movimento studentesco 88 Generation e monaci che avevano preso parte alla cosiddetta «rivoluzione zafferano» del 2007; la giunta militare si è ritirata dietro una patina di politica civile; la libertà di espressione e la libertà di riunione sono esplose, anche se le basi giuridiche restano incerte; attivisti politici sono stati catapultati dall´oscurità di una cella di prigione ai flash accecanti dei fotografi.
Thein Sein ha fatto diverse cose considerevoli: ha rischiato l´ira della Cina, il Paese che vorrebbe giocare il ruolo di fratello maggiore della Birmania, sospendendo la costruzione della diga idroelettrica Myitzone, finanziata da Pechino (l´energia andrebbe principalmente alla Cina, i costi ambientali alla Birmania). Ha avviato trattative per un cessate il fuoco con gruppi guerriglieri delle minoranze etniche, anche se alcuni conflitti armati perdurano. Ha consentito alla Lega nazionale per la democrazia di registrarsi come partito e a queste elezioni suppletive del 1° aprile la formazione di opposizione presenterà candidati per 47 dei 48 seggi in palio nella camera bassa del Parlamento. Una di questi candidati è accolta ovunque vada da folle oceaniche che la vedono come una salvatrice.
Se aveste detto tutto questo a qualcuno quattro anni fa, quando le proteste nonviolente guidate dai monaci erano appena state schiacciate con estrema brutalità, non vi avrebbe creduto. Ogni rivoluzione di velluto, ogni transizione negoziata richiede la presenza di personalità pronte a prendersi il rischio di dialogare, sia tra gli esponenti del regime che tra le file dell´opposizione. La Birmania sembra finalmente aver trovato la sua coppia di tango.
Ma passiamo alle note dolenti: sia Thein Sein che Aung San Suu Kyi si stanno prendendo un grosso rischio. Il più importante astrologo del regime � da tempo i governanti birmani preferiscono gli astrologi agli economisti � ha ripetutamente pronosticato che il presidente Thein Sein si ammalerà questa estate. Malattia che potrebbe essere politica se i militari, sfacciatamente arricchitisi con l´esercizio del potere, sentiranno che i loro interessi vitali sono minacciati. Proprio pochi giorni fa il capo dell´esercito avvisava che la posizione speciale riservata alle forze armate dalla costituzione del 2008 doveva essere rispettata.
Anche per la leader della Lega nazionale per la democrazia i rischi sono elevati. Recentemente ha dovuto sospendere la sua campagna elettorale, ufficialmente per il caldo, la ressa e lo sfinimento. Se dalla parte del regime qualcuno dovesse aggiungere brogli elettorali alla manipolazione dei mezzi di informazione, che cosa dirà lei? Anche se la Lega nazionale per la democrazia dovesse aggiudicarsi tutti e 47 i seggi in palio, controllerebbe poco più del 10 per cento di una camera bassa dominata dal Partito di unione, solidarietà e sviluppo (la formazione creata dai militari) e dai 110 deputati (un quarto del totale!) nominati direttamente dalle forze armate. Le prossime elezioni politiche non sono previste prima del 2015.
L´unica cosa più grande delle speranze popolari nei suoi poteri miracolosi è la dimensione dei problemi economici e sociali del Paese. Un ruolo centrale in questi problemi, come in Egitto, lo giocano i privilegi economici dei militari. «Non voglio chiedervi di cosa avete bisogno prima delle elezioni», ha detto agli elettori in un orfanotrofio, «ma ve lo chiederò dopo; vi prometto che tornerò presto». Ma che succederà se non riuscirà a farlo, impantanata in commissioni parlamentari nella remota e artificiale Naypyidaw, la nuova capitale? Che succederà se saprà di cosa ha bisogno la gente, ma non sarà in grado di offrirglielo? Gli osservatori amici sottolineano i rischi di scambiare un tipo di impotenza con un altro.
E poi c´è il complesso rapporto con le minoranze etniche, che costituiscono circa un terzo della popolazione del Paese. E c´è la Cina, che certo non vede di buon occhio la nascita di un fulgido esempio di democrazia filo-occidentale alle porte di casa.
Ma nonostante tutto questo ci sono anche ragioni per essere ottimisti: la Lega nazionale per la democrazia non avrà il tipo di organizzazione che aveva l´Anc in Sudafrica, ma come ha dimostrato Havel in Cecoslovacchia le organizzazioni di massa possono emergere con straordinaria velocità quando si mette in moto una rivoluzione di velluto; c´è la forza sociale e morale dei monaci buddisti (sfido ogni generale birmano a chiedere sprezzantemente «Quante divisioni ha Buddha?», come fece Stalin con il Papa); c´è il fatto che il regime è chiaramente smanioso di veder rimuovere le sanzioni americane ed europee, e dunque in una certa misura è influenzabile; c´è l´altro potente vicino, l´India, che finalmente potrebbe decidere di incoraggiare nella regione quello che pratica in patria, cioè la democrazia; c´è lo slancio popolare che acquisiscono questi processi una volta che si sono messi in modo; e poi c´è lei, The Lady, un tesoro senza prezzo.
Gli astrologi, dopo tutto, sbagliano le loro previsioni, e anche i politologi. Basandoci su quello che sappiamo oggi sembra che la strada dalla prigionia alla presidenza per Aung San Suu Kyi passi ancora per una serie di tornanti difficili e pendenze impegnative. Il 2015 probabilmente è una data di arrivo più realistica del 2013. E quella fine, come hanno scoperto Havel e Mandela, sarà solo un inizio.
(Traduzione
di Fabio Galimberti)

La Repubblica 30.03.12

“San Suu Kyi come un Mandela birmano”, di Timothy Garton Ash

Se Aung San Suu Kyi sarà eletta al Parlamento birmano, questa domenica, il mondo inevitabilmente si chiederà se la Nelson Mandela d´Asia abbia infine trovato il suo presidente de Klerk. O, se preferite un paragone europeo, se la Václav Havel d´Asia abbia incontrato il suo Michail Gorbaciov. Sono partite le riprese del terzo episodio della saga «da prigioniero a presidente»? Io sono convinto che questo giorno arriverà, ma non facciamoci illusioni: gli ostacoli all´orizzonte non mancano e ci vorrà forza e buon senso, dentro e fuori la Birmania, per superarli. Qualunque cosa succeda, Aung San Suu Kyi si è meritata da tempo la comparazione con Havel e Mandela. Come Mandela, ha sopportato decenni di prigionia e ne è uscita con una straordinaria assenza di rancore. Come Havel, oltre a essere la dissidente principale del suo Paese, è anche stata capace di analizzare la condizione politica e sociale in un´ottica universale. Ascoltate il primo dei due discorsi che ha tenuto alla Bbc l´anno scorso, leggete il manifesto sulla libertà di espressione che ha appena scritto per la rivista Index on Censorship (per il numero speciale del quarantennale). Sono un tipico esempio di testo politico della dissidenza (con un aspetto nuovo legato al fatto che parla sempre da buddista devota). Sul piano morale e intellettuale, non c´è il minimo paragone fra lei e il presidente Thein Sein, il leader militare in abiti civili del Myanmar (il nome ufficiale della Birmania).
SUL piano politico, però, l´apertura di cui Thein Sein si è fatto promotore è estremamente significativa: oltre ad Aung San Suu Kyi sono stati rilasciati centinaia di altri prigionieri politici, tra cui esponenti dell´importante movimento studentesco 88 Generation e monaci che avevano preso parte alla cosiddetta «rivoluzione zafferano» del 2007; la giunta militare si è ritirata dietro una patina di politica civile; la libertà di espressione e la libertà di riunione sono esplose, anche se le basi giuridiche restano incerte; attivisti politici sono stati catapultati dall´oscurità di una cella di prigione ai flash accecanti dei fotografi.
Thein Sein ha fatto diverse cose considerevoli: ha rischiato l´ira della Cina, il Paese che vorrebbe giocare il ruolo di fratello maggiore della Birmania, sospendendo la costruzione della diga idroelettrica Myitzone, finanziata da Pechino (l´energia andrebbe principalmente alla Cina, i costi ambientali alla Birmania). Ha avviato trattative per un cessate il fuoco con gruppi guerriglieri delle minoranze etniche, anche se alcuni conflitti armati perdurano. Ha consentito alla Lega nazionale per la democrazia di registrarsi come partito e a queste elezioni suppletive del 1° aprile la formazione di opposizione presenterà candidati per 47 dei 48 seggi in palio nella camera bassa del Parlamento. Una di questi candidati è accolta ovunque vada da folle oceaniche che la vedono come una salvatrice.
Se aveste detto tutto questo a qualcuno quattro anni fa, quando le proteste nonviolente guidate dai monaci erano appena state schiacciate con estrema brutalità, non vi avrebbe creduto. Ogni rivoluzione di velluto, ogni transizione negoziata richiede la presenza di personalità pronte a prendersi il rischio di dialogare, sia tra gli esponenti del regime che tra le file dell´opposizione. La Birmania sembra finalmente aver trovato la sua coppia di tango.
Ma passiamo alle note dolenti: sia Thein Sein che Aung San Suu Kyi si stanno prendendo un grosso rischio. Il più importante astrologo del regime � da tempo i governanti birmani preferiscono gli astrologi agli economisti � ha ripetutamente pronosticato che il presidente Thein Sein si ammalerà questa estate. Malattia che potrebbe essere politica se i militari, sfacciatamente arricchitisi con l´esercizio del potere, sentiranno che i loro interessi vitali sono minacciati. Proprio pochi giorni fa il capo dell´esercito avvisava che la posizione speciale riservata alle forze armate dalla costituzione del 2008 doveva essere rispettata.
Anche per la leader della Lega nazionale per la democrazia i rischi sono elevati. Recentemente ha dovuto sospendere la sua campagna elettorale, ufficialmente per il caldo, la ressa e lo sfinimento. Se dalla parte del regime qualcuno dovesse aggiungere brogli elettorali alla manipolazione dei mezzi di informazione, che cosa dirà lei? Anche se la Lega nazionale per la democrazia dovesse aggiudicarsi tutti e 47 i seggi in palio, controllerebbe poco più del 10 per cento di una camera bassa dominata dal Partito di unione, solidarietà e sviluppo (la formazione creata dai militari) e dai 110 deputati (un quarto del totale!) nominati direttamente dalle forze armate. Le prossime elezioni politiche non sono previste prima del 2015.
L´unica cosa più grande delle speranze popolari nei suoi poteri miracolosi è la dimensione dei problemi economici e sociali del Paese. Un ruolo centrale in questi problemi, come in Egitto, lo giocano i privilegi economici dei militari. «Non voglio chiedervi di cosa avete bisogno prima delle elezioni», ha detto agli elettori in un orfanotrofio, «ma ve lo chiederò dopo; vi prometto che tornerò presto». Ma che succederà se non riuscirà a farlo, impantanata in commissioni parlamentari nella remota e artificiale Naypyidaw, la nuova capitale? Che succederà se saprà di cosa ha bisogno la gente, ma non sarà in grado di offrirglielo? Gli osservatori amici sottolineano i rischi di scambiare un tipo di impotenza con un altro.
E poi c´è il complesso rapporto con le minoranze etniche, che costituiscono circa un terzo della popolazione del Paese. E c´è la Cina, che certo non vede di buon occhio la nascita di un fulgido esempio di democrazia filo-occidentale alle porte di casa.
Ma nonostante tutto questo ci sono anche ragioni per essere ottimisti: la Lega nazionale per la democrazia non avrà il tipo di organizzazione che aveva l´Anc in Sudafrica, ma come ha dimostrato Havel in Cecoslovacchia le organizzazioni di massa possono emergere con straordinaria velocità quando si mette in moto una rivoluzione di velluto; c´è la forza sociale e morale dei monaci buddisti (sfido ogni generale birmano a chiedere sprezzantemente «Quante divisioni ha Buddha?», come fece Stalin con il Papa); c´è il fatto che il regime è chiaramente smanioso di veder rimuovere le sanzioni americane ed europee, e dunque in una certa misura è influenzabile; c´è l´altro potente vicino, l´India, che finalmente potrebbe decidere di incoraggiare nella regione quello che pratica in patria, cioè la democrazia; c´è lo slancio popolare che acquisiscono questi processi una volta che si sono messi in modo; e poi c´è lei, The Lady, un tesoro senza prezzo.
Gli astrologi, dopo tutto, sbagliano le loro previsioni, e anche i politologi. Basandoci su quello che sappiamo oggi sembra che la strada dalla prigionia alla presidenza per Aung San Suu Kyi passi ancora per una serie di tornanti difficili e pendenze impegnative. Il 2015 probabilmente è una data di arrivo più realistica del 2013. E quella fine, come hanno scoperto Havel e Mandela, sarà solo un inizio.
(Traduzione
di Fabio Galimberti)

La Repubblica 30.03.12

“San Suu Kyi come un Mandela birmano”, di Timothy Garton Ash

Se Aung San Suu Kyi sarà eletta al Parlamento birmano, questa domenica, il mondo inevitabilmente si chiederà se la Nelson Mandela d´Asia abbia infine trovato il suo presidente de Klerk. O, se preferite un paragone europeo, se la Václav Havel d´Asia abbia incontrato il suo Michail Gorbaciov. Sono partite le riprese del terzo episodio della saga «da prigioniero a presidente»? Io sono convinto che questo giorno arriverà, ma non facciamoci illusioni: gli ostacoli all´orizzonte non mancano e ci vorrà forza e buon senso, dentro e fuori la Birmania, per superarli. Qualunque cosa succeda, Aung San Suu Kyi si è meritata da tempo la comparazione con Havel e Mandela. Come Mandela, ha sopportato decenni di prigionia e ne è uscita con una straordinaria assenza di rancore. Come Havel, oltre a essere la dissidente principale del suo Paese, è anche stata capace di analizzare la condizione politica e sociale in un´ottica universale. Ascoltate il primo dei due discorsi che ha tenuto alla Bbc l´anno scorso, leggete il manifesto sulla libertà di espressione che ha appena scritto per la rivista Index on Censorship (per il numero speciale del quarantennale). Sono un tipico esempio di testo politico della dissidenza (con un aspetto nuovo legato al fatto che parla sempre da buddista devota). Sul piano morale e intellettuale, non c´è il minimo paragone fra lei e il presidente Thein Sein, il leader militare in abiti civili del Myanmar (il nome ufficiale della Birmania).
SUL piano politico, però, l´apertura di cui Thein Sein si è fatto promotore è estremamente significativa: oltre ad Aung San Suu Kyi sono stati rilasciati centinaia di altri prigionieri politici, tra cui esponenti dell´importante movimento studentesco 88 Generation e monaci che avevano preso parte alla cosiddetta «rivoluzione zafferano» del 2007; la giunta militare si è ritirata dietro una patina di politica civile; la libertà di espressione e la libertà di riunione sono esplose, anche se le basi giuridiche restano incerte; attivisti politici sono stati catapultati dall´oscurità di una cella di prigione ai flash accecanti dei fotografi.
Thein Sein ha fatto diverse cose considerevoli: ha rischiato l´ira della Cina, il Paese che vorrebbe giocare il ruolo di fratello maggiore della Birmania, sospendendo la costruzione della diga idroelettrica Myitzone, finanziata da Pechino (l´energia andrebbe principalmente alla Cina, i costi ambientali alla Birmania). Ha avviato trattative per un cessate il fuoco con gruppi guerriglieri delle minoranze etniche, anche se alcuni conflitti armati perdurano. Ha consentito alla Lega nazionale per la democrazia di registrarsi come partito e a queste elezioni suppletive del 1° aprile la formazione di opposizione presenterà candidati per 47 dei 48 seggi in palio nella camera bassa del Parlamento. Una di questi candidati è accolta ovunque vada da folle oceaniche che la vedono come una salvatrice.
Se aveste detto tutto questo a qualcuno quattro anni fa, quando le proteste nonviolente guidate dai monaci erano appena state schiacciate con estrema brutalità, non vi avrebbe creduto. Ogni rivoluzione di velluto, ogni transizione negoziata richiede la presenza di personalità pronte a prendersi il rischio di dialogare, sia tra gli esponenti del regime che tra le file dell´opposizione. La Birmania sembra finalmente aver trovato la sua coppia di tango.
Ma passiamo alle note dolenti: sia Thein Sein che Aung San Suu Kyi si stanno prendendo un grosso rischio. Il più importante astrologo del regime � da tempo i governanti birmani preferiscono gli astrologi agli economisti � ha ripetutamente pronosticato che il presidente Thein Sein si ammalerà questa estate. Malattia che potrebbe essere politica se i militari, sfacciatamente arricchitisi con l´esercizio del potere, sentiranno che i loro interessi vitali sono minacciati. Proprio pochi giorni fa il capo dell´esercito avvisava che la posizione speciale riservata alle forze armate dalla costituzione del 2008 doveva essere rispettata.
Anche per la leader della Lega nazionale per la democrazia i rischi sono elevati. Recentemente ha dovuto sospendere la sua campagna elettorale, ufficialmente per il caldo, la ressa e lo sfinimento. Se dalla parte del regime qualcuno dovesse aggiungere brogli elettorali alla manipolazione dei mezzi di informazione, che cosa dirà lei? Anche se la Lega nazionale per la democrazia dovesse aggiudicarsi tutti e 47 i seggi in palio, controllerebbe poco più del 10 per cento di una camera bassa dominata dal Partito di unione, solidarietà e sviluppo (la formazione creata dai militari) e dai 110 deputati (un quarto del totale!) nominati direttamente dalle forze armate. Le prossime elezioni politiche non sono previste prima del 2015.
L´unica cosa più grande delle speranze popolari nei suoi poteri miracolosi è la dimensione dei problemi economici e sociali del Paese. Un ruolo centrale in questi problemi, come in Egitto, lo giocano i privilegi economici dei militari. «Non voglio chiedervi di cosa avete bisogno prima delle elezioni», ha detto agli elettori in un orfanotrofio, «ma ve lo chiederò dopo; vi prometto che tornerò presto». Ma che succederà se non riuscirà a farlo, impantanata in commissioni parlamentari nella remota e artificiale Naypyidaw, la nuova capitale? Che succederà se saprà di cosa ha bisogno la gente, ma non sarà in grado di offrirglielo? Gli osservatori amici sottolineano i rischi di scambiare un tipo di impotenza con un altro.
E poi c´è il complesso rapporto con le minoranze etniche, che costituiscono circa un terzo della popolazione del Paese. E c´è la Cina, che certo non vede di buon occhio la nascita di un fulgido esempio di democrazia filo-occidentale alle porte di casa.
Ma nonostante tutto questo ci sono anche ragioni per essere ottimisti: la Lega nazionale per la democrazia non avrà il tipo di organizzazione che aveva l´Anc in Sudafrica, ma come ha dimostrato Havel in Cecoslovacchia le organizzazioni di massa possono emergere con straordinaria velocità quando si mette in moto una rivoluzione di velluto; c´è la forza sociale e morale dei monaci buddisti (sfido ogni generale birmano a chiedere sprezzantemente «Quante divisioni ha Buddha?», come fece Stalin con il Papa); c´è il fatto che il regime è chiaramente smanioso di veder rimuovere le sanzioni americane ed europee, e dunque in una certa misura è influenzabile; c´è l´altro potente vicino, l´India, che finalmente potrebbe decidere di incoraggiare nella regione quello che pratica in patria, cioè la democrazia; c´è lo slancio popolare che acquisiscono questi processi una volta che si sono messi in modo; e poi c´è lei, The Lady, un tesoro senza prezzo.
Gli astrologi, dopo tutto, sbagliano le loro previsioni, e anche i politologi. Basandoci su quello che sappiamo oggi sembra che la strada dalla prigionia alla presidenza per Aung San Suu Kyi passi ancora per una serie di tornanti difficili e pendenze impegnative. Il 2015 probabilmente è una data di arrivo più realistica del 2013. E quella fine, come hanno scoperto Havel e Mandela, sarà solo un inizio.
(Traduzione
di Fabio Galimberti)

La Repubblica 30.03.12

"I calcoli sbagliati (per difetto) su chi perde pensione e stipendio", di Enrico Marro

Un pasticcio. Difficile trovare un’altra definizione per la vicenda degli «esodati», brutta parola che sta a indicare quelle persone che, dopo la riforma della previdenza, rischiano di restare senza stipendio e senza pensione. È un fenomeno che si verifica ogni volta che una riforma innalza i requisiti pensionistici. Succede che i lavoratori che nel periodo immediatamente precedente hanno lasciato il lavoro, spesso con incentivi aziendali in attesa della pensione che sarebbe arrivata da lì a poco, si ritrovano improvvisamente con le regole del gioco cambiate e con il traguardo previdenziale spostato in avanti di alcuni anni. Per questo, di solito, la legge prevede delle clausole di salvaguardia che consentono, a precise condizioni, a questi lavoratori di andare in pensione con le vecchie regole. Anche questa volta è stato così, solo che a differenza del passato, la riforma Fornero prevede un aumento dei requisiti per la pensione senza precedenti e quindi la salvaguardia inizialmente tarata su 65 mila persone si è rivelata insufficiente.
La norma stabilisce, tra l’altro, che potranno andare in pensione i lavoratori in esubero secondo accordi di ristrutturazione firmati da aziende e sindacati entro il 4 dicembre scorso e quelli che in seguito a dimissioni volontarie (gli esodati, appunto) hanno lasciato il lavoro entro il 31 dicembre 2011 e matureranno il primo assegno di pensione entro il dicembre 2013. Secondo i calcoli che furono fatti al momento della riforma, a dicembre, i lavoratori da salvaguardare sarebbero stati 65 mila. E su questa platea furono stanziate le risorse per coprire l’erogazione delle pensioni secondo le vecchie regole. Ma sono bastate poche settimane per rendersi conto che in realtà gli interessati sarebbero stati molti di più. Solo considerando i lavoratori in mobilità e mobilità lunga secondo gli accordi chiusi entro il 4 dicembre e quelli a carico dei fondi di solidarietà di settore, tipo i bancari, il numero dei 65 mila è già esaurito. Ma il punto è che gli accordi, anche se stipulati lo scorso dicembre, prevedono spesso la messa in mobilità pure negli anni successivi e anche questi lavoratori vanno tutelati. Senza considerare che la norma tutela genericamente anche i lavoratori ammessi alla prosecuzione volontaria della contribuzione entro il 4 dicembre scorso, che sono un numero sterminato se non interverranno interpretazioni limitative. Sono quindi cominciate a circolare le stime più diverse da 100 mila a più di 300 mila.
Fatto sta che il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha chiesto all’Inps di svolgere un monitoraggio per stabilire quanti sono gli esodati, in vista del decreto annunciato per giugno che, a questo punto, dovrà prevedere anche nuove risorse, se non altro per fornire almeno un mini sussidio (è questa una delle ipotesi che circola) ai lavoratori che dovessero rimanere fuori dalla possibilità di andare in pensione con le vecchie regole e che altrimenti resterebbero per qualche anno senza stipendio e senza pensione. «Trovo scandaloso che Inps e governo non siano in grado di quantificare il problema», ha detto ieri la leader della Cgil, Susanna Camusso. Sempre ieri il Pd ha lanciato un’offensiva parlamentare denunciando che gli esodati sarebbero 357 mila, come ha detto l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, e presentando ben 18 interrogazioni al governo su altrettanti casi di lavoratori esodati oppure vittima della norma sulle ricongiunzioni onerose, altra questione che riguarda decine di migliaia di persone.
Le ricongiunzioni onerose si verificano a carico di coloro che, avendo lavorato sia nel pubblico sia nel privato, chiedono all’Inps di unire presso questo stesso istituto i contributi prima versati all’Inpdap ai fini di avere una sola pensione. La cosa si può fare, ma solo se il lavoratore paga all’Inps gli oneri di ricongiunzione che possono arrivare, nei casi più clamorosi, a centinaia di migliaia di euro.
Almeno due le richieste del Pd, delle opposizioni e dei sindacati, che scenderanno in piazza a Roma il 13 aprile. Uno: spostare il termine degli accordi salvaguardati dal 4 al 31 dicembre. Due: considerare nella deroga anche gli esodati che matureranno i nuovi requisiti pensionistici nei prossimi due anni (al netto quindi della finestra di un anno). Quanto alle ricongiunzioni, dice Damiano, «noi siamo anche disposti al fatto che la pensione si calcoli pro quota in base ai contributi versati nelle diverse gestioni, ma non è possibile che si chieda, come ora, di ripagare i contributi già versati».

Il Corriere della Sera 30.03.12