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“Perché lo spread conta (ma da solo non basta)”, di Donato Masciandaro

In questi giorni si osserva con generale grande soddisfazione la riduzione dello spread dell’Italia, arrivato a quota 375, duecento punti sotto il picco del novembre scorso. Ma che cosa è oggi lo spread?

Quando un termometro nato per indicare un rischio economico futuro diventa invece un segnale di crisi politica imminente, dobbiamo continuare a utilizzarlo come se niente fosse accaduto, ovvero interrogarci su come migliorarlo?
Un effetto generale e pervasivo della crisi dei debiti sovrani europei avviatasi dal 2010 è il tracimare – anche nel linguaggio comune – del termine spread.

I l significato del sostantivo spread ha subito una rapida evoluzione proprio a partire da quel momento. Lo spread BB10 di cui parliamo è la differenza tra il rendimento di un titolo italiano (BTp) e quello di un titolo tedesco (Bund) su uno stesso orizzonte temporale: dieci anni. Ma lo spread si può calcolare anche per Paesi diversi dall’Italia. In generale perciò la differenza tra i due rendimenti ci dà la misura di un rischio futuro: se lo spread è nullo, vuol dire che la probabilità che tra dieci anni uno stato – per esempio quello italiano – onori il suo debito è identica a quella dello stato tedesco.

Al crescere dello spread attribuiamo allora il significato di una maggiore probabilità futura di fallimento dello stato in questione.
Ma da che cosa dipende lo spread? In situazioni normali, lo spread dipende di solito da quanto un Paese è indebitato, rispetto alle sue capacità di generare reddito; quindi si guarda il rapporto tra il totale del debito di quel Paese ed il suo prodotto interno; chiamiamolo debito ponderato. Ma qui nasce il primo problema: il termometro dello spread nell’Unione Europea non ha funzionato.
Se infatti si guardano gli anni che vanno dal 2000 al 2008 si scopre che gli spread dei vari Paesi appartenenti alla zona Euro non hanno affatto seguito il profilo dei rispettivi debiti ponderati. Gli spread erano molto simili tra di loro – tendenzialmente nulli – nonostante i debiti ponderati fossero molto diversi, passando da livelli del 20% ad oltre i 110% (pensiamo all’Italia e alla Germania, ma non solo). Dunque per i Paesi ad alto debito ponderato lo spread sottostimava il rischio fallimento.

Ad uno stesso debito ponderato corrispondeva un valore più alto o più basso dello spread, a seconda che il Paese fosse fuori o dentro l’area Euro. Conosciamo la ragione: i mercati ritenevano credibile il principio di solidarietà europea, per cui difficoltà di un Paese ad alto debito relativo sarebbero state affrontate anche dagli altri Paesi. Ma rimane il fatto che il termometro ha funzionato in modo anomalo, visto che l’ammontare del debito veniva completamente trascurato per i paesi Euro, mentre qualcosa contava per i Paesi non Euro.

Il termometro spread ha funzionato però anche peggio a partire dal 2010, quando sono iniziati e poi diffusi – vertice dopo vertice – gli scricchiolii del principio di solidarietà europea, poi definitivamente infranto con la dichiarazione di Dauville di ottobre, che ha aperto l’inedita possibilità che i privati detentori dei titoli greci subissero ingenti perdite.

Da quel momento il termometro per l’area Euro è impazzito: l’ammontare del debito è improvvisamente diventato molto rilevante, forse troppo. I rendimenti a dieci anni dei paesi ad alto debito ponderato sono schizzati a livelli non giustificabili, se non dal fatto che tali paesi fossero membri dell’area euro. Nulla di tutto questo è accaduto per i paesi ad alto indebitamento fuori dall’area euro.
Nei casi più eclatanti – Grecia, Portogallo e Irlanda – le salite dei rendimenti si sono rinforzate in sequenza temporale, rinforzando il loro sganciamento dai valori “normali”. Allo stesso modo, sono divenuti ingiustificabilmente bassi i rendimenti a dieci anni dei paesi a basso debito ponderato, sempre dell’area Euro. È stato calcolato che in generale l’aumento degli spread è stato sei volte maggiore di quello spiegabile guardando al debito ponderato. Insomma: il termometro non è più affidabile.

Ma c’è di più: lo spread è diventato nel linguaggio comune sinonimo di indicatore di costo di indebitamento tout court. Per cui ogni aumento dello spread viene interpretato come un aumento dei costi del debito, che per un Paese ad alto debito significa che il momento del default è più vicino. Più lo spread si allarga più il rischio default si avvicina. Quindi il problema non riguarda più un lontano governo, ma l’Esecutivo che è in carica in quel Paese. Lo spread si è trasformato da indicatore di rischio economico futuro a quello di rischio politico presente. Ne sanno qualcosa i governi di Grecia, Spagna ed Italia. Il termometro ha cambiato natura.
Il punto è questo: un termometro mal tarato e dal significato ambiguo può essere molto dannoso. Anche a voler accettare l’idea che spread sia divenuto un termometro del rischio politico, quindi del costo dell’indebitamento allora modifichiamolo da almeno due punti di vista. In primo luogo, se siamo interessati al costo di indebitamento in termini assoluti, smettiamola di guardare solo ai titoli a dieci anni, e consideriamo tutte le scadenze.

A titolo di esempio, ieri i rendimenti a 10 anni sono scesi al 5,63%, ma in realtà è tutta la curva che ha beneficiato della cura Monti: a 5 anni i rendimenti sono al 4,25%, a 2 anni al 3,01%. Il termometro, con più informazioni, è più veritiero. In secondo luogo, se ci interessano anche il costo relativo, perché continuare ad utilizzare come parametro i titoli tedeschi, che hanno destini intrecciati – ancorchè speculari – con gli altri? Prendiamo un Paese ad alta credibilità esterno all’area euro (può essere la Svizzera, o la Svezia, o altri ancora). Si noti che questo non significa scegliersi il parametro più comodo: ieri lo spread rispetto alla Svizzera era 490, rispetto alla Svezia 380. Dunque, perché rassegnarsi ad usare un termometro ambiguo?

da www.ilsole24ore.com

«È scandaloso. Questi fondi siano restituiti allo Stato», intervista a Pierluigi Castagnetti di Natalia Lombardo

Il parlamentare del Pd sollevò dubbi nel 2009 «Va recuperata la fiducia nella politica affrontando i nodi: articolo 49 della Carta e legge elettorale»

Sconvolgente, è una vicenda di una gravità inaudita. L’ho detto a Rutelli: i fondi devono essere restituiti tutti e devono tornare allo Stato. Ma dobbiamo sciogliere alcuni nodi, per ridare legittimità ai partiti: attuare l’articolo 49 della Costituzione e cambiare legge elettorale». Pierluigi Castagnetti, Pd, presidente della Giunta per le autorizzazioni della Camera, è stato l’ultimo segretario del Ppi e l’ha traghettato nella Margherita.
Lei pensa che il cosiddetto «tesoretto di Lusi» fosse destinato a finanziare un altro partito o correnti?
«Non abbiamo elementi, e quando siamo di fronte a reati di tale gravità non si può giudicare senza elementi. Questa vicenda è gravissima, è la prima volta che un tesoriere si appropria dei soldi di un partito. E così tanti, 13 milioni fatti fuori, inimmaginabile. Io penso che Lusi in questi anni abbia usato la sua posizione di potere per elargire qualche finanziamento per delle attività politiche»
Di chi? Dell’Api o di altri?
«Non lo so, sono solo sospetti. Se ci sono delle fatture per sale affittate per convegni o a tipografie per manifesti, la cosa è grave, ma non è un reato. Se invece è appropriazione indebita è un reato molto grave».
Francesco Rutelli si è sentito «fregato». Secondo lei davvero non sapeva nulla?
«La reazione di Rutelli è di chi mostra di non voler transigere, non rivela delle complicità. A Rutelli ho detto subito che credo sia giusto recuperare tutte le risorse sottratte e che vadano restituite allo Stato, al netto delle spese onorate».
Lei aveva già espresso dei dubbi sul bilancio del 2009. E poi?
«Nell’assemblea del 2010 sul bilancio consultivo del 2009, alla quale non era presente quasi nessun dirigente, avevo detto che le voci sarebbero dovute essere più dettagliate. Non capivo certe spese per manifesti, o di rappresentanza, o per iniziative politiche in un momento in cui la Margherita non ne faceva. Mi è stato risposto che bastavano queste indicazioni. Non mi bastarono, votai contro».
Che conseguenze ci saranno sul Pd?
«Ci saranno ricadute sulla politica italiana già delegittimata e travolta dall’ondata dell’antipolitica. Sono venuti al pettine tutti i nodi, da noi sottovalutati: lo status di parlamentare definito solo la settimana scorsa; l’articolo 49 della Costituzione, perché i partiti siano una “casa di vetro», lo statuto sul quale le proposte di legge, due mie, sono bloccate in Parlamento; la legge elettorale. Approfittiamo del tempo del governo Monti per risolverli e recuperare la fiducia dei cittadini. Perché se cresce la convinzione che sia meglio fare a meno della politica, si finirà per andare avanti senza democrazia».
La sua proposta di legge cosa prevede?
«Di dare personalità giuridica ai partiti e ancorare il finanziamento al controllo della democrazia interna. Ma con Bersani abbiamo presentato una pdl più ricca: istituisce il controllo della Corte dei Conti sui bilanci annuali dei partiti relativi alle spese elettorali. E se i controlli sono negativi il partito cessa di ricevere finanziamenti pubblici, rimborsi o agevolazioni. La vicenda della Margherita impone che i bilanci dei partiti siano certificati da agenzie esterne, e il Pd già lo fa,ma serve anche il controllo dello Stato sui finanziamenti pubblici. E perché questo avvenga deve cambiare la natura giuridica dei partiti, ora associazioni di fatto, private.

da L’unità

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«Per gli “esperti” spesi nel 2010 un milione e 600 mila euro, il doppio di due anni prima», di Carlo Bonini

Il partito “estinto” spendeva più del Pd maxi uscite per consulenze e sito Internet. Due allarmi a vuoto. Castagnetti: lite col tesoriere che negava spiegazioni. Arturo Parisi denuncia: “Chiesi inutilmente dettagli su alcune voci di bilancio”

ROMA – Come un mantra, Francesco Rutelli continua a ripetere che «non poteva sapere» cosa combinava il suo tesoriere con i bilanci della Margherita. Perché lui «non è un ragioniere» e quell´uomo, Luigi Lusi, «godeva di una stima generale e incondizionata» e «mai erano emersi anche solo indizi di una qualche irregolarità». Sarà. E´ un fatto che, ora, almeno due testimoni, Arturo Parisi e Pierluigi Castagnetti, raccontano un´altra storia. Utile a rileggere ancora una volta le voci più significative dei bilanci di esercizio del partito per gli anni 2008, 2009, 2010. A provare che in almeno due circostanze, nel giugno del 2010 e nel giugno del 2011, Lusi fu a un passo dall´essere smascherato e trovò protezione politica nei maggiorenti di un partito che non esisteva più.
2011, “la menzogna su Franceschini”
Ha racconto ieri ai pm Arturo Parisi: «Durante l´assemblea federale del 20 giugno 2011 al Nazareno per l´approvazione del bilancio di esercizio 2010, chiesi conto al tesoriere di come giustificava i 3 milioni e 800 mila euro di spese per propaganda politica, visto che il partito aveva cessato di esistere tre anni prima. Lusi mi rispose che con quei soldi era stata finanziata la campagna per le primarie nel Pd di Franceschini, candidato che proveniva dalla Margherita. Io obiettai che il tetto di spesa fissato dallo statuto era di 250 mila euro e chiesi ulteriori spiegazioni, che non ricevetti. Tanto che decisi di allontanarmi dall´assemblea e non partecipai al voto». Ma c´è di più: «Venni poi a sapere da Franceschini che quella spiegazione fornita da Lusi era un falso. Che lui, quei soldi, non li aveva ricevuti».
Nell´estate del 2011, dunque, Lusi mente. E – ricorda ancora Parisi – giustifica quella incongrua voce di spesa promettendo di fornire documenti che la giustifichino. Documenti che non solo non produrrà mai, ma che nessuno di quanti ne avevano titolo, Francesco Rutelli (ex segretario politico), Enzo Bianco (presidente dell´assemblea federale), Giuseppe Bocci (presidente del comitato di tesoreria), gli solleciterà mai.
2010, la lite con Castagnetti
Cambia ora la scena. Il luogo è sempre lo stesso (l´assemblea federale riunita al Nazareno per l´approvazione del bilancio), la data è precedente di un anno esatto, giugno 2010. Questa volta c´è da votare il rendiconto per l´esercizio 2009 e a mangiare la foglia è Pierluigi Castagnetti. Che così ricorda con “Repubblica” quella riunione: «Saremmo stati non più di una ventina. Tanto che posi prima un problema di numero legale e quindi di sostanza. La voce di spesa per la propaganda ammontava a poco meno di 7 milioni di euro. Un´enormità per un partito che non c´era più. Chiesi a Lusi di dettagliare quella voce e lui si inalberò. Mi disse che era nell´impossibilità di fornire quei dati. Io risposi che la sua risposta era inconcepibile. Ed avemmo un alterco importante. Annunciai allora il mio voto contrario sul bilancio. Cosa che feci, anche se ricordo che Bianco provò insistentemente e fino all´ultimo a convincermi di non farlo».
La Margherita spende più del Pd
In un´Assemblea federale che dorme da piedi, dunque, chi dimostra di tenere gli occhi aperti viene o allontanato (Parisi) o blandito (senza successo) per essere ricondotto a più miti consigli (Castagnetti). Eppure, non ci vuole un «ragioniere» per accorgersi che nel triennio 2008-2010 almeno quattro significative voci di spesa del partito che non c´è più (vedi la tabella pubblicata in questa pagina) si muovono come sulle montagne russe e in modo assolutamente incongruo. Il costo del “sito internet”, tanto per dire, passa dagli 86 mila euro del 2009, ai 533 mila del 2010. Ma quel che è incredibile è che – sempre nel 2010 – la dissolta Margherita spende in “consulenze” 1 milione e 600 mila euro. Duecentomila euro in più di quanto spende, in quello stesso anno il Pd, come risulta dal suo rendiconto finanziario ufficiale. Dunque?
La nascita deLL´APi
C´è una coincidenza temporale che può forse aiutare a comprendere il potere assoluto e libero da controlli sostanziali che Lusi esercitava sulla cassa di un partito dissolto, e la forza di ricatto politico che gliene derivava. Nel 2009, Rutelli fonda l´Api. Un partito senza cassa (non è ammesso ai rimborsi elettorali), ma assai generoso nell´organizzazione delle sue manifestazioni pubbliche. A cominciare dagli happening in quel di Labro. Lusi aprì forse i cordoni della borsa? E se si, in che misura? E se lo fece, è questo che lo convinse che quel denaro che amministrava era diventata anche “roba” sua?

da Repubblica 4.2.12

"Il falso castello di Marco Travaglio", di Cristoforo Boni

Marco Travaglio, dispensatore quotidiano di contumelie e ancor più di improbabili congetture spacciate come verità assolute, ieri su “il Fatto” se l’è presa con il nostro giornale. Dopo aver detto nientemeno che destra e sinistra non esistono più (sarebbero «etichette giurassiche») – peccato che l’abbia fatto proprio nel giorno in cui Mario Monti è tornato alla carica dell’articolo 18 per ostacolare il patto sociale tra imprese e sindacati – Travaglio punta l’indice contro” l’Unità. “Per restare nel suo gergo potremmo dire che due sono i capi d’accusa: una «delirante campagna in difesa di Ottaviano Del Turco» e una complicità con il Pd sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati.

La seconda accusa è ridicola, anzi è soltanto strumentale alla campagna che “il Fatto “conduce contro il Pd. Siccome, nella visione di Travaglio il fronte della politica passa dalle procure, dai tribunali e procede a colpi di scomunica (mentre invece tutto ciò che riguarda il conflitto sociale e i poteri reali dell’economia è quasi irrilevante), quale occasione migliore delle battaglie parlamentari sulla giustizia per distribuire patenti di farabutto? Ma non varrebbe la pena di rispondere a Travaglio, se non fosse che la prima accusa colpisce la professionalità de “l’Unità” e il lavoro di un suo cronista, che senza pregiudizi è andato a riguardare le carte dell’inchiesta su Del Turco e ha raccolto notizie sullo stato del processo.

È il compito più importante per un giornalista. Roberto Rossi, infatti, ha riportato sul giornale i risultati della sua ricerca senza partito preso e senza la sicumera che Travaglio solitamente ostenta. Ha scritto, sulla base dei suoi riscontri, che l’inchiesta su Del Turco si sta sgonfiando e che gli indizi sembrano ormai ridotti a quelli costruiti dal suo, non proprio credibile, accusatore. E “si è posto, da giornalista libero, una domanda politica, visto che quell’inchiesta ha avuto enormi conseguenze politiche (oltre che umane): davvero, se fosse stato un errore o un infortunio del magistrato, si può fischiettare e far finta di niente? Qualcuno si è dimenticato che il procuratore capo disse che «c’erano prove schiaccianti» contro Del Turco e questo condizionò il giudizio dei partiti e dell’opinione pubblica?

Nessuno ovviamente pretende di anticipare il giudizio. Anzi, lo attendiamo con grande rispetto. “Il Fatto” è convinto che l’inchiesta sia fondata e Del Turco sia colpevole? Bene, faccia la sua ricerca: leggeremo con attenzione e rispetto le conclusioni. Purché non pretenda di possedere la verità e di avere il potere di dividere il bene dal male. Purché non pretenda che il giudizio giornalistico (e quindi parziale, provvisorio) su un’inchiesta in corso sia possibile solo se è conforme alle tesi della relativa Procura.

Ma passiamo al secondo punto: la responsabilità civile dei magistrati. Ciò che Travaglio attribuisce a “l’Unità “è semplicemente una menzogna. Ieri il costituzionalista Massimo Luciani ha scritto con chiarezza che l’emendamento votato alla Camera è una follia, priva peraltro di fondamento nella giurisprudenza europea. Ciò che l’Europa ha chiesto all’Italia è una più ampia responsabilità dello Stato (non del singolo magistrato) di fronte agli errori giudiziari e ai doverosi risarcimenti civili. Dunque, nessuna esitazione nel giudicare il colpo di mano di Pdl e Lega. Vuol dire che la responsabilità dei magistrati, già sottoposta a referendum, non potrà mai più essere discussa? Ovviamente no. Ma Luciani ha giustamente ricordato il limite posto dalla Consulta: non può in ogni caso essere messa a rischio «l’indipendenza della magistratura». In altre parole, lo Stato che deve risarcire il cittadino vittima dell’errore giudiziario può rivalersi direttamente sul magistrato solo in caso di dolo o di trascuratezza grave. Ma limitare ai casi eccezionali la responsabilità civile impone maggior rigore nell’azione disciplinare. Maggior rigore rispetto alla prassi attuale. Si può discutere di una composizione diversa, più «indipendente», della commissione disciplinare del Csm oppure istituire un giurì di tutte le magistrature esterno al Csm. Ecco, questo è il terreno di in confronto serio, senza anatemi e senza vendette.

da www.unita.it

“Il falso castello di Marco Travaglio”, di Cristoforo Boni

Marco Travaglio, dispensatore quotidiano di contumelie e ancor più di improbabili congetture spacciate come verità assolute, ieri su “il Fatto” se l’è presa con il nostro giornale. Dopo aver detto nientemeno che destra e sinistra non esistono più (sarebbero «etichette giurassiche») – peccato che l’abbia fatto proprio nel giorno in cui Mario Monti è tornato alla carica dell’articolo 18 per ostacolare il patto sociale tra imprese e sindacati – Travaglio punta l’indice contro” l’Unità. “Per restare nel suo gergo potremmo dire che due sono i capi d’accusa: una «delirante campagna in difesa di Ottaviano Del Turco» e una complicità con il Pd sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati.

La seconda accusa è ridicola, anzi è soltanto strumentale alla campagna che “il Fatto “conduce contro il Pd. Siccome, nella visione di Travaglio il fronte della politica passa dalle procure, dai tribunali e procede a colpi di scomunica (mentre invece tutto ciò che riguarda il conflitto sociale e i poteri reali dell’economia è quasi irrilevante), quale occasione migliore delle battaglie parlamentari sulla giustizia per distribuire patenti di farabutto? Ma non varrebbe la pena di rispondere a Travaglio, se non fosse che la prima accusa colpisce la professionalità de “l’Unità” e il lavoro di un suo cronista, che senza pregiudizi è andato a riguardare le carte dell’inchiesta su Del Turco e ha raccolto notizie sullo stato del processo.

È il compito più importante per un giornalista. Roberto Rossi, infatti, ha riportato sul giornale i risultati della sua ricerca senza partito preso e senza la sicumera che Travaglio solitamente ostenta. Ha scritto, sulla base dei suoi riscontri, che l’inchiesta su Del Turco si sta sgonfiando e che gli indizi sembrano ormai ridotti a quelli costruiti dal suo, non proprio credibile, accusatore. E “si è posto, da giornalista libero, una domanda politica, visto che quell’inchiesta ha avuto enormi conseguenze politiche (oltre che umane): davvero, se fosse stato un errore o un infortunio del magistrato, si può fischiettare e far finta di niente? Qualcuno si è dimenticato che il procuratore capo disse che «c’erano prove schiaccianti» contro Del Turco e questo condizionò il giudizio dei partiti e dell’opinione pubblica?

Nessuno ovviamente pretende di anticipare il giudizio. Anzi, lo attendiamo con grande rispetto. “Il Fatto” è convinto che l’inchiesta sia fondata e Del Turco sia colpevole? Bene, faccia la sua ricerca: leggeremo con attenzione e rispetto le conclusioni. Purché non pretenda di possedere la verità e di avere il potere di dividere il bene dal male. Purché non pretenda che il giudizio giornalistico (e quindi parziale, provvisorio) su un’inchiesta in corso sia possibile solo se è conforme alle tesi della relativa Procura.

Ma passiamo al secondo punto: la responsabilità civile dei magistrati. Ciò che Travaglio attribuisce a “l’Unità “è semplicemente una menzogna. Ieri il costituzionalista Massimo Luciani ha scritto con chiarezza che l’emendamento votato alla Camera è una follia, priva peraltro di fondamento nella giurisprudenza europea. Ciò che l’Europa ha chiesto all’Italia è una più ampia responsabilità dello Stato (non del singolo magistrato) di fronte agli errori giudiziari e ai doverosi risarcimenti civili. Dunque, nessuna esitazione nel giudicare il colpo di mano di Pdl e Lega. Vuol dire che la responsabilità dei magistrati, già sottoposta a referendum, non potrà mai più essere discussa? Ovviamente no. Ma Luciani ha giustamente ricordato il limite posto dalla Consulta: non può in ogni caso essere messa a rischio «l’indipendenza della magistratura». In altre parole, lo Stato che deve risarcire il cittadino vittima dell’errore giudiziario può rivalersi direttamente sul magistrato solo in caso di dolo o di trascuratezza grave. Ma limitare ai casi eccezionali la responsabilità civile impone maggior rigore nell’azione disciplinare. Maggior rigore rispetto alla prassi attuale. Si può discutere di una composizione diversa, più «indipendente», della commissione disciplinare del Csm oppure istituire un giurì di tutte le magistrature esterno al Csm. Ecco, questo è il terreno di in confronto serio, senza anatemi e senza vendette.

da www.unita.it

"Su costi bancari, farmacie e telefoni Prodi ha fatto meglio dei professori", di Roberto Mania

I piani dell’allora ministro Bersani e del premier Monti a confronto. L’attuale segretario del Pd ha aperto il cantiere delle liberalizzazioni nel ’98, poi sono arrivate le sue famose “lenzuolate” nel 2006/2007. Un piano organico e abbastanza aggressivo che ha prodotto vantaggi visibili in termini di posti di lavoro e risparmi per gli italiani. Monti era partito con pari convinzione, ma le lobby si oppongono con vigore alla sua azione. Il governo Prodi, con Bersani ministro, batte Monti. Almeno sulle liberalizzazioni. Il comunista di Bettola, formatosi alla scuola dell’amministrazione locale, con le sue “lenzuolate” ha fatto di più e meglio per aprire il mercato italiano, per ridurre i prezzi per i consumatori e migliorare i servizi, del professore bocconiano che da Commissario europeo alla Concorrenza colpì con una multa stratosferica il monopolista Bill Gates. Diciamo che se fosse un match di pugilato, il segretario del Pd vincerebbe ai punti.

I CONTI CORRENTI
Bersani, tra il 2006 e il 2007, ha abolito i costi fissi per le ricariche telefoniche (2 miliardi di risparmi l’anno per i consumatori), ha aperto il mercato delle parafarmacie, ha eliminato le spese fisse per la chiusura dei conti correnti bancari e dei depositi titoli, ha tolto ai notai l’esclusiva negli atti di compravendita delle auto. Monti è intervenuto sulle assicurazioni, sulle banche, sui taxi, sulle farmacie, sui distributori di benzina, sui notai e anche sugli avvocati, ma è difficile per ora valutare i benefici per i consumatori.

Il governo dei tecnici ha separato la proprietà della rete gas tra Snam e Eni, ma la liberalizzazione del mercato non c’è ancora. E allora non cambia nulla per chi consuma il gas. Anche per i trasporti (dai treni ai taxi) è tutto rinviato a quando opererà la nuova Authority e alle decisioni che prenderanno i sindaci. Per chi viaggia l’effetto è ancora pari a zero. Pure in
autostrada non ci si accorgerà del tetto introdotto per le tariffe. Si applicherà solo alle concessionarie future. E quella di Autostrada, per esempio, scadrà tra ben 23 anni.

LAUREATI CON IL CAMICE
Guardiamo alle farmacie. Monti si è fermato di fronte alla sollevazione della corporazione dei farmacisti che, con la sponda del centrodestra, non voleva la vendita nelle parafarmacie dei medicinali di fascia C, quelli con la ricetta bianca non a carico del Servizio sanitario nazionale. Alla fine è rimasta solo la rivisitazione della pianta organica. Poco rispetto alle iniezioni di mercato introdotte con la prima “lenzuolata” del 2006. Da allora sono state aperte più di tremila parafarmacie, gli sconti sono stati intorno al 20 per cento, i prezzi al banco delle parafarmacie sono scesi di oltre l’8 per cento rispetto a quelli praticati nelle farmacie tradizionali, circa cinquemila giovani laureati in farmacia hanno trovato un’occupazione.

Ci saranno più notai (500) per effetto del decreto “Cresci Italia”, ma cambierà poco per i consumatori. L’eliminazione delle tariffe minime era già stata prevista da Bersani e poi ancora da Giulio Tremonti, lo scorso anno. Dal pacchetto del 2006 gli onorari di alcuni professionisti (architetti e ingegneri, per esempio) sono scesi fino al 40 per cento. Efficace, invece, la norma-Monti che prevede la possibilità che il cliente richieda un preventivo al professionista prima di affidargli una causa.

IL NODO ASSICURAZIONI
Bersani puntò sugli agenti plurimandatari nel settore delle assicurazioni. Gli effetti non sono stati molto visibili. Ma qualche dubbio lo si può avere oggi anche sull’installazione della “scatola nera” nella propria automobile per ottenere lo sconto.

Proprio l’Ania ha ricordato ieri che i costi “sono alti”, ma anche nel 2011 l’incremento dei costi per le polizze Rca auto è stato di circa il 5 per cento. Ha invece funzionato il risarcimento diretto, stabilito dall’allora ministro delle Attività produttive, con tempi medi di liquidazione tra i 30 e i 60 giorni.

Sulla benzina si può dire che per ora non ha vinto né Bersani né Monti. Il primo stabilì l’obbligo di installare tabelloni comparativi dei prezzi dei carburanti lungo le principali strade e autostrade. Un pizzico di potenziale concorrenza. Monti non è riuscito ad andare fino in fondo. Su un totale di quasi 23 mila gestori, al massimo un migliaio verrà “liberato” dall’obbligo di rifornirsi esclusivamente dalla compagnia di appartenenza. La vendita dei prodotti non oil era già prevista dal 1998. L’unica novità riguarda i tabacchi.

Il Sole 24 Ore 04.02.12

“Su costi bancari, farmacie e telefoni Prodi ha fatto meglio dei professori”, di Roberto Mania

I piani dell’allora ministro Bersani e del premier Monti a confronto. L’attuale segretario del Pd ha aperto il cantiere delle liberalizzazioni nel ’98, poi sono arrivate le sue famose “lenzuolate” nel 2006/2007. Un piano organico e abbastanza aggressivo che ha prodotto vantaggi visibili in termini di posti di lavoro e risparmi per gli italiani. Monti era partito con pari convinzione, ma le lobby si oppongono con vigore alla sua azione. Il governo Prodi, con Bersani ministro, batte Monti. Almeno sulle liberalizzazioni. Il comunista di Bettola, formatosi alla scuola dell’amministrazione locale, con le sue “lenzuolate” ha fatto di più e meglio per aprire il mercato italiano, per ridurre i prezzi per i consumatori e migliorare i servizi, del professore bocconiano che da Commissario europeo alla Concorrenza colpì con una multa stratosferica il monopolista Bill Gates. Diciamo che se fosse un match di pugilato, il segretario del Pd vincerebbe ai punti.

I CONTI CORRENTI
Bersani, tra il 2006 e il 2007, ha abolito i costi fissi per le ricariche telefoniche (2 miliardi di risparmi l’anno per i consumatori), ha aperto il mercato delle parafarmacie, ha eliminato le spese fisse per la chiusura dei conti correnti bancari e dei depositi titoli, ha tolto ai notai l’esclusiva negli atti di compravendita delle auto. Monti è intervenuto sulle assicurazioni, sulle banche, sui taxi, sulle farmacie, sui distributori di benzina, sui notai e anche sugli avvocati, ma è difficile per ora valutare i benefici per i consumatori.

Il governo dei tecnici ha separato la proprietà della rete gas tra Snam e Eni, ma la liberalizzazione del mercato non c’è ancora. E allora non cambia nulla per chi consuma il gas. Anche per i trasporti (dai treni ai taxi) è tutto rinviato a quando opererà la nuova Authority e alle decisioni che prenderanno i sindaci. Per chi viaggia l’effetto è ancora pari a zero. Pure in
autostrada non ci si accorgerà del tetto introdotto per le tariffe. Si applicherà solo alle concessionarie future. E quella di Autostrada, per esempio, scadrà tra ben 23 anni.

LAUREATI CON IL CAMICE
Guardiamo alle farmacie. Monti si è fermato di fronte alla sollevazione della corporazione dei farmacisti che, con la sponda del centrodestra, non voleva la vendita nelle parafarmacie dei medicinali di fascia C, quelli con la ricetta bianca non a carico del Servizio sanitario nazionale. Alla fine è rimasta solo la rivisitazione della pianta organica. Poco rispetto alle iniezioni di mercato introdotte con la prima “lenzuolata” del 2006. Da allora sono state aperte più di tremila parafarmacie, gli sconti sono stati intorno al 20 per cento, i prezzi al banco delle parafarmacie sono scesi di oltre l’8 per cento rispetto a quelli praticati nelle farmacie tradizionali, circa cinquemila giovani laureati in farmacia hanno trovato un’occupazione.

Ci saranno più notai (500) per effetto del decreto “Cresci Italia”, ma cambierà poco per i consumatori. L’eliminazione delle tariffe minime era già stata prevista da Bersani e poi ancora da Giulio Tremonti, lo scorso anno. Dal pacchetto del 2006 gli onorari di alcuni professionisti (architetti e ingegneri, per esempio) sono scesi fino al 40 per cento. Efficace, invece, la norma-Monti che prevede la possibilità che il cliente richieda un preventivo al professionista prima di affidargli una causa.

IL NODO ASSICURAZIONI
Bersani puntò sugli agenti plurimandatari nel settore delle assicurazioni. Gli effetti non sono stati molto visibili. Ma qualche dubbio lo si può avere oggi anche sull’installazione della “scatola nera” nella propria automobile per ottenere lo sconto.

Proprio l’Ania ha ricordato ieri che i costi “sono alti”, ma anche nel 2011 l’incremento dei costi per le polizze Rca auto è stato di circa il 5 per cento. Ha invece funzionato il risarcimento diretto, stabilito dall’allora ministro delle Attività produttive, con tempi medi di liquidazione tra i 30 e i 60 giorni.

Sulla benzina si può dire che per ora non ha vinto né Bersani né Monti. Il primo stabilì l’obbligo di installare tabelloni comparativi dei prezzi dei carburanti lungo le principali strade e autostrade. Un pizzico di potenziale concorrenza. Monti non è riuscito ad andare fino in fondo. Su un totale di quasi 23 mila gestori, al massimo un migliaio verrà “liberato” dall’obbligo di rifornirsi esclusivamente dalla compagnia di appartenenza. La vendita dei prodotti non oil era già prevista dal 1998. L’unica novità riguarda i tabacchi.

Il Sole 24 Ore 04.02.12

"Bersani a Napolitano: siamo preoccupati, il Pdl non è leale", di Emilia Patta

«Il Pdl sta venendo meno al suo dovere di responsabilità». La preoccupazione del leader del Pd Pier Luigi Bersani dopo il voto di giovedì alla Camera, con Pdl e Lega che a scrutinio segreto hanno fatto passare la responsabilità civile diretta per i magistrati che sbagliano, è palpabile. Ne ha parlato giovedì sera durante il “vertice” di maggioranza alla presenza del premier Mario Monti e del segretario azzurro Angelino Alfano. E ieri lo ha ripetuto al Quirinale a Giorgio Napolitano. «Non può esserci un partito che, pur non condividendo al 100 per 100 l’azione di governo, responsabilmente mantiene gli impegni mentre altri votano a seconda delle convenienze giocando a mani libere».
L’incontro con il capo dello Stato, che aveva già incontrato nei giorni scorsi Silvio Berlusconi e Gianni Letta per una colazione “privata”, è stato sollecitato proprio da Bersani. Il segretario democratico ha elencato una serie di episodi che al Pd non sono affatto andati giù e che alimentano la preoccupazione che il Pdl non stia giocando lealmente. La Rai e il voto a maggioranza nel cda. La giustizia e il blitz sulla responsabilità civile dei giudici. E poi le liberalizzazioni che il Pdl sta tentando di annacquare al Senato. Bersani non ci sta, e ieri lo ha detto anche a Napolitano esprimendo «forte preoccupazione per alcuni comportamenti non adeguati alla situazione da parte di forze politiche che a parole dicono di sostenere il governo Monti ma poi nei fatti fanno resuscitare la vecchia maggioranza». Per quanto riguarda la giustizia, il Pd non può accettare che la vicenda si concluda così, e per di più con le toghe sul piede di guerra e pronte allo sciopero. Bersani avrebbe anche anticipato al capo dello Stato l’intenzione di prendere qualche iniziativa, al Senato, per correggere la contestata norma sui giudici introdotta alla Camera.
Quanto al delicato tema del lavoro, sul quale anche ieri il premier è tornato invitando a superare le rigidità dell’articolo 18, Bersani tiene per ora il low profile. È il momento del silenzio – dicono a largo del Nazareno – lasciamo lavorare il tavolo Governo-parti sociali. Ma è chiaro che dietro tutta la preoccupazione e l’irritazione di Bersani sull’atteggiamento del Pdl in materia di tv e giustizia c’è proprio “lui”, l’articolo 18 e la riforma della normativa sui licenziamenti alla quale il Governo sta lavorando. Come a dire: se ogni partito vota solo ciò che gli piace, allora noi quelle norme non le dovremmo votare, con tutte le conseguenze sulla tenuta del Governo. La nuova uscita di Monti sull’articolo 18 («frena gli investitori», si veda pagina 3) ha riagitato le acque democratiche, confermando che per il Pd quello sarà il vero scoglio.
Parte in quarta il responsabile economico Stefano Fassina: «Le affermazioni di Monti sul fatto che l’articolo 18 inibisce gli investimenti esteri e nazionali sono sorprendenti perché assolutamente infondate. Nella nostra proposta non c’è perché per noi non è un problema. Toglierlo indebolirebbe il potere negoziale dei lavoratori e svaluterebbe il lavoro, è una strada perdente per i lavoratori e per il Paese». Lo segue l’ex ministro Cesare Damiano: «Sbagliato incaponirsi sull’articolo 18: le aziende non assumono perché siamo in recessione, non perché esiste l’articolo 18. Semmai il punto è aggiungere strumenti di protezione». E lo ribadisce anche un ex sindacalista come Sergio D’Antoni, cattolico e già leader della Cisl, a conferma che l’articolo 18 non è una fissazione dell’ala “sinistra” ma mette in difficoltà tutto il partito: «Parlo per me, ma credo di interpretare la sensibilità di tanti: io penso che il Pd debba spingere sulla trattativa, fare in modo che l’accordo si faccia e dire che se non c’è l’accordo con le parti sociali noi non voteremo misure che escano dall’accordo».
Da qui la cautela mostrata sull’argomento da Bersani: lasciamo lavorare Governo e parti sociali all’accordo. Sperando che ci siano le firme di tutti. Altrimenti si vedrà…

Il Sole 24 Ore 04.02.12