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"La giornata mondiale contro le infibulazioni: "Cambiare si può, occorre capire non imporre"", di Luca Attanasio

A colloquio con un ginecologo somalo da anni impegnato da anni nella battaglia contro le mutilazioni genitali femminili. Sono 135 milioni le donne mutilate nel mondo, due milioni a rischio ogni anno, 6.000 al mese, secondo le stime di Amnesty International. Una tradizioni antichissima che ora sembra destinata ad essere messa in discussione. Molte le richieste di de-infibulazione. Alla vigilia della Giornata Mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili e del Convegno che si terrà presso l’Ospedale San Giovanni di Roma “Conoscere per Prevenire” (6 febbraio, Sala Foschi alle 9.15) incontriamo Abdulcadir Omar Hussen, un ginecologo somalo in prima linea da anni in Italia nella battaglia contro questa pratica.
Salima, 20 anni, somala. Si presenta al Centro di Riferimento Regionale per la Prevenzione e la Cura delle Complicanze Legate alle Mutilazioni dei Genitali Femminili 1di Firenze, in un giorno dello scorso gennaio. A 8 anni le è stata praticata una infibulazione. Ha dolori pelvici molto intensi, difficoltà a urinare, bruciori e il ciclo mestruale è un incubo. Vuole che i medici intervengano. Ma la veglia da vicino la nonna, probabilmente la persona che le ha eseguito l’operazione da bambina. Non vuole che si metta in discussione la pratica, ma sa che la nipote rischia la salute. È tutta qui, tra rispetto della tradizione e sofferenze psico-fisiche, tra elemento culturale ed evidenza di una pratica aberrante, che si gioca la questione delle Mutilazioni Genitali Femminili.
“Il problema – spiega il Dott. Abdulcadir Omar Hussen responsabile del centro e studioso del fenomeno – è che in moltissime culture si esclude a priori che una tale pratica possa arrecare il minimo danno. Al contrario, per la maggior parte è un vantaggio, un’istituzione sociale che evita l’esclusione.
Quando si affronta questo problema bisogna sempre tenere in conto da una parte i diritti umani dall’altra la cultura che esalta una pratica e che non la ritiene affatto l’inflizione di una sofferenza”.
Sono 135 milioni le donne mutilate. Sono oltre 135 milioni le donne mutilate nel mondo, 2 milioni a rischio ogni anno, 6.000 ogni mese (le stime – fornite da Amnesty International 2 su base statistica immigratoria, dato che nei paesi d’origine il fenomeno non è sempre misurabile – sono arrotondate per difetto). In alcune zone del mondo, Corno d’Africa su tutte, le percentuali si avvicinano al 100. Le conseguenze immediate possono essere emorragia, shock, ritenzione urinaria, infezioni, lesioni. Ma non sono pochi i casi di morte. Gli esiti tardivi, invece, possono essere malattie infettive, cheloidi, dismenorrea, stenosi, danni psicologici permanenti, cisti. E non c’è da stupirsi se si conoscono gli strumenti utilizzati – lame improvvisate, pezzi di vetro, cocci, lattine, pietre -, i metodi di sutura – fili di seta, spine di acacia, stecche di legno di palma a forma di V – o i “chirurghi” – “el daida (levatrice)” e “tamargheia (mammana)”. In Etiopia l’operazione avviene a 8 giorni, in Arabia a 10 settimane, in Somalia si viene clitoridectomizzate a 3-4 anni o infibulate a 8-10, tra i Masai, dopo il matrimonio.
Una tradizione che ha 6 millenni. L’uso di intervenire sul corpo della donna, specie in quelle parti che attengono alla sfera sessuale, è molto antico quanto diffuso. Le fonti disponibili collocano con una certa precisione le prime operazioni di questo genere tra il 4.000 e il 3.000 avanti Cristo. Erodoto (484-424 a. C) scrive che la “recisione” veniva utilizzata da Fenici, Hittiti, Etiopi, Egiziani e Romani. Più vicini a noi, Pierre Dionis, medico personale di Luigi XIV, utilizza pinze e coltelli per eseguire clitoridectomia, mentre Isaac Ray, uno psichiatra inglese del XIX secolo, dichiara che gli organi riproduttivi delle donne in taluni casi vanno rimossi perché creano tendenza a comportamenti criminali. Per tutto il XIX secolo e fino alla seconda metà del XX, in Europa e Stati Uniti, si pratica diffusamente la cosiddetta clitoridectomia terapeutica per “patologie” quali masturbazione eccessiva, isteria, malinconia, ninfomania. Ma anche per affezioni respiratorie, epilessia, cecità, tumori o emorroidi. La prestigiosa rivista “Lancet” promuoveva senza remore la pratica e in Inghilterra, l’ultimo caso documentato di escissione del clitoride per correggere disturbi emozionali, risale agli anni ’40. Insomma, un filo rosso che unisce la preistoria ai tempi odierni.
Le de-infibulazioni. “Ma le cose, qui in occidente, così come in Africa, stanno cambiando – afferma, ottimista, Abdulcadir – l’opera di sensibilizzazione è sempre più capillare e sale, questa è la nostra analisi, la richiesta delle donne di de-mutilarsi. Nel mio centro, negli ultimi cinque anni, abbiamo praticato 200 de-infibulazioni”.
I tanti modi per dire “mutilazione”. A capire come mai un tale evento che leggiamo come traumatico quanto cruento sia percepito come assolutamente normale dalla gran parte delle donne stesse, o viene addirittura considerato una pratica positiva dalla comunità, tanto da meritare titoli come Tahur (purificazione), Gaad (tagliare per rendere uniforme, o addirittura Tizian (bellezza), ci aiuta l’antropologia. In moltissime aree del mondo, la modificazione degli organi genitali è vista come la più banale delle azioni. La bambina, ad un certo punto, viene “tagliata” o “cucita” perché lo fanno tutte le altre, perché altrimenti sarebbe esclusa da ogni possibilità di matrimonio, perché lo vuole la nonna, la mamma, il papà, e così via. Ma guardare il fenomeno solo con lenti occidentali, non aiuta a comprendere a fondo il problema.
Il dolore in alternativa all’emarginazione. “Basta una frase pronunciata da Sylla Habibatou Diallo, un’attivista e femminista Maliana – dice la Marta Mearini, antropologa esperta, collaboratrice del San Camillo-Forlanini di Roma – a dare un’idea della complessità del fenomeno: “Si può chiedere ad una madre di non fare del male a sua figlia, ma come chiederle di condannarla all’emarginazione sociale?” La pratica è una modificazione necessaria per rendere socializzabile il corpo femminile in molti contesti socio-culturali. Infatti, permette alla donna di identificarsi con la realtà sessuale che le appartiene e uniformarsi a un modello sociale di riferimento. Attraverso questo, le sarà possibile rivestire i ruoli e gli status riconosciuti al suo genere nel contesto di appartenenza, come madre e moglie”.
La mediazione culturale. “Il problema è molto composito – riprende Abdulcadir – e va affrontato culturalmente. Al primo posto vanno certamente i diritti alla salute, alla sessualità, e all’equilibrio psico-sociali della donna. La ferita che portano nel corpo non ha ragione di esistere e quindi va evitata. Ma per mezzo di un’opera eminentemente culturale. Ho la fortuna di essere un ginecologo ormai occidentale – dice Abdulcadir – ma anche di essere somalo. È fondamentale, nel nostro centro, l’apporto culturale che permette di opporci alla pratica ma capendone origini e motivi. Le persone cambiano il loro comportamento quando comprendono quali siano i rischi e l’oltraggio di pratiche dannose ma anche quando capiscono che cambiare una pratica, non significa abiurare alla propria cultura”. La dimostrazione non tarda ad arrivare. La ginecologa che ha visitato Salima e la mediatrice che ha parlato per ore con la nonna, hanno avuto successo. La giovane sarà operata. Per sua scelta.

da repubblica.it 06.02.12

“La giornata mondiale contro le infibulazioni: “Cambiare si può, occorre capire non imporre””, di Luca Attanasio

A colloquio con un ginecologo somalo da anni impegnato da anni nella battaglia contro le mutilazioni genitali femminili. Sono 135 milioni le donne mutilate nel mondo, due milioni a rischio ogni anno, 6.000 al mese, secondo le stime di Amnesty International. Una tradizioni antichissima che ora sembra destinata ad essere messa in discussione. Molte le richieste di de-infibulazione. Alla vigilia della Giornata Mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili e del Convegno che si terrà presso l’Ospedale San Giovanni di Roma “Conoscere per Prevenire” (6 febbraio, Sala Foschi alle 9.15) incontriamo Abdulcadir Omar Hussen, un ginecologo somalo in prima linea da anni in Italia nella battaglia contro questa pratica.
Salima, 20 anni, somala. Si presenta al Centro di Riferimento Regionale per la Prevenzione e la Cura delle Complicanze Legate alle Mutilazioni dei Genitali Femminili 1di Firenze, in un giorno dello scorso gennaio. A 8 anni le è stata praticata una infibulazione. Ha dolori pelvici molto intensi, difficoltà a urinare, bruciori e il ciclo mestruale è un incubo. Vuole che i medici intervengano. Ma la veglia da vicino la nonna, probabilmente la persona che le ha eseguito l’operazione da bambina. Non vuole che si metta in discussione la pratica, ma sa che la nipote rischia la salute. È tutta qui, tra rispetto della tradizione e sofferenze psico-fisiche, tra elemento culturale ed evidenza di una pratica aberrante, che si gioca la questione delle Mutilazioni Genitali Femminili.
“Il problema – spiega il Dott. Abdulcadir Omar Hussen responsabile del centro e studioso del fenomeno – è che in moltissime culture si esclude a priori che una tale pratica possa arrecare il minimo danno. Al contrario, per la maggior parte è un vantaggio, un’istituzione sociale che evita l’esclusione.
Quando si affronta questo problema bisogna sempre tenere in conto da una parte i diritti umani dall’altra la cultura che esalta una pratica e che non la ritiene affatto l’inflizione di una sofferenza”.
Sono 135 milioni le donne mutilate. Sono oltre 135 milioni le donne mutilate nel mondo, 2 milioni a rischio ogni anno, 6.000 ogni mese (le stime – fornite da Amnesty International 2 su base statistica immigratoria, dato che nei paesi d’origine il fenomeno non è sempre misurabile – sono arrotondate per difetto). In alcune zone del mondo, Corno d’Africa su tutte, le percentuali si avvicinano al 100. Le conseguenze immediate possono essere emorragia, shock, ritenzione urinaria, infezioni, lesioni. Ma non sono pochi i casi di morte. Gli esiti tardivi, invece, possono essere malattie infettive, cheloidi, dismenorrea, stenosi, danni psicologici permanenti, cisti. E non c’è da stupirsi se si conoscono gli strumenti utilizzati – lame improvvisate, pezzi di vetro, cocci, lattine, pietre -, i metodi di sutura – fili di seta, spine di acacia, stecche di legno di palma a forma di V – o i “chirurghi” – “el daida (levatrice)” e “tamargheia (mammana)”. In Etiopia l’operazione avviene a 8 giorni, in Arabia a 10 settimane, in Somalia si viene clitoridectomizzate a 3-4 anni o infibulate a 8-10, tra i Masai, dopo il matrimonio.
Una tradizione che ha 6 millenni. L’uso di intervenire sul corpo della donna, specie in quelle parti che attengono alla sfera sessuale, è molto antico quanto diffuso. Le fonti disponibili collocano con una certa precisione le prime operazioni di questo genere tra il 4.000 e il 3.000 avanti Cristo. Erodoto (484-424 a. C) scrive che la “recisione” veniva utilizzata da Fenici, Hittiti, Etiopi, Egiziani e Romani. Più vicini a noi, Pierre Dionis, medico personale di Luigi XIV, utilizza pinze e coltelli per eseguire clitoridectomia, mentre Isaac Ray, uno psichiatra inglese del XIX secolo, dichiara che gli organi riproduttivi delle donne in taluni casi vanno rimossi perché creano tendenza a comportamenti criminali. Per tutto il XIX secolo e fino alla seconda metà del XX, in Europa e Stati Uniti, si pratica diffusamente la cosiddetta clitoridectomia terapeutica per “patologie” quali masturbazione eccessiva, isteria, malinconia, ninfomania. Ma anche per affezioni respiratorie, epilessia, cecità, tumori o emorroidi. La prestigiosa rivista “Lancet” promuoveva senza remore la pratica e in Inghilterra, l’ultimo caso documentato di escissione del clitoride per correggere disturbi emozionali, risale agli anni ’40. Insomma, un filo rosso che unisce la preistoria ai tempi odierni.
Le de-infibulazioni. “Ma le cose, qui in occidente, così come in Africa, stanno cambiando – afferma, ottimista, Abdulcadir – l’opera di sensibilizzazione è sempre più capillare e sale, questa è la nostra analisi, la richiesta delle donne di de-mutilarsi. Nel mio centro, negli ultimi cinque anni, abbiamo praticato 200 de-infibulazioni”.
I tanti modi per dire “mutilazione”. A capire come mai un tale evento che leggiamo come traumatico quanto cruento sia percepito come assolutamente normale dalla gran parte delle donne stesse, o viene addirittura considerato una pratica positiva dalla comunità, tanto da meritare titoli come Tahur (purificazione), Gaad (tagliare per rendere uniforme, o addirittura Tizian (bellezza), ci aiuta l’antropologia. In moltissime aree del mondo, la modificazione degli organi genitali è vista come la più banale delle azioni. La bambina, ad un certo punto, viene “tagliata” o “cucita” perché lo fanno tutte le altre, perché altrimenti sarebbe esclusa da ogni possibilità di matrimonio, perché lo vuole la nonna, la mamma, il papà, e così via. Ma guardare il fenomeno solo con lenti occidentali, non aiuta a comprendere a fondo il problema.
Il dolore in alternativa all’emarginazione. “Basta una frase pronunciata da Sylla Habibatou Diallo, un’attivista e femminista Maliana – dice la Marta Mearini, antropologa esperta, collaboratrice del San Camillo-Forlanini di Roma – a dare un’idea della complessità del fenomeno: “Si può chiedere ad una madre di non fare del male a sua figlia, ma come chiederle di condannarla all’emarginazione sociale?” La pratica è una modificazione necessaria per rendere socializzabile il corpo femminile in molti contesti socio-culturali. Infatti, permette alla donna di identificarsi con la realtà sessuale che le appartiene e uniformarsi a un modello sociale di riferimento. Attraverso questo, le sarà possibile rivestire i ruoli e gli status riconosciuti al suo genere nel contesto di appartenenza, come madre e moglie”.
La mediazione culturale. “Il problema è molto composito – riprende Abdulcadir – e va affrontato culturalmente. Al primo posto vanno certamente i diritti alla salute, alla sessualità, e all’equilibrio psico-sociali della donna. La ferita che portano nel corpo non ha ragione di esistere e quindi va evitata. Ma per mezzo di un’opera eminentemente culturale. Ho la fortuna di essere un ginecologo ormai occidentale – dice Abdulcadir – ma anche di essere somalo. È fondamentale, nel nostro centro, l’apporto culturale che permette di opporci alla pratica ma capendone origini e motivi. Le persone cambiano il loro comportamento quando comprendono quali siano i rischi e l’oltraggio di pratiche dannose ma anche quando capiscono che cambiare una pratica, non significa abiurare alla propria cultura”. La dimostrazione non tarda ad arrivare. La ginecologa che ha visitato Salima e la mediatrice che ha parlato per ore con la nonna, hanno avuto successo. La giovane sarà operata. Per sua scelta.

da repubblica.it 06.02.12

"Quell'incapacità di sopportare la perdita", di Federica Mormando

Sempre più spesso si sente di uomini che uccidono la donna che li lascia. Per questi signori la perdita è l’abbandono, non la morte. Infliggerla è il possesso supremo, il potere di vita e di morte. A lungo i maschi l’hanno avuto, regolato dalla legge, codificato nel delitto d’onore. Si ammazza per un furto, per il territorio, e per il furto più disonorevole: quello dell’oggetto che se ne va diventando persona e rifiutando l’identità di cosa posseduta. Ben di rado leggiamo di donne che ammazzino il marito. La legge è cambiata, si parla di diritti della persona, ma non è sfumata la vecchia logica: «Roba mia vientene con me», come diceva Mazzarò.
Le menti fragili, inevolute, si nutrono dei plurimi messaggi contro le donne che giungono da tutti i tipi di media. Nei film sono le femmine a subire ogni tipo di violenza, come nella cronaca, in report che fanno risaltare l’assassino come protagonista, anche se negativo. La formazione della persona è affidata al caso, le istituzioni collaborano assai poco. A scuola, fra tanti insegnamenti e laboratori verticali e trasversali manca del tutto quello alla parità dei sessi e al rispetto reciproco. La morale è roba da soffitta, chi ne parla più? La disciplina, giace con lei. L’immagine data dalla società è di impuniti delinquenti che se la godono a spese della brava gente. Le discussioni sul levare il Crocefisso dai muri ne stritolano il messaggio di stima della donna, oscurato in generale anche nelle lezioni di religione. Il consumismo senza etica, la disistima delle autorità, l’esaltazione della protesta e non della proposta, hanno creato una generazione di prepotenti fragili e poco razionali, dipendenti dall’avere, ignoranti dell’essere. Insomma, i freni all’impulso in favore del pensiero sono minimi, e le personalità più fragili non conoscono l’autocontrollo. Queste si reggono su piccoli poteri, fra cui, come in larghe parti del mondo, quello di maltrattare chi è debole o reso tale da taciti accordi sociali: donne e bambini. L’insulto supremo della loro ribellione non è sopportabile da questi fragili despoti: il passo al crimine è breve. Mancano i freni inibitori dell’educazione, quella che viene dalla famiglia e dal resto del mondo. Manca la paura della pena. Manca l’alternativa interiore di altri modi per affermarsi.
Ma ci sono anche uomini vittime degli abbandoni: sono quelli che, nel rispetto della legge e per la vendetta di mogli incattivite, si riducono in miseria e depressione dopo una separazione. Sono quelli della mensa dei poveri, quelli che muoiono in un garage, quelli privati della gioia di vedere i loro figli. Non mi riferisco a persone disturbate o malvagie, ma a quei ex-mariti-padri normali, che non ammazzano nessuno e che sottostanno a decisioni superficiali di giudici e servizi sociali abilitati a disporre della vita altrui. Non vedo soluzioni a breve termine, perché non c’è all’orizzonte alcun mutamento nell’ottica sociale, scolastica, mediatica. Auspico che si introduca la formazione degli insegnanti di ogni grado a educare ai diritti della persona. Dei giudici a comprendere i drammi familiari. E che ogni persona equilibrata si impegni a questo scopo, anche senza ruoli ufficiali. Che bambine, ragazze, donne siano più consce dei pericoli che corrono, e scelgano meglio. Che anche gli uomini imparino a scegliere. E che tutti e due sappiano che, anche se divorziare sembra facile, è il più delle volte una distruzione reciproca evitabile, esercitando la ragione, la pazienza, l’autocontrollo. E lo sforzo di amare, così poco popolare di questi tempi.

Il Corriere della Sera 06.02.12

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“Io, da fidanzato modello ad aguzzino così sono uscito dal tunnel dello stalking”, di Caterina Pasolini

Minacce e aggressioni. “Ero un persecutore per paura, volevo vendicarmi di chi mi aveva abbandonato”. Come Fabio e Marco ce ne sono 8mila l´anno Spesso le vittime sono le loro ex. «Ho ancora paura di me, di tornare ad essere quello che picchia, minaccia solo perché lei vuole essere libera. Quello che quando lei se n´è andata è crollato, rimanendo con un solo chiodo fisso: fargliela pagare, farla star male come stavo io».
Fabio, 30 anni, romano, fa il commerciante. Bella faccia, vestito bene, modi gentili, voce pacata. Il borghese della porta accanto, a cui una diffida ha cambiato la vita. Ragazzo modello, poi insospettabile aguzzino. Un viaggio all´inferno. Con ritorno: oggi è in cura da uno psicoterapeuta per riprendersi una vita normale «e non rendere un incubo quella di chi amo». Come Marco, 50 anni. Teme ancora si risvegli quella «bestia» che sente nel cuore e che lo ha spinto a volere morta la sua donna quando lo ha lasciato. Mesi di inseguimenti, agguati sotto casa col coltello stretto nella mano, pronto a ferirla, «ma poi usavo la lama contro di me, mi tagliavo le braccia perché il dolore che mi toglieva il respiro fosse solo fisico».
Di Fabio e Marco ce ne sono ottomila l´anno. Stalker. Persone denunciate per molestie insistenti, 1.237 quelle arrestate. Aumentano: più 60% le segnalazioni da quando c´è la legge, più 5% nel 2011. Così i dati, non ancora consolidati, del ministero dell´Interno fotografano una realtà dove le donne molestatrici sono il 25 per cento e uno stalker su tre è recidivo. La pena (da 6 mesi a 4 anni), da sola però non basta, insistono in molti. La legge che tanto ha fatto per bloccare i molestatori non prevede un supporto psicologico per le vittime né una terapia per gli stalker che, lasciati senza aiuto, rischiano di essere tra coloro che uccidono 100 donne ogni anno. Una ogni tre giorni, massacrata da chi dice di amarla. E la percentuale aumenta. Per questo sono nate associazioni di volontari. Come l´Osservatorio sullo stalking e il Cpa che organizzano sedute terapeutiche gratuite per chi ha subìto e per gli aguzzini. Sui 140 casi il risultato positivo, dicono, è dell´80%. E quasi sempre «al cuore del problema c´è l´incapacità di accettare l´idea di essere rifiutati, abbandonati, una ferita infantile da scoprire e curare».
Come per Fabio e Marco. Vite diverse, stesso bisogno di essere indispensabili, stesso genere di vittima: la loro compagna, come è nel 55 % dei casi, mentre il 15 % agisce sul lavoro, il 25 con i vicini, il 5 in famiglia.
Fabio racconta, come se fosse la vita di un altro, quel clic che giorno dopo giorno gli ha fatto alzare il tiro, passando dai litigi alle minacce. «Senza mai pensare di essere io quello sbagliato, anzi, il fatto che la mia donna restasse nonostante tutto, mi faceva sentire nel giusto mentre rincorrevo i miei fantasmi e ipotizzavo tradimenti inesistenti. La colpa per me era sempre sua, non ero io il violento, era lei che mi aveva provocato». Nessuno sospetta. Lui, è un manipolatore, è il fidanzato ideale, quello col pensiero giusto, il regalo per la futura suocera. È la sua tattica di sopravvivenza e fino a questa storia ha sempre funzionato: rendersi indispensabile per non essere lasciato. Ma quando la fidanzata esasperata dalla mania di controllo se ne va, il suo mondo si trasforma in violenza. «L´obbiettivo era annullare chi mi aveva rifiutato». E sono agguati, minacce fino a quando arriva la segnalazione ai carabinieri e le ultime parole di Silvia: «Fatti curare o ti denuncio». Fabio per una volta le dà retta. «Ora dopo anni di terapia ho capito che avevo reagito all´indifferenza di mia madre ributtando tutto sulla mia compagna. Capire non è cambiare ma ci sto provando».
Più dura la storia di Marco, impiegato modello fino a 40 anni, quando lei «mi ha lasciato senza spiegazioni, sbattendomi all´inferno. Ora sono sereno e cerco di controllare quella brutta bestia che sento dentro: il terrore di essere abbandonato. È la molla che ha scatenato tutto. Che mi ha mandato il cervello in acqua tanto che mi sembrava di sentire una voce che diceva: morta lei tu starai meglio. Da piccolo i miei genitori mi hanno abbandonato dai nonni e io mi sono sentito tradito, perso. Quando lei mi ha mollato io sono tornato ad essere il bambino lasciato solo che si vendica, che ferisce e si ferisce per attirare l´attenzione. Ma tutto questo l´ho capito dopo tanto, troppo tempo. Perché da soli non se ne esce».

La Repubblica 06.02.12

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Comencini: “È una mattanza un omicidio ogni due giorni”, di Anna Bandettini

Questo tipo di violenza non è cronaca nera, non è amore sbagliato, ma frutto di una cultura che ci vuole subalterne. «Dall´inizio dell´anno in Italia, da nord a sud, ogni due giorni una donna è stata uccisa, e l´assassino nel 99 per cento dei casi è l´ex marito o l´ex compagno. Nel 2011 sono state 128 le donne uccise da un uomo. I casi di stalking non si contano nemmeno più, e lo stalking, la persecuzione dell´uomo sulla donna, è solo l´inizio dell´assassinio, l´antefatto della morte. È una mattanza, un´emergenza nazionale». Cristina Comencini parla con rabbia e amarezza dopo l´ennesima violenza maschile sulla donna: il caso di Roma, lei in ospedale, forse per tentato suicidio, dopo mesi di stalking da parte dell´ex compagno e lui che per vendetta uccide il loro figlio gettandolo nelle acque del Tevere. “Basta”, dice Cristina Comencini e annuncia una campagna contro la violenza con “Se non ora quando” (Snoq), la rete nazionale di associazioni di donne che il 13 febbraio 2011 radunò sulla “dignità delle donne” un milione di persone nelle piazze e che solo una settimana fa ha organizzato una fiaccolata in ricordo di Stefania Noce, la ragazza siciliana uccisa dal fidanzato che aveva lasciato. «Stiamo avviando una campagna di conoscenza contro la violenza e chiediamo ai ministeri dell´Istruzione, delle Pari Opportunità e degli Interni di essere con noi: una campagna sui giovani e soprattutto sugli uomini, perché la violenza li chiama in causa direttamente».
Che può fare una campagna di conoscenza?
«Cambiare una cultura diffusa, tanto per cominciare. La violenza sulle donne non è un fatto di cronaca nera, ma il risultato di una cultura, secondo cui la donna deve essere subalterna, secondo cui in amore è una cosa dell´uomo e se lo lascia fa una cosa contro natura…Non si può più pensare che gli uomini non aprano una riflessione su questo, così come è inaccettabile sentir ancora parlare di “delitto passionale” o “amore sbagliato” nei casi di violenza. Amore?? Passione??”.
Quali le cose più urgenti da fare secondo voi?
«Innanzitutto informare in modo corretto le forze dell´ordine che spesso sottovalutano la violenza nelle famiglie, la richiesta di aiuto delle donne. Noi chiediamo, poi, alle Pari Opportunità di sostenere i centri antiviolenza cui sono stati tolti i fondi da anni. E soprattutto chiediamo alla Pubblica Istruzione che cominci a lavorare con i movimenti delle donne nelle scuole e nelle università per aprire discussioni. Noi come Snoq giovedì saremo in un istituto di Centocelle a Roma con lo spettacolo “Libere”, che affronta temi come l´immagine della donna nella società, la rappresentanza, temi non scissi da quello della violenza. E poi la due giorni a Bologna, l´11 e 12, per far sì che l´anniversario del 13 febbraio non sia la celebrazione di un successo ma una spinta per guardare avanti».

La Repubblica 06.02.12

“Quell’incapacità di sopportare la perdita”, di Federica Mormando

Sempre più spesso si sente di uomini che uccidono la donna che li lascia. Per questi signori la perdita è l’abbandono, non la morte. Infliggerla è il possesso supremo, il potere di vita e di morte. A lungo i maschi l’hanno avuto, regolato dalla legge, codificato nel delitto d’onore. Si ammazza per un furto, per il territorio, e per il furto più disonorevole: quello dell’oggetto che se ne va diventando persona e rifiutando l’identità di cosa posseduta. Ben di rado leggiamo di donne che ammazzino il marito. La legge è cambiata, si parla di diritti della persona, ma non è sfumata la vecchia logica: «Roba mia vientene con me», come diceva Mazzarò.
Le menti fragili, inevolute, si nutrono dei plurimi messaggi contro le donne che giungono da tutti i tipi di media. Nei film sono le femmine a subire ogni tipo di violenza, come nella cronaca, in report che fanno risaltare l’assassino come protagonista, anche se negativo. La formazione della persona è affidata al caso, le istituzioni collaborano assai poco. A scuola, fra tanti insegnamenti e laboratori verticali e trasversali manca del tutto quello alla parità dei sessi e al rispetto reciproco. La morale è roba da soffitta, chi ne parla più? La disciplina, giace con lei. L’immagine data dalla società è di impuniti delinquenti che se la godono a spese della brava gente. Le discussioni sul levare il Crocefisso dai muri ne stritolano il messaggio di stima della donna, oscurato in generale anche nelle lezioni di religione. Il consumismo senza etica, la disistima delle autorità, l’esaltazione della protesta e non della proposta, hanno creato una generazione di prepotenti fragili e poco razionali, dipendenti dall’avere, ignoranti dell’essere. Insomma, i freni all’impulso in favore del pensiero sono minimi, e le personalità più fragili non conoscono l’autocontrollo. Queste si reggono su piccoli poteri, fra cui, come in larghe parti del mondo, quello di maltrattare chi è debole o reso tale da taciti accordi sociali: donne e bambini. L’insulto supremo della loro ribellione non è sopportabile da questi fragili despoti: il passo al crimine è breve. Mancano i freni inibitori dell’educazione, quella che viene dalla famiglia e dal resto del mondo. Manca la paura della pena. Manca l’alternativa interiore di altri modi per affermarsi.
Ma ci sono anche uomini vittime degli abbandoni: sono quelli che, nel rispetto della legge e per la vendetta di mogli incattivite, si riducono in miseria e depressione dopo una separazione. Sono quelli della mensa dei poveri, quelli che muoiono in un garage, quelli privati della gioia di vedere i loro figli. Non mi riferisco a persone disturbate o malvagie, ma a quei ex-mariti-padri normali, che non ammazzano nessuno e che sottostanno a decisioni superficiali di giudici e servizi sociali abilitati a disporre della vita altrui. Non vedo soluzioni a breve termine, perché non c’è all’orizzonte alcun mutamento nell’ottica sociale, scolastica, mediatica. Auspico che si introduca la formazione degli insegnanti di ogni grado a educare ai diritti della persona. Dei giudici a comprendere i drammi familiari. E che ogni persona equilibrata si impegni a questo scopo, anche senza ruoli ufficiali. Che bambine, ragazze, donne siano più consce dei pericoli che corrono, e scelgano meglio. Che anche gli uomini imparino a scegliere. E che tutti e due sappiano che, anche se divorziare sembra facile, è il più delle volte una distruzione reciproca evitabile, esercitando la ragione, la pazienza, l’autocontrollo. E lo sforzo di amare, così poco popolare di questi tempi.

Il Corriere della Sera 06.02.12

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“Io, da fidanzato modello ad aguzzino così sono uscito dal tunnel dello stalking”, di Caterina Pasolini

Minacce e aggressioni. “Ero un persecutore per paura, volevo vendicarmi di chi mi aveva abbandonato”. Come Fabio e Marco ce ne sono 8mila l´anno Spesso le vittime sono le loro ex. «Ho ancora paura di me, di tornare ad essere quello che picchia, minaccia solo perché lei vuole essere libera. Quello che quando lei se n´è andata è crollato, rimanendo con un solo chiodo fisso: fargliela pagare, farla star male come stavo io».
Fabio, 30 anni, romano, fa il commerciante. Bella faccia, vestito bene, modi gentili, voce pacata. Il borghese della porta accanto, a cui una diffida ha cambiato la vita. Ragazzo modello, poi insospettabile aguzzino. Un viaggio all´inferno. Con ritorno: oggi è in cura da uno psicoterapeuta per riprendersi una vita normale «e non rendere un incubo quella di chi amo». Come Marco, 50 anni. Teme ancora si risvegli quella «bestia» che sente nel cuore e che lo ha spinto a volere morta la sua donna quando lo ha lasciato. Mesi di inseguimenti, agguati sotto casa col coltello stretto nella mano, pronto a ferirla, «ma poi usavo la lama contro di me, mi tagliavo le braccia perché il dolore che mi toglieva il respiro fosse solo fisico».
Di Fabio e Marco ce ne sono ottomila l´anno. Stalker. Persone denunciate per molestie insistenti, 1.237 quelle arrestate. Aumentano: più 60% le segnalazioni da quando c´è la legge, più 5% nel 2011. Così i dati, non ancora consolidati, del ministero dell´Interno fotografano una realtà dove le donne molestatrici sono il 25 per cento e uno stalker su tre è recidivo. La pena (da 6 mesi a 4 anni), da sola però non basta, insistono in molti. La legge che tanto ha fatto per bloccare i molestatori non prevede un supporto psicologico per le vittime né una terapia per gli stalker che, lasciati senza aiuto, rischiano di essere tra coloro che uccidono 100 donne ogni anno. Una ogni tre giorni, massacrata da chi dice di amarla. E la percentuale aumenta. Per questo sono nate associazioni di volontari. Come l´Osservatorio sullo stalking e il Cpa che organizzano sedute terapeutiche gratuite per chi ha subìto e per gli aguzzini. Sui 140 casi il risultato positivo, dicono, è dell´80%. E quasi sempre «al cuore del problema c´è l´incapacità di accettare l´idea di essere rifiutati, abbandonati, una ferita infantile da scoprire e curare».
Come per Fabio e Marco. Vite diverse, stesso bisogno di essere indispensabili, stesso genere di vittima: la loro compagna, come è nel 55 % dei casi, mentre il 15 % agisce sul lavoro, il 25 con i vicini, il 5 in famiglia.
Fabio racconta, come se fosse la vita di un altro, quel clic che giorno dopo giorno gli ha fatto alzare il tiro, passando dai litigi alle minacce. «Senza mai pensare di essere io quello sbagliato, anzi, il fatto che la mia donna restasse nonostante tutto, mi faceva sentire nel giusto mentre rincorrevo i miei fantasmi e ipotizzavo tradimenti inesistenti. La colpa per me era sempre sua, non ero io il violento, era lei che mi aveva provocato». Nessuno sospetta. Lui, è un manipolatore, è il fidanzato ideale, quello col pensiero giusto, il regalo per la futura suocera. È la sua tattica di sopravvivenza e fino a questa storia ha sempre funzionato: rendersi indispensabile per non essere lasciato. Ma quando la fidanzata esasperata dalla mania di controllo se ne va, il suo mondo si trasforma in violenza. «L´obbiettivo era annullare chi mi aveva rifiutato». E sono agguati, minacce fino a quando arriva la segnalazione ai carabinieri e le ultime parole di Silvia: «Fatti curare o ti denuncio». Fabio per una volta le dà retta. «Ora dopo anni di terapia ho capito che avevo reagito all´indifferenza di mia madre ributtando tutto sulla mia compagna. Capire non è cambiare ma ci sto provando».
Più dura la storia di Marco, impiegato modello fino a 40 anni, quando lei «mi ha lasciato senza spiegazioni, sbattendomi all´inferno. Ora sono sereno e cerco di controllare quella brutta bestia che sento dentro: il terrore di essere abbandonato. È la molla che ha scatenato tutto. Che mi ha mandato il cervello in acqua tanto che mi sembrava di sentire una voce che diceva: morta lei tu starai meglio. Da piccolo i miei genitori mi hanno abbandonato dai nonni e io mi sono sentito tradito, perso. Quando lei mi ha mollato io sono tornato ad essere il bambino lasciato solo che si vendica, che ferisce e si ferisce per attirare l´attenzione. Ma tutto questo l´ho capito dopo tanto, troppo tempo. Perché da soli non se ne esce».

La Repubblica 06.02.12

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Comencini: “È una mattanza un omicidio ogni due giorni”, di Anna Bandettini

Questo tipo di violenza non è cronaca nera, non è amore sbagliato, ma frutto di una cultura che ci vuole subalterne. «Dall´inizio dell´anno in Italia, da nord a sud, ogni due giorni una donna è stata uccisa, e l´assassino nel 99 per cento dei casi è l´ex marito o l´ex compagno. Nel 2011 sono state 128 le donne uccise da un uomo. I casi di stalking non si contano nemmeno più, e lo stalking, la persecuzione dell´uomo sulla donna, è solo l´inizio dell´assassinio, l´antefatto della morte. È una mattanza, un´emergenza nazionale». Cristina Comencini parla con rabbia e amarezza dopo l´ennesima violenza maschile sulla donna: il caso di Roma, lei in ospedale, forse per tentato suicidio, dopo mesi di stalking da parte dell´ex compagno e lui che per vendetta uccide il loro figlio gettandolo nelle acque del Tevere. “Basta”, dice Cristina Comencini e annuncia una campagna contro la violenza con “Se non ora quando” (Snoq), la rete nazionale di associazioni di donne che il 13 febbraio 2011 radunò sulla “dignità delle donne” un milione di persone nelle piazze e che solo una settimana fa ha organizzato una fiaccolata in ricordo di Stefania Noce, la ragazza siciliana uccisa dal fidanzato che aveva lasciato. «Stiamo avviando una campagna di conoscenza contro la violenza e chiediamo ai ministeri dell´Istruzione, delle Pari Opportunità e degli Interni di essere con noi: una campagna sui giovani e soprattutto sugli uomini, perché la violenza li chiama in causa direttamente».
Che può fare una campagna di conoscenza?
«Cambiare una cultura diffusa, tanto per cominciare. La violenza sulle donne non è un fatto di cronaca nera, ma il risultato di una cultura, secondo cui la donna deve essere subalterna, secondo cui in amore è una cosa dell´uomo e se lo lascia fa una cosa contro natura…Non si può più pensare che gli uomini non aprano una riflessione su questo, così come è inaccettabile sentir ancora parlare di “delitto passionale” o “amore sbagliato” nei casi di violenza. Amore?? Passione??”.
Quali le cose più urgenti da fare secondo voi?
«Innanzitutto informare in modo corretto le forze dell´ordine che spesso sottovalutano la violenza nelle famiglie, la richiesta di aiuto delle donne. Noi chiediamo, poi, alle Pari Opportunità di sostenere i centri antiviolenza cui sono stati tolti i fondi da anni. E soprattutto chiediamo alla Pubblica Istruzione che cominci a lavorare con i movimenti delle donne nelle scuole e nelle università per aprire discussioni. Noi come Snoq giovedì saremo in un istituto di Centocelle a Roma con lo spettacolo “Libere”, che affronta temi come l´immagine della donna nella società, la rappresentanza, temi non scissi da quello della violenza. E poi la due giorni a Bologna, l´11 e 12, per far sì che l´anniversario del 13 febbraio non sia la celebrazione di un successo ma una spinta per guardare avanti».

La Repubblica 06.02.12

Stragi naziste, Parlamentari Pd “Il nostro impegno non mancherà”

Con una interrogazione si chiederà al ministro Terzi di tenere fede agli impegni presi. “Immutato anche l’impegno per non disperdere il valore e il ricordo di quanto avvenuto: è da lì che nasce la democrazia così come la conosciamo oggi”: i parlamentari modenesi Barbolini, Bastico, Ghizzoni, Miglioli, Santagata e Garavini fanno proprio l’appello del sindaco di Palagano per non lasciare soli i famigliari delle vittime delle stragi di Monchio, Susano, Costrignano e Savoniero.

“Ha ragione, non è solo una questione di denaro, in gioco c’è anche un principio di giustizia”: i parlamentari modenesi Giuliano Barbolini, Mariangela Bastico, Manuela Ghizzoni, Ivano Miglioli, Giulio Santagata e Laura Garavini, vignolese d’origine ma eletta in Germania, raccolgono l’appello del sindaco di Palagano Fabio Braglia. “E’ chiaro – dicono i parlamentari – che le sentenze si rispettano e la Corte dell’Aja ha scritto la parola fine sull’eventuale responsabilità della Germania odierna per i crimini commessi dal Terzo Reich, però in quello stesso provvedimento è pure contenuto un invito ai due paesi a negoziare bilateralmente la questione indennizzi. I famigliari delle vittime della strage di Monchio, Susano, Costrignano e Savoniero avevano visto riconosciuto quel diritto nel 2008 dalla Cassazione con una pronuncia che ribadiva la gravità assoluta di quanto avvenuto sulle nostre montagne. Noi solleciteremo il Governo, con una interrogazione parlamentare, a dare seguito all’impegno preso dal ministro degli esteri Terzi quando ha dichiarato che, nel rispetto della sentenza, l’Italia continuerà a cercare soluzioni d’intesa con la Germania. Ancora una volta, saremo al fianco dei famigliari delle vittime e delle istituzioni locali. Al contempo, però, – concludono i parlamentari modenesi – ci impegneremo affinché la memoria di quanto accaduto non solo non venga cancellata, ma venga tenuta viva nelle scuole, nelle comunità, nei libri di testo. Perché è dal sacrificio e dall’impegno delle nostre genti che la convivenza democratica come la conosciamo oggi ha potuto nascere e prosperare”.

"Il governo degli assenti. Italia al gelo, dove sono finiti i ministri?", di Pietro Greco

Roma è stata sommersa negli ultimi giorni da una discreta quantità di neve, è stata attraversata da un’enorme quantità di polemiche istituzionali ed è stata assistita da una piccola quantità di mezzi di soccorso. In questa cattiva ripartizione di quantità consumata nella sua capitale, c’è la metafora di un Paese che sa sempre meno prevenire e sempre meno gestire le emergenze ambientali. Pagando un costo altissimo. Peraltro, dov’è il governo in questo momento? Qualcuno ha visto un ministro intervenire, dichiarare, organizzare? Se di emergenza si tratta, non si può scaricare tutto sul responsabile della Protezione civile o su un sindaco o sui gestori delle infrastrutture del Paese. È nelle difficoltà che un governo deve mostrare il proprio volto e le proprie capacità: questa è una regola che vale per tutti.
Detto questo, la “lezione di Roma” potrebbe aiutarci a non perdere altro tempo. E fare della prevenzione e gestione del territorio, non solo un’arma per aumentare la sicurezza (e non sarebbe poco), ma addirittura una leva di sviluppo economico? Ribaltare la condizione è possibile. Proprio ridistribuendo il rapporto tra quelle tre quantità di cui si diceva all’inizio. In primo luogo dobbiamo prendere atto che la “quantità di rischio ambientale” nei prossimi anni è destinata ad aumentare. Per due motivi. Uno legato ai cambiamenti del clima e al conseguente intensificarsi di eventi meteorologici estremi. Avremo nel nostro Paese più piogge torrenziali e più periodi di siccità, più erosione delle coste e più inondazioni, più frane, più onde di calore e, probabilmente, nevicate più rari ma più intense. L’altro motivo è legato alla mancata prevenzione del passato: che consiste di tante buone opere non fatte (per esempio la pulizia dei fiumi), di tante cattive opere fatte (cementificazione legale e illegale) e collasso della cultura del territorio. E così questo nostro territorio così ricco di beni paesaggistici, ambientali e culturali risulta nel complesso più fragile proprio mentre viene sottoposto a sollecitazioni più frequenti ed estreme.
In secondo luogo dobbiamo regolare la “quantità dei mezzi di soccorso” da mettere in campo. Non solo più spazzaneve o una miglior organizzazione per far giungere gli spazzaneve e gli altri strumenti tecnici dove servono quando servono. Comprese una rete elettrica e una rete ferroviaria e una rete stradale che non collassano quando nevica. Non solo restituire alla Protezione Civile la capacità di assolvere alle sue funzioni di coordinamento e di azione diretta, minata sia dall’interpretazione estensiva che ne ha dato per una luna stagione Guido Bertolaso sia da una legge (la n. 10 del 2011) che ne ha fortemente ridotto le possibilità di intervento. Occorre costruire una cultura della prevenzione concettualmente solida e tecnologicamente avanzata. Le nostre università sono in grado di fornire, come dire, le risorse umane per realizzare questa impresa. Le diverse e crescenti sollecitazioni cui sono sottoposti il nostro territorio e i nostri beni culturali ci offrono la possibilità di sperimentare sul campo organizzazione e tecnologie. Come sostengono autorevolmente Salvatore Settis e Luciano Gallino potremmo creare un’industria della prevenzione e della gestione del territorio e dei beni culturali capace di creare posti di lavoro qualificati e di esportare know how e prodotti all’estero.
Cosa resta da fare per trasformare questa proposta in un progetto? Beh, ridurre la terza quantità che si è manifestata in maniera inquietante durante le giornate innevate di Roma: l’incapacità istituzionale di affrontare in modo serio e solidale la prevenzione del rischio e la gestione dell’emergenza. Ma la polemica unilaterale del sindaco di Roma e del segretario del partito che ha la maggioranza relativa in Parlamento contro la Protezione Civile (mentre l’emergenza è in corso) farà il paio, sui media internazionali, con l’abbandono della Concordia del comandante Schettino, gettando ulteriore discredito sul Paese.

L’Unità 06.02.12

“Il governo degli assenti. Italia al gelo, dove sono finiti i ministri?”, di Pietro Greco

Roma è stata sommersa negli ultimi giorni da una discreta quantità di neve, è stata attraversata da un’enorme quantità di polemiche istituzionali ed è stata assistita da una piccola quantità di mezzi di soccorso. In questa cattiva ripartizione di quantità consumata nella sua capitale, c’è la metafora di un Paese che sa sempre meno prevenire e sempre meno gestire le emergenze ambientali. Pagando un costo altissimo. Peraltro, dov’è il governo in questo momento? Qualcuno ha visto un ministro intervenire, dichiarare, organizzare? Se di emergenza si tratta, non si può scaricare tutto sul responsabile della Protezione civile o su un sindaco o sui gestori delle infrastrutture del Paese. È nelle difficoltà che un governo deve mostrare il proprio volto e le proprie capacità: questa è una regola che vale per tutti.
Detto questo, la “lezione di Roma” potrebbe aiutarci a non perdere altro tempo. E fare della prevenzione e gestione del territorio, non solo un’arma per aumentare la sicurezza (e non sarebbe poco), ma addirittura una leva di sviluppo economico? Ribaltare la condizione è possibile. Proprio ridistribuendo il rapporto tra quelle tre quantità di cui si diceva all’inizio. In primo luogo dobbiamo prendere atto che la “quantità di rischio ambientale” nei prossimi anni è destinata ad aumentare. Per due motivi. Uno legato ai cambiamenti del clima e al conseguente intensificarsi di eventi meteorologici estremi. Avremo nel nostro Paese più piogge torrenziali e più periodi di siccità, più erosione delle coste e più inondazioni, più frane, più onde di calore e, probabilmente, nevicate più rari ma più intense. L’altro motivo è legato alla mancata prevenzione del passato: che consiste di tante buone opere non fatte (per esempio la pulizia dei fiumi), di tante cattive opere fatte (cementificazione legale e illegale) e collasso della cultura del territorio. E così questo nostro territorio così ricco di beni paesaggistici, ambientali e culturali risulta nel complesso più fragile proprio mentre viene sottoposto a sollecitazioni più frequenti ed estreme.
In secondo luogo dobbiamo regolare la “quantità dei mezzi di soccorso” da mettere in campo. Non solo più spazzaneve o una miglior organizzazione per far giungere gli spazzaneve e gli altri strumenti tecnici dove servono quando servono. Comprese una rete elettrica e una rete ferroviaria e una rete stradale che non collassano quando nevica. Non solo restituire alla Protezione Civile la capacità di assolvere alle sue funzioni di coordinamento e di azione diretta, minata sia dall’interpretazione estensiva che ne ha dato per una luna stagione Guido Bertolaso sia da una legge (la n. 10 del 2011) che ne ha fortemente ridotto le possibilità di intervento. Occorre costruire una cultura della prevenzione concettualmente solida e tecnologicamente avanzata. Le nostre università sono in grado di fornire, come dire, le risorse umane per realizzare questa impresa. Le diverse e crescenti sollecitazioni cui sono sottoposti il nostro territorio e i nostri beni culturali ci offrono la possibilità di sperimentare sul campo organizzazione e tecnologie. Come sostengono autorevolmente Salvatore Settis e Luciano Gallino potremmo creare un’industria della prevenzione e della gestione del territorio e dei beni culturali capace di creare posti di lavoro qualificati e di esportare know how e prodotti all’estero.
Cosa resta da fare per trasformare questa proposta in un progetto? Beh, ridurre la terza quantità che si è manifestata in maniera inquietante durante le giornate innevate di Roma: l’incapacità istituzionale di affrontare in modo serio e solidale la prevenzione del rischio e la gestione dell’emergenza. Ma la polemica unilaterale del sindaco di Roma e del segretario del partito che ha la maggioranza relativa in Parlamento contro la Protezione Civile (mentre l’emergenza è in corso) farà il paio, sui media internazionali, con l’abbandono della Concordia del comandante Schettino, gettando ulteriore discredito sul Paese.

L’Unità 06.02.12