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“Lo spettro di Malthus si aggira per l´Italia”, di Barbara Spinelli

C´È una parte di verità, in quel che Mario Monti ha detto – a RepubblicaTv – sul modo in cui è stata interpretata la sua idea del lavoro fisso («Diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita!»). Citato fuori dal contesto, quel che ha aggiunto subito dopo è finito in un buco nero: «È più bello cambiare e accettare nuove sfide, purché in condizioni accettabili. Questo vuol dire che bisogna tutelare un po´ meno chi oggi è ipertutelato, e tutelare un po´ più chi oggi è quasi schiavo nel mercato del lavoro o proprio non riesce a entrarci».

Resta tuttavia l´inadeguatezza del vocabolario, e non può stupire il disagio profondo che esso suscita in chi nulla sa del lavoro sicuro, durevole, e vive un´esistenza arrabattata, esposta alle durezze del mercato, difficilmente conciliabile col proposito di far figli, guardata con sistematica diffidenza da banche che non fanno credito se non a redditi solidi, e costanti. Non meno malessere suscitano gli argomenti con cui il Premier ha tentato di spiegare il suo punto di vista: per troppo tempo, «i governi politici hanno avuto troppo cuore», accogliendo le più varie rivendicazioni sociali e accumulando debiti pubblici rovinosi per tutti. Ripetuto tre volte, anche il vocabolo cuore – «esuberante», contaminato da «buonismo sociale» – è apparso moralmente pernicioso.
Sono tutte frasi che feriscono perché citate fuori contesto? Direi il contrario, anche se il Premier ne sembra persuaso (ieri ha chiesto ai ministri di evitare ogni dichiarazione equivocabile, specie sull´articolo 18). In effetti quel che mortifica è precisamente il contesto in cui le frasi vengono dette: è il Primo ministro a parlare – disinvoltamente, quasi fosse in un salotto o in famiglia anziché nella pubblica agorà – fuori contesto. Il contesto è una società che da almeno vent´anni ha interiorizzato la fine del posto fisso. Non c´è giovane (e meno giovane, visto che il precariato colpisce ormai più generazioni) che non sappia perfettamente come stanno le cose. Quel che reclama, nelle condizioni attuali, potremmo riassumerlo così: “Parlateci di queste ‘condizioni accettabili´, saltando il preambolo pedagogico di cui non abbiamo più bisogno! Diteci come e quando saranno tutelati i lavori non fissi”. Se Monti o il ministro Cancellieri si concentrassero solo sulle tutele, senza pontificare su cosa sia il vivere autentico (monotono o affetto da tedio, due stati d´animo che non concernono lo Stato) sarebbero ascoltati con più interesse. Se il governo ci dicesse qualcosa sulla manutenzione disastrosa delle infrastrutture (o sui centralini Acea sordi alle chiamate) e sull´impreparazione a fronteggiare emergenze come la neve, sarebbe più d´aiuto. Milioni di cittadini hanno messo le parole di Monti nell´unico contesto che conta (il loro vissuto), e si sono sentiti trattati come minorenni. Una cosa è criticare il familismo degli italiani (i bamboccioni), altra è vituperare il loro rapporto col mondo esterno (il lavoro).
È come se Monti, più o meno consapevolmente, “si sbagliasse d´epoca”, e non sempre sapesse le persone cui si rivolge. Come se con una politica sentimentale (e un lessico farcito di intimismi: cuore, vita monotona, tedio, bontà) riempisse il vuoto di misure tangibili, che diano a precari e disoccupati se non il posto di lavoro, almeno quello di cittadini adulti. La dura legge del contrappasso conosce queste peripezie fatali: dopo anni di retorica affettiva (il partito dell´amore), si è passati all´algida offensiva contro i cuori esuberanti, contro la psiche inadatta al mutamento. L´impronta è radicalmente diversa (oggi governano persone perbene) ma in ambedue i casi c´è un ingrediente che manca: la lingua della politica, la prudenza che la contraddistingue, la conoscenza della persona umana che presuppone, i rimedi concreti che predispone nel momento in cui disquisisce di virtù e psiche.
Quel che manca, Ulrich Beck lo spiega a chiare lettere quando parla del «dramma pedagogico» che i politici dovrebbero imparare a mettere in scena, affinché la crisi non sia vissuta come rovina ma come trasformazione, nuovo inizio (Disuguaglianza senza confini, Laterza 2011). Il governante che ricorda la scomparsa del lavoro fisso fotografa l´esistente. Somiglia un po´ a quel monarca assoluto del Piccolo Principe, assai gentile e fiero d´esser re, che ordina al sole d´alzarsi o tramontare quando sta per arrivare l´alba o avvicinarsi il tramonto. Afflitto da monotonia non è il lavoro fisso, ma il discorso sulla fine del lavoro fisso. È il dopo che interessa, e il dopo resta nell´ombra. È il che fare, e del che fare poco sappiamo.
Ci sono gaffe che inquietano, perché non sempre sono veramente tali. La gaffe per definizione vien commessa per goffaggine, distrazione: imbarazza, tuttalpiù. Se le parole di Monti provocano collera è perché si inseriscono in una collana di disattenzioni, e allora ecco che c´è del metodo, nella gaffe. Altrimenti non è chiaro come mai il viceministro Martone se l´è presa con gli studenti che finiscono tardi l´università, chiamandoli sfigati (l´aggettivo evoca sgradevolezza): e non perché costretti a più lavori per mantenersi, non perché privi delle raccomandazioni di cui ha goduto il giovane e apparentemente non geniale viceministro.
Dietro le quinte della gaffe sembra quindi nascondersi dell´altro: una sorta di sfasamento storico, una vecchia dottrina che riaffiora, sullo Stato e le sue funzioni in tempi di crisi. Non manca a tale dottrina la veduta lunga, anzi. Ma c´è in essa un che di torbido: chi sta male, chi anela non al posto fisso ma a un´attività stabile, qualche colpa deve averla. Deve essere uno sfigato, un disgraziato (solo nella lingua italiana il disgraziato è un fallito). È una convinzione antica, che ritroviamo nei saggi del demografo-economista Malthus. Il mondo era invivibile, perché sovrappopolato e assillato da troppe rivendicazioni? Ascoltiamo quel che nel 1798 Malthus scriveva a proposito del buonismo sociale, dell´utilità di scaricare la povertà sulle spalle dei poveri perché l´istinto riproduttivo s´attenuasse: «Ciascun uomo si sottometterà con aggraziata pazienza a mali che immagina provengano dalle leggi generali della natura; ma se la vanità e l´errata benevolenza di governi e classi alte si sforzano – intervenendo di continuo negli affanni delle classi basse – di persuadere queste ultime che ogni bene è loro conferito da governanti e ricchi benefattori, è molto naturale che esse che attribuiranno ogni male alle stesse fonti. In queste circostanze, non ci si può ragionevolmente aspettare alcuna pazienza. Sicché, per evitare mali ancora maggiori, saremo fondati a reprimere con la forza l´impazienza, qualora s´esprimesse con atti criminosi».
Malthus bussa alle porte d´Europa, lo vediamo in questi giorni in Grecia. Lo si vide anche in passato: quando alla Germania fu imposta un´austerità punitiva, nel primo dopoguerra. Qui è la vera monotonia che incombe: una storia che si ripete, un cambiamento senza cambiamento, proprio quando urge spezzare la monotonia con discorsi nuovi. Con discorsi sulla fragilità dei deboli, fonte del declino demografico europeo. Sui magistrati chiamati a combattere la corruzione senza esser penalmente perseguibili. Sull´Europa da edificare perché la trasformazione sia preparata senza castigare i perdenti come negli anni ´20-30. Sull´«ondata mondiale di rinazionalizzazioni», che secondo Beck dilaga. Non per ultimo, sulla politica degli immigrati, che faccia di loro i nostri futuri concittadini. In un ottimo articolo su Italianieuropei, Beda Romano racconta come la Germania sia forte perché esattamente su questo ha scommesso: introducendo il diritto del suolo fin dal 2000, e «trasformando lo Stato in un progetto politico più che etnico o religioso»
In tanti modi si può rompere la monotonia. Purché si rompa la monotonia autentica, e si scongiuri il cambiamento senza cambiamento.

La Repubblica 08.02.12

"Nell’onorata Protezione civile story le due ferite di Berlusconi e Tremonti", di Francesco Lo Sardo

Dai commissari del 1693 a Gabrielli. Passando per Bertolaso: dai grandi eventi al milleproroghe. Se si dovesse affrontare il caso Protezione civile con il “metodo Protezione civile”, per rimettere le cose a posto gli interventi d’emergenza da attuare sono due: chirurgici. Cancellare le velenose norme nascoste da Tremonti nell’articolo 2, comma 2, del milleproroghe 2011 cioè la legge 10 del 26 febbraio (denunciata da Gabrielli) e riscrivere – per evitare abusi – quel passaggio dell’articolo 5 della legge 401 del 2001 voluto da Berlusconi e Gianni Letta che equipara i «grandi eventi» alle calamità naturali e alle catastrofi.
Perché qui comincia e qui finisce, stringi stringi, la storia della Protezione civile cattiva, che copre business e cricche o che funziona male, che ha scacciato l’onorabile storia della Protezione civile buona. Una storia antica, che affonda le sue radici nella nomina dei commissari straordinari nel 1693 in occasione del terremoto della Val di Noto e di quello di Calabria del 1793, che passa dal regio decreto del 1919 (prima legge sul soccorso) e da quello del 1926, fino alla svolta della legge 996 del 1970 (dopo il terremoto del Belice del 1968) e, infine, alla rivoluzione della legge 225 del 1992: la nascita del Servizio nazionale della Protezione civile, voluta dal supercommissario Zamberletti che, già nel 1982, dopo il terremoto in Irpinia del 1980, aveva creato il dipartimento della Protezione civile presso la presidenza del consiglio.
Gli ultimi passaggi sono storia recente: il decentramento e trasferimento di competenze degli anni ’90 dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, la nascita dell’Agenzia della protezione civile del 1999 collocata sotto il controllo del Viminale e la legge 401 del 2001, quella del governo Berlusconi che resuscita il Dipartimento sottoposto alla presidenza del consiglio e che infila subito i «grandi eventi» tra i compiti della Protezione civile guidata dall’allora, e per lungo tempo onnipotente, Guido Bertolaso.
È in quella legge il primo grave vulnus, la crepa dei «Grandi eventi» attraverso cui passerà di tutto e che creerà le condizioni per le progressive degenerazioni del “sistema Protezione civile” sconfinate negli affari della cricca all’assalto dei lavori del G8 in Sardegna e poi nella ricostruzione nel dopo-terremoto in Abruzzo del 2009.
Franco Gabrielli, succeduto a Bertolaso a fine 2010, se lo lasciò scappare il 20 febbraio del 2011, quando a fianco del papà della Protezione civile Zamberletti, in visita al Villaggio solidale di Lucca, denunciò l’ammanettamento della Protezione civile voluta da Tremonti nel milleproroghe: una rappresaglia postuma ma a futura memoria contro gli arcinemici Gianni Letta e Bertolaso, già stroncati nel tentativo di crearsi la Protezione civile Spa con propria cassaforte.
In caso di dichiarazione di stato d’emergenza le ordinanze sono «emanate di concerto con il ministero dell’economia», quanto al fondo di Protezione civile le spese vanno sottoposte a «visto preventivo» della Corte dei Conti. Gabrielli lanciò un grido di dolore: «Così affonderemo come il Titanic. Dovremo aspettare la prossima catastrofe per un nuovo decreto che ci ridia i poteri che ci tolgono…».
Viceversa, sottolineò Gabrielli ammettendo il cattivo «uso di ordinanze per scopi non propri», «non si tocca il comma per i grandi eventi…», quello della legge del 2001. Il vecchio Zamberletti concordava e concorda: «È indispensabile limitare il ruolo della Protezione civile a quello originario, cioè la previsione, prevenzione e interventi per l’emergenza». Ma così non è e la legge del 2001 sta sempre lì, con la ciliegina dei Grandi eventi che devono essere gestiti dalla Protezione civile quando il governo ravvisi il pericolo che possano determinare «situazioni di grave rischio».
E così, ecco l’incredibile rosario di decine e decine di eventi affidati alla Protezione civile dal 2001 ad oggi: dal Louis Vuitton Trophy ai Giochi del Mediterraneo, dai mondiali di nuoto ai campionati di ciclismo su strada: 31 opinabili emergenze gestite dalla Protezione civile, una già in programma per maggio prossimo, il VII incontro mondiale delle famiglie a Milano. Se non altro, per il 2013, è uscito dalla lista il Forum internazionale delle culture a Napoli. Evento cancellato. Quanto grande sarebbe stato e quanto «grave rischio» potesse costituire non lo sapremo mai.

da Europa Quotidiano 08.02.12

“Nell’onorata Protezione civile story le due ferite di Berlusconi e Tremonti”, di Francesco Lo Sardo

Dai commissari del 1693 a Gabrielli. Passando per Bertolaso: dai grandi eventi al milleproroghe. Se si dovesse affrontare il caso Protezione civile con il “metodo Protezione civile”, per rimettere le cose a posto gli interventi d’emergenza da attuare sono due: chirurgici. Cancellare le velenose norme nascoste da Tremonti nell’articolo 2, comma 2, del milleproroghe 2011 cioè la legge 10 del 26 febbraio (denunciata da Gabrielli) e riscrivere – per evitare abusi – quel passaggio dell’articolo 5 della legge 401 del 2001 voluto da Berlusconi e Gianni Letta che equipara i «grandi eventi» alle calamità naturali e alle catastrofi.
Perché qui comincia e qui finisce, stringi stringi, la storia della Protezione civile cattiva, che copre business e cricche o che funziona male, che ha scacciato l’onorabile storia della Protezione civile buona. Una storia antica, che affonda le sue radici nella nomina dei commissari straordinari nel 1693 in occasione del terremoto della Val di Noto e di quello di Calabria del 1793, che passa dal regio decreto del 1919 (prima legge sul soccorso) e da quello del 1926, fino alla svolta della legge 996 del 1970 (dopo il terremoto del Belice del 1968) e, infine, alla rivoluzione della legge 225 del 1992: la nascita del Servizio nazionale della Protezione civile, voluta dal supercommissario Zamberletti che, già nel 1982, dopo il terremoto in Irpinia del 1980, aveva creato il dipartimento della Protezione civile presso la presidenza del consiglio.
Gli ultimi passaggi sono storia recente: il decentramento e trasferimento di competenze degli anni ’90 dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, la nascita dell’Agenzia della protezione civile del 1999 collocata sotto il controllo del Viminale e la legge 401 del 2001, quella del governo Berlusconi che resuscita il Dipartimento sottoposto alla presidenza del consiglio e che infila subito i «grandi eventi» tra i compiti della Protezione civile guidata dall’allora, e per lungo tempo onnipotente, Guido Bertolaso.
È in quella legge il primo grave vulnus, la crepa dei «Grandi eventi» attraverso cui passerà di tutto e che creerà le condizioni per le progressive degenerazioni del “sistema Protezione civile” sconfinate negli affari della cricca all’assalto dei lavori del G8 in Sardegna e poi nella ricostruzione nel dopo-terremoto in Abruzzo del 2009.
Franco Gabrielli, succeduto a Bertolaso a fine 2010, se lo lasciò scappare il 20 febbraio del 2011, quando a fianco del papà della Protezione civile Zamberletti, in visita al Villaggio solidale di Lucca, denunciò l’ammanettamento della Protezione civile voluta da Tremonti nel milleproroghe: una rappresaglia postuma ma a futura memoria contro gli arcinemici Gianni Letta e Bertolaso, già stroncati nel tentativo di crearsi la Protezione civile Spa con propria cassaforte.
In caso di dichiarazione di stato d’emergenza le ordinanze sono «emanate di concerto con il ministero dell’economia», quanto al fondo di Protezione civile le spese vanno sottoposte a «visto preventivo» della Corte dei Conti. Gabrielli lanciò un grido di dolore: «Così affonderemo come il Titanic. Dovremo aspettare la prossima catastrofe per un nuovo decreto che ci ridia i poteri che ci tolgono…».
Viceversa, sottolineò Gabrielli ammettendo il cattivo «uso di ordinanze per scopi non propri», «non si tocca il comma per i grandi eventi…», quello della legge del 2001. Il vecchio Zamberletti concordava e concorda: «È indispensabile limitare il ruolo della Protezione civile a quello originario, cioè la previsione, prevenzione e interventi per l’emergenza». Ma così non è e la legge del 2001 sta sempre lì, con la ciliegina dei Grandi eventi che devono essere gestiti dalla Protezione civile quando il governo ravvisi il pericolo che possano determinare «situazioni di grave rischio».
E così, ecco l’incredibile rosario di decine e decine di eventi affidati alla Protezione civile dal 2001 ad oggi: dal Louis Vuitton Trophy ai Giochi del Mediterraneo, dai mondiali di nuoto ai campionati di ciclismo su strada: 31 opinabili emergenze gestite dalla Protezione civile, una già in programma per maggio prossimo, il VII incontro mondiale delle famiglie a Milano. Se non altro, per il 2013, è uscito dalla lista il Forum internazionale delle culture a Napoli. Evento cancellato. Quanto grande sarebbe stato e quanto «grave rischio» potesse costituire non lo sapremo mai.

da Europa Quotidiano 08.02.12

"Se le banche lanciano i bond della morte", di Stefano Rodotà

Nella frenetica ricerca di nuovi “prodotti finanziari”, con i quali continuare ad intossicare il mercato, la riverita Deutsche Bank ha superato ogni limite, facendo diventare la vita stessa delle persone oggetto di speculazione. Il caso si può così riassumere. Si individua negli Stati Uniti un gruppo di cinquecento persone tra i 72 e gli 85 anni, si raccolgono con il loro consenso le informazioni sulle condizioni di salute, e si propone di investire sulla durata delle loro vite. Più rapidi sono i decessi, maggiore è il guadagno dell´investitore, mentre il profitto della banca cresce con la sopravvivenza delle persone appartenenti al campione. Sono così nati quelli che qualcuno ha definito i “bond morte”.
Molte sono state le reazioni: la stessa Associazione delle banche tedesche ha detto che «il modello finanziario di questo fondo è contrario alla nostra morale e alla dignità umana». Ma il fatto rimane, segno inquietante di che cosa stiano diventando i nostri tempi. La vita entra senza riserve a far parte del mercato, è puro oggetto di calcolo probabilistico, è consegnata a uno dei tanti algoritmi che ormai regolano la nostra esistenza. E tutto diventa ancor più inquietante se si guarda alla composizione del campione. Si scommette sugli anziani, un gruppo che già conosce forme crescenti di discriminazione, con l´esclusione della gratuità di taluni farmaci e con il divieto di accesso ad una serie di trattamenti sanitari.
Non più produttiva, la vita degli anziani diventa “vita di scarto”, la loro dotazione di diritti si impoverisce, appare incompatibile con la logica dell´economia. Si scivola verso un “grado zero” dell´esistenza, con il trascorrere degli anni si entra in un´area nella quale si è sempre meno “persone”, disponibili come di uno dei tanti oggetti con i quali si costruiscono i prodotti finanziari. Tra il mondo delle persone e quello delle cose non vi sono più confini, si stabilisce un perverso continuum.
Non voglio evocare con colpevole superficialità tragedie del passato. Ma la decisa reazione dell´Associazione delle banche tedesche non si comprende se si ignora che proprio lì, negli anni del nazismo, la formalizzazione giuridica delle “non persone”, gli ebrei in primo luogo, portò a considerare vita e corpi come oggetti disponibili per il potere politico e medico. Oggi il potere sommo della finanza pensa di avere titolo per impadronirsene, in un modo immediatamente meno distruttivo, ma che porta con sé l´insidia della vita come merce.
Non a caso i banchieri tedeschi evocano la dignità, la barriera che si volle levare contro la perversione giuridica del nazismo, scrivendo in apertura della costituzione tedesca che “la dignità umana è inviolabile”. È ragionevole ritenere, allora, che i giudici tedeschi sapranno intervenire in maniera adeguata se quel prodotto finanziario continuerà a circolare. La questione è della massima rilevanza, perché tocca il tema attualissimo del rapporto tra libertà economica e diritti fondamentali. Nel 2004, la Corte di giustizia europea pronunciò una importante sentenza, indicando proprio nel rispetto della dignità umana un limite insuperabile nell´esercizio dell´iniziativa economia privata. Sentenza giustamente citata, ma che non può far dimenticare che la Costituzione italiana quel limite lo ha già esplicitamente segnato.
Nell´articolo 41, infatti, si afferma che l´iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Questa non è la rivendicazione di una primogenitura, dell´abituale lungimiranza dei nostri colti costituenti. È la sottolineatura di un rischio che stiamo correndo, visto che decreti di ieri e di oggi si aprono proprio con forzature interpretative che vogliono imporre letture dell´articolo 41 tutte centrate sulla preminenza della libertà economica. Queste letture riduzioniste e “revisioniste” sono costituzionalmente inammissibili, e sarebbe bene che ne avessero memoria tutti coloro i quali invocano un ritorno della politica, che non è possibile se vengono recise le radici dell´ordinamento repubblicano.
La dignità umana non è violata solo in casi limite come quello dei “bond morte”. È violata quando si capovolge il rapporto tra principio di dignità e iniziativa economica, attribuendo a quest´ultima un valore prevalente, come si cerca di fare oggi in Italia. L´esistenza “libera e dignitosa”, di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, viene negata quando una considerazione tutta efficientistica del lavoro affida la vita delle persone al potere dell´economia, consegnandola alla logica della merce. Indigniamoci per le cose tedesche, ma diamo uno sguardo anche in casa nostra.

La Repubblica 08.02.12

“Se le banche lanciano i bond della morte”, di Stefano Rodotà

Nella frenetica ricerca di nuovi “prodotti finanziari”, con i quali continuare ad intossicare il mercato, la riverita Deutsche Bank ha superato ogni limite, facendo diventare la vita stessa delle persone oggetto di speculazione. Il caso si può così riassumere. Si individua negli Stati Uniti un gruppo di cinquecento persone tra i 72 e gli 85 anni, si raccolgono con il loro consenso le informazioni sulle condizioni di salute, e si propone di investire sulla durata delle loro vite. Più rapidi sono i decessi, maggiore è il guadagno dell´investitore, mentre il profitto della banca cresce con la sopravvivenza delle persone appartenenti al campione. Sono così nati quelli che qualcuno ha definito i “bond morte”.
Molte sono state le reazioni: la stessa Associazione delle banche tedesche ha detto che «il modello finanziario di questo fondo è contrario alla nostra morale e alla dignità umana». Ma il fatto rimane, segno inquietante di che cosa stiano diventando i nostri tempi. La vita entra senza riserve a far parte del mercato, è puro oggetto di calcolo probabilistico, è consegnata a uno dei tanti algoritmi che ormai regolano la nostra esistenza. E tutto diventa ancor più inquietante se si guarda alla composizione del campione. Si scommette sugli anziani, un gruppo che già conosce forme crescenti di discriminazione, con l´esclusione della gratuità di taluni farmaci e con il divieto di accesso ad una serie di trattamenti sanitari.
Non più produttiva, la vita degli anziani diventa “vita di scarto”, la loro dotazione di diritti si impoverisce, appare incompatibile con la logica dell´economia. Si scivola verso un “grado zero” dell´esistenza, con il trascorrere degli anni si entra in un´area nella quale si è sempre meno “persone”, disponibili come di uno dei tanti oggetti con i quali si costruiscono i prodotti finanziari. Tra il mondo delle persone e quello delle cose non vi sono più confini, si stabilisce un perverso continuum.
Non voglio evocare con colpevole superficialità tragedie del passato. Ma la decisa reazione dell´Associazione delle banche tedesche non si comprende se si ignora che proprio lì, negli anni del nazismo, la formalizzazione giuridica delle “non persone”, gli ebrei in primo luogo, portò a considerare vita e corpi come oggetti disponibili per il potere politico e medico. Oggi il potere sommo della finanza pensa di avere titolo per impadronirsene, in un modo immediatamente meno distruttivo, ma che porta con sé l´insidia della vita come merce.
Non a caso i banchieri tedeschi evocano la dignità, la barriera che si volle levare contro la perversione giuridica del nazismo, scrivendo in apertura della costituzione tedesca che “la dignità umana è inviolabile”. È ragionevole ritenere, allora, che i giudici tedeschi sapranno intervenire in maniera adeguata se quel prodotto finanziario continuerà a circolare. La questione è della massima rilevanza, perché tocca il tema attualissimo del rapporto tra libertà economica e diritti fondamentali. Nel 2004, la Corte di giustizia europea pronunciò una importante sentenza, indicando proprio nel rispetto della dignità umana un limite insuperabile nell´esercizio dell´iniziativa economia privata. Sentenza giustamente citata, ma che non può far dimenticare che la Costituzione italiana quel limite lo ha già esplicitamente segnato.
Nell´articolo 41, infatti, si afferma che l´iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Questa non è la rivendicazione di una primogenitura, dell´abituale lungimiranza dei nostri colti costituenti. È la sottolineatura di un rischio che stiamo correndo, visto che decreti di ieri e di oggi si aprono proprio con forzature interpretative che vogliono imporre letture dell´articolo 41 tutte centrate sulla preminenza della libertà economica. Queste letture riduzioniste e “revisioniste” sono costituzionalmente inammissibili, e sarebbe bene che ne avessero memoria tutti coloro i quali invocano un ritorno della politica, che non è possibile se vengono recise le radici dell´ordinamento repubblicano.
La dignità umana non è violata solo in casi limite come quello dei “bond morte”. È violata quando si capovolge il rapporto tra principio di dignità e iniziativa economica, attribuendo a quest´ultima un valore prevalente, come si cerca di fare oggi in Italia. L´esistenza “libera e dignitosa”, di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, viene negata quando una considerazione tutta efficientistica del lavoro affida la vita delle persone al potere dell´economia, consegnandola alla logica della merce. Indigniamoci per le cose tedesche, ma diamo uno sguardo anche in casa nostra.

La Repubblica 08.02.12

"Il Generale Inverno pesa sul Pil", di Mario Deaglio

Non bastava l’emergenza finanziaria, ora ci si mette anche il Generale Inverno. L’economia italiana, già metaforicamente gelata da una caduta produttiva – sensibilmente superiore a quella degli altri paesi avanzati – è andata, anche da un punto di vista fisico, duramente sotto zero. I Tir che qualche settimana fa rimanevano fermi per l’agitazione degli autotrasportatori sono adesso bloccati dal ghiaccio; le derrate alimentari che prima marcivano sugli autotreni fermi ai posti di blocco, ora non vengono ritirati dagli stessi autotreni bloccati dalla neve.

In aggiunta al maltempo, i problemi energetici che ci sono letteralmente cascati addosso negli ultimi dieci giorni, completano il cerchio. Dal momento che l’anno lavorativo delle industrie è di poco più di 200 giorni, ogni giorno di produzione industriale completamente perduta varrebbe all’incirca lo 0,5. L’arresto completo per tre giorni delle industrie per mancanza di combustibile – un’eventualità molto remota, quasi un’ipotesi scolastica, utile comunque a fissare le idee e le dimensioni del problema porterebbe così a una caduta dell’1,5 per cento della produzione industriale dell’intero 2012 introducendo un nuovo stimolo negativo.

Tra blocchi dei Tir e maltempo, in ogni modo, il primo trimestre del 2012 mostrerà un segno negativo superiore alle previsioni di qualche settimana fa e un’economia con prodotto in diminuzione paga minori imposte. La caduta della colonnina del termometro potrebbe così riflettersi sull’indice delle Borse e sulla finanza pubblica.

L’Italia, si scopre nuda non solo per il freddo eccezionale – e, in un certo senso, difficile da prevedere in una cultura dominata dalla convinzione semplicistica che il «riscaldamento globale» significhi che ogni anno farà progressivamente più caldo – ma anche per le tre vulnerabilità che la diminuzione delle forniture internazionali di gas stanno mettendo in luce: la rapidità e la mancanza di preavviso con cui si è manifestata l’emergenza energetica, la debolezza del controllo effettivo, a tutti i livelli, delle autorità competenti, la relativa opacità delle procedure unita alla discontinuità dell’informazione.

La rapidità con cui il problema energetico è apparso all’orizzonte è naturalmente sotto gli occhi di tutti: in quattro-cinque giorni siamo passati dalle immagini-cartolina di Roma paralizzata dalla neve alle prospettive più preoccupanti di treni fermi e ciminiere spente, dall’idea di un fine settimana anomalo a quella di un freddo senza fine. Tutto questo ci è caduto addosso all’improvviso, a seguito di una riduzione – di entità notevole ma non catastrofica – delle forniture di gas in arrivo dalla Russia, mostrando che il sistema energetico italiano è, di fatto, molto carente in elasticità. Il che significa che siamo vissuti a lungo nell’anticamera dell’emergenza energetica senza saperlo veramente, o senza esserne informati.

Sulla debolezza del controllo è inutile soffermarsi se non per ricordare che i due-tre anni di tagli ai bilanci degli enti locali hanno quasi inevitabilmente portato alla diminuzione degli spartineve e perfino del sale da spargere sulle strade con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. L’opacità deriva infine dal fatto che è difficile trovare risposte a domande fondamentali: a termini di contratto, i russi possono davvero ridurre senza preavviso il flusso di gas? Quale ruolo ha l’Ucraina, che in passato ha operato prelievi non autorizzati dai gasdotti che attraversano il suo territorio per arrivare in Italia, nell’improvviso aggravamento della crisi? Quanto incide sull’attuale scarsità energetica la situazione creatasi in Libia dopo Gheddafi con forniture che probabilmente non sono a pieno regime? Su tutti questi punti l’informazione è scarsa, discontinua, lacunosa, comunque insoddisfacente.

La crisi del freddo ha poi provocato una crisi di funzionamento delle istituzioni. Lo dimostra il caso della Protezione Civile che, a detta del suo stesso capo «non è più operativa». Il suo collasso segna la fine del tentativo, durato circa un ventennio, di dotare il Paese di un organismo pubblico di pronto intervento che non venisse strangolato dalle regole della burocrazia e fosse quindi in grado di agire con immediatezza. E anche il caso dell’esercito che, in questi periodi di ristrettezze di bilancio, vuole essere pagato dai sindaci che richiedono il suo intervento per spalare la neve: la cifra non è del tutto trascurabile, trattandosi di settecento euro al giorno per ogni squadra di dieci spalatori. Lo scollamento nazionale spinge poi il sindaco di Roma a vedere nei servizi sul maltempo nella capitale che compaiono sui giornali del Nord una bieca congiura per togliere a Roma la possibilità di ospitare le Olimpiadi del 2020.

Sotto le nevicate, insomma, è l’Italia che rischia di sfarinarsi. Nei Paesi di montagna di un tempo, neve e freddo portavano con sé impulsi di solidarietà e di condivisione. Invece di condivisione, la situazione attuale porta divisione, con i «forconi» siciliani che minacciano di bloccare le uscite dalle raffinerie dell’isola, nelle quali si «lavora» una quota importante del petrolio italiano per impedire che venga inviato nel resto d’Italia.

Forse proprio di qui, dalla presa di coscienza della realtà di un Paese infreddolito, lacerato, oltre che in bolletta, occorre partire per cercare di rilanciare l’idea stessa di un Paese reso irriconoscibile, ancor più che da una coltre bianca, da una coltre di acrimonia ed egoismo. Senza tale presa di coscienza, qualsiasi politica di rilancio rischia di essere fondata sulla sabbia; o, se si preferisce, su un tappeto di neve scivolosa.

La Stampa 08.02.12

“Il Generale Inverno pesa sul Pil”, di Mario Deaglio

Non bastava l’emergenza finanziaria, ora ci si mette anche il Generale Inverno. L’economia italiana, già metaforicamente gelata da una caduta produttiva – sensibilmente superiore a quella degli altri paesi avanzati – è andata, anche da un punto di vista fisico, duramente sotto zero. I Tir che qualche settimana fa rimanevano fermi per l’agitazione degli autotrasportatori sono adesso bloccati dal ghiaccio; le derrate alimentari che prima marcivano sugli autotreni fermi ai posti di blocco, ora non vengono ritirati dagli stessi autotreni bloccati dalla neve.

In aggiunta al maltempo, i problemi energetici che ci sono letteralmente cascati addosso negli ultimi dieci giorni, completano il cerchio. Dal momento che l’anno lavorativo delle industrie è di poco più di 200 giorni, ogni giorno di produzione industriale completamente perduta varrebbe all’incirca lo 0,5. L’arresto completo per tre giorni delle industrie per mancanza di combustibile – un’eventualità molto remota, quasi un’ipotesi scolastica, utile comunque a fissare le idee e le dimensioni del problema porterebbe così a una caduta dell’1,5 per cento della produzione industriale dell’intero 2012 introducendo un nuovo stimolo negativo.

Tra blocchi dei Tir e maltempo, in ogni modo, il primo trimestre del 2012 mostrerà un segno negativo superiore alle previsioni di qualche settimana fa e un’economia con prodotto in diminuzione paga minori imposte. La caduta della colonnina del termometro potrebbe così riflettersi sull’indice delle Borse e sulla finanza pubblica.

L’Italia, si scopre nuda non solo per il freddo eccezionale – e, in un certo senso, difficile da prevedere in una cultura dominata dalla convinzione semplicistica che il «riscaldamento globale» significhi che ogni anno farà progressivamente più caldo – ma anche per le tre vulnerabilità che la diminuzione delle forniture internazionali di gas stanno mettendo in luce: la rapidità e la mancanza di preavviso con cui si è manifestata l’emergenza energetica, la debolezza del controllo effettivo, a tutti i livelli, delle autorità competenti, la relativa opacità delle procedure unita alla discontinuità dell’informazione.

La rapidità con cui il problema energetico è apparso all’orizzonte è naturalmente sotto gli occhi di tutti: in quattro-cinque giorni siamo passati dalle immagini-cartolina di Roma paralizzata dalla neve alle prospettive più preoccupanti di treni fermi e ciminiere spente, dall’idea di un fine settimana anomalo a quella di un freddo senza fine. Tutto questo ci è caduto addosso all’improvviso, a seguito di una riduzione – di entità notevole ma non catastrofica – delle forniture di gas in arrivo dalla Russia, mostrando che il sistema energetico italiano è, di fatto, molto carente in elasticità. Il che significa che siamo vissuti a lungo nell’anticamera dell’emergenza energetica senza saperlo veramente, o senza esserne informati.

Sulla debolezza del controllo è inutile soffermarsi se non per ricordare che i due-tre anni di tagli ai bilanci degli enti locali hanno quasi inevitabilmente portato alla diminuzione degli spartineve e perfino del sale da spargere sulle strade con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. L’opacità deriva infine dal fatto che è difficile trovare risposte a domande fondamentali: a termini di contratto, i russi possono davvero ridurre senza preavviso il flusso di gas? Quale ruolo ha l’Ucraina, che in passato ha operato prelievi non autorizzati dai gasdotti che attraversano il suo territorio per arrivare in Italia, nell’improvviso aggravamento della crisi? Quanto incide sull’attuale scarsità energetica la situazione creatasi in Libia dopo Gheddafi con forniture che probabilmente non sono a pieno regime? Su tutti questi punti l’informazione è scarsa, discontinua, lacunosa, comunque insoddisfacente.

La crisi del freddo ha poi provocato una crisi di funzionamento delle istituzioni. Lo dimostra il caso della Protezione Civile che, a detta del suo stesso capo «non è più operativa». Il suo collasso segna la fine del tentativo, durato circa un ventennio, di dotare il Paese di un organismo pubblico di pronto intervento che non venisse strangolato dalle regole della burocrazia e fosse quindi in grado di agire con immediatezza. E anche il caso dell’esercito che, in questi periodi di ristrettezze di bilancio, vuole essere pagato dai sindaci che richiedono il suo intervento per spalare la neve: la cifra non è del tutto trascurabile, trattandosi di settecento euro al giorno per ogni squadra di dieci spalatori. Lo scollamento nazionale spinge poi il sindaco di Roma a vedere nei servizi sul maltempo nella capitale che compaiono sui giornali del Nord una bieca congiura per togliere a Roma la possibilità di ospitare le Olimpiadi del 2020.

Sotto le nevicate, insomma, è l’Italia che rischia di sfarinarsi. Nei Paesi di montagna di un tempo, neve e freddo portavano con sé impulsi di solidarietà e di condivisione. Invece di condivisione, la situazione attuale porta divisione, con i «forconi» siciliani che minacciano di bloccare le uscite dalle raffinerie dell’isola, nelle quali si «lavora» una quota importante del petrolio italiano per impedire che venga inviato nel resto d’Italia.

Forse proprio di qui, dalla presa di coscienza della realtà di un Paese infreddolito, lacerato, oltre che in bolletta, occorre partire per cercare di rilanciare l’idea stessa di un Paese reso irriconoscibile, ancor più che da una coltre bianca, da una coltre di acrimonia ed egoismo. Senza tale presa di coscienza, qualsiasi politica di rilancio rischia di essere fondata sulla sabbia; o, se si preferisce, su un tappeto di neve scivolosa.

La Stampa 08.02.12