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“Gli stereotipi dei tecnici”, di Miguel Gotor

Ancora un inciampo comunicativo, l’ennesimo, da parte del governo sul tema del lavoro. Questa volta è toccato al ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri sentenziare che i giovani italiani pretenderebbero il posto fisso per continuare a stare «accanto a mammà». Sorprende l’uso di stereotipi ormai consunti che sembrano staccati da un album di fotografie ingiallite in cui si racconta un’Italia che non esiste più da almeno trent’anni: quella col posto fisso che il padre trasmetteva al figlio al momento del pensionamento come un’eredità di famiglia e dove, per sentirsi «moderni», bastava prendersela con i «figli mammoni», sempre quelli degli altri, naturalmente, e intanto iscrivere i propri a «informatica» o a «ingegneria» così troveranno di sicuro un buon lavoro… Del resto, già a metà degli anni Ottanta si rideva guardando su Drive in le avventure di uno studente calabrese fuori corso «salito» a Milano per laurearsi alla «Bbbocconi!». È possibile che siamo ancora tutti fermi lì, come tanti fossili ideologici con i nostri tic e battute?

Eppure questo gusto per la caricatura vintage denuncia un distacco dalla realtà del mondo del lavoro di oggi – si direbbe una rimozione tecnocratica – che merita di essere approfondito. Anzitutto rivela una difficoltà a uscire dal proprio orizzonte sociale, che un tempo si sarebbe detto di classe: l’Italia che lavora, soprattutto quella giovanile, non è composta soltanto dai figli dell’alta borghesia urbana delle libere professioni o dell’accademia, per antichissima tradizione nel nostro Paese a vocazione cosmopolita ed esterofila. E non è formata solo da quanti vivono l’ebbrezza della mobilità e il gusto creativo per la flessibilità a Bruxelles, Ginevra o New York, tra studi di avvocati, organizzazioni internazionali e uffici di consulenza finanziaria, con stipendi e «fringe benefits» di qualche migliaio di euro.

Il valore di queste forme di lavoro è fuori discussione, ma non è condivisibile che il punto di vista di una parte minoritaria e privilegiata della società pretenda di trasformarsi in senso comune e il senso comune prima in caricatura e poi in sberleffo. Tutti quanti vorrebbero essere flessibili a quelle condizioni, ma chi governa ha il dovere di alzare la testa dai propri saperi libreschi o dalle eccezionali esperienze professionali che hanno caratterizzato la sua vita: e non soltanto perché un altro mondo è possibile, ma perché esiste per davvero al di fuori di quell’esclusivo recinto e la politica, anche quando è tecnica, ha il dovere civile di tenerlo bene in conto.

In secondo luogo, quest’atteggiamento sembra alimentato da una sorta di «yuppismo» di ritorno che lascia interdetti. Come se fossimo rimasti ibernati dentro gli anni Ottanta, ci risvegliassimo all’improvviso da un brutto sogno, e Berlusconi, con Sacconi e Brunetta, non avessero governato per otto degli ultimi dieci anni, partecipando al fallimento delle politiche neoliberiste su scala mondiale. Sono trent’anni che chi entra nel mondo del lavoro lo fa con contratti a tempo determinato e trascorre il periodo più importante della sua vita, quello della formazione e dell’entusiasmo, passando da un mestiere all’altro. Sono trent’anni che i giovani italiani hanno scoperto il precariato come unica dimensione della loro vita professionale, presente e futura. Altro che posto fisso!

Nel frattempo, i ragazzi del sud hanno ripreso a emigrare, la disoccupazione giovanile è aumentata ovunque e i salari non superano i 1000-1200 euro, se e quando si ha la possibilità di averne uno. La maggioranza dei giovani che non hanno la fortuna di essere protetti dalla famiglia o dalla rendita, vive, in un periodo di crisi come questo, sulla soglia della povertà, a un passo da un baratro che non osa guardare e gli impedisce di progettare il futuro: basta un incidente, un errore, un divorzio con alimenti da pagare e ci si ritrova stritolati dall’angoscia di non farcela più. E non si parla solo di giovani proletari, che pure meritano la massima attenzione, ma anche dei figli della classe media, i primi a dover tollerare la frustrazione di avere prospettive di vita inferiori a quelle dei genitori. E non si può nemmeno ignorare che in intere regioni del Paese la pensione della nonna o l’aiuto dei genitori – quando questo è possibile – costituiscono una forma preziosa di welfare integrativo che supplisce a ben altre mancanze pubbliche e private.

Dopo il pesante intervento sulle pensioni, sulla questione della riforma del lavoro si gioca una partita decisiva per la durata di questo governo che non può tollerare maggioranze variabili o intermittenti. Servono dunque una maggiore sensibilità politica, culturale e civile giacché, quando si affronta un simile nodo, si toccano la speranza dell’uomo di realizzare e trasformare se stesso e la sua dignità più profonda come persona: e allora, sarebbero quanto meno auspicabili una maggiore attenzione comunicativa e meno battute che, in tempi difficili come questi e dopo i sacrifici chiesti ai lavoratori, non fanno ridere nessuno.

La Repubblica 07.02.12

"Ogni anno sessantamila laureati si spostano da Sud a Nord per lavoro", di Luisa Grion

Tra pendolari e cambi di residenza i dati smentiscono il presunto immobilismo. A un anno dalla laurea il giovane meridionale si trova distante da casa 214 chilometri. Eppur si muovono: meno di quanto si faceva negli anni Sessanta, in misura minore anche rispetto agli anni pre-crisi, ma gli italiani, i giovani soprattutto, vanno a cercare il lavoro dove c’è. Il guaio è che spesso non lo trovano. Stare vicino a mamma e papà non è una priorità: certo aiuta se il lavoro è precario e lo stipendio è basso o se i genitori coprono il vuoto assistenziale legato – in caso di figli piccoli – alla mancanza di asili nido. Ma spostarsi non è un problema. Secondo un’indagine elaborata dall’Isfol con il dipartimento demografico della Sapienza di Roma il 72 per cento dei giovani fra i 20 e i 34 anni è disponibile a spostarsi pur di trovare lavoro. Il 17 per cento mette in conto di vivere in un altro paese europeo, quasi il 10 è disponibile anche a cambiare continente. Una tendenza confermata dai dati dello Svimez, dell’Istat e di Almalaurea. Le resistenze a cambiare città o regione sono basse, specialmente in presenza di un titolo di studio elevato. E il cambio di mentalità è generalizzato, riguarda sia il Nord che il Sud, sia i maschi che le femmine.

Il SUD CHE VIAGGIA
Nel 2010, spiega lo Svimez, 250 mila persone si sono spostate dalle regioni meridionali ad altre aree del Paese. Di queste 114 mila hanno effettuato il cambio di residenza (erano 70 mila solo a metà degli anni 90) e 134 mila si sono attrezzati con la mobilità a lungo raggio e il pendolarismo. Volendo considerare il lungo periodo le quote lievitano: dal 1990 al 2005, certifica la Banca d’Italia, il passaggio dal Sud al Nord ha coinvolto due milioni di persone. “Dire che i giovani vogliono starsene con papà e mamma è un luogo comune – assicura Luca Bianchi, vicedirettore dello Svimez – in realtà c’è una grande disponibilità sia a muoversi che ad accettare occupazioni non corrispondenti al titolo di studio. E’ vero che negli ultimi mesi in fenomeno si è ridimensionato: fra il 2008 e il 2010 ci sono state 15 mila migrazioni in meno, ma questo è un effetto della crisi”.

LE DONNE
Anche loro sono disposte a partire: nel 2009, prendendo in considerazione i titoli di studio medio-alti (diploma e laurea), il 54,6 per cento degli spostamenti per lavoro da Sud a Nord è dovuto alla componente femminile e ciò spiega in parte il crollo delle nascite nelle regioni meridionali. Fra le laureate, dato nazionale di Almalaurea, solo il 4,9 per cento delle ragazze non è disponibile a spostarsi.

I LAUREATI
Nel 2010, dati Svimez, quasi 60 mila laureati si sono spostati dal Sud a Nord per motivi di lavoro (oltre 18 mila con cambio di residenza) e 1.200 sono “fuggiti” all’estero. Almalaurea certifica che solo il 3,8 per cento dei laureati italiani non è disponibile a trasferimenti. Di fatto, ad un anno dalla tesi, i laureati meridionali lavoro a 214 chilometri di distanza media dal comune di nascita, ma la media italiana è comunque alta (88 Km). La disponibilità a spostarsi aumenta all’aumentare del reddito della famiglia di provenienza. “Einaudi diceva che per governare bisogna conoscere” ricorda Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea “affermare che i giovani tendono all’immobilismo è un errore smentito dalle cifre. Non è poggiando su vecchi luoghi comuni che troveremo la strada per uscire dalla crisi”.

La Repubblica 07.02.12

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“GIOVANI INTRAPRENDENTI CI SONO MA DIETRO C’E’ UNAREALTA’ DRAMMATICA E POCHE OPPORTUNITA'”, di Flavia Amabile

E allora: bamboccioni, sfigati, monotoni nella loro mania del posto fisso. Ma soprattutto ecco che cosa sono i giovani italiani nell`immaginario collettivo di chi sta al governo: i soliti, inguaribili mammoni.

Giuseppe Roma, direttore generale del Censis, ha sentito che cosa sostiene sui giovani il ministro dell`Interno Anna Maria Cancellieri? «Ancora una frase? Ma non si può andare avanti con le frasi…».

Stavolta l`analisi è: «Noi italiani siamo fermi al posto fisso, nella stessa città di mamma e papà». Insomma, mammoni. E` così? «Su questo tema stiamo realizzando proprio in questi giorni un`elaborazione come Censis e la situazione è davvero drammatica. Il mondo giovanile ha una difficoltà notevole. All`interno di coloro che hanno fra i 25 e i 29 anni il 31% è del tutto inattivo. E` una cifra enorme».

Quanti sono all`estero? «In Francia sono il 12,5%, il Regno Unito il 15%, la Germania il 17,5%. In Italia è quasi il doppio: abbiamo un esercito fuori dai giochi. Ora, io penso che ci sia sempre un equilibrio tra oggettivo e soggettivo. In un altro periodo storico ci sarebbero stati fiumi di giovani alla ricerca di un posto in un altro Paese europeo.

Li abbiamo, e sono i più intraprendenti, ma restano una minoranza.

Non abbiamo il contrario, invece, perché in Italia ci sono poche opportunità».

In breve: la maggioranza sono mammoni.

Perché? «Perché ci sono persone che hanno minori capacità di intraprendenza personale.

O forse perché hanno una formazione poco positiva: hanno scelto il liceo senza crederci o una scadente formazione tecnica e professionale quindi non hanno un mestiere. Oppure non hanno spirito d`iniziativa e nemmeno qualcuno a cui rivolgersi perché un`altra anomalia italiana è che il 70-80% del lavoro non si trova attraverso canali formali».

Dunque, i mammoni italiani sono più numerosi che nel resto d`Europa. Ma almeno la quota di intraprendenti è abbastanza simile? «Direi di no. All`estero la formazione è più legata al lavoro fin dalle elementari.

Da noi prevale la formazione generalista, la liceizzazione che poi porta a università altrettanto generiche. Mi viene da dire addirittura che le università italiane sono mammone. Abbiamo atenei adatti a formare un`élite dove però studiano milioni di giovani. La protezione è una tendenza tutta italiana, un frutto della cultura familiare. In Francia i giovani hanno un sussidio, vengono resi autonomi».

In Italia allora si potrebbe dire che poiché non esiste nulla di tutto questo a` livello pubblico le famiglie sono costrette a aiutare da sole i propri figli.

«Ma è una protezione che ottunde la voglia di autonomia. Il problema è che di tutto questo parliamo da quindici anni ma, al di là delle parole e delle lamentele, da parte dei governi non esiste un solo provvedimento che dia autonomia ai giovani ma nemmeno che aumenti la nostra capacità produttiva. Quello dei giovani mammoni è un problema drammatico, ma è evidente che durerà ancora per poco».

Perché? «Perché ad un certo punto i risparmi dei genitori finiranno. La riforma delle pensioni c`è stata, chi faceva un doppio lavoro non potrà più farlo, i ragazzi verranno per necessità spinti ad avere un maggior spirito d`iniziativa.

Purtroppo non ci saranno opportunità di lavoro perché non aumentare la capacità produttiva vuol dire lasciare i problemi irrisolti. Siamo uno dei Paesi con la più bassa produttività, non possiamo continuare a dividere sempre la stessa torta».

Questo governo sostiene di voler fare qualcosa, ha iniziato con le liberalizzazioni…

«Che cosa si può ottenere con le liberalizzazioni? Al massimo un aumento dell`occupazione attraverso una ridistribuzíone delle risorse esistenti. Vuol dire seguire un modello statico, si spera di innescare un abbassamento dei prezzi e quindi di rendere più accettabili i salari esistenti. Vuol dire giocare in difesa non si sta espandendo il mercato, non si sta creando la possibilità per i giovani di svolgere un nuovo lavoro. Si continua solo a tagliare a fette sempre più piccole la stessa torta».

La Stampa 07.02.12

“Ogni anno sessantamila laureati si spostano da Sud a Nord per lavoro”, di Luisa Grion

Tra pendolari e cambi di residenza i dati smentiscono il presunto immobilismo. A un anno dalla laurea il giovane meridionale si trova distante da casa 214 chilometri. Eppur si muovono: meno di quanto si faceva negli anni Sessanta, in misura minore anche rispetto agli anni pre-crisi, ma gli italiani, i giovani soprattutto, vanno a cercare il lavoro dove c’è. Il guaio è che spesso non lo trovano. Stare vicino a mamma e papà non è una priorità: certo aiuta se il lavoro è precario e lo stipendio è basso o se i genitori coprono il vuoto assistenziale legato – in caso di figli piccoli – alla mancanza di asili nido. Ma spostarsi non è un problema. Secondo un’indagine elaborata dall’Isfol con il dipartimento demografico della Sapienza di Roma il 72 per cento dei giovani fra i 20 e i 34 anni è disponibile a spostarsi pur di trovare lavoro. Il 17 per cento mette in conto di vivere in un altro paese europeo, quasi il 10 è disponibile anche a cambiare continente. Una tendenza confermata dai dati dello Svimez, dell’Istat e di Almalaurea. Le resistenze a cambiare città o regione sono basse, specialmente in presenza di un titolo di studio elevato. E il cambio di mentalità è generalizzato, riguarda sia il Nord che il Sud, sia i maschi che le femmine.

Il SUD CHE VIAGGIA
Nel 2010, spiega lo Svimez, 250 mila persone si sono spostate dalle regioni meridionali ad altre aree del Paese. Di queste 114 mila hanno effettuato il cambio di residenza (erano 70 mila solo a metà degli anni 90) e 134 mila si sono attrezzati con la mobilità a lungo raggio e il pendolarismo. Volendo considerare il lungo periodo le quote lievitano: dal 1990 al 2005, certifica la Banca d’Italia, il passaggio dal Sud al Nord ha coinvolto due milioni di persone. “Dire che i giovani vogliono starsene con papà e mamma è un luogo comune – assicura Luca Bianchi, vicedirettore dello Svimez – in realtà c’è una grande disponibilità sia a muoversi che ad accettare occupazioni non corrispondenti al titolo di studio. E’ vero che negli ultimi mesi in fenomeno si è ridimensionato: fra il 2008 e il 2010 ci sono state 15 mila migrazioni in meno, ma questo è un effetto della crisi”.

LE DONNE
Anche loro sono disposte a partire: nel 2009, prendendo in considerazione i titoli di studio medio-alti (diploma e laurea), il 54,6 per cento degli spostamenti per lavoro da Sud a Nord è dovuto alla componente femminile e ciò spiega in parte il crollo delle nascite nelle regioni meridionali. Fra le laureate, dato nazionale di Almalaurea, solo il 4,9 per cento delle ragazze non è disponibile a spostarsi.

I LAUREATI
Nel 2010, dati Svimez, quasi 60 mila laureati si sono spostati dal Sud a Nord per motivi di lavoro (oltre 18 mila con cambio di residenza) e 1.200 sono “fuggiti” all’estero. Almalaurea certifica che solo il 3,8 per cento dei laureati italiani non è disponibile a trasferimenti. Di fatto, ad un anno dalla tesi, i laureati meridionali lavoro a 214 chilometri di distanza media dal comune di nascita, ma la media italiana è comunque alta (88 Km). La disponibilità a spostarsi aumenta all’aumentare del reddito della famiglia di provenienza. “Einaudi diceva che per governare bisogna conoscere” ricorda Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea “affermare che i giovani tendono all’immobilismo è un errore smentito dalle cifre. Non è poggiando su vecchi luoghi comuni che troveremo la strada per uscire dalla crisi”.

La Repubblica 07.02.12

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“GIOVANI INTRAPRENDENTI CI SONO MA DIETRO C’E’ UNAREALTA’ DRAMMATICA E POCHE OPPORTUNITA'”, di Flavia Amabile

E allora: bamboccioni, sfigati, monotoni nella loro mania del posto fisso. Ma soprattutto ecco che cosa sono i giovani italiani nell`immaginario collettivo di chi sta al governo: i soliti, inguaribili mammoni.

Giuseppe Roma, direttore generale del Censis, ha sentito che cosa sostiene sui giovani il ministro dell`Interno Anna Maria Cancellieri? «Ancora una frase? Ma non si può andare avanti con le frasi…».

Stavolta l`analisi è: «Noi italiani siamo fermi al posto fisso, nella stessa città di mamma e papà». Insomma, mammoni. E` così? «Su questo tema stiamo realizzando proprio in questi giorni un`elaborazione come Censis e la situazione è davvero drammatica. Il mondo giovanile ha una difficoltà notevole. All`interno di coloro che hanno fra i 25 e i 29 anni il 31% è del tutto inattivo. E` una cifra enorme».

Quanti sono all`estero? «In Francia sono il 12,5%, il Regno Unito il 15%, la Germania il 17,5%. In Italia è quasi il doppio: abbiamo un esercito fuori dai giochi. Ora, io penso che ci sia sempre un equilibrio tra oggettivo e soggettivo. In un altro periodo storico ci sarebbero stati fiumi di giovani alla ricerca di un posto in un altro Paese europeo.

Li abbiamo, e sono i più intraprendenti, ma restano una minoranza.

Non abbiamo il contrario, invece, perché in Italia ci sono poche opportunità».

In breve: la maggioranza sono mammoni.

Perché? «Perché ci sono persone che hanno minori capacità di intraprendenza personale.

O forse perché hanno una formazione poco positiva: hanno scelto il liceo senza crederci o una scadente formazione tecnica e professionale quindi non hanno un mestiere. Oppure non hanno spirito d`iniziativa e nemmeno qualcuno a cui rivolgersi perché un`altra anomalia italiana è che il 70-80% del lavoro non si trova attraverso canali formali».

Dunque, i mammoni italiani sono più numerosi che nel resto d`Europa. Ma almeno la quota di intraprendenti è abbastanza simile? «Direi di no. All`estero la formazione è più legata al lavoro fin dalle elementari.

Da noi prevale la formazione generalista, la liceizzazione che poi porta a università altrettanto generiche. Mi viene da dire addirittura che le università italiane sono mammone. Abbiamo atenei adatti a formare un`élite dove però studiano milioni di giovani. La protezione è una tendenza tutta italiana, un frutto della cultura familiare. In Francia i giovani hanno un sussidio, vengono resi autonomi».

In Italia allora si potrebbe dire che poiché non esiste nulla di tutto questo a` livello pubblico le famiglie sono costrette a aiutare da sole i propri figli.

«Ma è una protezione che ottunde la voglia di autonomia. Il problema è che di tutto questo parliamo da quindici anni ma, al di là delle parole e delle lamentele, da parte dei governi non esiste un solo provvedimento che dia autonomia ai giovani ma nemmeno che aumenti la nostra capacità produttiva. Quello dei giovani mammoni è un problema drammatico, ma è evidente che durerà ancora per poco».

Perché? «Perché ad un certo punto i risparmi dei genitori finiranno. La riforma delle pensioni c`è stata, chi faceva un doppio lavoro non potrà più farlo, i ragazzi verranno per necessità spinti ad avere un maggior spirito d`iniziativa.

Purtroppo non ci saranno opportunità di lavoro perché non aumentare la capacità produttiva vuol dire lasciare i problemi irrisolti. Siamo uno dei Paesi con la più bassa produttività, non possiamo continuare a dividere sempre la stessa torta».

Questo governo sostiene di voler fare qualcosa, ha iniziato con le liberalizzazioni…

«Che cosa si può ottenere con le liberalizzazioni? Al massimo un aumento dell`occupazione attraverso una ridistribuzíone delle risorse esistenti. Vuol dire seguire un modello statico, si spera di innescare un abbassamento dei prezzi e quindi di rendere più accettabili i salari esistenti. Vuol dire giocare in difesa non si sta espandendo il mercato, non si sta creando la possibilità per i giovani di svolgere un nuovo lavoro. Si continua solo a tagliare a fette sempre più piccole la stessa torta».

La Stampa 07.02.12

"La riforma elettorale non potrà nascere dall'intesa esclusiva Pdl-Pd", di Stefano Folli

La riforma elettorale costituisce, come è noto, uno straordinario «evergreen» del dibattito politico. Un tema che non tramonta mai e anzi risorge dalle sue ceneri a cadenze regolari: senza portare quasi mai a decisioni utili, tant’è che abbiamo ancora la legge elettorale Calderoli, il cosiddetto “porcellum”, approvata da una maggioranza di centrodestra più di sei anni fa.

Nessuno in questo arco di tempo ha voluto o potuto modificarla: nemmeno il centrosinistra di Prodi che governò fra il 2006 e il 2008 in base proprio al “porcellum” e si guardò dal riformarlo.
E oggi? La scena è cambiata, in apparenza. Il governo tecnico di Monti sta rimodellando il sistema politico per il solo fatto di esistere. E i partiti devono adeguarsi alla nuova realtà, come li ha più volte sollecitati il capo dello Stato. Sulla carta la riforma della legge elettorale dovrebbe arrivare al termine di un processo di rinnovamento complessivo delle istituzioni (bicameralismo, numero dei parlamentari, poteri del premier, eccetera). In pratica non è così: è più facile e conveniente, nonostante tutto, cercare (almeno cercare) un’intesa sul modello elettorale che procedere insieme alle modifiche alla Costituzione.

Del resto sarebbe davvero molto grave se le forze politiche si presentassero agli italiani nel 2013 con la vecchia legge, quella che nega ai cittadini la scelta dei propri rappresentanti e fissa un premio di maggioranza abnorme, al di fuori di qualsiasi soglia.
Ecco allora che da qualche tempo si parla di un’intesa di massima raggiunta in via ufficiosa fra esponenti del Pdl e del Pd. A grandi linee riguarderebbe un modello elettorale a metà strada fra il sistema tedesco e quello spagnolo, così da accontentare i due maggiori partiti, senza indispettire “a priori” i rispettivi alleati. Tutto questo sulla carta, perché poi le intese tecniche vanno calibrate intorno a un tavolo politico. E qui tutto si complica.

Domenica Berlusconi ha rilasciato un’intervista a “Libero”, poi in parte corretta, in cui si è pronunciato in modo esplicito a favore di un accordo diretto fra Pdl e Pd, con l’obiettivo di spazzare via le forze minori, compresa l’Udc di Casini e persino, fatto singolare, la Lega. Tutto questo grazie a una «soglia di sbarramento» abbastanza alta da salvaguardare un bipolarismo che per la verità finirebbe per assomigliare a una forma di bipartitismo. Pdl e Pd, appunto, lasciando agli altri un certo numero di seggi.
Il tema elettorale è fra i più ostici per la pubblica opinione. Ma in questo caso è difficile non vedervi i risvolti politici. Cosa vuole Berlusconi? Favorire il compromesso riformatore o sabotarlo per mantenere in vita il vecchio “porcellum”? La domanda è legittima perché il tono dell’intervista sembra volto a mettere in imbarazzo il Pd e irritare il fronte degli esclusi. Lega e Italia dei Valori sono già sul sentiero di guerra e gli unici a fare buon viso a cattivo gioco, con una certa astuzia, sono Casini e Fini.
A sua volta il Pd, per bocca di Luciano Violante, ha garantito (vedi la “Stampa” di ieri) che il dialogo deve riguardare tutti «perché le riforme si fanno col maggiore numero di forze politiche possibili. Senza rapporti privilegiati e senza escludere nessuno». Quindi il Pd si rende conto del rischio di un confronto a due. Berlusconi invece lo rivendica. La contraddizione per ora è evidente.

Il Sole 24 Ore 07.02.12

“La riforma elettorale non potrà nascere dall’intesa esclusiva Pdl-Pd”, di Stefano Folli

La riforma elettorale costituisce, come è noto, uno straordinario «evergreen» del dibattito politico. Un tema che non tramonta mai e anzi risorge dalle sue ceneri a cadenze regolari: senza portare quasi mai a decisioni utili, tant’è che abbiamo ancora la legge elettorale Calderoli, il cosiddetto “porcellum”, approvata da una maggioranza di centrodestra più di sei anni fa.

Nessuno in questo arco di tempo ha voluto o potuto modificarla: nemmeno il centrosinistra di Prodi che governò fra il 2006 e il 2008 in base proprio al “porcellum” e si guardò dal riformarlo.
E oggi? La scena è cambiata, in apparenza. Il governo tecnico di Monti sta rimodellando il sistema politico per il solo fatto di esistere. E i partiti devono adeguarsi alla nuova realtà, come li ha più volte sollecitati il capo dello Stato. Sulla carta la riforma della legge elettorale dovrebbe arrivare al termine di un processo di rinnovamento complessivo delle istituzioni (bicameralismo, numero dei parlamentari, poteri del premier, eccetera). In pratica non è così: è più facile e conveniente, nonostante tutto, cercare (almeno cercare) un’intesa sul modello elettorale che procedere insieme alle modifiche alla Costituzione.

Del resto sarebbe davvero molto grave se le forze politiche si presentassero agli italiani nel 2013 con la vecchia legge, quella che nega ai cittadini la scelta dei propri rappresentanti e fissa un premio di maggioranza abnorme, al di fuori di qualsiasi soglia.
Ecco allora che da qualche tempo si parla di un’intesa di massima raggiunta in via ufficiosa fra esponenti del Pdl e del Pd. A grandi linee riguarderebbe un modello elettorale a metà strada fra il sistema tedesco e quello spagnolo, così da accontentare i due maggiori partiti, senza indispettire “a priori” i rispettivi alleati. Tutto questo sulla carta, perché poi le intese tecniche vanno calibrate intorno a un tavolo politico. E qui tutto si complica.

Domenica Berlusconi ha rilasciato un’intervista a “Libero”, poi in parte corretta, in cui si è pronunciato in modo esplicito a favore di un accordo diretto fra Pdl e Pd, con l’obiettivo di spazzare via le forze minori, compresa l’Udc di Casini e persino, fatto singolare, la Lega. Tutto questo grazie a una «soglia di sbarramento» abbastanza alta da salvaguardare un bipolarismo che per la verità finirebbe per assomigliare a una forma di bipartitismo. Pdl e Pd, appunto, lasciando agli altri un certo numero di seggi.
Il tema elettorale è fra i più ostici per la pubblica opinione. Ma in questo caso è difficile non vedervi i risvolti politici. Cosa vuole Berlusconi? Favorire il compromesso riformatore o sabotarlo per mantenere in vita il vecchio “porcellum”? La domanda è legittima perché il tono dell’intervista sembra volto a mettere in imbarazzo il Pd e irritare il fronte degli esclusi. Lega e Italia dei Valori sono già sul sentiero di guerra e gli unici a fare buon viso a cattivo gioco, con una certa astuzia, sono Casini e Fini.
A sua volta il Pd, per bocca di Luciano Violante, ha garantito (vedi la “Stampa” di ieri) che il dialogo deve riguardare tutti «perché le riforme si fanno col maggiore numero di forze politiche possibili. Senza rapporti privilegiati e senza escludere nessuno». Quindi il Pd si rende conto del rischio di un confronto a due. Berlusconi invece lo rivendica. La contraddizione per ora è evidente.

Il Sole 24 Ore 07.02.12

"Su Roma da sabato non nevica più eppure le scuole rimangono chiuse", di Aldo Cazzullo

Finora la si è buttata sul ridere. L’ultima, di ieri: facciamo sì le Olimpiadi a Roma, ma invernali. Invece occorre dirlo con chiarezza: una metropoli europea, capitale di due Stati, che non riapre le scuole fino al mercoledì dopo che ha smesso di nevicare il sabato mattina, rappresenta un autentico scandalo.
Sono tre giorni che a Roma splende il sole. E sono tre giorni che i servizi pubblici funzionano a rilento, chiamare un taxi è complicato (sabato scorso, impossibile), le scuole sono appunto chiuse. Ma l’aspetto forse ancora più grave è che tutto questo — tranne in chi è stato toccato di persona dal disservizio, come gli automobilisti bloccati sul raccordo — non desta sconcerto ma ilarità, non indignazione ma rassegnazione più o meno divertita.
Intendiamoci: la proverbiale tolleranza romana, quando non oltrepassa il labile confine del menefreghismo, è un tratto invidiabile. Che Roma non sia preparata alla neve come le città del Nord, è normale. Che il sindaco le abbia sbagliate quasi tutte, è pacifico. Ma attribuirgli ogni colpa non basta. Alemanno ha fatto bene a chiudere le scuole il venerdì, giorno dell’emergenza vera. Dopo però si è intestardito nella polemica con la Protezione civile, passando il tempo a rimbalzare da Twitter e Sky, anziché concentrarsi sui soccorsi. Il risultato è che nella capitale non si sono prese neppure le misure più ovvie ed elementari.
Ma il problema non è esaurito dalle lacune dell’amministrazione comunale. E non è nemmeno limitato a Roma, che pure si è comportata in modo da confermare i peggiori pregiudizi nordisti per i prossimi decenni. La passività, l’attesa disincantata degli eventi, la rassegnazione a servizi e amministratori pessimi è la metafora di un Paese che si è finalmente accorto di essere in crisi, ma non sempre e non dappertutto ha reagito come gli impone il suo enorme potenziale. E anche le foto di Roma bella addormentata sotto la neve ci ricordano che abitiamo città straordinarie per arte e cultura, ma non sempre ne siamo all’altezza.

Il Corriere della Sera 07.02.12

“Su Roma da sabato non nevica più eppure le scuole rimangono chiuse”, di Aldo Cazzullo

Finora la si è buttata sul ridere. L’ultima, di ieri: facciamo sì le Olimpiadi a Roma, ma invernali. Invece occorre dirlo con chiarezza: una metropoli europea, capitale di due Stati, che non riapre le scuole fino al mercoledì dopo che ha smesso di nevicare il sabato mattina, rappresenta un autentico scandalo.
Sono tre giorni che a Roma splende il sole. E sono tre giorni che i servizi pubblici funzionano a rilento, chiamare un taxi è complicato (sabato scorso, impossibile), le scuole sono appunto chiuse. Ma l’aspetto forse ancora più grave è che tutto questo — tranne in chi è stato toccato di persona dal disservizio, come gli automobilisti bloccati sul raccordo — non desta sconcerto ma ilarità, non indignazione ma rassegnazione più o meno divertita.
Intendiamoci: la proverbiale tolleranza romana, quando non oltrepassa il labile confine del menefreghismo, è un tratto invidiabile. Che Roma non sia preparata alla neve come le città del Nord, è normale. Che il sindaco le abbia sbagliate quasi tutte, è pacifico. Ma attribuirgli ogni colpa non basta. Alemanno ha fatto bene a chiudere le scuole il venerdì, giorno dell’emergenza vera. Dopo però si è intestardito nella polemica con la Protezione civile, passando il tempo a rimbalzare da Twitter e Sky, anziché concentrarsi sui soccorsi. Il risultato è che nella capitale non si sono prese neppure le misure più ovvie ed elementari.
Ma il problema non è esaurito dalle lacune dell’amministrazione comunale. E non è nemmeno limitato a Roma, che pure si è comportata in modo da confermare i peggiori pregiudizi nordisti per i prossimi decenni. La passività, l’attesa disincantata degli eventi, la rassegnazione a servizi e amministratori pessimi è la metafora di un Paese che si è finalmente accorto di essere in crisi, ma non sempre e non dappertutto ha reagito come gli impone il suo enorme potenziale. E anche le foto di Roma bella addormentata sotto la neve ci ricordano che abitiamo città straordinarie per arte e cultura, ma non sempre ne siamo all’altezza.

Il Corriere della Sera 07.02.12