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"Ecco il 'Pirellone bis', costa 570 milioni. Formigoni ha un eliporto e la foresteria", di Davide Carlucci

Il governatore ha a disposizione due piani: per arredare l’ufficio e l’appartamento sono stati spesi 127mila euro. Un tavolo da 11mila euro e un sofà da oltre 4mila. La più costosa operazione edilizia per la casta è a Milano: 571,4 milioni di euro per realizzare il grattacielo del Pirellone bis, sede della giunta regionale, e un complesso di edifici – in via Pola, Rosellini e Taramelli – per tutte le società o agenzie di emanazione dell’ente locale. Il Pirellone bis è alto 161 metri. I suoi 39 piani si raggiungono con un ascensore ultratecnologico che viaggia alla velocità di sette metri al secondo. È costato 383 milioni di euro. Una cifra molto diversa da quella stabilita nella gara d’appalto – 234 milioni di euro più 90 per i costi di superficie pagati al Comune – e ancor più distante da quella propagandata (175 milioni di euro) dallo staff del presidente Roberto Formigoni. “È la sindrome del Faraone – accusa Stefano Zamponi, dell’Italia dei valori – tipica degli amministratori che, superato il secondo mandato, vogliono lasciare ai posteri un segno del loro passaggio, pagato con soldi pubblici”. Il governatore ha a disposizione un eliporto per i suoi spostamenti in elicottero. E due piani, collegati tra loro da una scala interna.

La Regione: “Operazione di risparmio ed efficienza”
L’outlet e la gelateria nel Pirellone bis Il ristorante Formigoni e il murales

GLI ALLESTIMENTI
Allestimenti interni, arredi e forniture sono costati, in tutto, 42,8 milioni di euro. Arredare l’ufficio e la foresteria del presidente ha avuto un costo (parziale) di 127mila euro. Sono serviti ad acquistare pezzi come i tre pouff con struttura portante in acciaio cromato lucido, i due divani con rivestimento sfoderabile in ecopelle (12mila euro), il comodino del letto, con struttura in legno massello di rovere come le nove sedie per la sala da pranzo (seimila euro), le quattro poltrone con fodera in vellutino accoppiato con resinato, il letto matrimoniale con testata in multistrato e rete ortopedica a doghe di faggio curvato a vapore. E poi ancora: le librerie, il tavolo da pranzo, il tavolo “direzionale” del presidente (11.200 euro), l’armadio e ventuno tra poltrone e divani. Per sé e per il suo entourage, Formigoni non si è fatto mancare niente. Neppure le buvette e le cucine, dislocate tra i livelli 12 e 13 — dove si riunisce la giunta — e tra il 34 e il 36. Costo (parziale) della mobilia: 64mila euro. E i tappeti «fabbricati a mano con pelo corto e fitto in lino/lana», 20mila euro.

I MATERIALI
Di ottima qualità i materiali usati per gli arredi speciali. La pedana della sala conferenze, costo 126.388 euro, è rivestita con “pannelli lignei in pavimento vinilico Tatami” ed ha parapetti in acciaio. Abbondante l’impiego di poltrone e divani: alla voce sedute, nel capitolato d’appalto sugli arredi speciali, corrisponde una spesa di un milione e 328mila euro. Sono serviti a comprare, per esempio, 27 divani con “bracciolo a sbalzo” per gli uffici degli assessori e dei sottosegretari (58mila euro): si aggiungono alle 54 poltrone già previste per i maggiorenti della Regione (44mila euro). Altri 270mila euro sono andati alle tende. E 174mila euro per altri “accessori interni”. Dieci milioni di euro, invece, sono andati per l’arredamento dei piani occupati dagli impiegati. Vincitrice dell’appalto è la MioDino di Portogruaro, un marchio tra i più prestigiosi del design veneto. Secondo un’azienda concorrente – che ha presentato (perdendolo) un ricorso al Tar – e alcuni lavoratori rumeni che hanno presentato una denuncia alla procura di Venezia e al tribunale del lavoro, l’appalto è stato vinto giocando al massimo ribasso sul costo della manodopera.

LA SEDE STORICA
Il nuovo Pirellone è l’ultimo di una lunga serie di cantieri aperti dalla Regione. Prima gli uffici del governatore e dei suoi assessori erano ospitati nel grattacielo Pirelli, inaugurato nel 1961 e acquistato nel 1978 dalla Regione al prezzo di 52 miliardi di lire, l’equivalente degli attuali 150 milioni di euro. Un edificio di pregio, progettato da Giò Ponti, ferito dall’attacco “kamikaze” del 2002, quando l’imprenditore italosvizzero Luigi Fasulo si scagliò con il suo aereo contro il grattacielo. Per la ristrutturazione servirono 60 milioni di euro, solo in parte (18 milioni) coperti dall’assicurazione. Ma Formigoni non si accontentò di ripristinare l’esistente: volle rifare alla grande il 31esimo piano del vecchio Pirellone, spendendo 5,2 milioni di euro. Ora in quel palazzo ha sede il consiglio regionale. «I consiglieri e i loro collaboratori hanno a disposizione spazi immensi», fa notare Carlo Monguzzi, ex consigliere dei Verdi oggi nel Pd, che ha calcolato anche che «con l’acquisto del complesso di via Pola-Taramelli-Rosellini la Regione aveva già a disposizione 150mila metri calpestabili che in parte non sapeva come usare. Serviva davvero una nuova sede?».

LA REALIZZAZIONE
A dirigere i lavori per il Pirellone bis è Infrastrutture lombarde, società di capitali totalmente controllata dalla Regione, che ha commissionato l’opera e l’ha appaltata a Consorzio Torre, al cui interno è socio maggioritario Impregilo. Gli impianti elettrici sono stati realizzati dalla Sirti spa, subappaltatrice degli ascensori è la Thyssenkrupp. Nell’aprile del 2010 si è aggiudicata l’appalto per i servizi di manutenzione e riparazione degli impianti degli edifici di proprietà della Regione la Carbotermo, società che, nelle elezioni regionali del 2010, ha finanziato con 35mila euro la campagna elettorale del presidente del consiglio regionale Davide Boni, della Lega. Le operazioni di bonifica del cantiere, invece, furono affidate alla So.Ge.Sa., il cui titolare, venerdì, è stato condannato a un anno di carcere per aver gestito in modo irregolare lo smaltimento 9 milioni e 943mila chili di rifiuti speciali non pericolosi tra il 2006 e il 2007. «Faremo appello, è una sentenza ingiusta», annuncia il difensore, l’avvocato Davide Steccanella. Si chiuse con un’archiviazione, invece, l’inchiesta che ipotizzava tangenti per far lievitare i costi dell’appalto.

La Repubblica 07.02.12

“Ecco il ‘Pirellone bis’, costa 570 milioni. Formigoni ha un eliporto e la foresteria”, di Davide Carlucci

Il governatore ha a disposizione due piani: per arredare l’ufficio e l’appartamento sono stati spesi 127mila euro. Un tavolo da 11mila euro e un sofà da oltre 4mila. La più costosa operazione edilizia per la casta è a Milano: 571,4 milioni di euro per realizzare il grattacielo del Pirellone bis, sede della giunta regionale, e un complesso di edifici – in via Pola, Rosellini e Taramelli – per tutte le società o agenzie di emanazione dell’ente locale. Il Pirellone bis è alto 161 metri. I suoi 39 piani si raggiungono con un ascensore ultratecnologico che viaggia alla velocità di sette metri al secondo. È costato 383 milioni di euro. Una cifra molto diversa da quella stabilita nella gara d’appalto – 234 milioni di euro più 90 per i costi di superficie pagati al Comune – e ancor più distante da quella propagandata (175 milioni di euro) dallo staff del presidente Roberto Formigoni. “È la sindrome del Faraone – accusa Stefano Zamponi, dell’Italia dei valori – tipica degli amministratori che, superato il secondo mandato, vogliono lasciare ai posteri un segno del loro passaggio, pagato con soldi pubblici”. Il governatore ha a disposizione un eliporto per i suoi spostamenti in elicottero. E due piani, collegati tra loro da una scala interna.

La Regione: “Operazione di risparmio ed efficienza”
L’outlet e la gelateria nel Pirellone bis Il ristorante Formigoni e il murales

GLI ALLESTIMENTI
Allestimenti interni, arredi e forniture sono costati, in tutto, 42,8 milioni di euro. Arredare l’ufficio e la foresteria del presidente ha avuto un costo (parziale) di 127mila euro. Sono serviti ad acquistare pezzi come i tre pouff con struttura portante in acciaio cromato lucido, i due divani con rivestimento sfoderabile in ecopelle (12mila euro), il comodino del letto, con struttura in legno massello di rovere come le nove sedie per la sala da pranzo (seimila euro), le quattro poltrone con fodera in vellutino accoppiato con resinato, il letto matrimoniale con testata in multistrato e rete ortopedica a doghe di faggio curvato a vapore. E poi ancora: le librerie, il tavolo da pranzo, il tavolo “direzionale” del presidente (11.200 euro), l’armadio e ventuno tra poltrone e divani. Per sé e per il suo entourage, Formigoni non si è fatto mancare niente. Neppure le buvette e le cucine, dislocate tra i livelli 12 e 13 — dove si riunisce la giunta — e tra il 34 e il 36. Costo (parziale) della mobilia: 64mila euro. E i tappeti «fabbricati a mano con pelo corto e fitto in lino/lana», 20mila euro.

I MATERIALI
Di ottima qualità i materiali usati per gli arredi speciali. La pedana della sala conferenze, costo 126.388 euro, è rivestita con “pannelli lignei in pavimento vinilico Tatami” ed ha parapetti in acciaio. Abbondante l’impiego di poltrone e divani: alla voce sedute, nel capitolato d’appalto sugli arredi speciali, corrisponde una spesa di un milione e 328mila euro. Sono serviti a comprare, per esempio, 27 divani con “bracciolo a sbalzo” per gli uffici degli assessori e dei sottosegretari (58mila euro): si aggiungono alle 54 poltrone già previste per i maggiorenti della Regione (44mila euro). Altri 270mila euro sono andati alle tende. E 174mila euro per altri “accessori interni”. Dieci milioni di euro, invece, sono andati per l’arredamento dei piani occupati dagli impiegati. Vincitrice dell’appalto è la MioDino di Portogruaro, un marchio tra i più prestigiosi del design veneto. Secondo un’azienda concorrente – che ha presentato (perdendolo) un ricorso al Tar – e alcuni lavoratori rumeni che hanno presentato una denuncia alla procura di Venezia e al tribunale del lavoro, l’appalto è stato vinto giocando al massimo ribasso sul costo della manodopera.

LA SEDE STORICA
Il nuovo Pirellone è l’ultimo di una lunga serie di cantieri aperti dalla Regione. Prima gli uffici del governatore e dei suoi assessori erano ospitati nel grattacielo Pirelli, inaugurato nel 1961 e acquistato nel 1978 dalla Regione al prezzo di 52 miliardi di lire, l’equivalente degli attuali 150 milioni di euro. Un edificio di pregio, progettato da Giò Ponti, ferito dall’attacco “kamikaze” del 2002, quando l’imprenditore italosvizzero Luigi Fasulo si scagliò con il suo aereo contro il grattacielo. Per la ristrutturazione servirono 60 milioni di euro, solo in parte (18 milioni) coperti dall’assicurazione. Ma Formigoni non si accontentò di ripristinare l’esistente: volle rifare alla grande il 31esimo piano del vecchio Pirellone, spendendo 5,2 milioni di euro. Ora in quel palazzo ha sede il consiglio regionale. «I consiglieri e i loro collaboratori hanno a disposizione spazi immensi», fa notare Carlo Monguzzi, ex consigliere dei Verdi oggi nel Pd, che ha calcolato anche che «con l’acquisto del complesso di via Pola-Taramelli-Rosellini la Regione aveva già a disposizione 150mila metri calpestabili che in parte non sapeva come usare. Serviva davvero una nuova sede?».

LA REALIZZAZIONE
A dirigere i lavori per il Pirellone bis è Infrastrutture lombarde, società di capitali totalmente controllata dalla Regione, che ha commissionato l’opera e l’ha appaltata a Consorzio Torre, al cui interno è socio maggioritario Impregilo. Gli impianti elettrici sono stati realizzati dalla Sirti spa, subappaltatrice degli ascensori è la Thyssenkrupp. Nell’aprile del 2010 si è aggiudicata l’appalto per i servizi di manutenzione e riparazione degli impianti degli edifici di proprietà della Regione la Carbotermo, società che, nelle elezioni regionali del 2010, ha finanziato con 35mila euro la campagna elettorale del presidente del consiglio regionale Davide Boni, della Lega. Le operazioni di bonifica del cantiere, invece, furono affidate alla So.Ge.Sa., il cui titolare, venerdì, è stato condannato a un anno di carcere per aver gestito in modo irregolare lo smaltimento 9 milioni e 943mila chili di rifiuti speciali non pericolosi tra il 2006 e il 2007. «Faremo appello, è una sentenza ingiusta», annuncia il difensore, l’avvocato Davide Steccanella. Si chiuse con un’archiviazione, invece, l’inchiesta che ipotizzava tangenti per far lievitare i costi dell’appalto.

La Repubblica 07.02.12

"Moretti, l'intoccabile", di Giovanni Cocconi

Tra i misteri dell’inverno italiano c’è anche quello Mauro Moretti. Nel senso che ogni anno, puntuali come il freddo e la caduta della neve, arrivano anche le polemiche sulla paralisi di treni regionali e Intercity, ma nessuno che osi chiedere la testa del numero uno delle Ferrovie. Sull’Ingegnere (che i sindacati interni chiamano l’Imperatore) centrodestra e centrosinistra sembrano aver stretto un patto non scritto. I passeggeri sono furiosi, i giornalisti raccontano odissee infernali, le regioni minacciano di fare causa, ma non succede mai niente. Moretti è un vero intoccabile. Perché? Un piccolo mistero, appunto.
Anche perché il manager delle Ferrovie viene descritto come un personaggio ruvido, poco simpatico, sicuro di sé ai confini dell’arroganza (il 21 dicembre 2009 consigliò ai passeggeri dei treni bloccati per ore sui binari di portarsi coperte e panini da casa). Un’immagine che le ultime campagne di comunicazione dell’azienda non hanno fatto nulla per smentire. Gli spot con la famiglia di colore testimonial della classe economica dei nuovi Frecciarossa non ha reso meno impopolare Ferrovie dello stato, così come la scelta (poi rientrata) di impedire ad alcune “classi” di passeggeri l’uso della carrozza bar.
Pazienza, si dirà, quella è solo comunicazione. Il problema è che, se si esclude l’alta velocità, i guasti di treni regionali e Intercity sono sulla bocca di tutti spesso, e comunque ogni inverno che Dio manda in terra. Solo negli ultimi giorni gli assessori ai trasporti di almeno quattro regioni diverse (e di diverso colore politico) hanno puntato il dito contro i disservizi di Trenitalia. «Gli utenti dei treni regionali ieri sono stati abbandonati a se stessi», ha tuonato l’assessore del Lazio Francesco Lollobrigida (centrodestra), mentre la regione Liguria (centrosinistra) ha denunciato Rfi e Trenitalia per i disagi ai passeggeri avvenuti in questi giorni, treni soppressi o fermi per molte ore. L’assessore della regione Piemonte (centrodestra) ha già annunciato che «per questa settimana di disservizi interminabili non verseremo un solo euro a Trenitalia» mentre, nella regione di origine di Moretti, l’Emilia-Romagna, quattro consiglieri regionali del Pd hanno presentato un’interrogazione alla giunta sull’«assoluta impreparazione» da parte delle Ferrovie dello stato a fronteggiare la situazione.
Insomma, delle Ferrovie si lamentano un po’ tutti, ma le lamentele non arrivano mai a Roma, cambiano i governi ma l’ex dirigente della Cgil rimane saldo al suo posto. Perché? Fonti interne all’azienda confermano che Moretti è politicamente un intoccabile ma offrono spiegazioni molto diverse. I buonisti dicono che la sua fortuna è stata quella di arrivare dopo la «disastrosa gestione di Elio Catania», di avere in parte risanato i conti dell’azienda e di essere riconosciuto come una persona competente, che sa cosa sono le Ferrovie dove lavora da 35 anni. «Ma ha commesso molti errori, per esempio investendo solo sull’alta velocità a scapito di regionali e Intercity che, infatti, ogni inverno si bloccano», ci racconta un dirigente sindacale. «Il problema è che, avendo accentrato tutto il potere in una gestione monocratica e azzerato tutti i livelli dirigenziali, quando andrà via lui crollerà tutto».
I maligni, invece, evocano le origini di Moretti: iscritto alla Cgil dai primi anni Ottanta, ha scalato i vertici aziendali e sindacali fino alla segreteria della Cgil trasporti e alla nomina ad amministratore delegato delle Ferrovie da parte del governo di centrosinistra nel 2006. «Ma da manager ha fatto di tutto per farsi perdonare le origini sindacali e rifarsi una verginità».
Un decisionismo che gli ha consentito di vincere il braccio di ferro con i sindacati più duri (come quello sul macchinista unico) e che è piaciuto a destra, soprattutto perché Moretti ha saputo personalizzare la sfida con Montezemolo, il nuovo entrante nel mercato ferroviario con la società Ntv, poco simpatico sia a destra che a sinistra. Un duello a distanza che si è consumato più sulle pagine dei giornali che in tribunale e che ha finito per mettere in ombra la profonda trasformazione vissuta dalle Ferrovie dello stato negli ultimi anni, sempre meno servizio pubblico e sempre più impresa privata, con un amministratore delegato che punta tutto sull’alta velocità e incolpa lo stato di avere abbandonato a se stesso il parco buoi dei pendolari. L’imperatore Moretti, appunto, e noi sudditi.

da Europa Quotidiano 07.02.12

“Moretti, l’intoccabile”, di Giovanni Cocconi

Tra i misteri dell’inverno italiano c’è anche quello Mauro Moretti. Nel senso che ogni anno, puntuali come il freddo e la caduta della neve, arrivano anche le polemiche sulla paralisi di treni regionali e Intercity, ma nessuno che osi chiedere la testa del numero uno delle Ferrovie. Sull’Ingegnere (che i sindacati interni chiamano l’Imperatore) centrodestra e centrosinistra sembrano aver stretto un patto non scritto. I passeggeri sono furiosi, i giornalisti raccontano odissee infernali, le regioni minacciano di fare causa, ma non succede mai niente. Moretti è un vero intoccabile. Perché? Un piccolo mistero, appunto.
Anche perché il manager delle Ferrovie viene descritto come un personaggio ruvido, poco simpatico, sicuro di sé ai confini dell’arroganza (il 21 dicembre 2009 consigliò ai passeggeri dei treni bloccati per ore sui binari di portarsi coperte e panini da casa). Un’immagine che le ultime campagne di comunicazione dell’azienda non hanno fatto nulla per smentire. Gli spot con la famiglia di colore testimonial della classe economica dei nuovi Frecciarossa non ha reso meno impopolare Ferrovie dello stato, così come la scelta (poi rientrata) di impedire ad alcune “classi” di passeggeri l’uso della carrozza bar.
Pazienza, si dirà, quella è solo comunicazione. Il problema è che, se si esclude l’alta velocità, i guasti di treni regionali e Intercity sono sulla bocca di tutti spesso, e comunque ogni inverno che Dio manda in terra. Solo negli ultimi giorni gli assessori ai trasporti di almeno quattro regioni diverse (e di diverso colore politico) hanno puntato il dito contro i disservizi di Trenitalia. «Gli utenti dei treni regionali ieri sono stati abbandonati a se stessi», ha tuonato l’assessore del Lazio Francesco Lollobrigida (centrodestra), mentre la regione Liguria (centrosinistra) ha denunciato Rfi e Trenitalia per i disagi ai passeggeri avvenuti in questi giorni, treni soppressi o fermi per molte ore. L’assessore della regione Piemonte (centrodestra) ha già annunciato che «per questa settimana di disservizi interminabili non verseremo un solo euro a Trenitalia» mentre, nella regione di origine di Moretti, l’Emilia-Romagna, quattro consiglieri regionali del Pd hanno presentato un’interrogazione alla giunta sull’«assoluta impreparazione» da parte delle Ferrovie dello stato a fronteggiare la situazione.
Insomma, delle Ferrovie si lamentano un po’ tutti, ma le lamentele non arrivano mai a Roma, cambiano i governi ma l’ex dirigente della Cgil rimane saldo al suo posto. Perché? Fonti interne all’azienda confermano che Moretti è politicamente un intoccabile ma offrono spiegazioni molto diverse. I buonisti dicono che la sua fortuna è stata quella di arrivare dopo la «disastrosa gestione di Elio Catania», di avere in parte risanato i conti dell’azienda e di essere riconosciuto come una persona competente, che sa cosa sono le Ferrovie dove lavora da 35 anni. «Ma ha commesso molti errori, per esempio investendo solo sull’alta velocità a scapito di regionali e Intercity che, infatti, ogni inverno si bloccano», ci racconta un dirigente sindacale. «Il problema è che, avendo accentrato tutto il potere in una gestione monocratica e azzerato tutti i livelli dirigenziali, quando andrà via lui crollerà tutto».
I maligni, invece, evocano le origini di Moretti: iscritto alla Cgil dai primi anni Ottanta, ha scalato i vertici aziendali e sindacali fino alla segreteria della Cgil trasporti e alla nomina ad amministratore delegato delle Ferrovie da parte del governo di centrosinistra nel 2006. «Ma da manager ha fatto di tutto per farsi perdonare le origini sindacali e rifarsi una verginità».
Un decisionismo che gli ha consentito di vincere il braccio di ferro con i sindacati più duri (come quello sul macchinista unico) e che è piaciuto a destra, soprattutto perché Moretti ha saputo personalizzare la sfida con Montezemolo, il nuovo entrante nel mercato ferroviario con la società Ntv, poco simpatico sia a destra che a sinistra. Un duello a distanza che si è consumato più sulle pagine dei giornali che in tribunale e che ha finito per mettere in ombra la profonda trasformazione vissuta dalle Ferrovie dello stato negli ultimi anni, sempre meno servizio pubblico e sempre più impresa privata, con un amministratore delegato che punta tutto sull’alta velocità e incolpa lo stato di avere abbandonato a se stesso il parco buoi dei pendolari. L’imperatore Moretti, appunto, e noi sudditi.

da Europa Quotidiano 07.02.12

Pratomaggiore, Ghizzoni “Preoccupano certi rigurgiti di fascismo”. La deputata del Pd Ghizzoni sabato mattina parteciperà alla commemorazione dell’eccidio

Sabato mattina a Pratomaggiore di Vignola si ricordano gli 8 giovani partigiani che, 67 anni fa, furono impiccati per rappresaglia dai tedeschi e dagli uomini della Brigata nera. L’on. Ghizzoni “Preoccupano oggi certi rigurgiti di fascismo che vediamo attecchire in alcuni gruppi giovanili”. «Preoccupano i rigurgiti di un’ideologia che si ispira apertamente al fascismo, preoccupa che giovani nati a decenni di distanza dal buio periodo dei rastrellamenti e degli eccidi oggi inneggino a idee e valori che, per loro stessa natura, negano quei principi di libertà, democrazia e giustizia su cui si basa la nostra società, nata dalla lotta della Resistenza. E’ quanto affermerò, sabato mattina, partecipando come relatore alle celebrazioni del 67esimo anniversario dell’Eccidio di Pratomaggiore, a Vignola, dove 8 giovani partigiani furono impiccati per rappresaglia per la morte di un soldato tedesco. I loro corpi non poterono essere rimossi per due giorni, simbolo della tracotanza della tirannide. Quella ideologia che tanti lutti e dolore ha seminato nella nostra storia recente, quella negazione dei più elementari valori di rispetto e solidarietà umana non devono più trovare cittadinanza tra di noi e tra i nostri ragazzi».

"Strategia dell'irrisione", di Francesco Cundari

Da oltre un mese assistiamo da parte del governo a una successione sempre più incalzante di battute argute e sentenziosi aforismi che girano tutti attorno allo stesso tema: il «posto fisso». Di simili dichiarazioni solo ierine sono arrivate ben due. La prima del ministro Fornero, che se l’è presa tra l’altro con l’«illusione» del «posto a vita». La seconda del ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, a proposito dei giovani che vorrebbero il posto fisso «vicino a mamma e papà».
È giusto prendere atto di tutte le rettifiche che in queste settimane sono seguite a molte di tali dichiarazioni, a cominciare dal ministro Cancellieri, che oggi precisa il senso delle sue parole proprio sull’Unità. Del resto lo stesso Mario Monti, dopo la sua infelice battuta sulla «monotonia» del posto fisso, ha sentito la necessità di spiegarsi meglio. Il problema sollevato da simili dichiarazioni non è però una questione di stile o di sensibilità, ma di sostanza. Il punto è che cosa dobbiamo aspettarci, per esempio, da uncapo del governo che usa l’espressione «apartheid» per
descrivere la condizione dei precari rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato (che sarebbero quindi equiparati ai segregazionisti del Sudafrica, come fossero stati loro a invocare la pletora di contratti flessibili in cui sono stati “ghettizzati” i giovani). Il punto è quale idea dell’Italia esprima un presidente del Consiglio che indica come causa prima degli attuali problemi del Paese il «buonismo sociale» dei passati governi (dobbiamo dunque pensare, come abbiamo letto in uncommento circolato in rete, che sia venuta l’ora del «malvagismo sociale»?).
Dinanzi alle polemiche suscitate dalle ultimedichiarazioni dei suoi ministri, il presidente del Consiglio ha assicurato ieri che non è intenzione del governo «esasperare» gli animi sul tema del mercato del lavoro. Precisazione apprezzabile,maanche indicativa della necessità di allontanare il sospetto che questo stillicidio continuo di battute e battutine, sempre con lo stesso bersaglio, configuri una strategia. Sta di fatto, in ogni caso, che questa pressione costante crea un clima, tende a orientare l’opinione pubblica, alimenta quella che appare a volte come una campagna di stampa a media unificati. E così i lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato, dipinti come ipergarantiti, privilegiati abitanti di un’intoccabile «cittadella dorata», diventano sulla grande stampa l’ultimo capro espiatorio della crisi. Speriamo almeno che nessuno trovi il coraggio di compiere l’ultimo passo, scagliandosi contro la «casta» degli operai o dei maestri di scuola. Ma soprattutto ci auguriamo che il governo non si faccia trascinare su questo terreno dai tanti interessati sostenitori che attizzano simili campagne.
Questa strategia dell’irrisione si sposa infatti con la politica del fatto compiuto: piuttosto che affrontare apertamente una discussione sul modo in cui si pensa di fare uscire l’Italia dalla crisi economica, dichiarando subito le proprie intenzioni, si costruisce una sorta di gigantesco piano inclinato, per spostare ogni giorno di un grado l’asse del dibattito, in una discesa sempre più ripida verso la deregolazione. Un obiettivo che credevamo sepolto per sempre sotto le macerie della Lehman
Brothers e dell’ideologia liberista, messa sotto accusa ormai in tutto il mondo. Meno che in Italia, evidentemente. Lo conferma, purtroppo, l’affermazione del ministro Fornero secondo cui le attuali tutele dei lavoratori più protetti andrebbero «spalmate» su tutti. Un’affermazione che tradisce un’idea del Paese e del suo futuro che non ci rassicura per niente. La società italiana non è una marmellata, e non è auspicabile che lo diventi.
Ma soprattutto non sono marmellata i diritti delle persone. Milioni di famiglie già duramente colpite dalla crisi, dalle ripetute manovre finanziarie e dalla pesante riforma delle pensioni appena varata, non meritano di vedere la propria vita rappresentata come una fetta di pane imburrato su cui qualcuno possa «spalmare» a piacimento diritti e tutele.

L’Unità 07.02.12

“Strategia dell’irrisione”, di Francesco Cundari

Da oltre un mese assistiamo da parte del governo a una successione sempre più incalzante di battute argute e sentenziosi aforismi che girano tutti attorno allo stesso tema: il «posto fisso». Di simili dichiarazioni solo ierine sono arrivate ben due. La prima del ministro Fornero, che se l’è presa tra l’altro con l’«illusione» del «posto a vita». La seconda del ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, a proposito dei giovani che vorrebbero il posto fisso «vicino a mamma e papà».
È giusto prendere atto di tutte le rettifiche che in queste settimane sono seguite a molte di tali dichiarazioni, a cominciare dal ministro Cancellieri, che oggi precisa il senso delle sue parole proprio sull’Unità. Del resto lo stesso Mario Monti, dopo la sua infelice battuta sulla «monotonia» del posto fisso, ha sentito la necessità di spiegarsi meglio. Il problema sollevato da simili dichiarazioni non è però una questione di stile o di sensibilità, ma di sostanza. Il punto è che cosa dobbiamo aspettarci, per esempio, da uncapo del governo che usa l’espressione «apartheid» per
descrivere la condizione dei precari rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato (che sarebbero quindi equiparati ai segregazionisti del Sudafrica, come fossero stati loro a invocare la pletora di contratti flessibili in cui sono stati “ghettizzati” i giovani). Il punto è quale idea dell’Italia esprima un presidente del Consiglio che indica come causa prima degli attuali problemi del Paese il «buonismo sociale» dei passati governi (dobbiamo dunque pensare, come abbiamo letto in uncommento circolato in rete, che sia venuta l’ora del «malvagismo sociale»?).
Dinanzi alle polemiche suscitate dalle ultimedichiarazioni dei suoi ministri, il presidente del Consiglio ha assicurato ieri che non è intenzione del governo «esasperare» gli animi sul tema del mercato del lavoro. Precisazione apprezzabile,maanche indicativa della necessità di allontanare il sospetto che questo stillicidio continuo di battute e battutine, sempre con lo stesso bersaglio, configuri una strategia. Sta di fatto, in ogni caso, che questa pressione costante crea un clima, tende a orientare l’opinione pubblica, alimenta quella che appare a volte come una campagna di stampa a media unificati. E così i lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato, dipinti come ipergarantiti, privilegiati abitanti di un’intoccabile «cittadella dorata», diventano sulla grande stampa l’ultimo capro espiatorio della crisi. Speriamo almeno che nessuno trovi il coraggio di compiere l’ultimo passo, scagliandosi contro la «casta» degli operai o dei maestri di scuola. Ma soprattutto ci auguriamo che il governo non si faccia trascinare su questo terreno dai tanti interessati sostenitori che attizzano simili campagne.
Questa strategia dell’irrisione si sposa infatti con la politica del fatto compiuto: piuttosto che affrontare apertamente una discussione sul modo in cui si pensa di fare uscire l’Italia dalla crisi economica, dichiarando subito le proprie intenzioni, si costruisce una sorta di gigantesco piano inclinato, per spostare ogni giorno di un grado l’asse del dibattito, in una discesa sempre più ripida verso la deregolazione. Un obiettivo che credevamo sepolto per sempre sotto le macerie della Lehman
Brothers e dell’ideologia liberista, messa sotto accusa ormai in tutto il mondo. Meno che in Italia, evidentemente. Lo conferma, purtroppo, l’affermazione del ministro Fornero secondo cui le attuali tutele dei lavoratori più protetti andrebbero «spalmate» su tutti. Un’affermazione che tradisce un’idea del Paese e del suo futuro che non ci rassicura per niente. La società italiana non è una marmellata, e non è auspicabile che lo diventi.
Ma soprattutto non sono marmellata i diritti delle persone. Milioni di famiglie già duramente colpite dalla crisi, dalle ripetute manovre finanziarie e dalla pesante riforma delle pensioni appena varata, non meritano di vedere la propria vita rappresentata come una fetta di pane imburrato su cui qualcuno possa «spalmare» a piacimento diritti e tutele.

L’Unità 07.02.12