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"Perché Barack ha bisogno di noi", di Francesco Guerrara

In America, lo chiamano «the perfect storm», l’uragano perfetto che sta inondando gli Usa con posti di lavoro e crescita. Una confluenza di fattori inaspettata – salari bassi, imprese con molti soldi e consumatori pronti di nuovo a spendere – ha fatto ripartire l’economia più grande del pianeta, dato respiro ai mercati e aumentato le chance che Barack Obama non debba traslocare dalla Casa Bianca a novembre.

Senza l’Europa, però, l’uragano non sarà perfetto. L’America ed il suo Presidente devono sperare che il vagone più importante trainato dalla locomotiva Usa non venga deragliato da crisi rovinose e beghe politiche. Le parole calorose di Obama nei confronti della leadership politica europea – compresa la professione di gran stima nei confronti di Mario Monti in questo giornale – non sono del tutto disinteressate.

Nel mondo della globalizzazione, nessun Paese è un’isola e gli Usa e l’Europa sono legati da relazioni commerciali che ne fanno compagni di viaggio inseparabili. Anche se le traiettorie economiche sono divergenti: l’America è in ripresa mentre l’Europa soffre la recessione.

L’ America guarda avanti, con i suoi Facebook, Google e Apple, mentre il vecchio continente si lecca le ferite e contempla senza gioia anni ed anni di austerità per rimettere in sesto i conti.

Ma la relazione è simbiotica. Per Obama e l’America, la ripresa si trasformerà in vera crescita solo e se l’Europa starà fuori dai guai e ricomincia a comprare i prodotti e servizi made in Usa.

I numeri provenienti dagli Stati Uniti non sono affatto male. La crescita è ai livelli più alti in un anno e mezzo – il Pil statunitense è salito del 2.8% negli ultimi tre mesi del 2011. Timothy Geithner, il ministro delle Finanze, ha detto di recente che nel 2012, l’economia potrebbe crescere del 3%. Non è la Cina o l’India, ma nemmeno l’Italia o la Grecia.

Il dato più importante per la Casa Bianca non è però il Pil ma il tasso di disoccupazione – il tallone d’Achille dell’economia Usa e l’area in cui Obama è più vulnerabile dagli attacchi dei candidati Repubblicani, soprattutto un ex finanziere come Mitt Romney.

Anche su questo fronte, però, ci sono state buone notizie. A gennaio, il tasso di disoccupazione è calato all’8.3%, il livello più basso nell’arco dell’amministrazione Obama. Il trend è ancora più gratificante per gli uomini del Presidente: sono ormai cinque mesi di fila che la disoccupazione cala e gli esperti pensano che la tendenza continuerà nei prossimi mesi. Un bell’assist per un Presidente che dovrà andare a vincere voti nel Midwest – il cuore recondito e destrorso degli Stati Uniti dove l’industria manifatturiera regna sovrana. O nel Sud, dove la povertà abbonda e i posti di lavoro sono spariti come neve al sole nel corso degli ultimo decenni.

E’ per questo che, in visita ad una stazione dei pompieri in Virginia di recente, Obama ha preso la palla al balzo e ricordato a tutti che «la ripresa sta accelerando», prima di ammonire che «non si può ritornare alle politiche economiche che hanno causato la recessione».

Belle parole, espresse con il solito piglio oratorio di Obama, vero erede di Demostene, ma che serviranno a poco se la ripresa si ingolfa o smette di tirare.

Ed è qui che l’Europa conta. Analizzando i dati della crescita Usa è ovvio che gran parte delle buone nuove sono concentrate sul fronte interno. Fino ad ora, le imprese che hanno assunto più lavoratori sono prettamente domestiche, settori come i ristoranti, la sanità (che in America è quasi tutta privata) e i servizi professionali (gli avvocati, i notai e le segretarie).

L’industria manifatturiera – uno dei motori dell’economia Usa – non ha partecipato alla festa. Le imprese che producono beni, invece di servizi, hanno recuperato solo 400.000 dei 2 milioni e mezzo di posti di lavoro che hanno perso dall’inizio della crisi Usa.

Ed all’interno del settore, le società che vanno bene sono quelle che si affacciano sul mercato interno, come le «tre grandi di Detroit» – le case automobilistiche, compresa la «nostra» Chrysler – che tutti avevano dato per morte nel 2007-2008.

Non c’è simbolo più concreto della rinascita di Detroit dello spot lanciato dalla Chrysler la settimana scorsa a metà del Super Bowl – la finale del torneo di football Americano che è lo spettacolo più visto negli Stati Uniti. La voce rauca di Clint Eastwood che annuncia: «Siamo all’intervallo America. Rinasceremo nel secondo tempo».

Ma il risultato non dipenderà solo dall’America. Per continuare a trainare – e a ridurre la disoccupazione – gli Usa hanno bisogno di esportare e di esportare in Europa, visto che l’Asia compra poco dall’Occidente.

Al momento, i consumatori italiani, spagnoli e persino francesi e tedeschi non ne vogliono sapere. La crisi economica li sta costringendo a tirare la cinghia e a risparmiare i loro euro.

E’ una dicotomia che racchiude il dilemma economico transatlantico. Il «feelgood factor» – la spinta ai consumi del sentirsi bene – che sta aiutando l’economia Usa è assente dalla depressa, preoccupatissima Europa.

L’uragano perfetto non ha ancora attraversato l’Atlantico.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Wall Street Journal a New York
Francesco.guerrera@wsj.com

La Stampa 10.02.12

“Perché Barack ha bisogno di noi”, di Francesco Guerrara

In America, lo chiamano «the perfect storm», l’uragano perfetto che sta inondando gli Usa con posti di lavoro e crescita. Una confluenza di fattori inaspettata – salari bassi, imprese con molti soldi e consumatori pronti di nuovo a spendere – ha fatto ripartire l’economia più grande del pianeta, dato respiro ai mercati e aumentato le chance che Barack Obama non debba traslocare dalla Casa Bianca a novembre.

Senza l’Europa, però, l’uragano non sarà perfetto. L’America ed il suo Presidente devono sperare che il vagone più importante trainato dalla locomotiva Usa non venga deragliato da crisi rovinose e beghe politiche. Le parole calorose di Obama nei confronti della leadership politica europea – compresa la professione di gran stima nei confronti di Mario Monti in questo giornale – non sono del tutto disinteressate.

Nel mondo della globalizzazione, nessun Paese è un’isola e gli Usa e l’Europa sono legati da relazioni commerciali che ne fanno compagni di viaggio inseparabili. Anche se le traiettorie economiche sono divergenti: l’America è in ripresa mentre l’Europa soffre la recessione.

L’ America guarda avanti, con i suoi Facebook, Google e Apple, mentre il vecchio continente si lecca le ferite e contempla senza gioia anni ed anni di austerità per rimettere in sesto i conti.

Ma la relazione è simbiotica. Per Obama e l’America, la ripresa si trasformerà in vera crescita solo e se l’Europa starà fuori dai guai e ricomincia a comprare i prodotti e servizi made in Usa.

I numeri provenienti dagli Stati Uniti non sono affatto male. La crescita è ai livelli più alti in un anno e mezzo – il Pil statunitense è salito del 2.8% negli ultimi tre mesi del 2011. Timothy Geithner, il ministro delle Finanze, ha detto di recente che nel 2012, l’economia potrebbe crescere del 3%. Non è la Cina o l’India, ma nemmeno l’Italia o la Grecia.

Il dato più importante per la Casa Bianca non è però il Pil ma il tasso di disoccupazione – il tallone d’Achille dell’economia Usa e l’area in cui Obama è più vulnerabile dagli attacchi dei candidati Repubblicani, soprattutto un ex finanziere come Mitt Romney.

Anche su questo fronte, però, ci sono state buone notizie. A gennaio, il tasso di disoccupazione è calato all’8.3%, il livello più basso nell’arco dell’amministrazione Obama. Il trend è ancora più gratificante per gli uomini del Presidente: sono ormai cinque mesi di fila che la disoccupazione cala e gli esperti pensano che la tendenza continuerà nei prossimi mesi. Un bell’assist per un Presidente che dovrà andare a vincere voti nel Midwest – il cuore recondito e destrorso degli Stati Uniti dove l’industria manifatturiera regna sovrana. O nel Sud, dove la povertà abbonda e i posti di lavoro sono spariti come neve al sole nel corso degli ultimo decenni.

E’ per questo che, in visita ad una stazione dei pompieri in Virginia di recente, Obama ha preso la palla al balzo e ricordato a tutti che «la ripresa sta accelerando», prima di ammonire che «non si può ritornare alle politiche economiche che hanno causato la recessione».

Belle parole, espresse con il solito piglio oratorio di Obama, vero erede di Demostene, ma che serviranno a poco se la ripresa si ingolfa o smette di tirare.

Ed è qui che l’Europa conta. Analizzando i dati della crescita Usa è ovvio che gran parte delle buone nuove sono concentrate sul fronte interno. Fino ad ora, le imprese che hanno assunto più lavoratori sono prettamente domestiche, settori come i ristoranti, la sanità (che in America è quasi tutta privata) e i servizi professionali (gli avvocati, i notai e le segretarie).

L’industria manifatturiera – uno dei motori dell’economia Usa – non ha partecipato alla festa. Le imprese che producono beni, invece di servizi, hanno recuperato solo 400.000 dei 2 milioni e mezzo di posti di lavoro che hanno perso dall’inizio della crisi Usa.

Ed all’interno del settore, le società che vanno bene sono quelle che si affacciano sul mercato interno, come le «tre grandi di Detroit» – le case automobilistiche, compresa la «nostra» Chrysler – che tutti avevano dato per morte nel 2007-2008.

Non c’è simbolo più concreto della rinascita di Detroit dello spot lanciato dalla Chrysler la settimana scorsa a metà del Super Bowl – la finale del torneo di football Americano che è lo spettacolo più visto negli Stati Uniti. La voce rauca di Clint Eastwood che annuncia: «Siamo all’intervallo America. Rinasceremo nel secondo tempo».

Ma il risultato non dipenderà solo dall’America. Per continuare a trainare – e a ridurre la disoccupazione – gli Usa hanno bisogno di esportare e di esportare in Europa, visto che l’Asia compra poco dall’Occidente.

Al momento, i consumatori italiani, spagnoli e persino francesi e tedeschi non ne vogliono sapere. La crisi economica li sta costringendo a tirare la cinghia e a risparmiare i loro euro.

E’ una dicotomia che racchiude il dilemma economico transatlantico. Il «feelgood factor» – la spinta ai consumi del sentirsi bene – che sta aiutando l’economia Usa è assente dalla depressa, preoccupatissima Europa.

L’uragano perfetto non ha ancora attraversato l’Atlantico.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Wall Street Journal a New York
Francesco.guerrera@wsj.com

La Stampa 10.02.12

"Il declino della Sapienza all’ombra di Parentopoli", di Gian Antonio Stella

« Parentopoli? Ma perché non parlate di ” Ignorantopoli”? Questo è il vero problema dell’università italiana. Voi giornalisti fate solo folklore! » , sibilò il rettore della Sapienza Luigi Frati al nostro Nino Luca. Ma la Procura non è d’accordo: papà, mamma, figlia e figlio docenti nella stessa facoltà sono troppi, come coincidenze.
E sull’arrivo dell’ultimo Frati a Medicina ha aperto un fascicolo. Tanto più che «Parentopoli» e «Ignorantopoli», dicono le classifiche internazionali, possono coincidere.
Il rettore di quello che sul Web si vanta di essere il più grande ateneo italiano (nel senso di più affollato: 143 mila studenti, pari all’intera popolazione di Salerno o quelle di due capoluoghi come L’Aquila e Potenza insieme) era da tempo nel mirino di chi denuncia certi vizi del nostro sistema universitario.
Senese, un passato da sindacalista, uomo dalla capacità funambolica di fluttuare tra destra e sinistra, preside per un’eternità di Medicina dal lontano 1990 in cui Gava era ministro degli Interni e Chiesa si occupava amorevolmente dei vecchi ospiti del Pio Albergo Trivulzio e «altro», quello che i suoi studenti più perfidi hanno soprannominato «BaronFrati», è da sempre un uomo tutto casa e facoltà.
Al punto che non solo nella «sua» Medicina si sono via via accasate la moglie Luciana Rita Angeletti in Frati (laureata in Lettere: storia della Medicina) e la figlia Paola (laureata in Giurisprudenza: Medicina Legale) ma perfino il brindisi per le nozze della ragazza fu fatto lì. Indimenticabile il biglietto: «Il prof. Luigi Frati e il prof. Mario Piccoli, in occasione del matrimonio dei loro figli Paola Frati con Andrea Marziale e Federico Piccoli con Barbara Mafera, saranno lieti di festeggiarli con voi il giorno 25 maggio alle ore 13.00 presso l’aula Grande di Patologia Generale».
Arrivò una perfida e deliziosa «sposina» delle Iene, quella volta, a guastare un po’ la giornata. Ma fu comunque un trionfo. Quasi pari, diciamo, alla passerella offerta dal nostro, anni dopo, a Muammar Gheddafi, salutato come uno statista e invitato nell’aula magna, sul palcoscenico più prestigioso, perché tenesse agli studenti una «lectio magistralis» su un tema davvero adatto al tiranno: la democrazia. Tema svolto tra risate sbigottite («demos è una parola araba che vuol dire popolo come “crazi” che vuol dire sedia: democrazia è il popolo che si siede sulle sedie!») mentre lui, il rettore, si lasciava andare in lodi per le prosperose amazzoni di scorta: «Le abbiamo apprezzate molto! Purtroppo c’è qui mia moglie…».
Adorato da chi ama il suo senso del potere e il linguaggio ruspante (resta immortale un video dove spiega agli studenti: «Nun date retta ai professori perché i professori si fanno i cazzi loro. I professori fanno i cazzi loro, lasciateli perdere!»), il giorno in cui si insediò come rettore liquidò le polemiche sul nepotismo così: «È stato fuori luogo tirare in ballo mia moglie, la professoressa Angeletti, perché lei è quella che è, io sono quello che sono. Non è lei che è “la moglie di”, sono io che sono “il marito di”».
Il guaio è che oltre a essere «il marito di» Luciana Rita e «il padre di» Paola, è anche «il padre di» Giacomo. Che per fatalità è lui pure entrato nella facoltà di Medicina di papà: ricercatore a 28 anni, professore associato a 31. Come vinse il concorso lo rivelò una strepitosa puntata di Report: discusse «una prova orale sui trapianti cardiaci» davanti a una commissione composta da due professori di igiene e tre odontoiatri. E nessun cardiochirurgo.
«Ma lei si farebbe operare da uno che è stato giudicato da una commissione di Odontostomatologi?», chiese Sabrina Giannini, l’inviata della trasmissione di Milena Gabanelli a uno dei commissari, Vito Antonio Malagnino. Farfugliò: «Io… Non parliamo di cuore o di fegato, però…». «Secondo lei tre dentisti e due specialisti d’igiene potevano adeguatamente…». «Forse no però questo non è un problema mio…».
Vinta la selezione, il giovane professore viene più avanti chiamato come associato a Latina, dependance del Policlinico universitario di cui è rettore papà. Giusto un attimo prima, coincidenza, dell’entrata in vigore della riforma Gelmini contro il nepotismo. Quella che vieta di assumere come docenti nella stessa università i parenti dei rettori, dei direttori generali e dei membri del consiglio di amministrazione.
Ma queste, compreso un ricorso al Tar, erano solo le prime puntate della «Dinasty» fratiana. Il meglio, come hanno ricostruito Federica Angeli e Fabio Tonacci sulla cronaca romana di Repubblica, sarebbe arrivato nelle puntate successive. Occhio alle date: il 28 gennaio 2011 il rettore Luigi Frati sceglie come commissario straordinario del Policlinico Antonio Capparelli. Qualche settimana dopo, il 22 marzo, lo nomina direttore generale. Passa meno di un mese e il 19 aprile Capparelli, togliendo un po’ di posti letto a un altro reparto a costo di scatenare le ire di quanti si sentono «impoveriti», firma una delibera creando «l’Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» nell’ambito del dipartimento Cuore e grossi vasi e chiama da Latina, per ricoprire un ruolo paragonabile a quello di primario, Giacomo Frati. Cioè il rampollo dell’uomo che lo aveva appena promosso.
Ora, a pensar male si fa peccato e, in attesa del responso dell’inchiesta giudiziaria, noi vogliamo immaginare che la famiglia Frati sia composta di quattro geni: un genio lui, un genio la moglie, un genio la figlia, un genio il figlio. Ma la moglie di Cesare, si sa (vale anche per la figlia di Elsa Fornero, si capisce) deve essere al di sopra anche di ogni sospetto. Che giudizi possono farsi, gli stranieri, davanti a coincidenze come queste?
Sarà un caso se la reputazione dei nostri atenei nelle classifiche mondiali è così bassa? Dice l’ultimo Academic Ranking of World Universities elaborato dall’Institute of Higher Education della Jiao Tong University di Shanghai che, sulla base di sei parametri, la Sapienza si colloca nel gruppone tra il 100° il 150° posto. La Scuola Normale di Pisa, però, rielaborando i sei parametri utilizzati (numero di studenti vincitori di Premi Nobel e Medaglie Fields; numero di Premi Nobel in Fisica, Chimica, Medicina ed Economia e di medaglie Fields presenti nello staff; numero delle ricerche altamente citate di docenti, ricercatori, studenti; numero di articoli pubblicati su Nature e Science nel quinquennio precedente la classifica; numero di articoli indicizzati nel Science Citation Index e nel Social Science Citation Index; rapporto tra allievi/docenti/ricercatori e il punteggio complessivo relativo ai precedenti parametri) è arrivata a conclusioni diverse.
Se il calcolo viene fatto tenendo conto della dimensione di ogni università, sul pro capite, tutto cambia. E se la piccola ed elitaria Scuola Normale si inerpica al 10° posto dopo rivali inarrivabili come Harvard, Stanford, Mit di Boston o Berkeley, ecco che le altre italiane seguono a distanza: 113ª Milano Bicocca, 247ª la Statale milanese, 248ª Padova, 266ª Pisa e giù giù fino a ritrovare la Sapienza. Che stracarica di studenti ma anche al centro di perplessità come quelle segnalate, è addirittura al 430° posto. E torniamo alla domanda di Frati: qual è il problema, «Parentopoli», «Ignorantopoli» o forse forse tutte e due?

Il Corriere della Sera 10.02.12

“Il declino della Sapienza all’ombra di Parentopoli”, di Gian Antonio Stella

« Parentopoli? Ma perché non parlate di ” Ignorantopoli”? Questo è il vero problema dell’università italiana. Voi giornalisti fate solo folklore! » , sibilò il rettore della Sapienza Luigi Frati al nostro Nino Luca. Ma la Procura non è d’accordo: papà, mamma, figlia e figlio docenti nella stessa facoltà sono troppi, come coincidenze.
E sull’arrivo dell’ultimo Frati a Medicina ha aperto un fascicolo. Tanto più che «Parentopoli» e «Ignorantopoli», dicono le classifiche internazionali, possono coincidere.
Il rettore di quello che sul Web si vanta di essere il più grande ateneo italiano (nel senso di più affollato: 143 mila studenti, pari all’intera popolazione di Salerno o quelle di due capoluoghi come L’Aquila e Potenza insieme) era da tempo nel mirino di chi denuncia certi vizi del nostro sistema universitario.
Senese, un passato da sindacalista, uomo dalla capacità funambolica di fluttuare tra destra e sinistra, preside per un’eternità di Medicina dal lontano 1990 in cui Gava era ministro degli Interni e Chiesa si occupava amorevolmente dei vecchi ospiti del Pio Albergo Trivulzio e «altro», quello che i suoi studenti più perfidi hanno soprannominato «BaronFrati», è da sempre un uomo tutto casa e facoltà.
Al punto che non solo nella «sua» Medicina si sono via via accasate la moglie Luciana Rita Angeletti in Frati (laureata in Lettere: storia della Medicina) e la figlia Paola (laureata in Giurisprudenza: Medicina Legale) ma perfino il brindisi per le nozze della ragazza fu fatto lì. Indimenticabile il biglietto: «Il prof. Luigi Frati e il prof. Mario Piccoli, in occasione del matrimonio dei loro figli Paola Frati con Andrea Marziale e Federico Piccoli con Barbara Mafera, saranno lieti di festeggiarli con voi il giorno 25 maggio alle ore 13.00 presso l’aula Grande di Patologia Generale».
Arrivò una perfida e deliziosa «sposina» delle Iene, quella volta, a guastare un po’ la giornata. Ma fu comunque un trionfo. Quasi pari, diciamo, alla passerella offerta dal nostro, anni dopo, a Muammar Gheddafi, salutato come uno statista e invitato nell’aula magna, sul palcoscenico più prestigioso, perché tenesse agli studenti una «lectio magistralis» su un tema davvero adatto al tiranno: la democrazia. Tema svolto tra risate sbigottite («demos è una parola araba che vuol dire popolo come “crazi” che vuol dire sedia: democrazia è il popolo che si siede sulle sedie!») mentre lui, il rettore, si lasciava andare in lodi per le prosperose amazzoni di scorta: «Le abbiamo apprezzate molto! Purtroppo c’è qui mia moglie…».
Adorato da chi ama il suo senso del potere e il linguaggio ruspante (resta immortale un video dove spiega agli studenti: «Nun date retta ai professori perché i professori si fanno i cazzi loro. I professori fanno i cazzi loro, lasciateli perdere!»), il giorno in cui si insediò come rettore liquidò le polemiche sul nepotismo così: «È stato fuori luogo tirare in ballo mia moglie, la professoressa Angeletti, perché lei è quella che è, io sono quello che sono. Non è lei che è “la moglie di”, sono io che sono “il marito di”».
Il guaio è che oltre a essere «il marito di» Luciana Rita e «il padre di» Paola, è anche «il padre di» Giacomo. Che per fatalità è lui pure entrato nella facoltà di Medicina di papà: ricercatore a 28 anni, professore associato a 31. Come vinse il concorso lo rivelò una strepitosa puntata di Report: discusse «una prova orale sui trapianti cardiaci» davanti a una commissione composta da due professori di igiene e tre odontoiatri. E nessun cardiochirurgo.
«Ma lei si farebbe operare da uno che è stato giudicato da una commissione di Odontostomatologi?», chiese Sabrina Giannini, l’inviata della trasmissione di Milena Gabanelli a uno dei commissari, Vito Antonio Malagnino. Farfugliò: «Io… Non parliamo di cuore o di fegato, però…». «Secondo lei tre dentisti e due specialisti d’igiene potevano adeguatamente…». «Forse no però questo non è un problema mio…».
Vinta la selezione, il giovane professore viene più avanti chiamato come associato a Latina, dependance del Policlinico universitario di cui è rettore papà. Giusto un attimo prima, coincidenza, dell’entrata in vigore della riforma Gelmini contro il nepotismo. Quella che vieta di assumere come docenti nella stessa università i parenti dei rettori, dei direttori generali e dei membri del consiglio di amministrazione.
Ma queste, compreso un ricorso al Tar, erano solo le prime puntate della «Dinasty» fratiana. Il meglio, come hanno ricostruito Federica Angeli e Fabio Tonacci sulla cronaca romana di Repubblica, sarebbe arrivato nelle puntate successive. Occhio alle date: il 28 gennaio 2011 il rettore Luigi Frati sceglie come commissario straordinario del Policlinico Antonio Capparelli. Qualche settimana dopo, il 22 marzo, lo nomina direttore generale. Passa meno di un mese e il 19 aprile Capparelli, togliendo un po’ di posti letto a un altro reparto a costo di scatenare le ire di quanti si sentono «impoveriti», firma una delibera creando «l’Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» nell’ambito del dipartimento Cuore e grossi vasi e chiama da Latina, per ricoprire un ruolo paragonabile a quello di primario, Giacomo Frati. Cioè il rampollo dell’uomo che lo aveva appena promosso.
Ora, a pensar male si fa peccato e, in attesa del responso dell’inchiesta giudiziaria, noi vogliamo immaginare che la famiglia Frati sia composta di quattro geni: un genio lui, un genio la moglie, un genio la figlia, un genio il figlio. Ma la moglie di Cesare, si sa (vale anche per la figlia di Elsa Fornero, si capisce) deve essere al di sopra anche di ogni sospetto. Che giudizi possono farsi, gli stranieri, davanti a coincidenze come queste?
Sarà un caso se la reputazione dei nostri atenei nelle classifiche mondiali è così bassa? Dice l’ultimo Academic Ranking of World Universities elaborato dall’Institute of Higher Education della Jiao Tong University di Shanghai che, sulla base di sei parametri, la Sapienza si colloca nel gruppone tra il 100° il 150° posto. La Scuola Normale di Pisa, però, rielaborando i sei parametri utilizzati (numero di studenti vincitori di Premi Nobel e Medaglie Fields; numero di Premi Nobel in Fisica, Chimica, Medicina ed Economia e di medaglie Fields presenti nello staff; numero delle ricerche altamente citate di docenti, ricercatori, studenti; numero di articoli pubblicati su Nature e Science nel quinquennio precedente la classifica; numero di articoli indicizzati nel Science Citation Index e nel Social Science Citation Index; rapporto tra allievi/docenti/ricercatori e il punteggio complessivo relativo ai precedenti parametri) è arrivata a conclusioni diverse.
Se il calcolo viene fatto tenendo conto della dimensione di ogni università, sul pro capite, tutto cambia. E se la piccola ed elitaria Scuola Normale si inerpica al 10° posto dopo rivali inarrivabili come Harvard, Stanford, Mit di Boston o Berkeley, ecco che le altre italiane seguono a distanza: 113ª Milano Bicocca, 247ª la Statale milanese, 248ª Padova, 266ª Pisa e giù giù fino a ritrovare la Sapienza. Che stracarica di studenti ma anche al centro di perplessità come quelle segnalate, è addirittura al 430° posto. E torniamo alla domanda di Frati: qual è il problema, «Parentopoli», «Ignorantopoli» o forse forse tutte e due?

Il Corriere della Sera 10.02.12

"Meno mobilità sociale più diseguaglianze", di Nicola Cacace

L’Italia è tra i Paesi industriali dove la concentrazione della ricchezza, le diseguaglianze sociali, la mobilità geografica e l’immobilità sociale sono ai livelli massimi. Milioni vivono questa realtà sulla loro pelle, molti la conoscono, tranne, sembra, alcuni professori molto bravi nei rispettivi campi. Solo in Italia, il 45% della ricchezza privata è posseduta dal 10% delle famiglie mentre il 50% possiede meno del 10%, un amministratore delegato come Marchionne può arrivare a guadagnare 500 volte il suo operaio (il prof. Valletta, capo della Fiat negli anni Sessanta guadagnava 50 volte il suo operaio), il legame tra i redditi di papà e quelli del figlio è così stretto che quasi metà dei figli dei professionisti, avvocati, architetti, medici, hanno successo nella stessa professione del padre mentre meno del 10% dei figli di operai ha speranza di fare un salto di classe (dati Censis), dal 1990 al 2005 il passaggio dal Sud al Nord ha coinvolto 2 milioni di persone, di cui la metà diplomati e laureati, mobilità record nell’eurozona.

Luigi Einaudi ricordava che «per governare occorre anzitutto conoscere». A sentire le uscite di alcuni nostri ministri sui giovani descritti come bamboccioni, mammoni o sfigati, c’è da dubitare sulle loro conoscenze. Proprio ieri il Censis ha illustrato i risultati di una ricerca sulla «mobilità sociale», partendo dai dati Istat sull’istruzione e le professioni: «Rispetto alle generazioni precedenti oggi c’è un blocco nel passaggio da un livello sociale ad un altro». A distanza di anni sembra di sentire le parole di un altro grande, Achille Campanile, secondo cui «nascere povero in Italia equivale ad una condanna ai lavori forzati a vita».

Purtroppo la situazione sembra peggiorata negli anni. Perché le diseguaglianze sociali sono aumentate dai tempi di Campanile, come testimoniano tutti i dati, da Eurostat ad Ocse, che mostrano l’Italia seconda per diseguaglianza in Europa solo alla Grecia patria di evasori fiscali e alla Gran Bretagna impoverita dalle politiche liberiste e classiste della Thatcher. L’indice di Gini misura le diseguaglianze di reddito tra ricchi e poveri, con valori che vanno da zero, perfetta eguaglianza di redditi tra le persone, ed uno, massima diseguaglianza di reddito. Tutti i Paesi con indice di Gini inferiore a 0,3 sono a minor diseguaglianza sociale e si dà il caso che questi siano anche i Paesi che meglio di altri stanno superando la crisi occidentale.

I principali Paesi europei ad alta eguaglianza sociale, con indice di Gini inferiore a 0,3 sono Germania, Francia, Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia e questi Paesi sono anche quelli che hanno salari più alti, sindacati forti, lavoro tutelato, sono attrattivi di investimenti esteri e sono diventati anche tra i più ricchi per reddito procapite. Oggi che si comincia a parlare anche di crescita, spero che i nostri professoriministri, oltre a fare bene i loro compiti settoriali, sappiano essere più attenti ai dati generali, su mobilità geografica e sociale, diseguaglianze, etc., tutti dati che in Italia confliggono con le caratteristiche della società della conoscenza centrata sulla risorsa umana, la sua formazione continua e i suoi diritti. Altro che andare lancia in resta contro l’art. 18, «che impedirebbe gli investimenti esteri». Il Paese europeo con i salari più alti e i diritti sindacali più rigorosi, la Svezia, ha il record europeo ed occidentale degli investimenti diretti esteri in entrata, sino al 30% degli investimenti fissi contro il nostro 2%. L’augurio che facciamo ai professori che ci governano è che ricordino sempre le parole di Luigi Einaudi sull’importanza di «conoscere per governare», risparmiandoci uscite politicamente improvvide e tecnicamente sbagliate.

L’Unità 10.02.12

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“Il moralismo trasversale”, di MICHELE BRAMBILLA

Da qualche giorno, prima sul Web e poi sui giornali, i figli dei ministri del governo Monti sono diventati oggetto di una forsennata caccia allo scandalo.

Si spulcia in buste paga, lettere di assunzione, eventuali concorsi, lauree diplomi pagelle delle elementari e lavoretti dell’asilo nel tentativo di trovare qualche macchia.

La prima a finire nel mirino è stata Silvia Deaglio, figlia del ministro del Welfare Elsa Fornero. La sua colpa? Essere una professoressa universitaria come mamma e papà. Non importa se lei è a Medicina e i genitori a Economia; così come non importano le sue pubblicazioni, i concorsi vinti, i meriti scientifici (si occupa di genetica e tumori) riconosciuti in Italia e all’estero: il fatto è che ha un posto fisso. Dopo Silvia Deaglio, l’esercito della salvezza si è stracciato le vesti perché il figlio del ministro Cancellieri (42 anni) fa il manager; e quello di Monti addirittura passerebbe, leggiamo testualmente in un blog, «da una banca all’altra». Insomma lo scandalo è che costoro non sono disoccupati.

Chiariamo subito. Trasparenza e rettitudine sono un dovere non solo per chi ricopre incarichi di governo, ma anche per i loro familiari: era così già per la moglie di Cesare. Ed è sicuramente provvidenziale l’esistenza di sentinelle sempre pronte a scoprire e denunciare.

Ma la maxi indagine scattata in questi giorni sui «figli del governo» ci pare giunta a conclusioni demenziali. Non avendo trovato alcunché di illegale o di immorale, si è arrivati a contestare a Silvia Deaglio di essere brava perché, essendo figlia di accademici, ha respirato in casa l’arte della docenza universitaria. È una colpa? Guido Carli, che fu governatore della Banca d’Italia, un giorno rispose così a chi accusava suo figlio di aver fatto carriera grazie alla famiglia che l’aveva fatto studiare: «Non tutti hanno la fortuna di nascere trovatelli».

Occorre tutto il moralismo di questo periodo per non vedere la differenza tra chi si fa avanti nella vita per raccomandazioni, spintarelle, intrallazzi e imbrogli e chi invece ha magari un nome importante ma non ha rubato niente a nessuno. È un moralismo direi trasversale. Nasce infatti a sinistra, come giacobinismo invasato che pretende da ogni singolo essere umano una sorta di immacolata concezione. Dimenticando che non esiste e non potrà mai esistere alcun uomo o alcuna donna che non abbia qualcosa da farsi perdonare, questo giacobinismo finisce sempre con il trovare un peccato da sbattere in faccia a chiunque eserciti una pubblica funzione. È il moralismo degli indignati in servizio effettivo e permanente: sempre pronti, naturalmente, a indignarsi solo per i vizi altrui.

Ma un moralismo speculare e opposto è arrivato anche a destra, dove non par vero, oggi, di poter rendere pan per focaccia agli accusatori di ieri. Dicono: voi ci avete contestato reati processi e scandali sessuali, e noi vi sbattiamo in faccia il cotechino di capodanno a Palazzo Chigi. Chi fino a ieri diceva embè che cosa c’è di male se un deputato è indagato per mafia, oggi trova immorale che la figlia di un ministro faccia l’oncologa. La parola d’ordine è «così fan tutti», e non si distingue fra travi e pagliuzze.

I due moralismi hanno tuttavia lo stesso obiettivo: la paralisi dell’avversario. Visto da sinistra, il governo non può riformare l’articolo 18 perché qualcuno dei figli dei ministri ha un lavoro a tempo indeterminato. Visto da destra, il governo tecnico la smetta di dare la caccia agli evasori fiscali perché Monti si è fatto tagliare i capelli di domenica quando il barbiere avrebbe dovuto restare chiuso (giuro che un parlamentare di destra l’ha detto).

Iddio ci scampi, quindi, dagli opposti estremismi del moralismo. Anche perché sappiamo dove portano. Quelli che vorrebbero tutti innocenti, di solito finiscono con il ghigliottinarsi fra loro. E quelli che vorrebbero tutti colpevoli, finiscono con l’autoassoluzione e l’impunità collettiva.

La Stampa 10.02.12

“Meno mobilità sociale più diseguaglianze”, di Nicola Cacace

L’Italia è tra i Paesi industriali dove la concentrazione della ricchezza, le diseguaglianze sociali, la mobilità geografica e l’immobilità sociale sono ai livelli massimi. Milioni vivono questa realtà sulla loro pelle, molti la conoscono, tranne, sembra, alcuni professori molto bravi nei rispettivi campi. Solo in Italia, il 45% della ricchezza privata è posseduta dal 10% delle famiglie mentre il 50% possiede meno del 10%, un amministratore delegato come Marchionne può arrivare a guadagnare 500 volte il suo operaio (il prof. Valletta, capo della Fiat negli anni Sessanta guadagnava 50 volte il suo operaio), il legame tra i redditi di papà e quelli del figlio è così stretto che quasi metà dei figli dei professionisti, avvocati, architetti, medici, hanno successo nella stessa professione del padre mentre meno del 10% dei figli di operai ha speranza di fare un salto di classe (dati Censis), dal 1990 al 2005 il passaggio dal Sud al Nord ha coinvolto 2 milioni di persone, di cui la metà diplomati e laureati, mobilità record nell’eurozona.

Luigi Einaudi ricordava che «per governare occorre anzitutto conoscere». A sentire le uscite di alcuni nostri ministri sui giovani descritti come bamboccioni, mammoni o sfigati, c’è da dubitare sulle loro conoscenze. Proprio ieri il Censis ha illustrato i risultati di una ricerca sulla «mobilità sociale», partendo dai dati Istat sull’istruzione e le professioni: «Rispetto alle generazioni precedenti oggi c’è un blocco nel passaggio da un livello sociale ad un altro». A distanza di anni sembra di sentire le parole di un altro grande, Achille Campanile, secondo cui «nascere povero in Italia equivale ad una condanna ai lavori forzati a vita».

Purtroppo la situazione sembra peggiorata negli anni. Perché le diseguaglianze sociali sono aumentate dai tempi di Campanile, come testimoniano tutti i dati, da Eurostat ad Ocse, che mostrano l’Italia seconda per diseguaglianza in Europa solo alla Grecia patria di evasori fiscali e alla Gran Bretagna impoverita dalle politiche liberiste e classiste della Thatcher. L’indice di Gini misura le diseguaglianze di reddito tra ricchi e poveri, con valori che vanno da zero, perfetta eguaglianza di redditi tra le persone, ed uno, massima diseguaglianza di reddito. Tutti i Paesi con indice di Gini inferiore a 0,3 sono a minor diseguaglianza sociale e si dà il caso che questi siano anche i Paesi che meglio di altri stanno superando la crisi occidentale.

I principali Paesi europei ad alta eguaglianza sociale, con indice di Gini inferiore a 0,3 sono Germania, Francia, Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia e questi Paesi sono anche quelli che hanno salari più alti, sindacati forti, lavoro tutelato, sono attrattivi di investimenti esteri e sono diventati anche tra i più ricchi per reddito procapite. Oggi che si comincia a parlare anche di crescita, spero che i nostri professoriministri, oltre a fare bene i loro compiti settoriali, sappiano essere più attenti ai dati generali, su mobilità geografica e sociale, diseguaglianze, etc., tutti dati che in Italia confliggono con le caratteristiche della società della conoscenza centrata sulla risorsa umana, la sua formazione continua e i suoi diritti. Altro che andare lancia in resta contro l’art. 18, «che impedirebbe gli investimenti esteri». Il Paese europeo con i salari più alti e i diritti sindacali più rigorosi, la Svezia, ha il record europeo ed occidentale degli investimenti diretti esteri in entrata, sino al 30% degli investimenti fissi contro il nostro 2%. L’augurio che facciamo ai professori che ci governano è che ricordino sempre le parole di Luigi Einaudi sull’importanza di «conoscere per governare», risparmiandoci uscite politicamente improvvide e tecnicamente sbagliate.

L’Unità 10.02.12

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“Il moralismo trasversale”, di MICHELE BRAMBILLA

Da qualche giorno, prima sul Web e poi sui giornali, i figli dei ministri del governo Monti sono diventati oggetto di una forsennata caccia allo scandalo.

Si spulcia in buste paga, lettere di assunzione, eventuali concorsi, lauree diplomi pagelle delle elementari e lavoretti dell’asilo nel tentativo di trovare qualche macchia.

La prima a finire nel mirino è stata Silvia Deaglio, figlia del ministro del Welfare Elsa Fornero. La sua colpa? Essere una professoressa universitaria come mamma e papà. Non importa se lei è a Medicina e i genitori a Economia; così come non importano le sue pubblicazioni, i concorsi vinti, i meriti scientifici (si occupa di genetica e tumori) riconosciuti in Italia e all’estero: il fatto è che ha un posto fisso. Dopo Silvia Deaglio, l’esercito della salvezza si è stracciato le vesti perché il figlio del ministro Cancellieri (42 anni) fa il manager; e quello di Monti addirittura passerebbe, leggiamo testualmente in un blog, «da una banca all’altra». Insomma lo scandalo è che costoro non sono disoccupati.

Chiariamo subito. Trasparenza e rettitudine sono un dovere non solo per chi ricopre incarichi di governo, ma anche per i loro familiari: era così già per la moglie di Cesare. Ed è sicuramente provvidenziale l’esistenza di sentinelle sempre pronte a scoprire e denunciare.

Ma la maxi indagine scattata in questi giorni sui «figli del governo» ci pare giunta a conclusioni demenziali. Non avendo trovato alcunché di illegale o di immorale, si è arrivati a contestare a Silvia Deaglio di essere brava perché, essendo figlia di accademici, ha respirato in casa l’arte della docenza universitaria. È una colpa? Guido Carli, che fu governatore della Banca d’Italia, un giorno rispose così a chi accusava suo figlio di aver fatto carriera grazie alla famiglia che l’aveva fatto studiare: «Non tutti hanno la fortuna di nascere trovatelli».

Occorre tutto il moralismo di questo periodo per non vedere la differenza tra chi si fa avanti nella vita per raccomandazioni, spintarelle, intrallazzi e imbrogli e chi invece ha magari un nome importante ma non ha rubato niente a nessuno. È un moralismo direi trasversale. Nasce infatti a sinistra, come giacobinismo invasato che pretende da ogni singolo essere umano una sorta di immacolata concezione. Dimenticando che non esiste e non potrà mai esistere alcun uomo o alcuna donna che non abbia qualcosa da farsi perdonare, questo giacobinismo finisce sempre con il trovare un peccato da sbattere in faccia a chiunque eserciti una pubblica funzione. È il moralismo degli indignati in servizio effettivo e permanente: sempre pronti, naturalmente, a indignarsi solo per i vizi altrui.

Ma un moralismo speculare e opposto è arrivato anche a destra, dove non par vero, oggi, di poter rendere pan per focaccia agli accusatori di ieri. Dicono: voi ci avete contestato reati processi e scandali sessuali, e noi vi sbattiamo in faccia il cotechino di capodanno a Palazzo Chigi. Chi fino a ieri diceva embè che cosa c’è di male se un deputato è indagato per mafia, oggi trova immorale che la figlia di un ministro faccia l’oncologa. La parola d’ordine è «così fan tutti», e non si distingue fra travi e pagliuzze.

I due moralismi hanno tuttavia lo stesso obiettivo: la paralisi dell’avversario. Visto da sinistra, il governo non può riformare l’articolo 18 perché qualcuno dei figli dei ministri ha un lavoro a tempo indeterminato. Visto da destra, il governo tecnico la smetta di dare la caccia agli evasori fiscali perché Monti si è fatto tagliare i capelli di domenica quando il barbiere avrebbe dovuto restare chiuso (giuro che un parlamentare di destra l’ha detto).

Iddio ci scampi, quindi, dagli opposti estremismi del moralismo. Anche perché sappiamo dove portano. Quelli che vorrebbero tutti innocenti, di solito finiscono con il ghigliottinarsi fra loro. E quelli che vorrebbero tutti colpevoli, finiscono con l’autoassoluzione e l’impunità collettiva.

La Stampa 10.02.12

"Come aprire le porte del mercato del lavoro", di Tito Boeri

Accade talvolta che in una trattativa difficile si possa perdere la bussola, immersi come si è nella faticosa ricerca di un compromesso. Così si perde di vista l´obiettivo principale. La riforma del mercato del lavoro di cui il Paese ha bisogno deve servire a rilanciare la crescita. Questo significa aumentare la produttività del lavoro e impedire che il dualismo del nostro mercato del lavoro continui ad emarginare coloro che hanno maggiori possibilità di contribuire a generare reddito e occupazione. Bisogna farla in fretta questa riforma non solo perché non vogliamo deludere mercati che stanno faticosamente tornando a credere in noi (ieri lo spread fra Italia e Spagna, la misura vera della nostra credibilità, è tornato sotto i 30 punti base), ma anche per evitare che la recessione alle porte colpisca i soliti noti: i lavoratori con partita iva, contratti a progetto, i falsi associati in partecipazione e chi ha contratti a tempo determinato. Eppure negli ultimi giorni abbiamo avuto ripetuti segnali di una trattativa che evolve in una direzione diversa, talvolta ortogonale a questa. Dapprima abbiamo assistito a una serie abbastanza sconcertante di dichiarazioni di esponenti del governo che hanno voluto sminuire il richiamo del posto fisso per i giovani. Come se il problema fosse quello di convincere i giovani che i contratti temporanei sono meglio di quelli a tempo indeterminato e non, invece, di offrire loro finalmente copertura assicurativa, formazione sul posto di lavoro e condizioni contrattuali e retributive pari a quelle degli altri lavoratori dipendenti. Si sono poi susseguite le anticipazioni sui contenuti del negoziato. A quanto pare, si tratta su riforme della Cassa Integrazione e sull´estensione delle procedure dei licenziamenti collettivi ai licenziamenti individuali. Intendiamoci, si tratta di operazioni importanti. Dobbiamo migliorare il funzionamento della nostra Cassa Integrazione, superando quella in deroga e facendo pagare, dunque responsabilizzando, quelle imprese che continuano ad accedervi senza versare contributi. Dobbiamo anche spingere perché non si arrivi mai alle zero ore, ma il lavoratore cassintegrato continui a mantenere davvero un piede e non solo formalmente il cedolino in azienda. È parimenti importante ridurre la discrezionalità dei giudici nelle procedure di licenziamento, anche perché hanno ampiamente mostrato di agire in modo poco obiettivo e con tempi troppo lunghi. Meglio sarebbe evitare di sostituire questa discrezionalità dei giudici con quella del sindacato, come avviene oggi nei licenziamenti collettivi. Anche perché è davvero difficile pensare a un sindacato che sceglie, assieme al datore di lavoro, la persona da licenziare per permettere all´impresa di aumentare i profitti. E se si vogliono cambiare le regole sui licenziamenti, meglio farlo a partire dai nuovi assunti. Non è un bene rendere i licenziamenti più facili per chi ha già un posto stabile durante una recessione. Non è proprio il momento giusto per farlo.
Il problema principale è che tutti questi tavoli in corso tralasciano il problema più importante, quello dell´ingresso nel mercato del lavoro. Riformando gli ammortizzatori oggi non si riesce a proteggere chi ha formalmente rapporti di lavoro autonomo. Per proteggerli dobbiamo trasformare il parasubordinato in rapporti di lavoro anche formalmente alle dipendenze. Il datore di lavoro che vorrà continuare in questa finzione sarà costretto a pagare quelli che sono di fatto suoi dipendenti molto di più. La Cassa Integrazione non riguarda i lavoratori temporanei in scadenza di contratto. Men che meno li riguarda la cosiddetta “manutenzione” dell´articolo 18. Potrebbe tra l´altro ritorcersi contro di loro. Le procedure per i licenziamenti collettivi oggi richiedono che il datore di lavoro stabilisca espressamente i criteri in base ai quali ha scelto chi deve essere licenziato. Tra questi criteri occupa un posto centrale l´anzianità. Ora che non è più possibile permettere al lavoratore licenziato l´accesso ai pensionamenti anticipati, il rischio è che questa procedura spinga imprese e sindacati ad accordarsi per licenziare sistematicamente i lavoratori più giovani.
Non basterà per risolvere il problema del dualismo espandere il contratto di apprendistato. È fatto per numeri piccoli, non per i milioni di lavoratori precari. E costa troppo per le casse dello Stato perché implica la rinuncia ad entrate contributive. Difficile, inoltre, pensare di proporre un contratto di apprendistato a un cinquantenne in cerca di lavoro. Per incentivare la formazione basta allungare la durata dei contratti spingendo le imprese ad assumere fin da subito con contratti a tempo indeterminato. Non serve neanche disboscare i contratti atipici togliendo di mezzo qualche figura contrattuale che già oggi è del tutto marginale nel nostro mercato, come lo staff leasing o il job on call. Per favorire le assunzioni con contratti fin da subito a tempo indeterminato non servono gli incentivi fiscali. Basta offrire costi certi, crescenti nel tempo, per licenziamenti individuali, sia economici che disciplinari, ai nuovi assunti, a tutte le età. Essenziale, infine, fare in fretta, non pensare a due o tre fasi per le riforme. Durante i periodi di incertezza normativa le imprese ritardano le assunzioni, aspettando di vedere cosa succede. È un costo che davvero non possiamo permetterci alle porte di una recessione. E poi c´è l´apprensione delle famiglie e dei lavoratori coinvolti. A proposito: si narra sui giornali, a titolo di esempio, di riforme che permettono finalmente di licenziare singoli portinai per ragioni economiche senza incorrere nell´articolo 18. Vorremmo rassicurare la categoria e tutti gli italiani. I portinai d´Italia, tranne forse quelli di Montecitorio, come tutti i lavoratori di imprese con meno di 15 dipendenti, non sono coperti dall´articolo 18. Dunque quella “manutenzione”, per quanto ardita possa essere, proprio non li riguarda.

La Repubblica 10.02.12