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"Reclutamento nel segno di Formigoni", di Antonio Valentino

La proposta, come è ormai noto, è contenuta nel Progetto di Legge della Regione Lombardia.
Una novità? Non è una novità assoluta l’idea di un reclutamento del personale affidato alle scuole, avanzata dalla Giunta Formigoni e che ha sollevato, in questi giorni, diffidenza e ostilità soprattutto a sinistra. La proposta, come è ormai noto, è contenuta nel Progetto di Legge della Regione Lombardia sulle “misure per la crescita…”, che, all’art. 5 (Reclutamento del personale docente da parte delle istituzioni scolastiche), recita: “A partire dall’anno scolastico 2012/2013, le istituzioni scolastiche statali possono organizzare concorsi differenziati a seconda del ciclo di studi, al fine di reclutare personale docente necessario a svolgere le attività didattiche annuali.

Nientemeno.

La prendo un po’ da lontano.

I Progetti sperimentali di alcune scuole milanesi (quelli soprattutto di Bollate, di Cernusco e di Via Pace, partiti alla fine degli anni ’70), prevedevano il dispositivo tecnico del “comando”, che permetteva all’Istituto di “selezionare” i docenti di ruolo di altre scuole, interessati a insegnarvi, a domanda, sui posti ‘vacanti’.

Il suo senso era quello di garantire alle scuole sperimentali autonomia didattica e organizzativa – molto prima dell’era Berlinguer – anche attraverso la possibilità di “scegliersi” gli insegnanti (almeno, come si è detto, per le cattedre scoperte)

L’incarico era dato formalmente dal Capo di Istituto, su proposta di un Comitato, scelto dal Collegio Docenti e che operava sulla base di alcuni criteri (titoli, pubblicazioni, informazioni dalla scuola di provenienza, adesione al progetto sperimentale, inteso come impianto strutturale).

Questo “istituto” fu in vigore fino alla fine degli anni ’80, inizi anni ’90, quando venne abolito per ragioni ininfluenti per l’argomento di cui si parla.

La proposta di legge della Regione Lombardia non ha perciò creato particolare scandalo almeno a quanti sono stati dentro l’avventura delle sperimentazioni milanesi nel periodo indicato.

Dell’istituto di Bollate e di quello di Via Pace, soprattutto, si diceva poi che avevano un “cuore che batteva a sinistra”.

Nessuno tuttavia, tra quanti vi operavano in quella stagione, ha mai pensato che quello dei “comandi” fosse un istituto di “destra”; anzi veniva vissuto come fattore importante della specificità dell’Istituto e un’espressione di autonomia.

Il problema serio dell’immobilismo del sistema

L’articolo del Progetto di Legge ha fatto grande scalpore, come sappiamo, soprattutto in settori della sinistra e del sindacato.

Pensando anche alle mie esperienze professionali e ai “caroselli” dell’ultimo trentennio, mi vado chiedendo se tale scalpore sia da condividere e in che misura; e se crea più scandalo la proposta di Formigoni o non, piuttosto, il fatto che del problema del reclutamento parliamo da una vita senza venirne a capo (e non solo del reclutamento, tra l’altro). Mi domando, in altri termini, se la cosa preoccupante e scandalosa non sia oggi piuttosto l’immobilismo del nostro sistema, che genera disuguaglianze, che non lavora per il futuro dei suoi giovani, e perpetua una scuola frantumata, autoreferenziale, accademica.

Quest’ultima considerazione porterebbe a dare ragione a – o almeno a capire – Formigoni.

Anche perché, di primo acchitto, sembrano condivisibili i ragionamenti sui “vantaggi” di cui parlano i “favorevoli” alla proposta:

· Favorire –almeno in astratto – la costruzione di una coesione interna, di una identità culturale degli Istituti, di una realizzazione del POF più convinta. Con conseguenze positive sul clima interno e della qualità complessiva dell’attività didattica.

· Dare finalmente gambe un po’ solide all’autonomia di cui può costituire strumento / leva importante.

Nel merito

In realtà l’articolo sul reclutamento del Progetto di Legge, con i suoi quattro commi, pone interrogativi ben seri che vanno capiti per afferrare meglio il senso dell’intera operazione.

Un primo immediato interrogativo lo pone il modo sbrigativo con cui viene avanzata una proposta che smuove certamente il mondo della scuola, ma che, proprio per questo, avrebbe richiesto ben altro attenzione e ponderatezza, data la delicatezza e complessità della questione sotto i vari profili, compreso quello organizzativo.

Né rassicura il fatto che “Le modalità di espletamento del bando di concorso sono definite, (…) con deliberazione della Giunta regionale” (comma 4).

Altri interrogativi “materiali” che il disegno di legge fa emergere, e a cui non si preoccupa di dare linee guida per possibili risposte, vanno: dall’inesistente raccordo con le direttive ministeriali (per esempio in tema di trasferimento, che non credo si possano abrogare d’emblèe, da parte di una Giunta Regionale), alla tempistica – molto problematica – delle scuole, a quella – che non lo è meno – dei Centri Territorilali (con cui la prima deve fare i conti, almeno per quanto riguarda la definizione e l’autorizzazione dell’organico di fatto).

Senza parlare del tema delle garanzie per i diritti, almeno quelli fondamentali, dei soggetti in campo.

Inquieta un po’ anche il riferimento alle “attività didattiche annuali”. Vuol dire che ogni anno le scuole si metteranno a bandire e svolgere concorsi?

Nessuno ovviamente potrebbe augurarselo, perché gli impegni amministrativi e burocratici già ora nelle scuole non sono proprio bazzecole; e sovrapporci altri pesi consistenti non aumentererebbe lo stato di benessere, che è già quello che è.

Ci sono poi altri problemi, non proprio di dettaglio, su cui sarebbe stato opportuno fare chiarezza.

Vorrei per esempio capire che cosa è questo “patto per lo sviluppo professionale” da condividere, per poter partecipare alla selezione. “Professionale” a chi va riferito: all’insegnante – che deve rispettare un patto di sviluppo professionale che riguarda la sua preparazione, formazione, aggiornamento -?; oppure va riferito al traguardo formativo dello studente? Nell’un caso e nell’altro, si moltiplicano gli interrogativi. Rispetto ai quali non appare facile ipotizzare risposte. Ma qualche preoccupazione ne viene.

Sui “tempi” dell’operazione, poi, neanche Speedy Gonzales: il disegno di legge ha il razzo incorporato. E’ stato comunicato che verrà approvato l’8 febbraio; praticamente prima della scrittura.

Spavalderia? Arroganza? Pressappochismo? Mancanza di rispetto per la gente di scuola e per il mondo della scuola in generale? Per lo stesso Consiglio Regionale? Fate voi. Però sta andando avanti così.

Resta ancora da capire, tra l’altro, cosa dice al riguardo la Direzione Scolastica Regionale.

Comunque anche qui un paio di domande: data la delicatezza della questione, non era auspicabile un passaggio nella Conferenza Stato-Regioni per approndirla in un’ottica più ampia e proporre soluzioni meno “muscolose” e più efficaci? Ma, forse, per Formigoni sarebbe un passaggio troppo regolare e normale per essere preso in considerazione.

Il “nodo Formigoni”

Preoccuppano infine – e forse di più – l’ambiguità delle parole chiave della proposta.

Rileggiamo l’art 2 ter: “E’ ammesso a partecipare alla selezione il personale docente del comparto scuola che conosca e condivida il progetto e il patto per lo sviluppo professionale, che costituiscono parte integrante del bando di concorso di ciascun istituto scolastico.

In che senso “conoscere” e “condividere”? E attraverso quale strumento? Attraverso colloquio (modello “Sperimentazioni autonome”) o per semplice dichiarazione? E gestito come?

Ma gli interrogativi che pone il comma riguardano soprattutto i riferimenti al “ progetto” e al “patto di sviluppo professionale” (del quale ho già detto prima). E preludono al ragionamento sul rischio più grosso – quello di una sorta di progressiva privatizzazione della scuola statale – che mi sembra si voglia ulteriormente tentare con questa operazione.

Oggi come oggi, infatti, pensare (come presuppone il disegno di legge) che si voglia andare ad insegnare in una scuola perché questa ha un “suo” progetto che si vuol condividere, è quanto meno azzardato, almeno nella stragrande maggioranza dei casi.

Pensare che sia ‘altro’ il disegno di Formigoni, non è perciò “pensar male”.

D’altra parte, l’operazione precedente della Giunta Lombarda, con la “Dote Scuola”, era essa stessa tassello di un mosaico di ridisegno del sistema istruzione lombardo, in cui quello che conta è la scelta delle famiglie e una identità di istituto non culturale e progettuale in senso laico, ma ideologica (in ogni caso contraria ad una scuola per tutti e per ciascuno, per dirla con uno slogan).

Da qui l’enfasi che se ne deduce sul senso di appartenenza, che, alimentato in modo abnorme, genera chiusure, arroccamenti e contrapposizioni.

Va serenamente riconosciuto che nella maggior parte dei paesi europei, gran parte delle scuole pubbliche non sono statali. E che i risultati complessivi, almeno quelli rilevabili attravero i dati OCSE, sono anche migliori di quelli che ci riguardano.

Il problema che però vedo da noi è quello delle “chiese”, dei fortilizi ideologici e clericali, che è il portato di una scarsa laicità della cultura del nostro paese; i rischi possibili – e le preoccupazioni – in questo caso riguardano il futuro del nostro paese, perché in campo c’è la formazione del cittadino della Repubblica. O no?

Qualche conclusione

Qualcuno obietterà a questo punto che è però l’immobilismo il vero male del nostro paese e che non ci si può limitare a mettere i bastoni tra le ruote. E ha certamente ragioni da vendere. Ma, in questo caso specifico? Con tanti pesanti interrogativi, senza riposte, e tanti possibili rischi?

Né vanno tralasciate, nella fase che stiamo vivendo, le priorità più urgenti (dalle Indicazioni nazionali per i Tecnici e i Professionali – e questioni annesse – all’ordinamento della “scuola media”, alla proposta del Ministro Profumo (VALeS) sulla valutazione, ecc..) che sollecitano il mondo della scuola e che richiederebbero di vedere uno sforzo congiunto da parte di chi vuole che il nostro sistema si risollevi.

Non c’è niente di “benaltrismo” in questi richiami. Solo la sottolineatura delle questioni più urgenti su cui concentrarci e, ovviamente, la grande diffidenza verso un modo di fare politica che punta più alla spettacolarizzazione decisionista e provocatoria degli interventi, che non alla ricerca delle soluzioni migliori.

Il problema degli strumenti dell’autonomia e dell’efficienza organizzativa – e delle garanzie per tutti – va comunque messo in agenda.

Andrebbe solo, in questa fase, democraticamente evitato che a farsene carico e gestirlo sia Formigoni.

da ScuolaOggi 08.02.12

“Reclutamento nel segno di Formigoni”, di Antonio Valentino

La proposta, come è ormai noto, è contenuta nel Progetto di Legge della Regione Lombardia.
Una novità? Non è una novità assoluta l’idea di un reclutamento del personale affidato alle scuole, avanzata dalla Giunta Formigoni e che ha sollevato, in questi giorni, diffidenza e ostilità soprattutto a sinistra. La proposta, come è ormai noto, è contenuta nel Progetto di Legge della Regione Lombardia sulle “misure per la crescita…”, che, all’art. 5 (Reclutamento del personale docente da parte delle istituzioni scolastiche), recita: “A partire dall’anno scolastico 2012/2013, le istituzioni scolastiche statali possono organizzare concorsi differenziati a seconda del ciclo di studi, al fine di reclutare personale docente necessario a svolgere le attività didattiche annuali.

Nientemeno.

La prendo un po’ da lontano.

I Progetti sperimentali di alcune scuole milanesi (quelli soprattutto di Bollate, di Cernusco e di Via Pace, partiti alla fine degli anni ’70), prevedevano il dispositivo tecnico del “comando”, che permetteva all’Istituto di “selezionare” i docenti di ruolo di altre scuole, interessati a insegnarvi, a domanda, sui posti ‘vacanti’.

Il suo senso era quello di garantire alle scuole sperimentali autonomia didattica e organizzativa – molto prima dell’era Berlinguer – anche attraverso la possibilità di “scegliersi” gli insegnanti (almeno, come si è detto, per le cattedre scoperte)

L’incarico era dato formalmente dal Capo di Istituto, su proposta di un Comitato, scelto dal Collegio Docenti e che operava sulla base di alcuni criteri (titoli, pubblicazioni, informazioni dalla scuola di provenienza, adesione al progetto sperimentale, inteso come impianto strutturale).

Questo “istituto” fu in vigore fino alla fine degli anni ’80, inizi anni ’90, quando venne abolito per ragioni ininfluenti per l’argomento di cui si parla.

La proposta di legge della Regione Lombardia non ha perciò creato particolare scandalo almeno a quanti sono stati dentro l’avventura delle sperimentazioni milanesi nel periodo indicato.

Dell’istituto di Bollate e di quello di Via Pace, soprattutto, si diceva poi che avevano un “cuore che batteva a sinistra”.

Nessuno tuttavia, tra quanti vi operavano in quella stagione, ha mai pensato che quello dei “comandi” fosse un istituto di “destra”; anzi veniva vissuto come fattore importante della specificità dell’Istituto e un’espressione di autonomia.

Il problema serio dell’immobilismo del sistema

L’articolo del Progetto di Legge ha fatto grande scalpore, come sappiamo, soprattutto in settori della sinistra e del sindacato.

Pensando anche alle mie esperienze professionali e ai “caroselli” dell’ultimo trentennio, mi vado chiedendo se tale scalpore sia da condividere e in che misura; e se crea più scandalo la proposta di Formigoni o non, piuttosto, il fatto che del problema del reclutamento parliamo da una vita senza venirne a capo (e non solo del reclutamento, tra l’altro). Mi domando, in altri termini, se la cosa preoccupante e scandalosa non sia oggi piuttosto l’immobilismo del nostro sistema, che genera disuguaglianze, che non lavora per il futuro dei suoi giovani, e perpetua una scuola frantumata, autoreferenziale, accademica.

Quest’ultima considerazione porterebbe a dare ragione a – o almeno a capire – Formigoni.

Anche perché, di primo acchitto, sembrano condivisibili i ragionamenti sui “vantaggi” di cui parlano i “favorevoli” alla proposta:

· Favorire –almeno in astratto – la costruzione di una coesione interna, di una identità culturale degli Istituti, di una realizzazione del POF più convinta. Con conseguenze positive sul clima interno e della qualità complessiva dell’attività didattica.

· Dare finalmente gambe un po’ solide all’autonomia di cui può costituire strumento / leva importante.

Nel merito

In realtà l’articolo sul reclutamento del Progetto di Legge, con i suoi quattro commi, pone interrogativi ben seri che vanno capiti per afferrare meglio il senso dell’intera operazione.

Un primo immediato interrogativo lo pone il modo sbrigativo con cui viene avanzata una proposta che smuove certamente il mondo della scuola, ma che, proprio per questo, avrebbe richiesto ben altro attenzione e ponderatezza, data la delicatezza e complessità della questione sotto i vari profili, compreso quello organizzativo.

Né rassicura il fatto che “Le modalità di espletamento del bando di concorso sono definite, (…) con deliberazione della Giunta regionale” (comma 4).

Altri interrogativi “materiali” che il disegno di legge fa emergere, e a cui non si preoccupa di dare linee guida per possibili risposte, vanno: dall’inesistente raccordo con le direttive ministeriali (per esempio in tema di trasferimento, che non credo si possano abrogare d’emblèe, da parte di una Giunta Regionale), alla tempistica – molto problematica – delle scuole, a quella – che non lo è meno – dei Centri Territorilali (con cui la prima deve fare i conti, almeno per quanto riguarda la definizione e l’autorizzazione dell’organico di fatto).

Senza parlare del tema delle garanzie per i diritti, almeno quelli fondamentali, dei soggetti in campo.

Inquieta un po’ anche il riferimento alle “attività didattiche annuali”. Vuol dire che ogni anno le scuole si metteranno a bandire e svolgere concorsi?

Nessuno ovviamente potrebbe augurarselo, perché gli impegni amministrativi e burocratici già ora nelle scuole non sono proprio bazzecole; e sovrapporci altri pesi consistenti non aumentererebbe lo stato di benessere, che è già quello che è.

Ci sono poi altri problemi, non proprio di dettaglio, su cui sarebbe stato opportuno fare chiarezza.

Vorrei per esempio capire che cosa è questo “patto per lo sviluppo professionale” da condividere, per poter partecipare alla selezione. “Professionale” a chi va riferito: all’insegnante – che deve rispettare un patto di sviluppo professionale che riguarda la sua preparazione, formazione, aggiornamento -?; oppure va riferito al traguardo formativo dello studente? Nell’un caso e nell’altro, si moltiplicano gli interrogativi. Rispetto ai quali non appare facile ipotizzare risposte. Ma qualche preoccupazione ne viene.

Sui “tempi” dell’operazione, poi, neanche Speedy Gonzales: il disegno di legge ha il razzo incorporato. E’ stato comunicato che verrà approvato l’8 febbraio; praticamente prima della scrittura.

Spavalderia? Arroganza? Pressappochismo? Mancanza di rispetto per la gente di scuola e per il mondo della scuola in generale? Per lo stesso Consiglio Regionale? Fate voi. Però sta andando avanti così.

Resta ancora da capire, tra l’altro, cosa dice al riguardo la Direzione Scolastica Regionale.

Comunque anche qui un paio di domande: data la delicatezza della questione, non era auspicabile un passaggio nella Conferenza Stato-Regioni per approndirla in un’ottica più ampia e proporre soluzioni meno “muscolose” e più efficaci? Ma, forse, per Formigoni sarebbe un passaggio troppo regolare e normale per essere preso in considerazione.

Il “nodo Formigoni”

Preoccuppano infine – e forse di più – l’ambiguità delle parole chiave della proposta.

Rileggiamo l’art 2 ter: “E’ ammesso a partecipare alla selezione il personale docente del comparto scuola che conosca e condivida il progetto e il patto per lo sviluppo professionale, che costituiscono parte integrante del bando di concorso di ciascun istituto scolastico.

In che senso “conoscere” e “condividere”? E attraverso quale strumento? Attraverso colloquio (modello “Sperimentazioni autonome”) o per semplice dichiarazione? E gestito come?

Ma gli interrogativi che pone il comma riguardano soprattutto i riferimenti al “ progetto” e al “patto di sviluppo professionale” (del quale ho già detto prima). E preludono al ragionamento sul rischio più grosso – quello di una sorta di progressiva privatizzazione della scuola statale – che mi sembra si voglia ulteriormente tentare con questa operazione.

Oggi come oggi, infatti, pensare (come presuppone il disegno di legge) che si voglia andare ad insegnare in una scuola perché questa ha un “suo” progetto che si vuol condividere, è quanto meno azzardato, almeno nella stragrande maggioranza dei casi.

Pensare che sia ‘altro’ il disegno di Formigoni, non è perciò “pensar male”.

D’altra parte, l’operazione precedente della Giunta Lombarda, con la “Dote Scuola”, era essa stessa tassello di un mosaico di ridisegno del sistema istruzione lombardo, in cui quello che conta è la scelta delle famiglie e una identità di istituto non culturale e progettuale in senso laico, ma ideologica (in ogni caso contraria ad una scuola per tutti e per ciascuno, per dirla con uno slogan).

Da qui l’enfasi che se ne deduce sul senso di appartenenza, che, alimentato in modo abnorme, genera chiusure, arroccamenti e contrapposizioni.

Va serenamente riconosciuto che nella maggior parte dei paesi europei, gran parte delle scuole pubbliche non sono statali. E che i risultati complessivi, almeno quelli rilevabili attravero i dati OCSE, sono anche migliori di quelli che ci riguardano.

Il problema che però vedo da noi è quello delle “chiese”, dei fortilizi ideologici e clericali, che è il portato di una scarsa laicità della cultura del nostro paese; i rischi possibili – e le preoccupazioni – in questo caso riguardano il futuro del nostro paese, perché in campo c’è la formazione del cittadino della Repubblica. O no?

Qualche conclusione

Qualcuno obietterà a questo punto che è però l’immobilismo il vero male del nostro paese e che non ci si può limitare a mettere i bastoni tra le ruote. E ha certamente ragioni da vendere. Ma, in questo caso specifico? Con tanti pesanti interrogativi, senza riposte, e tanti possibili rischi?

Né vanno tralasciate, nella fase che stiamo vivendo, le priorità più urgenti (dalle Indicazioni nazionali per i Tecnici e i Professionali – e questioni annesse – all’ordinamento della “scuola media”, alla proposta del Ministro Profumo (VALeS) sulla valutazione, ecc..) che sollecitano il mondo della scuola e che richiederebbero di vedere uno sforzo congiunto da parte di chi vuole che il nostro sistema si risollevi.

Non c’è niente di “benaltrismo” in questi richiami. Solo la sottolineatura delle questioni più urgenti su cui concentrarci e, ovviamente, la grande diffidenza verso un modo di fare politica che punta più alla spettacolarizzazione decisionista e provocatoria degli interventi, che non alla ricerca delle soluzioni migliori.

Il problema degli strumenti dell’autonomia e dell’efficienza organizzativa – e delle garanzie per tutti – va comunque messo in agenda.

Andrebbe solo, in questa fase, democraticamente evitato che a farsene carico e gestirlo sia Formigoni.

da ScuolaOggi 08.02.12

"Parte il progetto “VALeS” per la valutazione delle scuole e dei dirigenti", da La Tecnica della Scuola

Dopo l’avvio del progetto “VSQ – Valutazione per lo Sviluppo della Qualità delle scuole” nello scorso anno scolastico, parte quest’anno il nuovo percorso sperimentale “VALeS”- Valutazione e Sviluppo Scuola, finalizzato alla valutazione esterna delle scuole e – per la prima volta – dei dirigenti scolastici. Le analisi valutative saranno condotte dai nuclei di valutazione esterni, attraverso strumenti e protocolli di visita specifici. Il progetto, rivolto alle scuole del primo e secondo ciclo, fino ad un limite massimo di 300 istituti su tutto il territorio nazionale, ha durata triennale e si colloca nella prospettiva di individuare un modello che prefiguri una valutazione organica di sistema, sulla base delle caratteristiche del Sistema nazionale di valutazione.

Sul tema della valutazione si veda la nostra intervista al sottosegretario Elena Ugolini pubblicata sul n. 11 de “La Tecncia della Scuola”.

COME FUNZIONERA’ IL PROGETTO

Per la valutazione complessiva della scuola e dell’azione della dirigenza scolastica, la sperimentazione seguirà tre passaggi chiave: l’analisi valutativa, il miglioramento e la valutazione finale.

Analisi valutativa:
– rilevazione degli apprendimenti attraverso prove standard, con calcolo del valore aggiunto contestualizzato da parte di InvalsiI;
– raccolta dei dati strutturali della singola scuola presenti nel Sistema informativo del Miur, integrati dagli stessi istituti secondo modalità simili all’iniziativa “Scuola in Chiaro”;
– analisi valutativa del contesto scolastico e dell’azione della dirigenza scolastica, effettuata da parte di nuclei di osservatori esterni coordinati da ispettori che elaboreranno un rapporto di valutazione iniziale;

Miglioramento
– piano di miglioramento, elaborato dalle scuole sulla base del rapporto di valutazioneiniziale, supportato dall’Indire, oltre che dalle Università o da altre risorse professionali presenti sul territorio.

Valutazione finale
– valutazione finale delle scuole e dei dirigenti scolastici e pubblicazione dei risultati sul servizio “Scuola in Chiaro”, ai fini della trasparenza e della “accountability”.

VALUTAZIONE DIRIGENTI

Nell’ambito del progetto, particolare rilievo assume lo sviluppo di un sistema di valutazione specifico per il dirigente scolastico, la cui azione risulta fondamentale nel promuovere gli obiettivi di miglioramento del servizio, stimolando la collaborazione di tutta la comunità scolastica.
La valutazione del dirigente farà riferimento ad opportuni indicatori individuati all’interno delle seguenti macro-aree: direzione, coordinamento e valorizzazione delle risorse umane, organizzazione e gestione delle risorse finanziarie e strumentali, promozione della qualità dei processi interni alla comunità professionale, sviluppo delle innovazioni, attenzione alle famiglie ed alla comunità sociale, collaborazione con i soggetti istituzionali, culturali, professionali, sociali ed economici del territorio.
Per partecipare alla sperimentazione, le scuole potranno compilare, dal 10 febbraio al 12 marzo, il modulo di adesione che troveranno sul sito del Ministero dell’istruzione. Per consentire una più ampia diffusione sul territorio nazionale delle iniziative legate alla cultura della valutazione, gli istituti scolastici che partecipano al percorso sperimentale “VSQ”, avviato nell’a.s. 2010/2011, non potranno partecipare al progetto VALeS.

“Parte il progetto “VALeS” per la valutazione delle scuole e dei dirigenti”, da La Tecnica della Scuola

Dopo l’avvio del progetto “VSQ – Valutazione per lo Sviluppo della Qualità delle scuole” nello scorso anno scolastico, parte quest’anno il nuovo percorso sperimentale “VALeS”- Valutazione e Sviluppo Scuola, finalizzato alla valutazione esterna delle scuole e – per la prima volta – dei dirigenti scolastici. Le analisi valutative saranno condotte dai nuclei di valutazione esterni, attraverso strumenti e protocolli di visita specifici. Il progetto, rivolto alle scuole del primo e secondo ciclo, fino ad un limite massimo di 300 istituti su tutto il territorio nazionale, ha durata triennale e si colloca nella prospettiva di individuare un modello che prefiguri una valutazione organica di sistema, sulla base delle caratteristiche del Sistema nazionale di valutazione.

Sul tema della valutazione si veda la nostra intervista al sottosegretario Elena Ugolini pubblicata sul n. 11 de “La Tecncia della Scuola”.

COME FUNZIONERA’ IL PROGETTO

Per la valutazione complessiva della scuola e dell’azione della dirigenza scolastica, la sperimentazione seguirà tre passaggi chiave: l’analisi valutativa, il miglioramento e la valutazione finale.

Analisi valutativa:
– rilevazione degli apprendimenti attraverso prove standard, con calcolo del valore aggiunto contestualizzato da parte di InvalsiI;
– raccolta dei dati strutturali della singola scuola presenti nel Sistema informativo del Miur, integrati dagli stessi istituti secondo modalità simili all’iniziativa “Scuola in Chiaro”;
– analisi valutativa del contesto scolastico e dell’azione della dirigenza scolastica, effettuata da parte di nuclei di osservatori esterni coordinati da ispettori che elaboreranno un rapporto di valutazione iniziale;

Miglioramento
– piano di miglioramento, elaborato dalle scuole sulla base del rapporto di valutazioneiniziale, supportato dall’Indire, oltre che dalle Università o da altre risorse professionali presenti sul territorio.

Valutazione finale
– valutazione finale delle scuole e dei dirigenti scolastici e pubblicazione dei risultati sul servizio “Scuola in Chiaro”, ai fini della trasparenza e della “accountability”.

VALUTAZIONE DIRIGENTI

Nell’ambito del progetto, particolare rilievo assume lo sviluppo di un sistema di valutazione specifico per il dirigente scolastico, la cui azione risulta fondamentale nel promuovere gli obiettivi di miglioramento del servizio, stimolando la collaborazione di tutta la comunità scolastica.
La valutazione del dirigente farà riferimento ad opportuni indicatori individuati all’interno delle seguenti macro-aree: direzione, coordinamento e valorizzazione delle risorse umane, organizzazione e gestione delle risorse finanziarie e strumentali, promozione della qualità dei processi interni alla comunità professionale, sviluppo delle innovazioni, attenzione alle famiglie ed alla comunità sociale, collaborazione con i soggetti istituzionali, culturali, professionali, sociali ed economici del territorio.
Per partecipare alla sperimentazione, le scuole potranno compilare, dal 10 febbraio al 12 marzo, il modulo di adesione che troveranno sul sito del Ministero dell’istruzione. Per consentire una più ampia diffusione sul territorio nazionale delle iniziative legate alla cultura della valutazione, gli istituti scolastici che partecipano al percorso sperimentale “VSQ”, avviato nell’a.s. 2010/2011, non potranno partecipare al progetto VALeS.

"La fuga dei giovani", di Pietro Greco

Vogliono il posto fisso, magari vicino a mamma e papà». La frase di Annamaria Cancellieri, ministra dell’Interno, è infelice: come lei stessa ha ammesso. Ma l’idea che i giovani italiani siano dei bamboccioni che si aggrappano fin che possono alle gonnelle della mamma è un pensiero così diffuso da assurgere ad autentico luogo comune. Un modo di dire e di pensare che non risparmia neppure i “ministri tecnici”: ricordate Tommaso Padoa- Schioppa? Ironia della sorte,mai come negli ultimi 15 anni gli italiani – in particolare i giovani, in particolare i giovani meridionali laureati – hanno lasciato le gonnelle della mamma e si sono mossi in massa. In questi tre lustri abbiamo, e non ce ne siamo accorti, il più grande fenomeno di migrazione, qualificata e non, nella storia del nostro Paese, che pure è una storia di migranti. Tra il 1997 e il 2009, calcola per esempio lo Svimez, circa 800mila persone hanno lasciato definitivamente il Mezzogiorno d’Italia per cercare lavoro e prendere la residenza altrove. Non abbiamo dati definitivi,ma è probabile che negli ultimi due anni le persone che hanno lasciato ilMezzogiorno per prendere residenza al Centro-Nord o all’estero siano stati almeno altri 200mila. Cosicché in meno di 15 anni hanno lasciato definitivamente il Sud almeno un milione di persone. A questi migranti stabili, occorre aggiungere i pendolari. Ovvero coloro che, pur conservando la residenza nel Mezzogiorno, hanno trovato un lavoro lontano da casa. Nell’anno di picco, il 2008, sono andati via dal Sud, cambiando residenza o iniziando un’esperienza di pendolarismo, in 295mila. Certo, sull’onda dell’incipiente crisi economica, in 60mila sono rientrati. Ma il saldo netto negativo è stato di 235mila unità. Tra il 2008 e oggi il fenomeno ha subito un rallentamento: nel 2010 sono stati in 121mila (contro i 173.000 del 2008) i bamboccioni residenti nel Mezzogiorno che hanno accettato un posto di lavoro al Centro-Nord (soprattutto in Lombardia, Emilia- Romagna e Lazio) o addirittura all’estero. Questo tuttavia non avvenuto per un ritorno di fiamma dell’attaccamento alla gonnella della mamma: semplicemente sono diminuite le offerte di lavoro anche al Centro e al Nord. Il fenomeno migratorio di questi ultimi quindici anni è stato quello degli anni ’50. Ma con una differenza. Rispetto a quella dei nonni, è cambiata la tipologia dei migranti dal Sud. Oggi sono per lo più giovani – altro che bamboccioni – ma con un livello medio o alto di studio: l’80% ha meno di 45 anni e quasi il 50% svolge professioni di livello elevato. Il 24% è laureato. È andato – sta andando – via un pezzo consistente di classe dirigente. Si calcola che in totale, dal duemila a oggi, abbiano lasciato stabilmente il Sud, cambiando residenza, circa 140mila giovani laureati. Ad andarsene, come sempre più spesso accade, sono sempre i più i bravi (spesso con una laurea scientifica): nel 2004 ha lasciato il Sud il 25% dei laureati con il massimo dei voti; tre anni più tardi, nel 2007, la percentuale era già balzata a quasi il 38%. Ad andarsene sono sempre più i giovani con una laurea scientifica. Quelli che sono rimasti difficilmente hanno trovato occupazione. Tanto che lo Svimez parla di un brain waste, di uno spreco dei cervelli, che nel Sud accompagna e supera il brain drain, il drenaggio dei cervelli. La capacità di drenaggio da parte del Centro e del Nordè stata tale che nel 2008 il 41,5% dei meridionali laureati occupati lavorava lontano da casa: dieci punti percentuali in più che nel 2001. Negli ultimi anni, dunque, abbiamo assistito non a una «fuga», ma a una «rotta dei cervelli»: un fuggire disperato. Ma nemmeno i giovani del Centro e del Nord sono rimasti aggrappati alle gonnelle della mamma. Il numero di giovani laureati italiani (del Sud, dal Centro e del Nord) che sono andati all’estero per compiere almeno la prima esperienza di lavoro è del tutto analoga a quella degli altri Paesi europei. Anzi, i giovani italiani con una laurea scientifica che lavorano all’estero è persino superiore a quella dei loro coetanei francesi, inglesi o tedeschi. E, in media, sono più bravi. Altro che vicino a mamma e papà. Purché ci sia lavoro, i giovani italiani sono più che disponibili a lasciare la propria terra e dimostrare la loro bravura. Purché ci sia lavoro, appunto.

L’Unità 08.02.12

“La fuga dei giovani”, di Pietro Greco

Vogliono il posto fisso, magari vicino a mamma e papà». La frase di Annamaria Cancellieri, ministra dell’Interno, è infelice: come lei stessa ha ammesso. Ma l’idea che i giovani italiani siano dei bamboccioni che si aggrappano fin che possono alle gonnelle della mamma è un pensiero così diffuso da assurgere ad autentico luogo comune. Un modo di dire e di pensare che non risparmia neppure i “ministri tecnici”: ricordate Tommaso Padoa- Schioppa? Ironia della sorte,mai come negli ultimi 15 anni gli italiani – in particolare i giovani, in particolare i giovani meridionali laureati – hanno lasciato le gonnelle della mamma e si sono mossi in massa. In questi tre lustri abbiamo, e non ce ne siamo accorti, il più grande fenomeno di migrazione, qualificata e non, nella storia del nostro Paese, che pure è una storia di migranti. Tra il 1997 e il 2009, calcola per esempio lo Svimez, circa 800mila persone hanno lasciato definitivamente il Mezzogiorno d’Italia per cercare lavoro e prendere la residenza altrove. Non abbiamo dati definitivi,ma è probabile che negli ultimi due anni le persone che hanno lasciato ilMezzogiorno per prendere residenza al Centro-Nord o all’estero siano stati almeno altri 200mila. Cosicché in meno di 15 anni hanno lasciato definitivamente il Sud almeno un milione di persone. A questi migranti stabili, occorre aggiungere i pendolari. Ovvero coloro che, pur conservando la residenza nel Mezzogiorno, hanno trovato un lavoro lontano da casa. Nell’anno di picco, il 2008, sono andati via dal Sud, cambiando residenza o iniziando un’esperienza di pendolarismo, in 295mila. Certo, sull’onda dell’incipiente crisi economica, in 60mila sono rientrati. Ma il saldo netto negativo è stato di 235mila unità. Tra il 2008 e oggi il fenomeno ha subito un rallentamento: nel 2010 sono stati in 121mila (contro i 173.000 del 2008) i bamboccioni residenti nel Mezzogiorno che hanno accettato un posto di lavoro al Centro-Nord (soprattutto in Lombardia, Emilia- Romagna e Lazio) o addirittura all’estero. Questo tuttavia non avvenuto per un ritorno di fiamma dell’attaccamento alla gonnella della mamma: semplicemente sono diminuite le offerte di lavoro anche al Centro e al Nord. Il fenomeno migratorio di questi ultimi quindici anni è stato quello degli anni ’50. Ma con una differenza. Rispetto a quella dei nonni, è cambiata la tipologia dei migranti dal Sud. Oggi sono per lo più giovani – altro che bamboccioni – ma con un livello medio o alto di studio: l’80% ha meno di 45 anni e quasi il 50% svolge professioni di livello elevato. Il 24% è laureato. È andato – sta andando – via un pezzo consistente di classe dirigente. Si calcola che in totale, dal duemila a oggi, abbiano lasciato stabilmente il Sud, cambiando residenza, circa 140mila giovani laureati. Ad andarsene, come sempre più spesso accade, sono sempre i più i bravi (spesso con una laurea scientifica): nel 2004 ha lasciato il Sud il 25% dei laureati con il massimo dei voti; tre anni più tardi, nel 2007, la percentuale era già balzata a quasi il 38%. Ad andarsene sono sempre più i giovani con una laurea scientifica. Quelli che sono rimasti difficilmente hanno trovato occupazione. Tanto che lo Svimez parla di un brain waste, di uno spreco dei cervelli, che nel Sud accompagna e supera il brain drain, il drenaggio dei cervelli. La capacità di drenaggio da parte del Centro e del Nordè stata tale che nel 2008 il 41,5% dei meridionali laureati occupati lavorava lontano da casa: dieci punti percentuali in più che nel 2001. Negli ultimi anni, dunque, abbiamo assistito non a una «fuga», ma a una «rotta dei cervelli»: un fuggire disperato. Ma nemmeno i giovani del Centro e del Nord sono rimasti aggrappati alle gonnelle della mamma. Il numero di giovani laureati italiani (del Sud, dal Centro e del Nord) che sono andati all’estero per compiere almeno la prima esperienza di lavoro è del tutto analoga a quella degli altri Paesi europei. Anzi, i giovani italiani con una laurea scientifica che lavorano all’estero è persino superiore a quella dei loro coetanei francesi, inglesi o tedeschi. E, in media, sono più bravi. Altro che vicino a mamma e papà. Purché ci sia lavoro, i giovani italiani sono più che disponibili a lasciare la propria terra e dimostrare la loro bravura. Purché ci sia lavoro, appunto.

L’Unità 08.02.12

"Gli stereotipi dei tecnici", di Miguel Gotor

Ancora un inciampo comunicativo, l’ennesimo, da parte del governo sul tema del lavoro. Questa volta è toccato al ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri sentenziare che i giovani italiani pretenderebbero il posto fisso per continuare a stare «accanto a mammà». Sorprende l’uso di stereotipi ormai consunti che sembrano staccati da un album di fotografie ingiallite in cui si racconta un’Italia che non esiste più da almeno trent’anni: quella col posto fisso che il padre trasmetteva al figlio al momento del pensionamento come un’eredità di famiglia e dove, per sentirsi «moderni», bastava prendersela con i «figli mammoni», sempre quelli degli altri, naturalmente, e intanto iscrivere i propri a «informatica» o a «ingegneria» così troveranno di sicuro un buon lavoro… Del resto, già a metà degli anni Ottanta si rideva guardando su Drive in le avventure di uno studente calabrese fuori corso «salito» a Milano per laurearsi alla «Bbbocconi!». È possibile che siamo ancora tutti fermi lì, come tanti fossili ideologici con i nostri tic e battute?

Eppure questo gusto per la caricatura vintage denuncia un distacco dalla realtà del mondo del lavoro di oggi – si direbbe una rimozione tecnocratica – che merita di essere approfondito. Anzitutto rivela una difficoltà a uscire dal proprio orizzonte sociale, che un tempo si sarebbe detto di classe: l’Italia che lavora, soprattutto quella giovanile, non è composta soltanto dai figli dell’alta borghesia urbana delle libere professioni o dell’accademia, per antichissima tradizione nel nostro Paese a vocazione cosmopolita ed esterofila. E non è formata solo da quanti vivono l’ebbrezza della mobilità e il gusto creativo per la flessibilità a Bruxelles, Ginevra o New York, tra studi di avvocati, organizzazioni internazionali e uffici di consulenza finanziaria, con stipendi e «fringe benefits» di qualche migliaio di euro.

Il valore di queste forme di lavoro è fuori discussione, ma non è condivisibile che il punto di vista di una parte minoritaria e privilegiata della società pretenda di trasformarsi in senso comune e il senso comune prima in caricatura e poi in sberleffo. Tutti quanti vorrebbero essere flessibili a quelle condizioni, ma chi governa ha il dovere di alzare la testa dai propri saperi libreschi o dalle eccezionali esperienze professionali che hanno caratterizzato la sua vita: e non soltanto perché un altro mondo è possibile, ma perché esiste per davvero al di fuori di quell’esclusivo recinto e la politica, anche quando è tecnica, ha il dovere civile di tenerlo bene in conto.

In secondo luogo, quest’atteggiamento sembra alimentato da una sorta di «yuppismo» di ritorno che lascia interdetti. Come se fossimo rimasti ibernati dentro gli anni Ottanta, ci risvegliassimo all’improvviso da un brutto sogno, e Berlusconi, con Sacconi e Brunetta, non avessero governato per otto degli ultimi dieci anni, partecipando al fallimento delle politiche neoliberiste su scala mondiale. Sono trent’anni che chi entra nel mondo del lavoro lo fa con contratti a tempo determinato e trascorre il periodo più importante della sua vita, quello della formazione e dell’entusiasmo, passando da un mestiere all’altro. Sono trent’anni che i giovani italiani hanno scoperto il precariato come unica dimensione della loro vita professionale, presente e futura. Altro che posto fisso!

Nel frattempo, i ragazzi del sud hanno ripreso a emigrare, la disoccupazione giovanile è aumentata ovunque e i salari non superano i 1000-1200 euro, se e quando si ha la possibilità di averne uno. La maggioranza dei giovani che non hanno la fortuna di essere protetti dalla famiglia o dalla rendita, vive, in un periodo di crisi come questo, sulla soglia della povertà, a un passo da un baratro che non osa guardare e gli impedisce di progettare il futuro: basta un incidente, un errore, un divorzio con alimenti da pagare e ci si ritrova stritolati dall’angoscia di non farcela più. E non si parla solo di giovani proletari, che pure meritano la massima attenzione, ma anche dei figli della classe media, i primi a dover tollerare la frustrazione di avere prospettive di vita inferiori a quelle dei genitori. E non si può nemmeno ignorare che in intere regioni del Paese la pensione della nonna o l’aiuto dei genitori – quando questo è possibile – costituiscono una forma preziosa di welfare integrativo che supplisce a ben altre mancanze pubbliche e private.

Dopo il pesante intervento sulle pensioni, sulla questione della riforma del lavoro si gioca una partita decisiva per la durata di questo governo che non può tollerare maggioranze variabili o intermittenti. Servono dunque una maggiore sensibilità politica, culturale e civile giacché, quando si affronta un simile nodo, si toccano la speranza dell’uomo di realizzare e trasformare se stesso e la sua dignità più profonda come persona: e allora, sarebbero quanto meno auspicabili una maggiore attenzione comunicativa e meno battute che, in tempi difficili come questi e dopo i sacrifici chiesti ai lavoratori, non fanno ridere nessuno.

La Repubblica 07.02.12