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"Articolo 18 l'ossessione di governo e sindacati", di Eugenio Scalfari

Come in molti temevamo, l´articolo 18 è diventato un´ossessione ideologica sia per il governo sia per i sindacati. Il governo ne fa una condizione preliminare per la riforma del mercato del lavoro: se non si abolisce o almeno non si riscrive togliendo di mezzo l´ipotesi del reintegro dei licenziati, non si potrà migliorare la flessibilità in entrata e in uscita dei posti di lavoro e non si potrà combattere efficacemente il precariato.
I sindacati dal canto loro lo considerano la sola vera protezione dell´occupazione esistente nelle piccole aziende, che sono l´enorme maggioranza dell´economia italiana e quindi si oppongono a qualunque ritocco di quella norma.
Sbagliano sia il governo sia i sindacati. L´articolo 18 non serve infatti a impedire i licenziamenti discriminatori che i giudici possono in ogni caso bloccare ove ne accertino l´esistenza. Ma non impedisce affatto un miglioramento sostanziale della flessibilità e una riforma positiva del mercato del lavoro.
Sembrava fino a pochi giorni fa che Monti e Fornero avessero deciso di accantonare il tema e di procedere allo snellimento dei contratti di lavoro e di normative di contrasto del precariato. Ma ora si sono di nuovo impigliati in questa questione motivando che l´Europa e il mercato chiedono l´abolizione di quella norma. I mercati in realtà dell´articolo 18 se ne fregano, fino a un anno fa lo “spread” oscillava tra i 100 e i 150 punti nonostante che l´articolo 18 fosse in vigore. uanto all´Europa (e alla Germania) quella norma non ha niente a che vedere con il rigore e non è certo essenziale per la crescita per la quale semmai siamo noi in credito sia con l´Europa sia con la Germania.
Monti ha detto – nell´intervista data venerdì al nostro giornale – che i governi precedenti al suo «hanno avuto troppo buon cuore nei confronti degli italiani». Ancora una volta si è espresso in modo improprio come ha fatto riguardo al posto fisso «monotono». Il buon cuore dei precedenti governi sarebbe la causa dell´immenso debito pubblico accumulato negli anni Ottanta e mai affrontato con serietà per ottenerne la diminuzione. È esatto, salvo la notevole riduzione ottenuta da Ciampi e da Prodi che però fu rapidamente dissipata da Berlusconi e Tremonti. Ma l´immenso debito non si può attribuire al buon cuore, bensì alla preferenza di quei governi di scaricare sulle future generazioni l´onere d´un bilancio in pareggio da ottenere attraverso il fisco.
Meglio indebitarsi che tagliare la spesa o far pagare le imposte. Questo non è buon cuore ma furba demagogia.
L´articolo 18 dunque non deriva dal buon cuore di nessuno.
Fu introdotto nello statuto dei lavoratori per tutelare i dipendenti delle piccole imprese dove il sindacato interno non esiste. In tempi duri se ne può discutere purché non diventi un´ossessione né per gli uni né per gli altri.
* * *
Il vero tema che riguarda il lavoro è la creazione di nuova occupazione. Per realizzare questo risultato occorre che vi sia un rilancio della domanda interna ed estera.
Quest´ultima dipende dall´andamento dell´economia internazionale e quindi è fuori dal nostro controllo, ma il rilancio di quella interna dipende dalla politica economica e fiscale del governo, dalle imprese e dai sindacati.
Gli ultimi due – sindacati e imprese – possono anzi debbono darsi carico del problema della produttività e della competitività. Il governo dal canto suo deve trovare le risorse per accrescere il potere d´acquisto dei consumatori, senza di che le imprese non sono indotte a investire. Non si investe se i prodotti restano in magazzino.
Il governo ha poi un altro strumento per creare nuovi posti di lavoro: lanciare un piano sostanzioso di lavori pubblici. Esiste una mole enorme di lavori pubblici non solo utili ma necessari: l´edilizia scolastica, l´edilizia carceraria, la modernizzazione delle strutture portuali, quella della rete ferroviaria, gli argini fangosi dei fiumi e dei torrenti, lo «sfasciume pendulo» delle montagne.
Anche qui il problema è quello delle risorse. A costo zero fu il mantra di Tremonti e si è visto dove ci ha portato: all´immobilismo più disastroso.
* * *
Ci sono quattro modi per procurare risorse: 1. Tagliare la spesa pubblica dai suoi sprechi dovuti a disorganizzazione e a benefici clientelari.
2. Recuperare i miliardi evasi.
3. Alienare la parte più facilmente vendibile del patrimonio pubblico.
4. Imporre una tassa ai ricchi e sgravare le imposte ai redditi bassi e alle imprese lasciando così invariata la pressione fiscale.
Potenzialmente le cifre in discussione sono molto ingenti, ma per fermare la recessione e volgere in positivo il “trend” dell´economia reale occorre che la loro disponibilità sia utilizzata entro i prossimi mesi e allora le dimensioni si riducono molto. Dall´evasione è realistico aspettarsi quest´anno 15-20 miliardi, altrettanti dalla spending review e altrettanti ancora dalla vendita di beni pubblici.
Dall´utilizzazione immediata e senza alcuna nuova imposta ci si può dunque aspettare 50-60 miliardi.
L´imposta patrimoniale, se riservata alle fasce più elevate di ricchezza, non darebbe un gettito significativo.
Estenderla a fasce più basse è possibile se si tratta d´una patrimoniale ordinaria con aliquota non superiore all´1 per cento, visto che, almeno in parte, il ripristino dell´Ici contiene già un prelievo «progressivo».
Sessanta miliardi utilizzabili costituiscono comunque una massa di manovra non trascurabile. Le condizioni per rilanciare la crescita dunque ci sono, tanto più se alle poste sopra indicate si aggiungano gli introiti derivanti dalla riforma pensionistica e dalle liberalizzazioni, che dovrebbero fornire alcuni effetti già nel 2013.
L´operazione della liquidità attuata dalla Bce sta già producendo i primi benefici e altri ne verranno dal secondo sportello che Draghi ha predisposto per il prossimo febbraio. Si tratta d´un meccanismo di cui beneficiano sia le imprese sia i rendimenti dei titoli di Stato con conseguenze notevoli sull´andamento dell´economia reale e sulle aspettative dei mercati.
* * *
L´ottimismo è dunque motivato sempre che il governo possa continuare il suo lavoro fino al termine della legislatura.
Personalmente credo che questo avverrà, l´ipotesi che il Pdl venga meno all´impegno assunto non mi sembra realistica.
Esiste tuttavia un problema politico che riguarda i partiti e la loro innegabile crisi. Questo problema ha due aspetti: la legge elettorale e la natura stessa dei partiti che non potrà più essere quella che abbiamo fin qui conosciuto.
I partiti, di fatto, non esistono più. Esistono soltanto sparuti gruppi dirigenti e autoreferenti, che hanno perso ogni contatto col territorio e con gli elettori; una sovrastruttura che conserva un potere parlamentare, circondato però da una generale e crescente disistima che alimenta pericolosi fenomeni di antipolitica, mentre i compiti che si prospettano nella futura legislatura saranno non meno impegnativi di quelli che il governo Monti si è addossato.
Per riguadagnare il terreno che la politica ha perduto a causa dei partiti, diventati gusci vuoti e agenzie di collocamento delle proprie clientele, è dunque necessaria una profonda riflessione autocritica che purtroppo non è neppure cominciata né a destra né a sinistra. Non la sta facendo il Pdl e neppure il Pd. Il centro è più al riparo da quella crisi perché beneficia del fatto di essere un´opzione tra due debolezze ed in più beneficia anche d´una evidente attenzione da parte della Chiesa.
Ma il centro, da solo, cesserebbe di esistere; non a caso ha assunto il nome di Terzo polo che ne presuppone l´esistenza di altri due.
La destra dovrebbe rinascere dalle ceneri del berlusconismo, impresa quanto mai difficile fino a quando il Pdl non imploderà. Prima o poi quell´implosione avverrà perché è scritta nella natura di quel partito, un´accozzaglia di tribù tenute insieme dal populismo del vecchio padre-padrone, ormai finito in una rovina. Ci sarà ben poco di utilizzabile in quella rovina.
Resta il Partito democratico e la sinistra. Bersani, dopo le recenti amministrative e i referendum, ebbe una giusta intuizione: mettere il partito al servizio dei movimenti congeniali con la visione riformista del Pd e chiamarli a manifestare la loro vitalità in occasione delle primarie.
Nel frattempo fare del partito il luogo di dibattito e approfondimento dei temi di fondo: una visione dell´Italia e dell´Europa del futuro, un processo costituente da realizzare nella prossima legislatura, l´avvio della terza Repubblica ridando alla politica la forza propulsiva che ha da tempo e in larga misura smarrito.
Dopo questo governo nulla sarà più come prima. I partiti non si illudano di ricondurre la politica alla partitocrazia della prima Repubblica; si uscirà dal presente guardando al futuro e non tentando di recuperare un passato ormai sepolto per sempre.
Purtroppo questa tentazione esiste e se non sarà debellata porterà altre sciagure. Sta agli uomini di buona volontà far sì che questo non accada.

La Repubblica 05.02.12

“Articolo 18 l’ossessione di governo e sindacati”, di Eugenio Scalfari

Come in molti temevamo, l´articolo 18 è diventato un´ossessione ideologica sia per il governo sia per i sindacati. Il governo ne fa una condizione preliminare per la riforma del mercato del lavoro: se non si abolisce o almeno non si riscrive togliendo di mezzo l´ipotesi del reintegro dei licenziati, non si potrà migliorare la flessibilità in entrata e in uscita dei posti di lavoro e non si potrà combattere efficacemente il precariato.
I sindacati dal canto loro lo considerano la sola vera protezione dell´occupazione esistente nelle piccole aziende, che sono l´enorme maggioranza dell´economia italiana e quindi si oppongono a qualunque ritocco di quella norma.
Sbagliano sia il governo sia i sindacati. L´articolo 18 non serve infatti a impedire i licenziamenti discriminatori che i giudici possono in ogni caso bloccare ove ne accertino l´esistenza. Ma non impedisce affatto un miglioramento sostanziale della flessibilità e una riforma positiva del mercato del lavoro.
Sembrava fino a pochi giorni fa che Monti e Fornero avessero deciso di accantonare il tema e di procedere allo snellimento dei contratti di lavoro e di normative di contrasto del precariato. Ma ora si sono di nuovo impigliati in questa questione motivando che l´Europa e il mercato chiedono l´abolizione di quella norma. I mercati in realtà dell´articolo 18 se ne fregano, fino a un anno fa lo “spread” oscillava tra i 100 e i 150 punti nonostante che l´articolo 18 fosse in vigore. uanto all´Europa (e alla Germania) quella norma non ha niente a che vedere con il rigore e non è certo essenziale per la crescita per la quale semmai siamo noi in credito sia con l´Europa sia con la Germania.
Monti ha detto – nell´intervista data venerdì al nostro giornale – che i governi precedenti al suo «hanno avuto troppo buon cuore nei confronti degli italiani». Ancora una volta si è espresso in modo improprio come ha fatto riguardo al posto fisso «monotono». Il buon cuore dei precedenti governi sarebbe la causa dell´immenso debito pubblico accumulato negli anni Ottanta e mai affrontato con serietà per ottenerne la diminuzione. È esatto, salvo la notevole riduzione ottenuta da Ciampi e da Prodi che però fu rapidamente dissipata da Berlusconi e Tremonti. Ma l´immenso debito non si può attribuire al buon cuore, bensì alla preferenza di quei governi di scaricare sulle future generazioni l´onere d´un bilancio in pareggio da ottenere attraverso il fisco.
Meglio indebitarsi che tagliare la spesa o far pagare le imposte. Questo non è buon cuore ma furba demagogia.
L´articolo 18 dunque non deriva dal buon cuore di nessuno.
Fu introdotto nello statuto dei lavoratori per tutelare i dipendenti delle piccole imprese dove il sindacato interno non esiste. In tempi duri se ne può discutere purché non diventi un´ossessione né per gli uni né per gli altri.
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Il vero tema che riguarda il lavoro è la creazione di nuova occupazione. Per realizzare questo risultato occorre che vi sia un rilancio della domanda interna ed estera.
Quest´ultima dipende dall´andamento dell´economia internazionale e quindi è fuori dal nostro controllo, ma il rilancio di quella interna dipende dalla politica economica e fiscale del governo, dalle imprese e dai sindacati.
Gli ultimi due – sindacati e imprese – possono anzi debbono darsi carico del problema della produttività e della competitività. Il governo dal canto suo deve trovare le risorse per accrescere il potere d´acquisto dei consumatori, senza di che le imprese non sono indotte a investire. Non si investe se i prodotti restano in magazzino.
Il governo ha poi un altro strumento per creare nuovi posti di lavoro: lanciare un piano sostanzioso di lavori pubblici. Esiste una mole enorme di lavori pubblici non solo utili ma necessari: l´edilizia scolastica, l´edilizia carceraria, la modernizzazione delle strutture portuali, quella della rete ferroviaria, gli argini fangosi dei fiumi e dei torrenti, lo «sfasciume pendulo» delle montagne.
Anche qui il problema è quello delle risorse. A costo zero fu il mantra di Tremonti e si è visto dove ci ha portato: all´immobilismo più disastroso.
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Ci sono quattro modi per procurare risorse: 1. Tagliare la spesa pubblica dai suoi sprechi dovuti a disorganizzazione e a benefici clientelari.
2. Recuperare i miliardi evasi.
3. Alienare la parte più facilmente vendibile del patrimonio pubblico.
4. Imporre una tassa ai ricchi e sgravare le imposte ai redditi bassi e alle imprese lasciando così invariata la pressione fiscale.
Potenzialmente le cifre in discussione sono molto ingenti, ma per fermare la recessione e volgere in positivo il “trend” dell´economia reale occorre che la loro disponibilità sia utilizzata entro i prossimi mesi e allora le dimensioni si riducono molto. Dall´evasione è realistico aspettarsi quest´anno 15-20 miliardi, altrettanti dalla spending review e altrettanti ancora dalla vendita di beni pubblici.
Dall´utilizzazione immediata e senza alcuna nuova imposta ci si può dunque aspettare 50-60 miliardi.
L´imposta patrimoniale, se riservata alle fasce più elevate di ricchezza, non darebbe un gettito significativo.
Estenderla a fasce più basse è possibile se si tratta d´una patrimoniale ordinaria con aliquota non superiore all´1 per cento, visto che, almeno in parte, il ripristino dell´Ici contiene già un prelievo «progressivo».
Sessanta miliardi utilizzabili costituiscono comunque una massa di manovra non trascurabile. Le condizioni per rilanciare la crescita dunque ci sono, tanto più se alle poste sopra indicate si aggiungano gli introiti derivanti dalla riforma pensionistica e dalle liberalizzazioni, che dovrebbero fornire alcuni effetti già nel 2013.
L´operazione della liquidità attuata dalla Bce sta già producendo i primi benefici e altri ne verranno dal secondo sportello che Draghi ha predisposto per il prossimo febbraio. Si tratta d´un meccanismo di cui beneficiano sia le imprese sia i rendimenti dei titoli di Stato con conseguenze notevoli sull´andamento dell´economia reale e sulle aspettative dei mercati.
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L´ottimismo è dunque motivato sempre che il governo possa continuare il suo lavoro fino al termine della legislatura.
Personalmente credo che questo avverrà, l´ipotesi che il Pdl venga meno all´impegno assunto non mi sembra realistica.
Esiste tuttavia un problema politico che riguarda i partiti e la loro innegabile crisi. Questo problema ha due aspetti: la legge elettorale e la natura stessa dei partiti che non potrà più essere quella che abbiamo fin qui conosciuto.
I partiti, di fatto, non esistono più. Esistono soltanto sparuti gruppi dirigenti e autoreferenti, che hanno perso ogni contatto col territorio e con gli elettori; una sovrastruttura che conserva un potere parlamentare, circondato però da una generale e crescente disistima che alimenta pericolosi fenomeni di antipolitica, mentre i compiti che si prospettano nella futura legislatura saranno non meno impegnativi di quelli che il governo Monti si è addossato.
Per riguadagnare il terreno che la politica ha perduto a causa dei partiti, diventati gusci vuoti e agenzie di collocamento delle proprie clientele, è dunque necessaria una profonda riflessione autocritica che purtroppo non è neppure cominciata né a destra né a sinistra. Non la sta facendo il Pdl e neppure il Pd. Il centro è più al riparo da quella crisi perché beneficia del fatto di essere un´opzione tra due debolezze ed in più beneficia anche d´una evidente attenzione da parte della Chiesa.
Ma il centro, da solo, cesserebbe di esistere; non a caso ha assunto il nome di Terzo polo che ne presuppone l´esistenza di altri due.
La destra dovrebbe rinascere dalle ceneri del berlusconismo, impresa quanto mai difficile fino a quando il Pdl non imploderà. Prima o poi quell´implosione avverrà perché è scritta nella natura di quel partito, un´accozzaglia di tribù tenute insieme dal populismo del vecchio padre-padrone, ormai finito in una rovina. Ci sarà ben poco di utilizzabile in quella rovina.
Resta il Partito democratico e la sinistra. Bersani, dopo le recenti amministrative e i referendum, ebbe una giusta intuizione: mettere il partito al servizio dei movimenti congeniali con la visione riformista del Pd e chiamarli a manifestare la loro vitalità in occasione delle primarie.
Nel frattempo fare del partito il luogo di dibattito e approfondimento dei temi di fondo: una visione dell´Italia e dell´Europa del futuro, un processo costituente da realizzare nella prossima legislatura, l´avvio della terza Repubblica ridando alla politica la forza propulsiva che ha da tempo e in larga misura smarrito.
Dopo questo governo nulla sarà più come prima. I partiti non si illudano di ricondurre la politica alla partitocrazia della prima Repubblica; si uscirà dal presente guardando al futuro e non tentando di recuperare un passato ormai sepolto per sempre.
Purtroppo questa tentazione esiste e se non sarà debellata porterà altre sciagure. Sta agli uomini di buona volontà far sì che questo non accada.

La Repubblica 05.02.12

"Un decreto strappa di mano i beni dello Stato" di Luca Del Fra

Bufera sul frutto avvelenato contenuto nella legge per Roma Capitale che affida al Campidoglio funzioni nella valorizzazione e nella tutela del nostro patrimonio culturale. Con forti profili di incostituzionalità

Il 20 gennaio scorso i funzionari del Comune si sono presentati a Palazzo Venezia chiedendo la documentazione su un piccolo restauro in corso, appenaunpaio di ponteggi. Gelosissimi delle loro competenze che comprendono la tutela dei beni culturali, i funzionari dello Stato si sono rifiutati e s’è scatenato un parapiglia: nervi tesi, voci stridule che si sovrapponevano, qualche minaccia, torve lettere tra le amministrazioni.
È il primo frutto avvelenato del decreto attuativo sulla legge perRomaCapitale, che affida alCampidoglio funzioni nella valorizzazione e, tremate!, anche nella tutela dei Beni Culturali. Così, a dispetto delle leggi e della Costituzione repubblicana, il sindaco oltre che sulla città potrà allungare le mani anche sulla archeologia, l’arte, i monumenti: ovvero il nostro patrimonio più importante e prezioso.
DECRETO FUORI LEGGE
Redatto dal precedente esecutivo, approvato il 21novembre scorso nella prima riunione operativa del Consiglio dei ministri del governo Monti, e ora in via di conversione in legge, il decreto contiene diversi profili discutibili.
All’articolo 1 viene «istituita un’apposita sessione della Conferenza Unificata traRomaCapitale (il Comune), lo Stato, la Regione Lazio e la Provincia». Gli articoli 2 e 4, attribuiscono alla Commissione competenze nella «valorizzazione…. anche ai fini del rilascio di titoli autorizzatori, nulla osta e pareri preventivi nell’ambito di procedimenti amministrativi concernenti beni culturali presenti nel territorio di Roma Capitale ». Nella sostanza i rappresentanti del Sindaco potranno mettere bocca dall’orario dei musei dello Stato fino al rilascio delle licenze per costruire in zone di interesse archeologico, artistico o architettonico. Si tratta di una della funzioni fondamentali della tutela, che la Costituzione, articolo 117, affida all’esclusiva potestà allo Stato, vale a dire al Ministero dei Beni Culturali. Anche il Codice per i Beni e le Attività Culturali (D. Lgs. 42/2004) ribadisce che il Mibac ha «le funzioni di tutela sui beni culturali», estendendole a scanso di equivoci a tutti gli interventi che coinvolgono beni pubblici o privati. Eppure qualcuno ha voluto equivocare. Ma c’è di più: è assai discutibile che una conferenza possa emettere autorizzazioni o pareri sull’impatto ambientale. A tutela dei cittadini, la Legge 241del ’90, prescrive tassativamente per ogni procedimento di individuare un’amministrazione competente e uno specifico responsabile – persona fisica. Una sessione della Conferenza per Roma Capitale non è, né potrà mai essere, un’amministrazione competente o una persona fisica da individuare come responsabile. Il decreto, insomma, appare in palese contrasto con la Costituzione e con la legge. In palese contrasto con la Costituzione e con la legge, il decreto in definitiva crea evidenti problemi – di fronte a un ricorso contro un’autorizzazione chi ne risponde, una conferenza? –, per non parlare dei conflitti d’interesse: i lavori del Comune di Roma li autorizza il Comune di Roma! Dulcis in fundo: i beni ecclesiastici sono esclusi da un provvedimento tanto singolare. «Orate fratres»: ecco i privilegi «a divinis».
Pretesa dall’attuale Sindaco di Roma Alemanno, lasciata in eredità dal precedente governo Berlusconi all’attuale di Monti, questa normativa contiene tali e tanti punti controversi che avrebbe meritato una più seria e pacata discussione parlamentare invece d’essere approvata frettolosamente come decreto legge, peraltro l’ultimo giorno utile prima della decadenza del provvedimento.
Gli interessi in gioco sono enormi e, per fare qualche ipotesi d’attualità, Alemanno avrebbe un paio questioncelle da risolvere. A cominciare dal parcheggio sotto via Ripetta, cui il sindaco tiene tanto e che dovrebbe sorgere in un terreno sovraccarico di antiche e importantissime vestigia, che fino a oggi hanno imposto di negare qualsiasi autorizzazione. E poi i lavori per le pretese Olimpiadi, gli scavi della Metro (dai costi triplicati col sindaco che dà la colpa agli archeologi, che hanno semplicemente svolto il loro lavoro e con estrema puntualità), e tanti altri appetiti che si scatenano mangiando. Ma al di là del fatto che oggi in Campidoglio ci sia Alemanno, d’ora in avanti e per sempre questo decreto prevede che Regione, Provincia e Comune – amministrazioni antonomasticamente soggette, per non dire sensibili, a pressioni più o meno limpide –, decidano sul nostro patrimonio.
E questo attraverso la sessione di una Conferenza che rischia di restare in bilico fra una trincea di veti incrociati e un mercato delle vacche. Il 21 febbraio scadono i termini per la conversione in legge di questo decreto.

da L’Unità

******

“Quer pasticciaccio capitale”, di Vittorio Emiliani

Nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo». Così il Carlo Emilio Gadda in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. «Gnommero» citato da Paolo Fallai sul «Corriere della Sera» a proposito del pastrocchio- Muller servito da Alemanno- Polverini alla Festa del Cinema. E che può ben essere evocato per il decreto su Roma Capitale. Per il quale il dibattito parlamentare, sin qui inadeguato, ha proposto più nodi irrisolti che soluzioni condivisibili.
Temi a Roma e dintorni delicatissimi come urbanistica, ambiente, beni culturali dovrebbero far capo, secondo il DL, ad una conferenza dei servizi, debole e ambigua, come osserva Luca Del Fra. Dalla Regione e ancor più dallo Stato i poteri decisionali trasmigrerebbero, a Roma (e ho detto poco), in una sorta di limbo opaco. Davvero un suicidio rendere ancor meno chiari, attrezzati e penetranti i poteri amministrativi – quindi piani, prescrizioni, controlli – a fronte della forza dirompente dei costruttori legali (in un colpo solo, detentori di aree/imprenditori edilizi/immobiliaristi) e di un abusivismo spesso inquinato dalla malavita.
UN BRACCIO DI FERRO
Né serve molto dire che è in atto un braccio di ferro fra il Comune che vuole più poteri e la Regione che non li cede. Anche perché, fino a prova contraria, certi poteri sono oggi dello Stato. E dico «per fortuna » anche se ilMiBACnon è un fulmine di guerra. Non lo è nel difendere Roma dall’assalto dell’involgarimento, dell’imbruttimento, della mercificazione, e però il Campidoglio sta addirittura dall’altra parte. Il sottosegretario Cecchi sparge camomilla dicendo che Roma è già sufficientemente tutelata.
Chi ha occhi per vedere, sa che così non è. Ma, con questo «gnommero» o pasticciaccio di decreto, andrebbe, paradossalmente, anche peggio.

da L’Unità

“Un decreto strappa di mano i beni dello Stato” di Luca Del Fra

Bufera sul frutto avvelenato contenuto nella legge per Roma Capitale che affida al Campidoglio funzioni nella valorizzazione e nella tutela del nostro patrimonio culturale. Con forti profili di incostituzionalità

Il 20 gennaio scorso i funzionari del Comune si sono presentati a Palazzo Venezia chiedendo la documentazione su un piccolo restauro in corso, appenaunpaio di ponteggi. Gelosissimi delle loro competenze che comprendono la tutela dei beni culturali, i funzionari dello Stato si sono rifiutati e s’è scatenato un parapiglia: nervi tesi, voci stridule che si sovrapponevano, qualche minaccia, torve lettere tra le amministrazioni.
È il primo frutto avvelenato del decreto attuativo sulla legge perRomaCapitale, che affida alCampidoglio funzioni nella valorizzazione e, tremate!, anche nella tutela dei Beni Culturali. Così, a dispetto delle leggi e della Costituzione repubblicana, il sindaco oltre che sulla città potrà allungare le mani anche sulla archeologia, l’arte, i monumenti: ovvero il nostro patrimonio più importante e prezioso.
DECRETO FUORI LEGGE
Redatto dal precedente esecutivo, approvato il 21novembre scorso nella prima riunione operativa del Consiglio dei ministri del governo Monti, e ora in via di conversione in legge, il decreto contiene diversi profili discutibili.
All’articolo 1 viene «istituita un’apposita sessione della Conferenza Unificata traRomaCapitale (il Comune), lo Stato, la Regione Lazio e la Provincia». Gli articoli 2 e 4, attribuiscono alla Commissione competenze nella «valorizzazione…. anche ai fini del rilascio di titoli autorizzatori, nulla osta e pareri preventivi nell’ambito di procedimenti amministrativi concernenti beni culturali presenti nel territorio di Roma Capitale ». Nella sostanza i rappresentanti del Sindaco potranno mettere bocca dall’orario dei musei dello Stato fino al rilascio delle licenze per costruire in zone di interesse archeologico, artistico o architettonico. Si tratta di una della funzioni fondamentali della tutela, che la Costituzione, articolo 117, affida all’esclusiva potestà allo Stato, vale a dire al Ministero dei Beni Culturali. Anche il Codice per i Beni e le Attività Culturali (D. Lgs. 42/2004) ribadisce che il Mibac ha «le funzioni di tutela sui beni culturali», estendendole a scanso di equivoci a tutti gli interventi che coinvolgono beni pubblici o privati. Eppure qualcuno ha voluto equivocare. Ma c’è di più: è assai discutibile che una conferenza possa emettere autorizzazioni o pareri sull’impatto ambientale. A tutela dei cittadini, la Legge 241del ’90, prescrive tassativamente per ogni procedimento di individuare un’amministrazione competente e uno specifico responsabile – persona fisica. Una sessione della Conferenza per Roma Capitale non è, né potrà mai essere, un’amministrazione competente o una persona fisica da individuare come responsabile. Il decreto, insomma, appare in palese contrasto con la Costituzione e con la legge. In palese contrasto con la Costituzione e con la legge, il decreto in definitiva crea evidenti problemi – di fronte a un ricorso contro un’autorizzazione chi ne risponde, una conferenza? –, per non parlare dei conflitti d’interesse: i lavori del Comune di Roma li autorizza il Comune di Roma! Dulcis in fundo: i beni ecclesiastici sono esclusi da un provvedimento tanto singolare. «Orate fratres»: ecco i privilegi «a divinis».
Pretesa dall’attuale Sindaco di Roma Alemanno, lasciata in eredità dal precedente governo Berlusconi all’attuale di Monti, questa normativa contiene tali e tanti punti controversi che avrebbe meritato una più seria e pacata discussione parlamentare invece d’essere approvata frettolosamente come decreto legge, peraltro l’ultimo giorno utile prima della decadenza del provvedimento.
Gli interessi in gioco sono enormi e, per fare qualche ipotesi d’attualità, Alemanno avrebbe un paio questioncelle da risolvere. A cominciare dal parcheggio sotto via Ripetta, cui il sindaco tiene tanto e che dovrebbe sorgere in un terreno sovraccarico di antiche e importantissime vestigia, che fino a oggi hanno imposto di negare qualsiasi autorizzazione. E poi i lavori per le pretese Olimpiadi, gli scavi della Metro (dai costi triplicati col sindaco che dà la colpa agli archeologi, che hanno semplicemente svolto il loro lavoro e con estrema puntualità), e tanti altri appetiti che si scatenano mangiando. Ma al di là del fatto che oggi in Campidoglio ci sia Alemanno, d’ora in avanti e per sempre questo decreto prevede che Regione, Provincia e Comune – amministrazioni antonomasticamente soggette, per non dire sensibili, a pressioni più o meno limpide –, decidano sul nostro patrimonio.
E questo attraverso la sessione di una Conferenza che rischia di restare in bilico fra una trincea di veti incrociati e un mercato delle vacche. Il 21 febbraio scadono i termini per la conversione in legge di questo decreto.

da L’Unità

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“Quer pasticciaccio capitale”, di Vittorio Emiliani

Nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo». Così il Carlo Emilio Gadda in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. «Gnommero» citato da Paolo Fallai sul «Corriere della Sera» a proposito del pastrocchio- Muller servito da Alemanno- Polverini alla Festa del Cinema. E che può ben essere evocato per il decreto su Roma Capitale. Per il quale il dibattito parlamentare, sin qui inadeguato, ha proposto più nodi irrisolti che soluzioni condivisibili.
Temi a Roma e dintorni delicatissimi come urbanistica, ambiente, beni culturali dovrebbero far capo, secondo il DL, ad una conferenza dei servizi, debole e ambigua, come osserva Luca Del Fra. Dalla Regione e ancor più dallo Stato i poteri decisionali trasmigrerebbero, a Roma (e ho detto poco), in una sorta di limbo opaco. Davvero un suicidio rendere ancor meno chiari, attrezzati e penetranti i poteri amministrativi – quindi piani, prescrizioni, controlli – a fronte della forza dirompente dei costruttori legali (in un colpo solo, detentori di aree/imprenditori edilizi/immobiliaristi) e di un abusivismo spesso inquinato dalla malavita.
UN BRACCIO DI FERRO
Né serve molto dire che è in atto un braccio di ferro fra il Comune che vuole più poteri e la Regione che non li cede. Anche perché, fino a prova contraria, certi poteri sono oggi dello Stato. E dico «per fortuna » anche se ilMiBACnon è un fulmine di guerra. Non lo è nel difendere Roma dall’assalto dell’involgarimento, dell’imbruttimento, della mercificazione, e però il Campidoglio sta addirittura dall’altra parte. Il sottosegretario Cecchi sparge camomilla dicendo che Roma è già sufficientemente tutelata.
Chi ha occhi per vedere, sa che così non è. Ma, con questo «gnommero» o pasticciaccio di decreto, andrebbe, paradossalmente, anche peggio.

da L’Unità

"Scuola, 10.443 prof in esubero. Il ministro Profumo lo sa?", di Fabio Luppino

Il ministro Profumo farebbe bene a confrontarsi con la realtà prima di lanciare idee apparentemente meravigliose. Proporre di fare un nuovo concorso per reclutare docenti cozza con una situazione del personale che consiglierebbe tutt’altro. L’anno scolastico 2012-2013 erediterà un quadro lavorativo ben poco incoraggiante. Ci sono 10.443 professori in esubero tra scuola primaria, medie e superiori. L’effetto ultimo delle riforme Tremonti-Gelmini che di posti ne hanno tagliati complessivamente 80mila. Docenti che, se nel frattempo non si mette mano a qualcosa, rischiano nel giro del prossimo biennio di essere messi in mobilità e licenziati.

LA TABELLA (in Microsoft Office Excel)

Sono insegnanti di ruolo che stanno assistendo alla vertiginosa contrazione delle ore della propria classe di concorso: l’ulteriore entrata a regime della riforma Gelmini nei licei porterà ancora contrazioni. Finiranno per avere spezzoni, nel caso migliore. Ma molti perderanno l’ambita cattedra e dovranno essere riconvertiti. Si è parlato di spostarli nel sostegno (qui ci sono molti posti da riempire) con corsi ad hoc, ma è ancora tutto fermo.

Il quadro al momento è questo. Sono in esubero 1.772 insegnanti nella scuola primaria, 540 alle medie, 8.131 alle superiori. La riforma a regime, l’aumento dell’età pensionabile in vigore dal primo gennaio di quest’anno, gli accorpamenti di scuole in corso faranno aumentare questa cifra. La sofferenza principale è al Sud. Il governo lo sa?

da www.unita.it

“Scuola, 10.443 prof in esubero. Il ministro Profumo lo sa?”, di Fabio Luppino

Il ministro Profumo farebbe bene a confrontarsi con la realtà prima di lanciare idee apparentemente meravigliose. Proporre di fare un nuovo concorso per reclutare docenti cozza con una situazione del personale che consiglierebbe tutt’altro. L’anno scolastico 2012-2013 erediterà un quadro lavorativo ben poco incoraggiante. Ci sono 10.443 professori in esubero tra scuola primaria, medie e superiori. L’effetto ultimo delle riforme Tremonti-Gelmini che di posti ne hanno tagliati complessivamente 80mila. Docenti che, se nel frattempo non si mette mano a qualcosa, rischiano nel giro del prossimo biennio di essere messi in mobilità e licenziati.

LA TABELLA (in Microsoft Office Excel)

Sono insegnanti di ruolo che stanno assistendo alla vertiginosa contrazione delle ore della propria classe di concorso: l’ulteriore entrata a regime della riforma Gelmini nei licei porterà ancora contrazioni. Finiranno per avere spezzoni, nel caso migliore. Ma molti perderanno l’ambita cattedra e dovranno essere riconvertiti. Si è parlato di spostarli nel sostegno (qui ci sono molti posti da riempire) con corsi ad hoc, ma è ancora tutto fermo.

Il quadro al momento è questo. Sono in esubero 1.772 insegnanti nella scuola primaria, 540 alle medie, 8.131 alle superiori. La riforma a regime, l’aumento dell’età pensionabile in vigore dal primo gennaio di quest’anno, gli accorpamenti di scuole in corso faranno aumentare questa cifra. La sofferenza principale è al Sud. Il governo lo sa?

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"Perché lo spread conta (ma da solo non basta)", di Donato Masciandaro

In questi giorni si osserva con generale grande soddisfazione la riduzione dello spread dell’Italia, arrivato a quota 375, duecento punti sotto il picco del novembre scorso. Ma che cosa è oggi lo spread?

Quando un termometro nato per indicare un rischio economico futuro diventa invece un segnale di crisi politica imminente, dobbiamo continuare a utilizzarlo come se niente fosse accaduto, ovvero interrogarci su come migliorarlo?
Un effetto generale e pervasivo della crisi dei debiti sovrani europei avviatasi dal 2010 è il tracimare – anche nel linguaggio comune – del termine spread.

I l significato del sostantivo spread ha subito una rapida evoluzione proprio a partire da quel momento. Lo spread BB10 di cui parliamo è la differenza tra il rendimento di un titolo italiano (BTp) e quello di un titolo tedesco (Bund) su uno stesso orizzonte temporale: dieci anni. Ma lo spread si può calcolare anche per Paesi diversi dall’Italia. In generale perciò la differenza tra i due rendimenti ci dà la misura di un rischio futuro: se lo spread è nullo, vuol dire che la probabilità che tra dieci anni uno stato – per esempio quello italiano – onori il suo debito è identica a quella dello stato tedesco.

Al crescere dello spread attribuiamo allora il significato di una maggiore probabilità futura di fallimento dello stato in questione.
Ma da che cosa dipende lo spread? In situazioni normali, lo spread dipende di solito da quanto un Paese è indebitato, rispetto alle sue capacità di generare reddito; quindi si guarda il rapporto tra il totale del debito di quel Paese ed il suo prodotto interno; chiamiamolo debito ponderato. Ma qui nasce il primo problema: il termometro dello spread nell’Unione Europea non ha funzionato.
Se infatti si guardano gli anni che vanno dal 2000 al 2008 si scopre che gli spread dei vari Paesi appartenenti alla zona Euro non hanno affatto seguito il profilo dei rispettivi debiti ponderati. Gli spread erano molto simili tra di loro – tendenzialmente nulli – nonostante i debiti ponderati fossero molto diversi, passando da livelli del 20% ad oltre i 110% (pensiamo all’Italia e alla Germania, ma non solo). Dunque per i Paesi ad alto debito ponderato lo spread sottostimava il rischio fallimento.

Ad uno stesso debito ponderato corrispondeva un valore più alto o più basso dello spread, a seconda che il Paese fosse fuori o dentro l’area Euro. Conosciamo la ragione: i mercati ritenevano credibile il principio di solidarietà europea, per cui difficoltà di un Paese ad alto debito relativo sarebbero state affrontate anche dagli altri Paesi. Ma rimane il fatto che il termometro ha funzionato in modo anomalo, visto che l’ammontare del debito veniva completamente trascurato per i paesi Euro, mentre qualcosa contava per i Paesi non Euro.

Il termometro spread ha funzionato però anche peggio a partire dal 2010, quando sono iniziati e poi diffusi – vertice dopo vertice – gli scricchiolii del principio di solidarietà europea, poi definitivamente infranto con la dichiarazione di Dauville di ottobre, che ha aperto l’inedita possibilità che i privati detentori dei titoli greci subissero ingenti perdite.

Da quel momento il termometro per l’area Euro è impazzito: l’ammontare del debito è improvvisamente diventato molto rilevante, forse troppo. I rendimenti a dieci anni dei paesi ad alto debito ponderato sono schizzati a livelli non giustificabili, se non dal fatto che tali paesi fossero membri dell’area euro. Nulla di tutto questo è accaduto per i paesi ad alto indebitamento fuori dall’area euro.
Nei casi più eclatanti – Grecia, Portogallo e Irlanda – le salite dei rendimenti si sono rinforzate in sequenza temporale, rinforzando il loro sganciamento dai valori “normali”. Allo stesso modo, sono divenuti ingiustificabilmente bassi i rendimenti a dieci anni dei paesi a basso debito ponderato, sempre dell’area Euro. È stato calcolato che in generale l’aumento degli spread è stato sei volte maggiore di quello spiegabile guardando al debito ponderato. Insomma: il termometro non è più affidabile.

Ma c’è di più: lo spread è diventato nel linguaggio comune sinonimo di indicatore di costo di indebitamento tout court. Per cui ogni aumento dello spread viene interpretato come un aumento dei costi del debito, che per un Paese ad alto debito significa che il momento del default è più vicino. Più lo spread si allarga più il rischio default si avvicina. Quindi il problema non riguarda più un lontano governo, ma l’Esecutivo che è in carica in quel Paese. Lo spread si è trasformato da indicatore di rischio economico futuro a quello di rischio politico presente. Ne sanno qualcosa i governi di Grecia, Spagna ed Italia. Il termometro ha cambiato natura.
Il punto è questo: un termometro mal tarato e dal significato ambiguo può essere molto dannoso. Anche a voler accettare l’idea che spread sia divenuto un termometro del rischio politico, quindi del costo dell’indebitamento allora modifichiamolo da almeno due punti di vista. In primo luogo, se siamo interessati al costo di indebitamento in termini assoluti, smettiamola di guardare solo ai titoli a dieci anni, e consideriamo tutte le scadenze.

A titolo di esempio, ieri i rendimenti a 10 anni sono scesi al 5,63%, ma in realtà è tutta la curva che ha beneficiato della cura Monti: a 5 anni i rendimenti sono al 4,25%, a 2 anni al 3,01%. Il termometro, con più informazioni, è più veritiero. In secondo luogo, se ci interessano anche il costo relativo, perché continuare ad utilizzare come parametro i titoli tedeschi, che hanno destini intrecciati – ancorchè speculari – con gli altri? Prendiamo un Paese ad alta credibilità esterno all’area euro (può essere la Svizzera, o la Svezia, o altri ancora). Si noti che questo non significa scegliersi il parametro più comodo: ieri lo spread rispetto alla Svizzera era 490, rispetto alla Svezia 380. Dunque, perché rassegnarsi ad usare un termometro ambiguo?

da www.ilsole24ore.com