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“Il valore aggiunto nella scuola: pret à porter?”, di Giancarlo Cerini

Bell’equilibrio quello che si è realizzato a Bologna, al convegno nazionale dell’ANDIS (Associazione nazionale dirigenti scolastici), tenutosi nella prestigiosa “Sala Borsa” – oggi biblioteca multimediale – il 23-24 marzo, con 200 partecipanti attentissimi e molti relatori di qualità, che si sono “misurati” (è proprio il caso di dirlo) con il concetto di “valore aggiunto” e più in generale con il tema della valutazione a scuola. Come auspicava in apertura il sottosegretario all’istruzione Elena Ugolini, lanciando un guanto di sfida agli esperti, “il valore aggiunto non è un algoritmo statistico”. Ma allora che cos’è? E chi è titolato a parlarne?

Hanno ragione gli economisti, a reclamare efficacia della spesa pubblica, qualità dei risultati, rapporto costo-benefici, conti alla mano? Sono convincenti i docimologi nel richiedere affidabilità dei dati, indicatori pertinenti, strumentazioni oggettive? E che dire dei giuristi che esigono trasparenza, correttezza degli atti, rendicontazione sociale, responsabilità? Sono forse patetici i pedagogisti a mettere al centro i valori disinteressati della cultura, della relazione educativa, dell’apprendimento, della cittadinanza?

La società pretende una valutazione affidabile! E la scuola che cosa pensa? Gli insegnanti e i dirigenti, che tipo di valutazione si aspettano? E l’Invalsi – il nostro istituto nazionale di valutazione – che ruolo intende svolgere? E’ possibile tenere insieme queste diverse sollecitazioni? Credo che il convegno di Bologna (di alto livello e su cui dovremo ritornare in maniera non frettolosa) abbia rappresentato un buon passo avanti in questa ricerca. Ricostruiamo allora il filo dei discorsi, tutti importanti.

I dati non devono far paura (Martinez), ma oggi serve più che mai una valutazione mite, non intrusiva, capace di stimolare responsabilità e miglioramento: un approccio etico-costituzionale, piuttosto che tecnicistico (Cerini), con un giusto dosaggio tra valutazione esterna (accountability), performativa ma hard, e autovalutazione interna (debole se autoreferenziale), ma soft (Scheerens). Il valore aggiunto evidenzia l’effetto scuola, ciò di cui gli operatori interni devono prendersi la responsabilità per andare oltre i tanti vincoli del contesto (Ricci). Già ci sono riscontri positivi dalla sperimentazione VSQ-Valutazione Sviluppo Qualità, che utilizza il calcolo del valore aggiunto, abbinandolo però all’apprezzamento di ulteriori fattori organizzativi e didattici (Gavosto), mentre ha fatto più discutere il progetto Valorizza, con un premio ai docenti più “stimati” da ogni comunità scolastica: ma i termometri, anche se spiacevoli, vanno usati (Ichino). Meglio, tuttavia, parlare di valutazione come “cannocchiale galileiano” (Previtali), senza dimenticare la condivisione necessaria della scuola e dei docenti, che non possono subire la valutazione, ma devono viverla come ricerca (Giovannini). Un altolà è giunto da Martini: la pubblicazione dei dati grezzi sui livelli di apprendimento, ma anche quelli di valore aggiunto, scuola per scuola, può accrescere i rischi di segregazione e polarizzazione tra istituti scolastici che diventerebbero sempre più disuguali. L’esperienza internazionale dovrebbe rendere tutti più cauti.

Ripensare la valutazione in senso formativo può influire positivamente sui risultati dei ragazzi, però bisogna cambiare parametri di riferimento (Comoglio), come ci fanno intravvedere le ricerche più recenti sull’apprendimento. Strategica risulta anche la valorizzazione/validazione delle competenze comunque conseguite (Accorsi), in ambienti formali e informali. Determinante è anche il ruolo di facilitazione, di freno o di sfida dei diversi contesti territoriali (Pillati e Palmieri, assessori comunali di Bologna e Napoli, hanno richiamato criticità ma anche virtù civiche). Di tutto ciò deve far tesoro il dirigente scolastico, se vuole interpretare una leadership educativa orientata all’apprendimento e alla comunità professionale (Cristanini). I responsabili dell’ANDIS (Jannaccone, Rossi, Stellati, Quirini, Anania) hanno puntualizzato i “passaggi” salienti del “loro” convegno, che si è concluso con 5 work-shop partecipati e animati (condotti da Luisi, Senni e staff Aicq, Mosca e rete Avimes, Cerini, Previtali, Panziera, Risoli). Un bel week-end lungo sotto le Due Torri, che deve far riflettere sia chi sta nei palazzi (gli asettici tecnici al Governo), sia chi anima le piazze (gli indignados dell’”urlo per la scuola”). La democrazia è proprio questo.

da ScuolaOggi 26.03.12

"Quel bisogno di equità sociale", di Guido Crainz

Nel momento in cui inizia un´altra fase decisiva per l´articolo 18, è evidente che il suo esito avrà conseguenze sia sul mercato del lavoro che sul profilo del governo guidato da Mario Monti. In primo luogo, a cosa possono aprire realmente la via le modifiche di cui si discute? Superati gli sbarramenti di bandiera, da tempo il confronto è in buona sostanza sulla portata di esse e, quindi, è essenziale un´analisi equilibrata dei possibili scenari.

Certo, non siamo negli anni Cinquanta e non sono immaginabili licenziamenti di massa per rappresaglia ma non andrebbero sottovalutati i rischi impliciti nelle parole. I confini fra discriminazioni antisindacali, ragioni disciplinari e motivi economici si sono mostrati talora molto labili, e Sergio Marchionne ci ha ricordato spesso quel personaggio di Lewis Carroll che in Alice nel Paese delle Meraviglie dice: «Quando io uso una parola, questa significa esattamente quello che decido io». Bisogna vedere se lo puoi fare, cerca di obiettare Alice: «Bisogna vedere chi comanda… è tutto qua», le risponde Humpty Dumpty. La limitata applicazione attuale dell´articolo 18, infine, appare una buona ragione per mantenerlo, non per abbandonarlo: la sua stessa esistenza contribuisce infatti a disincentivare licenziamenti arbitrari.
Diamo comunque per certo che gli anni Cinquanta non si possano ripresentare: sono altrettanto lontani però gli anni Settanta, quando un forte potere sindacale poteva sin abusare in qualche caso delle norme introdotte dallo Statuto dei lavoratori. Si compirono anche errori gravi in nome della “classe operaia” (basti pensare all´accordo del 1975 sulla contingenza) ma da allora essa è quasi scomparsa dall´orizzonte culturale del Paese: ed è merito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aver richiamato l´attenzione sin dall´inizio del suo mandato sui drammi delle morti sul lavoro e su quel che esse significano per una nazione civile.
La realtà ci parla da tempo, insomma, di un lavoro di fabbrica quantitativamente ridotto e insidiato su più versanti, e periodicamente riscopriamo che il potere d´acquisto dei salari è fortemente diminuito. Nel 1992 e nel 1993 fu preziosa la responsabilità con cui i dirigenti sindacali siglarono accordi impegnativi e talora dolorosi, sfidando anche le contestazioni aspre della propria base: il coraggio politico di Bruno Trentin, ad esempio, non andrebbe mai dimenticato. Proprio per questo, c´è da chiedersi se a quella generosa disponibilità dei sindacati operai abbiano corrisposto comportamenti analoghi di altri settori e strati sociali, e la riposta non è confortante.
Il confliggere ha certo anche carattere simbolico (come è inevitabile, sul terreno dei diritti) ma riguarda al tempo stesso aspetti di rilievo: per il mondo del lavoro e per il profilo stesso di questo governo, indubbiamente il migliore che il Paese abbia avuto da anni. E un Paese oppresso, e quasi travolto, dalle macerie di una pessima politica, ha un bisogno estremo di una “pedagogia per il futuro” e di indicazioni limpide sul terreno della equità sociale. Su quest´ultimo aspetto, su cui il presidente del Consiglio Mario Monti si è impegnato sin dall´avvio, i segnali che sono venuti non sono univoci e hanno sollevato più di un dubbio. Hanno lasciato un sapore amaro, inutile nasconderlo, alcune “non scelte” sul terreno delle liberalizzazioni. E in una difficile emergenza nazionale, che ha portato a interventi molto incisivi sulle pensioni, è difficile comprendere i passi indietro in materia di commissioni bancarie, taxi o farmacie.
Per questo le preoccupazioni sono oggi legittime ed è fondata l´esigenza che le modifiche all´articolo 18 siano molto più attente. Sembra comprenderlo anche il nuovo presidente della Confindustria ed è un segnale confortante, così come sarebbero importanti ulteriori avvicinamenti fra le organizzazioni sindacali.
Il confronto in corso non riguarda dunque, da tempo, un “potere di veto” corporativo, che si è manifestato semmai in altri e ben diversi settori, ma la capacità del governo di costruire prospettive riconoscibili: prospettive capaci di non sacrificare i settori più deboli e di ribadire che proprio le crisi economiche e politiche rendono preziosi i diritti. Senza questa forte ed esplicita direzione di marcia perderebbe molto valore quella estensione delle norme a tutti i lavoratori che è stata invece importante e che non sarebbe giusto ignorare. Le scelte del governo Monti, infine, sono destinate a influire anche sul “dopo Monti”, ed è importante il modo con cui il centrosinistra e lo stesso Terzo polo lo aiutano: anche opponendosi con decisione, quando è necessario, a scelte non sufficientemente equilibrate. Non sufficientemente coerenti con quel progetto di ricostruzione generale, non solo economica, cui il governo e il Paese sono chiamati.

La Repubblica 26.03.12

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“Articolo 18, il governo non cederà”, di Massimo Giannini

Fornero: modifiche al ddl, ma niente reintegro nei licenziamenti economici. «Questa è una riforma seria ed equilibrata. Spero che i partiti capiscano: modifiche se ne possono fare, ma il governo non accetterà che questo disegno di legge venga snaturato, o sia ridotto in polpette». Schiumati almeno in parte i veleni ideologici della prima ora, Elsa Fornero riflette sullo scontro in atto intorno al disegno di legge che riscrive le regole sui licenziamenti, sui contratti flessibili e sugli ammortizzatori sociali. E lancia un appello alle Camere: «Questo provvedimento potrà anche subire qualche cambiamento, ma chiediamo che il Parlamento sovrano ne rispetti l´impianto e i principi basilari. In caso contrario dovrà assumersi le sue responsabilità, e il governo farà le sue valutazioni».
Insieme al presidente del Consiglio Monti, il ministro del Welfare è al centro delle polemiche. Dopo la riforma delle pensioni, anche quella del lavoro la vede in prima linea, a fronteggiare le critiche. Come quelle di Susanna Camusso, che a Cernobbio ha contestato a Fornero le sue «lacrime di coccodrillo». «Non lo nego, ci sono rimasta male. Io avevo espresso il mio rammarico per la rottura con la Cgil. Ero stata sincera. Mi dispiace che il mio rammarico e la mia sincerità siano state giudicate con tanto sarcasmo». Distonie personali, che nascondono dissensi politici.
I sindacati contestano il metodo: con lo strappo deciso martedì scorso e ratificato venerdì in Consiglio dei ministri, Monti e Fornero hanno di fatto chiuso l´era della concertazione, relegando le parti sociali a un ruolo di semplice consultazione. Il ministro non nega la portata della svolta, ma la argomenta. «La linea l´ha tracciata il presidente Monti: le discussioni con le parti sociali si fanno, e sono doverose, ma a un certo punto devono finire, e il governo deve trarre le sue conclusioni, anche se qualcuno non è d´accordo. Su questo, da parte nostra, c´è assoluta fermezza. Il fatto che il premier abbia ribadito che l´approvazione del disegno di legge avviene «salvo intese» ha un significato meramente tecnico. Vuol dire che ci riserviamo di scrivere le norme nel modo più chiaro e più completo possibile. Non vuol dire invece che su certe norme sia ancora in corso una trattativa. Non vuol dire che la discussione è ancora aperta, e che per un´altra settimana riparte la giostra, e qualcuno è ancora in tempo per salirci sopra. Il provvedimento è quello, e non cambierà fino al suo approdo in Parlamento».
Ma i sindacati (a questo punto non più solo la Cgil ma anche la Cisl, la Uil e la Ugl) contestano soprattutto il merito. Cioè la riscrittura dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che nella sua nuova versione esclude la possibilità di reintegro in caso di licenziamenti per motivi economici oggettivi. Anche su questo punto, Fornero rinnova la linea della fermezza. «Abbiamo il massimo rispetto per il Parlamento, che valuterà il disegno di legge e deciderà se e come cambiare. Ma per quanto riguarda il governo, è chiaro che non accetteremo modifiche che snaturino il senso delle singole norme. E sull´articolo 18 il senso della nostra riforma è chiaro: nei licenziamenti per motivi economici oggettivi è previsto l´istituto dell´indennizzo, e non quello del reintegro. Si possono fare correzioni specifiche, ma questo principio-base della legge dovrà essere rispettato». È proprio questo, tuttavia, il punto di frizione e di rottura maggiore con la Cgil, e anche con il Partito democratico. Il ministro del Welfare capisce, ma non condivide. «Io non voglio accusare nessuno, ci mancherebbe altro. Dico solo che il Pd si è più volte dichiarato disponibile a una “manutenzione” sull´articolo 18, anche se noi non abbiamo mai capito cosa questo significhi nella pratica. Quanto alla Cgil, non ci ha mai fatto controproposte… ».
Il leader della Uil Angeletti, tuttavia, nei giorni scorsi ha rivelato un retroscena che fa riflettere. I tre sindacati insieme avevano presentato al premier un pacchetto completo e già blindato, che anche per i licenziamenti economici (oltre che per quelli disciplinari) prevedeva il cosiddetto “modello tedesco”, cioè la facoltà del giudice di decidere tra il reintegro e l´indennizzo del lavoratore. Monti avrebbe rifiutato l´offerta, confezionando un pacchetto che in realtà, a conti fatti, scavalca addirittura “a destra” il modello tedesco. Perché questa forzatura? Fornero racconta una storia diversa: «La Cgil non si è mai spinta fin lì – sostiene – e quanto al modello tedesco noi non scavalchiamo nessuno. Le norme scritte in una legge ordinaria si interpretano, l´articolo 18 non è scritto nella Costituzione. Il nostro provvedimento prevede espressamente che le aziende non possano ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni. In questi casi, se il lavoratore proverà la natura discriminatoria o disciplinare del licenziamento, il giudice applicherà la relativa tutela. Non solo: il presidente Monti, nella stesura definitiva del ddl, si è impegnato a evitare ogni forma di abuso in questa materia. Dunque, nessuna macelleria sociale. Non distruggiamo i diritti di nessuno».
Per questo, secondo il ministro del Welfare, il Parlamento nell´esame del provvedimento dovrebbe rispettarne l´equilibrio. «Noi siamo sereni. Pensiamo di avere dalla nostra la forza e la bontà delle argomentazioni. Come sempre, avremmo voluto fare di più. Ma le assicuro che anche noi tecnici abbiamo un cuore, e sentiamo fino in fondo il disagio che pesa sulla vita di tante persone. Non è solo la Cgil ad avere una coscienza rispetto ai lavoratori, agli operai, ai giovani, ai disoccupati. Con questo disegno di legge, per la prima volta dopo tanti anni, cerchiamo di creare le condizioni per aumentare l´occupazione, rimettiamo mano agli ammortizzatori sociali». L´ampiezza dell´intervento c´è, in effetti. Ma non si può nascondere la pochezza delle risorse. Con meno di 2 miliardi non si fa molto, per ridisegnare un sistema di tutele universali per tutti coloro che finora ne sono stati sprovvisti. «È vero – ammette Fornero – su questo le do ragione. Ai precari avremmo voluto dare di più, ma un po´ d´indennità con la mini-Aspi gliel´abbiamo pur data. Tra niente e un po´, le chiedo, cosa è meglio? La verità è che anche in questa riforma, come nelle altre che abbiamo fatto, abbiamo dovuto e dobbiamo tenere conto di tanti interessi contrapposti e di altrettanti opposti estremismi. In tanti, troppi dimenticano che il Paese è in grandissima difficoltà, e le risorse a disposizione sono davvero poche. Per alcuni la grande riforma del mercato del lavoro è abolire del tutto l´articolo 18, per altri è abolire tutti i contratti flessibili. Noi ci muoviamo su questo sentiero, che è molto, molto stretto».
Il sentiero è stretto anche dal punto di vista politico. Bersani si prepara a un braccio di ferro parlamentare per modificare il provvedimento, Alfano giudica indebolito il governo per via della scelta rinunciataria del disegno di legge. «Un decreto legge – obietta Fornero – sarebbe stato una forzatura, data la vastità dei temi contenuti nel provvedimento. Ci sono regole precise, sulla necessità ed urgenza, e le regole non possono essere bypassate. La legge delega avrebbe rischiato di avere tempi persino più lunghi del ddl. Per questo abbiamo optato per quest´ultimo strumento. Ma guai se questo venisse letto come un cedimento, che consente ai partiti di fare melina, di allungare i tempi e di annacquare la riforma. Sarebbe un disastro per l´Italia, anche sui mercati».
Dunque, la riforma va approvata in fretta, e non va depotenziata. Ammesso che sia una riforma «potente» e capace di creare posti di lavoro, e non una battaglia simbolica per abbattere un tabù, o peggio un pretesto offerto alle imprese per difendere la competitività licenziando i lavoratori invece che aumentando gli investimenti. Il ministro del Welfare non si sottrae, e dopo aver esortato il Parlamento si rivolge anche agli industriali: «Non mi aspetto certo licenziamenti di massa, come effetto della nostra riforma. Purtroppo mi aspetto i licenziamenti legati alla recessione, che già c´erano prima e che continueranno ad esserci, perché la crisi non è affatto finita. Ma proprio per questo rinnovo l´appello ai nostri imprenditori: non abusate della buona flessibilità che la riforma introduce. Sarebbe il modo più irresponsabile di farla fallire».

La Repubblica 26.03.12

“Quel bisogno di equità sociale”, di Guido Crainz

Nel momento in cui inizia un´altra fase decisiva per l´articolo 18, è evidente che il suo esito avrà conseguenze sia sul mercato del lavoro che sul profilo del governo guidato da Mario Monti. In primo luogo, a cosa possono aprire realmente la via le modifiche di cui si discute? Superati gli sbarramenti di bandiera, da tempo il confronto è in buona sostanza sulla portata di esse e, quindi, è essenziale un´analisi equilibrata dei possibili scenari.

Certo, non siamo negli anni Cinquanta e non sono immaginabili licenziamenti di massa per rappresaglia ma non andrebbero sottovalutati i rischi impliciti nelle parole. I confini fra discriminazioni antisindacali, ragioni disciplinari e motivi economici si sono mostrati talora molto labili, e Sergio Marchionne ci ha ricordato spesso quel personaggio di Lewis Carroll che in Alice nel Paese delle Meraviglie dice: «Quando io uso una parola, questa significa esattamente quello che decido io». Bisogna vedere se lo puoi fare, cerca di obiettare Alice: «Bisogna vedere chi comanda… è tutto qua», le risponde Humpty Dumpty. La limitata applicazione attuale dell´articolo 18, infine, appare una buona ragione per mantenerlo, non per abbandonarlo: la sua stessa esistenza contribuisce infatti a disincentivare licenziamenti arbitrari.
Diamo comunque per certo che gli anni Cinquanta non si possano ripresentare: sono altrettanto lontani però gli anni Settanta, quando un forte potere sindacale poteva sin abusare in qualche caso delle norme introdotte dallo Statuto dei lavoratori. Si compirono anche errori gravi in nome della “classe operaia” (basti pensare all´accordo del 1975 sulla contingenza) ma da allora essa è quasi scomparsa dall´orizzonte culturale del Paese: ed è merito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aver richiamato l´attenzione sin dall´inizio del suo mandato sui drammi delle morti sul lavoro e su quel che esse significano per una nazione civile.
La realtà ci parla da tempo, insomma, di un lavoro di fabbrica quantitativamente ridotto e insidiato su più versanti, e periodicamente riscopriamo che il potere d´acquisto dei salari è fortemente diminuito. Nel 1992 e nel 1993 fu preziosa la responsabilità con cui i dirigenti sindacali siglarono accordi impegnativi e talora dolorosi, sfidando anche le contestazioni aspre della propria base: il coraggio politico di Bruno Trentin, ad esempio, non andrebbe mai dimenticato. Proprio per questo, c´è da chiedersi se a quella generosa disponibilità dei sindacati operai abbiano corrisposto comportamenti analoghi di altri settori e strati sociali, e la riposta non è confortante.
Il confliggere ha certo anche carattere simbolico (come è inevitabile, sul terreno dei diritti) ma riguarda al tempo stesso aspetti di rilievo: per il mondo del lavoro e per il profilo stesso di questo governo, indubbiamente il migliore che il Paese abbia avuto da anni. E un Paese oppresso, e quasi travolto, dalle macerie di una pessima politica, ha un bisogno estremo di una “pedagogia per il futuro” e di indicazioni limpide sul terreno della equità sociale. Su quest´ultimo aspetto, su cui il presidente del Consiglio Mario Monti si è impegnato sin dall´avvio, i segnali che sono venuti non sono univoci e hanno sollevato più di un dubbio. Hanno lasciato un sapore amaro, inutile nasconderlo, alcune “non scelte” sul terreno delle liberalizzazioni. E in una difficile emergenza nazionale, che ha portato a interventi molto incisivi sulle pensioni, è difficile comprendere i passi indietro in materia di commissioni bancarie, taxi o farmacie.
Per questo le preoccupazioni sono oggi legittime ed è fondata l´esigenza che le modifiche all´articolo 18 siano molto più attente. Sembra comprenderlo anche il nuovo presidente della Confindustria ed è un segnale confortante, così come sarebbero importanti ulteriori avvicinamenti fra le organizzazioni sindacali.
Il confronto in corso non riguarda dunque, da tempo, un “potere di veto” corporativo, che si è manifestato semmai in altri e ben diversi settori, ma la capacità del governo di costruire prospettive riconoscibili: prospettive capaci di non sacrificare i settori più deboli e di ribadire che proprio le crisi economiche e politiche rendono preziosi i diritti. Senza questa forte ed esplicita direzione di marcia perderebbe molto valore quella estensione delle norme a tutti i lavoratori che è stata invece importante e che non sarebbe giusto ignorare. Le scelte del governo Monti, infine, sono destinate a influire anche sul “dopo Monti”, ed è importante il modo con cui il centrosinistra e lo stesso Terzo polo lo aiutano: anche opponendosi con decisione, quando è necessario, a scelte non sufficientemente equilibrate. Non sufficientemente coerenti con quel progetto di ricostruzione generale, non solo economica, cui il governo e il Paese sono chiamati.

La Repubblica 26.03.12

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“Articolo 18, il governo non cederà”, di Massimo Giannini

Fornero: modifiche al ddl, ma niente reintegro nei licenziamenti economici. «Questa è una riforma seria ed equilibrata. Spero che i partiti capiscano: modifiche se ne possono fare, ma il governo non accetterà che questo disegno di legge venga snaturato, o sia ridotto in polpette». Schiumati almeno in parte i veleni ideologici della prima ora, Elsa Fornero riflette sullo scontro in atto intorno al disegno di legge che riscrive le regole sui licenziamenti, sui contratti flessibili e sugli ammortizzatori sociali. E lancia un appello alle Camere: «Questo provvedimento potrà anche subire qualche cambiamento, ma chiediamo che il Parlamento sovrano ne rispetti l´impianto e i principi basilari. In caso contrario dovrà assumersi le sue responsabilità, e il governo farà le sue valutazioni».
Insieme al presidente del Consiglio Monti, il ministro del Welfare è al centro delle polemiche. Dopo la riforma delle pensioni, anche quella del lavoro la vede in prima linea, a fronteggiare le critiche. Come quelle di Susanna Camusso, che a Cernobbio ha contestato a Fornero le sue «lacrime di coccodrillo». «Non lo nego, ci sono rimasta male. Io avevo espresso il mio rammarico per la rottura con la Cgil. Ero stata sincera. Mi dispiace che il mio rammarico e la mia sincerità siano state giudicate con tanto sarcasmo». Distonie personali, che nascondono dissensi politici.
I sindacati contestano il metodo: con lo strappo deciso martedì scorso e ratificato venerdì in Consiglio dei ministri, Monti e Fornero hanno di fatto chiuso l´era della concertazione, relegando le parti sociali a un ruolo di semplice consultazione. Il ministro non nega la portata della svolta, ma la argomenta. «La linea l´ha tracciata il presidente Monti: le discussioni con le parti sociali si fanno, e sono doverose, ma a un certo punto devono finire, e il governo deve trarre le sue conclusioni, anche se qualcuno non è d´accordo. Su questo, da parte nostra, c´è assoluta fermezza. Il fatto che il premier abbia ribadito che l´approvazione del disegno di legge avviene «salvo intese» ha un significato meramente tecnico. Vuol dire che ci riserviamo di scrivere le norme nel modo più chiaro e più completo possibile. Non vuol dire invece che su certe norme sia ancora in corso una trattativa. Non vuol dire che la discussione è ancora aperta, e che per un´altra settimana riparte la giostra, e qualcuno è ancora in tempo per salirci sopra. Il provvedimento è quello, e non cambierà fino al suo approdo in Parlamento».
Ma i sindacati (a questo punto non più solo la Cgil ma anche la Cisl, la Uil e la Ugl) contestano soprattutto il merito. Cioè la riscrittura dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che nella sua nuova versione esclude la possibilità di reintegro in caso di licenziamenti per motivi economici oggettivi. Anche su questo punto, Fornero rinnova la linea della fermezza. «Abbiamo il massimo rispetto per il Parlamento, che valuterà il disegno di legge e deciderà se e come cambiare. Ma per quanto riguarda il governo, è chiaro che non accetteremo modifiche che snaturino il senso delle singole norme. E sull´articolo 18 il senso della nostra riforma è chiaro: nei licenziamenti per motivi economici oggettivi è previsto l´istituto dell´indennizzo, e non quello del reintegro. Si possono fare correzioni specifiche, ma questo principio-base della legge dovrà essere rispettato». È proprio questo, tuttavia, il punto di frizione e di rottura maggiore con la Cgil, e anche con il Partito democratico. Il ministro del Welfare capisce, ma non condivide. «Io non voglio accusare nessuno, ci mancherebbe altro. Dico solo che il Pd si è più volte dichiarato disponibile a una “manutenzione” sull´articolo 18, anche se noi non abbiamo mai capito cosa questo significhi nella pratica. Quanto alla Cgil, non ci ha mai fatto controproposte… ».
Il leader della Uil Angeletti, tuttavia, nei giorni scorsi ha rivelato un retroscena che fa riflettere. I tre sindacati insieme avevano presentato al premier un pacchetto completo e già blindato, che anche per i licenziamenti economici (oltre che per quelli disciplinari) prevedeva il cosiddetto “modello tedesco”, cioè la facoltà del giudice di decidere tra il reintegro e l´indennizzo del lavoratore. Monti avrebbe rifiutato l´offerta, confezionando un pacchetto che in realtà, a conti fatti, scavalca addirittura “a destra” il modello tedesco. Perché questa forzatura? Fornero racconta una storia diversa: «La Cgil non si è mai spinta fin lì – sostiene – e quanto al modello tedesco noi non scavalchiamo nessuno. Le norme scritte in una legge ordinaria si interpretano, l´articolo 18 non è scritto nella Costituzione. Il nostro provvedimento prevede espressamente che le aziende non possano ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni. In questi casi, se il lavoratore proverà la natura discriminatoria o disciplinare del licenziamento, il giudice applicherà la relativa tutela. Non solo: il presidente Monti, nella stesura definitiva del ddl, si è impegnato a evitare ogni forma di abuso in questa materia. Dunque, nessuna macelleria sociale. Non distruggiamo i diritti di nessuno».
Per questo, secondo il ministro del Welfare, il Parlamento nell´esame del provvedimento dovrebbe rispettarne l´equilibrio. «Noi siamo sereni. Pensiamo di avere dalla nostra la forza e la bontà delle argomentazioni. Come sempre, avremmo voluto fare di più. Ma le assicuro che anche noi tecnici abbiamo un cuore, e sentiamo fino in fondo il disagio che pesa sulla vita di tante persone. Non è solo la Cgil ad avere una coscienza rispetto ai lavoratori, agli operai, ai giovani, ai disoccupati. Con questo disegno di legge, per la prima volta dopo tanti anni, cerchiamo di creare le condizioni per aumentare l´occupazione, rimettiamo mano agli ammortizzatori sociali». L´ampiezza dell´intervento c´è, in effetti. Ma non si può nascondere la pochezza delle risorse. Con meno di 2 miliardi non si fa molto, per ridisegnare un sistema di tutele universali per tutti coloro che finora ne sono stati sprovvisti. «È vero – ammette Fornero – su questo le do ragione. Ai precari avremmo voluto dare di più, ma un po´ d´indennità con la mini-Aspi gliel´abbiamo pur data. Tra niente e un po´, le chiedo, cosa è meglio? La verità è che anche in questa riforma, come nelle altre che abbiamo fatto, abbiamo dovuto e dobbiamo tenere conto di tanti interessi contrapposti e di altrettanti opposti estremismi. In tanti, troppi dimenticano che il Paese è in grandissima difficoltà, e le risorse a disposizione sono davvero poche. Per alcuni la grande riforma del mercato del lavoro è abolire del tutto l´articolo 18, per altri è abolire tutti i contratti flessibili. Noi ci muoviamo su questo sentiero, che è molto, molto stretto».
Il sentiero è stretto anche dal punto di vista politico. Bersani si prepara a un braccio di ferro parlamentare per modificare il provvedimento, Alfano giudica indebolito il governo per via della scelta rinunciataria del disegno di legge. «Un decreto legge – obietta Fornero – sarebbe stato una forzatura, data la vastità dei temi contenuti nel provvedimento. Ci sono regole precise, sulla necessità ed urgenza, e le regole non possono essere bypassate. La legge delega avrebbe rischiato di avere tempi persino più lunghi del ddl. Per questo abbiamo optato per quest´ultimo strumento. Ma guai se questo venisse letto come un cedimento, che consente ai partiti di fare melina, di allungare i tempi e di annacquare la riforma. Sarebbe un disastro per l´Italia, anche sui mercati».
Dunque, la riforma va approvata in fretta, e non va depotenziata. Ammesso che sia una riforma «potente» e capace di creare posti di lavoro, e non una battaglia simbolica per abbattere un tabù, o peggio un pretesto offerto alle imprese per difendere la competitività licenziando i lavoratori invece che aumentando gli investimenti. Il ministro del Welfare non si sottrae, e dopo aver esortato il Parlamento si rivolge anche agli industriali: «Non mi aspetto certo licenziamenti di massa, come effetto della nostra riforma. Purtroppo mi aspetto i licenziamenti legati alla recessione, che già c´erano prima e che continueranno ad esserci, perché la crisi non è affatto finita. Ma proprio per questo rinnovo l´appello ai nostri imprenditori: non abusate della buona flessibilità che la riforma introduce. Sarebbe il modo più irresponsabile di farla fallire».

La Repubblica 26.03.12

“Quel bisogno di equità sociale”, di Guido Crainz

Nel momento in cui inizia un´altra fase decisiva per l´articolo 18, è evidente che il suo esito avrà conseguenze sia sul mercato del lavoro che sul profilo del governo guidato da Mario Monti. In primo luogo, a cosa possono aprire realmente la via le modifiche di cui si discute? Superati gli sbarramenti di bandiera, da tempo il confronto è in buona sostanza sulla portata di esse e, quindi, è essenziale un´analisi equilibrata dei possibili scenari.

Certo, non siamo negli anni Cinquanta e non sono immaginabili licenziamenti di massa per rappresaglia ma non andrebbero sottovalutati i rischi impliciti nelle parole. I confini fra discriminazioni antisindacali, ragioni disciplinari e motivi economici si sono mostrati talora molto labili, e Sergio Marchionne ci ha ricordato spesso quel personaggio di Lewis Carroll che in Alice nel Paese delle Meraviglie dice: «Quando io uso una parola, questa significa esattamente quello che decido io». Bisogna vedere se lo puoi fare, cerca di obiettare Alice: «Bisogna vedere chi comanda… è tutto qua», le risponde Humpty Dumpty. La limitata applicazione attuale dell´articolo 18, infine, appare una buona ragione per mantenerlo, non per abbandonarlo: la sua stessa esistenza contribuisce infatti a disincentivare licenziamenti arbitrari.
Diamo comunque per certo che gli anni Cinquanta non si possano ripresentare: sono altrettanto lontani però gli anni Settanta, quando un forte potere sindacale poteva sin abusare in qualche caso delle norme introdotte dallo Statuto dei lavoratori. Si compirono anche errori gravi in nome della “classe operaia” (basti pensare all´accordo del 1975 sulla contingenza) ma da allora essa è quasi scomparsa dall´orizzonte culturale del Paese: ed è merito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aver richiamato l´attenzione sin dall´inizio del suo mandato sui drammi delle morti sul lavoro e su quel che esse significano per una nazione civile.
La realtà ci parla da tempo, insomma, di un lavoro di fabbrica quantitativamente ridotto e insidiato su più versanti, e periodicamente riscopriamo che il potere d´acquisto dei salari è fortemente diminuito. Nel 1992 e nel 1993 fu preziosa la responsabilità con cui i dirigenti sindacali siglarono accordi impegnativi e talora dolorosi, sfidando anche le contestazioni aspre della propria base: il coraggio politico di Bruno Trentin, ad esempio, non andrebbe mai dimenticato. Proprio per questo, c´è da chiedersi se a quella generosa disponibilità dei sindacati operai abbiano corrisposto comportamenti analoghi di altri settori e strati sociali, e la riposta non è confortante.
Il confliggere ha certo anche carattere simbolico (come è inevitabile, sul terreno dei diritti) ma riguarda al tempo stesso aspetti di rilievo: per il mondo del lavoro e per il profilo stesso di questo governo, indubbiamente il migliore che il Paese abbia avuto da anni. E un Paese oppresso, e quasi travolto, dalle macerie di una pessima politica, ha un bisogno estremo di una “pedagogia per il futuro” e di indicazioni limpide sul terreno della equità sociale. Su quest´ultimo aspetto, su cui il presidente del Consiglio Mario Monti si è impegnato sin dall´avvio, i segnali che sono venuti non sono univoci e hanno sollevato più di un dubbio. Hanno lasciato un sapore amaro, inutile nasconderlo, alcune “non scelte” sul terreno delle liberalizzazioni. E in una difficile emergenza nazionale, che ha portato a interventi molto incisivi sulle pensioni, è difficile comprendere i passi indietro in materia di commissioni bancarie, taxi o farmacie.
Per questo le preoccupazioni sono oggi legittime ed è fondata l´esigenza che le modifiche all´articolo 18 siano molto più attente. Sembra comprenderlo anche il nuovo presidente della Confindustria ed è un segnale confortante, così come sarebbero importanti ulteriori avvicinamenti fra le organizzazioni sindacali.
Il confronto in corso non riguarda dunque, da tempo, un “potere di veto” corporativo, che si è manifestato semmai in altri e ben diversi settori, ma la capacità del governo di costruire prospettive riconoscibili: prospettive capaci di non sacrificare i settori più deboli e di ribadire che proprio le crisi economiche e politiche rendono preziosi i diritti. Senza questa forte ed esplicita direzione di marcia perderebbe molto valore quella estensione delle norme a tutti i lavoratori che è stata invece importante e che non sarebbe giusto ignorare. Le scelte del governo Monti, infine, sono destinate a influire anche sul “dopo Monti”, ed è importante il modo con cui il centrosinistra e lo stesso Terzo polo lo aiutano: anche opponendosi con decisione, quando è necessario, a scelte non sufficientemente equilibrate. Non sufficientemente coerenti con quel progetto di ricostruzione generale, non solo economica, cui il governo e il Paese sono chiamati.

La Repubblica 26.03.12

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“Articolo 18, il governo non cederà”, di Massimo Giannini

Fornero: modifiche al ddl, ma niente reintegro nei licenziamenti economici. «Questa è una riforma seria ed equilibrata. Spero che i partiti capiscano: modifiche se ne possono fare, ma il governo non accetterà che questo disegno di legge venga snaturato, o sia ridotto in polpette». Schiumati almeno in parte i veleni ideologici della prima ora, Elsa Fornero riflette sullo scontro in atto intorno al disegno di legge che riscrive le regole sui licenziamenti, sui contratti flessibili e sugli ammortizzatori sociali. E lancia un appello alle Camere: «Questo provvedimento potrà anche subire qualche cambiamento, ma chiediamo che il Parlamento sovrano ne rispetti l´impianto e i principi basilari. In caso contrario dovrà assumersi le sue responsabilità, e il governo farà le sue valutazioni».
Insieme al presidente del Consiglio Monti, il ministro del Welfare è al centro delle polemiche. Dopo la riforma delle pensioni, anche quella del lavoro la vede in prima linea, a fronteggiare le critiche. Come quelle di Susanna Camusso, che a Cernobbio ha contestato a Fornero le sue «lacrime di coccodrillo». «Non lo nego, ci sono rimasta male. Io avevo espresso il mio rammarico per la rottura con la Cgil. Ero stata sincera. Mi dispiace che il mio rammarico e la mia sincerità siano state giudicate con tanto sarcasmo». Distonie personali, che nascondono dissensi politici.
I sindacati contestano il metodo: con lo strappo deciso martedì scorso e ratificato venerdì in Consiglio dei ministri, Monti e Fornero hanno di fatto chiuso l´era della concertazione, relegando le parti sociali a un ruolo di semplice consultazione. Il ministro non nega la portata della svolta, ma la argomenta. «La linea l´ha tracciata il presidente Monti: le discussioni con le parti sociali si fanno, e sono doverose, ma a un certo punto devono finire, e il governo deve trarre le sue conclusioni, anche se qualcuno non è d´accordo. Su questo, da parte nostra, c´è assoluta fermezza. Il fatto che il premier abbia ribadito che l´approvazione del disegno di legge avviene «salvo intese» ha un significato meramente tecnico. Vuol dire che ci riserviamo di scrivere le norme nel modo più chiaro e più completo possibile. Non vuol dire invece che su certe norme sia ancora in corso una trattativa. Non vuol dire che la discussione è ancora aperta, e che per un´altra settimana riparte la giostra, e qualcuno è ancora in tempo per salirci sopra. Il provvedimento è quello, e non cambierà fino al suo approdo in Parlamento».
Ma i sindacati (a questo punto non più solo la Cgil ma anche la Cisl, la Uil e la Ugl) contestano soprattutto il merito. Cioè la riscrittura dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che nella sua nuova versione esclude la possibilità di reintegro in caso di licenziamenti per motivi economici oggettivi. Anche su questo punto, Fornero rinnova la linea della fermezza. «Abbiamo il massimo rispetto per il Parlamento, che valuterà il disegno di legge e deciderà se e come cambiare. Ma per quanto riguarda il governo, è chiaro che non accetteremo modifiche che snaturino il senso delle singole norme. E sull´articolo 18 il senso della nostra riforma è chiaro: nei licenziamenti per motivi economici oggettivi è previsto l´istituto dell´indennizzo, e non quello del reintegro. Si possono fare correzioni specifiche, ma questo principio-base della legge dovrà essere rispettato». È proprio questo, tuttavia, il punto di frizione e di rottura maggiore con la Cgil, e anche con il Partito democratico. Il ministro del Welfare capisce, ma non condivide. «Io non voglio accusare nessuno, ci mancherebbe altro. Dico solo che il Pd si è più volte dichiarato disponibile a una “manutenzione” sull´articolo 18, anche se noi non abbiamo mai capito cosa questo significhi nella pratica. Quanto alla Cgil, non ci ha mai fatto controproposte… ».
Il leader della Uil Angeletti, tuttavia, nei giorni scorsi ha rivelato un retroscena che fa riflettere. I tre sindacati insieme avevano presentato al premier un pacchetto completo e già blindato, che anche per i licenziamenti economici (oltre che per quelli disciplinari) prevedeva il cosiddetto “modello tedesco”, cioè la facoltà del giudice di decidere tra il reintegro e l´indennizzo del lavoratore. Monti avrebbe rifiutato l´offerta, confezionando un pacchetto che in realtà, a conti fatti, scavalca addirittura “a destra” il modello tedesco. Perché questa forzatura? Fornero racconta una storia diversa: «La Cgil non si è mai spinta fin lì – sostiene – e quanto al modello tedesco noi non scavalchiamo nessuno. Le norme scritte in una legge ordinaria si interpretano, l´articolo 18 non è scritto nella Costituzione. Il nostro provvedimento prevede espressamente che le aziende non possano ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni. In questi casi, se il lavoratore proverà la natura discriminatoria o disciplinare del licenziamento, il giudice applicherà la relativa tutela. Non solo: il presidente Monti, nella stesura definitiva del ddl, si è impegnato a evitare ogni forma di abuso in questa materia. Dunque, nessuna macelleria sociale. Non distruggiamo i diritti di nessuno».
Per questo, secondo il ministro del Welfare, il Parlamento nell´esame del provvedimento dovrebbe rispettarne l´equilibrio. «Noi siamo sereni. Pensiamo di avere dalla nostra la forza e la bontà delle argomentazioni. Come sempre, avremmo voluto fare di più. Ma le assicuro che anche noi tecnici abbiamo un cuore, e sentiamo fino in fondo il disagio che pesa sulla vita di tante persone. Non è solo la Cgil ad avere una coscienza rispetto ai lavoratori, agli operai, ai giovani, ai disoccupati. Con questo disegno di legge, per la prima volta dopo tanti anni, cerchiamo di creare le condizioni per aumentare l´occupazione, rimettiamo mano agli ammortizzatori sociali». L´ampiezza dell´intervento c´è, in effetti. Ma non si può nascondere la pochezza delle risorse. Con meno di 2 miliardi non si fa molto, per ridisegnare un sistema di tutele universali per tutti coloro che finora ne sono stati sprovvisti. «È vero – ammette Fornero – su questo le do ragione. Ai precari avremmo voluto dare di più, ma un po´ d´indennità con la mini-Aspi gliel´abbiamo pur data. Tra niente e un po´, le chiedo, cosa è meglio? La verità è che anche in questa riforma, come nelle altre che abbiamo fatto, abbiamo dovuto e dobbiamo tenere conto di tanti interessi contrapposti e di altrettanti opposti estremismi. In tanti, troppi dimenticano che il Paese è in grandissima difficoltà, e le risorse a disposizione sono davvero poche. Per alcuni la grande riforma del mercato del lavoro è abolire del tutto l´articolo 18, per altri è abolire tutti i contratti flessibili. Noi ci muoviamo su questo sentiero, che è molto, molto stretto».
Il sentiero è stretto anche dal punto di vista politico. Bersani si prepara a un braccio di ferro parlamentare per modificare il provvedimento, Alfano giudica indebolito il governo per via della scelta rinunciataria del disegno di legge. «Un decreto legge – obietta Fornero – sarebbe stato una forzatura, data la vastità dei temi contenuti nel provvedimento. Ci sono regole precise, sulla necessità ed urgenza, e le regole non possono essere bypassate. La legge delega avrebbe rischiato di avere tempi persino più lunghi del ddl. Per questo abbiamo optato per quest´ultimo strumento. Ma guai se questo venisse letto come un cedimento, che consente ai partiti di fare melina, di allungare i tempi e di annacquare la riforma. Sarebbe un disastro per l´Italia, anche sui mercati».
Dunque, la riforma va approvata in fretta, e non va depotenziata. Ammesso che sia una riforma «potente» e capace di creare posti di lavoro, e non una battaglia simbolica per abbattere un tabù, o peggio un pretesto offerto alle imprese per difendere la competitività licenziando i lavoratori invece che aumentando gli investimenti. Il ministro del Welfare non si sottrae, e dopo aver esortato il Parlamento si rivolge anche agli industriali: «Non mi aspetto certo licenziamenti di massa, come effetto della nostra riforma. Purtroppo mi aspetto i licenziamenti legati alla recessione, che già c´erano prima e che continueranno ad esserci, perché la crisi non è affatto finita. Ma proprio per questo rinnovo l´appello ai nostri imprenditori: non abusate della buona flessibilità che la riforma introduce. Sarebbe il modo più irresponsabile di farla fallire».

La Repubblica 26.03.12

"Tabucchi, tra amore e disincanto acerrimo amico della vita", di Ernesto Ferrero

Nel 1970 fa il suo ingresso in Via Biancamano un giovane non ancora trentenne che può vantare una presentazione della grande Luciana Stegagno Picchio, sua maestra di letteratura portoghese a Pisa. Occhiali tondi, un accenno di calvizie, timido e rispettoso, ma fermo, convinto. Propone nientemeno che una antologia di poeti surrealisti portoghesi, quando la stella di Fernando Pessoa doveva ancora sorgere all’orizzonte (proprio per mano sua), José Saramago era alle prime prove e del Portogallo si sapeva soltanto che gemeva sotto la dittatura di Salazar. Oggi che il marketing ha surrogato le direzioni editoriali gli avrebbero riso in faccia. Da Einaudi lo inseriscono tra i primi numeri di una collana di punta, «Letteratura», che incrociava generi e discipline, tra Mandel’stam, Il Fotodinamismo Futurista di Bragaglia, Céline, Fausto Melotti e Cortázar.

Ci avrebbe messo ancora dieci anni a diventare Antonio Tabucchi, il giovane studioso di Vecchiano che aveva trovato la sua vera patria a Lisbona, quel teatrino vecchiotto e un po’ fané di sogni, fantasmi, ombre, apparizioni, ambiguità, in cui si aggirava con il lieto stupore di una misteriosa consanguineità. Come l’amato Pessoa, era difficile incontrarlo fuori dei libri. Nell’età del presenzialismo, si sottraeva, si negava gentilmente. Non amava i discorsi, le occasioni pubbliche; non gli piaceva indossare la maschera dello scrittore che parla di se stesso. Preferiva il raccoglimento, il silenzio della scrittura.

Dei tanti inviti al Salone del libro ne ha accolto uno soltanto, nel 2004, perché vi si presentava un libro della Stegagno Picchio, «la persona cui devo tutto», proprio su Pessoa. Disse che Pessoa l’aveva forse scoperto da solo, casualmente, in un libretto trovato alla Gare de Lyon prima di un viaggio, ma era lei che glielo aveva insegnato. Da lei aveva imparato che la filologia è una scienza seria, non solo un metodo di indagine ma una visione del mondo; e che lo studio deve essere fatto di fatica, pazienza e rigore. Siamo due «acerrimi amici», diceva sorridendo lei che all’allievo aveva insegnato anche a criticare duramente il maestro.

Acerrimo amico della vita è stato Tabucchi, tra amore e disincanto, irritazione e fascinazione, inquietudine e visionarietà. Da lui, viaggiatore che vuole essere sempre altrove, abbiamo anche imparato che un solo Paese e una sola identità non bastano, e che solo sdoppiandoci in una moltitudine di personaggi possiamo davvero capire chi siamo.

La Stampa 26.03.12

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“Il moschettiere della passione”, di STEFANO BENNI

“Di tutto è rimasto un poco”. È il primo verso della poesia Residuo, di Drummond de Andrade, un poeta amatissimo da Tabucchi, che lui mi ha fatto conoscere anni fa. Uno dei tanti regali di Antonio. Credo che al di là delle grandi celebrazioni, sia quel “poco” ironico e raro che lo renderà indimenticabile. Ciò che è “poco” è spesso anche prezioso, e Antonio usava spesso la parola “prezioso” per la letteratura, per l´impegno civile e per i sentimenti. E di Antonio mi tornano in mente pochi ricordi, forse perché non vorrei staccarmene. Una sera a Pisa, a una tavolata, qualcuno parlava del “tormento” della scrittura, del rovello di tornare sulla pagina. «A me non succede mai – disse Antonio con un sorriso angelico –. Io mi sveglio tutte le mattine alle cinque, lavoro cinque ore di fila, poi correggo al massimo una o due righe. Così in pochi mesi ho scritto Sostiene Pereira». opo due minuti di imbarazzato mutismo conviviale, Tabucchi scoppiò in una risata e disse: «Vi ho mentito. Non è vero niente, anche io ci metto dei giorni per scrivere una pagina, l´ho detto solo per farvi arrabbiare».
Era leggero e severo Antonio, due aggettivi che sembrano scontrarsi. Era leggero per il suo sorriso da moschettiere, per la dolcezza della conversazione, per la passione con cui parlava dei suo amori letterari. Ma se qualcosa non gli piaceva il moschettiere sfoderava la spada, la sua conversazione diventava affilata e polemica, e non risparmiava agli altri scrittori nessuna critica, soprattutto se udiva cantarellare la parola “disimpegno”. La sua prosa melodica, la “musica barata” che sembrava uscire di notte da un finestra di Lisbona o di Rio, poteva diventare uno squillo. I suoi articoli sulla realtà italiana erano forti, e mai inefficaci, si arrabbiava ma riusciva anche a far arrabbiare gli altri. Non recitava duelli, scendeva in strada. Credo che Antonio abbia sofferto molto per quello che è successo nel nostro paese negli ultimi anni. Non per furore ideologico, o ritualità provocatoria. Ma perché non concepiva l´idea di uno scrittore che non si ponesse il problema del potere. «Tornare in Italia qualche volta mi fa paura» mi disse una volta. Non era la paura di chi non combatte, era la paura di vedere offese le cose che amava.
Ed ecco un altro ricordo. Una sera a un concerto disse: «Mi piacerebbe essere un suonatore di chitarra, o di qualsiasi strumento, che canta, si abbandona alla musica e dimentica tutto». E perché non lo fai? gli chiesi. «Perché immagino la scena: a metà della canzone un pensiero, o la faccia di un spettatore, qualcosa mi fa arrabbiare, prendo la chitarra e il microfono, spacco tutto e addio concerto».
Non era nello stile di Antonio fracassare strumenti musicali, ma è vero che la sua prosa elegante, danzata, diventava ruvida e feroce quando parlava di ciò che lui riteneva ingiusto. Anche se tutto era illuminato dal suo sorriso, dal contrappunto delle sue battute a bassa voce. Quando Alberto Rollo mi ha detto che Antonio non stava bene, mi ha raccontato che stava lottando con coraggio e con speranza. Immagino che se gli avessi chiesto se era malato, avrebbe risposto “un poco”. O mi avrebbe raccontato una fantasiosa diagnosi per sbalordire e divertirsi. Ha avuto molti riconoscimenti meritati in vita, Antonio, ma non ne parlava troppo, e ci scherzava pure («il Premio non era male ma il vino faceva schifo»). Una volta lo vidi davvero felice: era rimasto sorpreso per il lunghissimo, affettuoso applauso con cui lo avevano accolto gli studenti di un´università. Immagino che il premio di quell´affetto accompagnerà sempre il suo ricordo e i suoi bellissimi libri. A noi mancherà tantissimo, ma per farlo sorridere diremo che ci manca soltanto un poco.

La Repubblica 26.03.12

“Tabucchi, tra amore e disincanto acerrimo amico della vita”, di Ernesto Ferrero

Nel 1970 fa il suo ingresso in Via Biancamano un giovane non ancora trentenne che può vantare una presentazione della grande Luciana Stegagno Picchio, sua maestra di letteratura portoghese a Pisa. Occhiali tondi, un accenno di calvizie, timido e rispettoso, ma fermo, convinto. Propone nientemeno che una antologia di poeti surrealisti portoghesi, quando la stella di Fernando Pessoa doveva ancora sorgere all’orizzonte (proprio per mano sua), José Saramago era alle prime prove e del Portogallo si sapeva soltanto che gemeva sotto la dittatura di Salazar. Oggi che il marketing ha surrogato le direzioni editoriali gli avrebbero riso in faccia. Da Einaudi lo inseriscono tra i primi numeri di una collana di punta, «Letteratura», che incrociava generi e discipline, tra Mandel’stam, Il Fotodinamismo Futurista di Bragaglia, Céline, Fausto Melotti e Cortázar.

Ci avrebbe messo ancora dieci anni a diventare Antonio Tabucchi, il giovane studioso di Vecchiano che aveva trovato la sua vera patria a Lisbona, quel teatrino vecchiotto e un po’ fané di sogni, fantasmi, ombre, apparizioni, ambiguità, in cui si aggirava con il lieto stupore di una misteriosa consanguineità. Come l’amato Pessoa, era difficile incontrarlo fuori dei libri. Nell’età del presenzialismo, si sottraeva, si negava gentilmente. Non amava i discorsi, le occasioni pubbliche; non gli piaceva indossare la maschera dello scrittore che parla di se stesso. Preferiva il raccoglimento, il silenzio della scrittura.

Dei tanti inviti al Salone del libro ne ha accolto uno soltanto, nel 2004, perché vi si presentava un libro della Stegagno Picchio, «la persona cui devo tutto», proprio su Pessoa. Disse che Pessoa l’aveva forse scoperto da solo, casualmente, in un libretto trovato alla Gare de Lyon prima di un viaggio, ma era lei che glielo aveva insegnato. Da lei aveva imparato che la filologia è una scienza seria, non solo un metodo di indagine ma una visione del mondo; e che lo studio deve essere fatto di fatica, pazienza e rigore. Siamo due «acerrimi amici», diceva sorridendo lei che all’allievo aveva insegnato anche a criticare duramente il maestro.

Acerrimo amico della vita è stato Tabucchi, tra amore e disincanto, irritazione e fascinazione, inquietudine e visionarietà. Da lui, viaggiatore che vuole essere sempre altrove, abbiamo anche imparato che un solo Paese e una sola identità non bastano, e che solo sdoppiandoci in una moltitudine di personaggi possiamo davvero capire chi siamo.

La Stampa 26.03.12

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“Il moschettiere della passione”, di STEFANO BENNI

“Di tutto è rimasto un poco”. È il primo verso della poesia Residuo, di Drummond de Andrade, un poeta amatissimo da Tabucchi, che lui mi ha fatto conoscere anni fa. Uno dei tanti regali di Antonio. Credo che al di là delle grandi celebrazioni, sia quel “poco” ironico e raro che lo renderà indimenticabile. Ciò che è “poco” è spesso anche prezioso, e Antonio usava spesso la parola “prezioso” per la letteratura, per l´impegno civile e per i sentimenti. E di Antonio mi tornano in mente pochi ricordi, forse perché non vorrei staccarmene. Una sera a Pisa, a una tavolata, qualcuno parlava del “tormento” della scrittura, del rovello di tornare sulla pagina. «A me non succede mai – disse Antonio con un sorriso angelico –. Io mi sveglio tutte le mattine alle cinque, lavoro cinque ore di fila, poi correggo al massimo una o due righe. Così in pochi mesi ho scritto Sostiene Pereira». opo due minuti di imbarazzato mutismo conviviale, Tabucchi scoppiò in una risata e disse: «Vi ho mentito. Non è vero niente, anche io ci metto dei giorni per scrivere una pagina, l´ho detto solo per farvi arrabbiare».
Era leggero e severo Antonio, due aggettivi che sembrano scontrarsi. Era leggero per il suo sorriso da moschettiere, per la dolcezza della conversazione, per la passione con cui parlava dei suo amori letterari. Ma se qualcosa non gli piaceva il moschettiere sfoderava la spada, la sua conversazione diventava affilata e polemica, e non risparmiava agli altri scrittori nessuna critica, soprattutto se udiva cantarellare la parola “disimpegno”. La sua prosa melodica, la “musica barata” che sembrava uscire di notte da un finestra di Lisbona o di Rio, poteva diventare uno squillo. I suoi articoli sulla realtà italiana erano forti, e mai inefficaci, si arrabbiava ma riusciva anche a far arrabbiare gli altri. Non recitava duelli, scendeva in strada. Credo che Antonio abbia sofferto molto per quello che è successo nel nostro paese negli ultimi anni. Non per furore ideologico, o ritualità provocatoria. Ma perché non concepiva l´idea di uno scrittore che non si ponesse il problema del potere. «Tornare in Italia qualche volta mi fa paura» mi disse una volta. Non era la paura di chi non combatte, era la paura di vedere offese le cose che amava.
Ed ecco un altro ricordo. Una sera a un concerto disse: «Mi piacerebbe essere un suonatore di chitarra, o di qualsiasi strumento, che canta, si abbandona alla musica e dimentica tutto». E perché non lo fai? gli chiesi. «Perché immagino la scena: a metà della canzone un pensiero, o la faccia di un spettatore, qualcosa mi fa arrabbiare, prendo la chitarra e il microfono, spacco tutto e addio concerto».
Non era nello stile di Antonio fracassare strumenti musicali, ma è vero che la sua prosa elegante, danzata, diventava ruvida e feroce quando parlava di ciò che lui riteneva ingiusto. Anche se tutto era illuminato dal suo sorriso, dal contrappunto delle sue battute a bassa voce. Quando Alberto Rollo mi ha detto che Antonio non stava bene, mi ha raccontato che stava lottando con coraggio e con speranza. Immagino che se gli avessi chiesto se era malato, avrebbe risposto “un poco”. O mi avrebbe raccontato una fantasiosa diagnosi per sbalordire e divertirsi. Ha avuto molti riconoscimenti meritati in vita, Antonio, ma non ne parlava troppo, e ci scherzava pure («il Premio non era male ma il vino faceva schifo»). Una volta lo vidi davvero felice: era rimasto sorpreso per il lunghissimo, affettuoso applauso con cui lo avevano accolto gli studenti di un´università. Immagino che il premio di quell´affetto accompagnerà sempre il suo ricordo e i suoi bellissimi libri. A noi mancherà tantissimo, ma per farlo sorridere diremo che ci manca soltanto un poco.

La Repubblica 26.03.12

“Tabucchi, tra amore e disincanto acerrimo amico della vita”, di Ernesto Ferrero

Nel 1970 fa il suo ingresso in Via Biancamano un giovane non ancora trentenne che può vantare una presentazione della grande Luciana Stegagno Picchio, sua maestra di letteratura portoghese a Pisa. Occhiali tondi, un accenno di calvizie, timido e rispettoso, ma fermo, convinto. Propone nientemeno che una antologia di poeti surrealisti portoghesi, quando la stella di Fernando Pessoa doveva ancora sorgere all’orizzonte (proprio per mano sua), José Saramago era alle prime prove e del Portogallo si sapeva soltanto che gemeva sotto la dittatura di Salazar. Oggi che il marketing ha surrogato le direzioni editoriali gli avrebbero riso in faccia. Da Einaudi lo inseriscono tra i primi numeri di una collana di punta, «Letteratura», che incrociava generi e discipline, tra Mandel’stam, Il Fotodinamismo Futurista di Bragaglia, Céline, Fausto Melotti e Cortázar.

Ci avrebbe messo ancora dieci anni a diventare Antonio Tabucchi, il giovane studioso di Vecchiano che aveva trovato la sua vera patria a Lisbona, quel teatrino vecchiotto e un po’ fané di sogni, fantasmi, ombre, apparizioni, ambiguità, in cui si aggirava con il lieto stupore di una misteriosa consanguineità. Come l’amato Pessoa, era difficile incontrarlo fuori dei libri. Nell’età del presenzialismo, si sottraeva, si negava gentilmente. Non amava i discorsi, le occasioni pubbliche; non gli piaceva indossare la maschera dello scrittore che parla di se stesso. Preferiva il raccoglimento, il silenzio della scrittura.

Dei tanti inviti al Salone del libro ne ha accolto uno soltanto, nel 2004, perché vi si presentava un libro della Stegagno Picchio, «la persona cui devo tutto», proprio su Pessoa. Disse che Pessoa l’aveva forse scoperto da solo, casualmente, in un libretto trovato alla Gare de Lyon prima di un viaggio, ma era lei che glielo aveva insegnato. Da lei aveva imparato che la filologia è una scienza seria, non solo un metodo di indagine ma una visione del mondo; e che lo studio deve essere fatto di fatica, pazienza e rigore. Siamo due «acerrimi amici», diceva sorridendo lei che all’allievo aveva insegnato anche a criticare duramente il maestro.

Acerrimo amico della vita è stato Tabucchi, tra amore e disincanto, irritazione e fascinazione, inquietudine e visionarietà. Da lui, viaggiatore che vuole essere sempre altrove, abbiamo anche imparato che un solo Paese e una sola identità non bastano, e che solo sdoppiandoci in una moltitudine di personaggi possiamo davvero capire chi siamo.

La Stampa 26.03.12

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“Il moschettiere della passione”, di STEFANO BENNI

“Di tutto è rimasto un poco”. È il primo verso della poesia Residuo, di Drummond de Andrade, un poeta amatissimo da Tabucchi, che lui mi ha fatto conoscere anni fa. Uno dei tanti regali di Antonio. Credo che al di là delle grandi celebrazioni, sia quel “poco” ironico e raro che lo renderà indimenticabile. Ciò che è “poco” è spesso anche prezioso, e Antonio usava spesso la parola “prezioso” per la letteratura, per l´impegno civile e per i sentimenti. E di Antonio mi tornano in mente pochi ricordi, forse perché non vorrei staccarmene. Una sera a Pisa, a una tavolata, qualcuno parlava del “tormento” della scrittura, del rovello di tornare sulla pagina. «A me non succede mai – disse Antonio con un sorriso angelico –. Io mi sveglio tutte le mattine alle cinque, lavoro cinque ore di fila, poi correggo al massimo una o due righe. Così in pochi mesi ho scritto Sostiene Pereira». opo due minuti di imbarazzato mutismo conviviale, Tabucchi scoppiò in una risata e disse: «Vi ho mentito. Non è vero niente, anche io ci metto dei giorni per scrivere una pagina, l´ho detto solo per farvi arrabbiare».
Era leggero e severo Antonio, due aggettivi che sembrano scontrarsi. Era leggero per il suo sorriso da moschettiere, per la dolcezza della conversazione, per la passione con cui parlava dei suo amori letterari. Ma se qualcosa non gli piaceva il moschettiere sfoderava la spada, la sua conversazione diventava affilata e polemica, e non risparmiava agli altri scrittori nessuna critica, soprattutto se udiva cantarellare la parola “disimpegno”. La sua prosa melodica, la “musica barata” che sembrava uscire di notte da un finestra di Lisbona o di Rio, poteva diventare uno squillo. I suoi articoli sulla realtà italiana erano forti, e mai inefficaci, si arrabbiava ma riusciva anche a far arrabbiare gli altri. Non recitava duelli, scendeva in strada. Credo che Antonio abbia sofferto molto per quello che è successo nel nostro paese negli ultimi anni. Non per furore ideologico, o ritualità provocatoria. Ma perché non concepiva l´idea di uno scrittore che non si ponesse il problema del potere. «Tornare in Italia qualche volta mi fa paura» mi disse una volta. Non era la paura di chi non combatte, era la paura di vedere offese le cose che amava.
Ed ecco un altro ricordo. Una sera a un concerto disse: «Mi piacerebbe essere un suonatore di chitarra, o di qualsiasi strumento, che canta, si abbandona alla musica e dimentica tutto». E perché non lo fai? gli chiesi. «Perché immagino la scena: a metà della canzone un pensiero, o la faccia di un spettatore, qualcosa mi fa arrabbiare, prendo la chitarra e il microfono, spacco tutto e addio concerto».
Non era nello stile di Antonio fracassare strumenti musicali, ma è vero che la sua prosa elegante, danzata, diventava ruvida e feroce quando parlava di ciò che lui riteneva ingiusto. Anche se tutto era illuminato dal suo sorriso, dal contrappunto delle sue battute a bassa voce. Quando Alberto Rollo mi ha detto che Antonio non stava bene, mi ha raccontato che stava lottando con coraggio e con speranza. Immagino che se gli avessi chiesto se era malato, avrebbe risposto “un poco”. O mi avrebbe raccontato una fantasiosa diagnosi per sbalordire e divertirsi. Ha avuto molti riconoscimenti meritati in vita, Antonio, ma non ne parlava troppo, e ci scherzava pure («il Premio non era male ma il vino faceva schifo»). Una volta lo vidi davvero felice: era rimasto sorpreso per il lunghissimo, affettuoso applauso con cui lo avevano accolto gli studenti di un´università. Immagino che il premio di quell´affetto accompagnerà sempre il suo ricordo e i suoi bellissimi libri. A noi mancherà tantissimo, ma per farlo sorridere diremo che ci manca soltanto un poco.

La Repubblica 26.03.12