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"Stupro, "salta" il carcere si ribellano le donne", di Chiara Saraceno

Lo stupro di gruppo è un atto particolarmente odioso, che moltiplica la violenza subita dalla donna che ne è vittima. La moltiplica materialmente, aggravando il danno fisico, psicologico, emotivo che infligge. Lo stupro viola l´intimità della donna, il suo senso di integrità e di controllo su di sé.
Quando è più di uno a compierlo l´esperienza di perdita di sé diventa estrema.
Lo stupro di gruppo esplicita anche, enfatizzandola, l´oggettivazione della vittima e del suo corpo, reso puro oggetto delle pulsioni dello stupratore e insieme trofeo di gruppo, documentazione reciproca del proprio potere di maschi, strumento di consolidamento del rapporto di gruppo. Infine, è un atto ancora più vigliacco dello stupro individuale, dato che i singoli usano la forza del gruppo per sopraffare la loro vittima.
È difficile comprendere come la Corte di Cassazione abbia potuto equiparare lo stupro di gruppo allo stupro individuale, con l´argomento che il primo «presenta caratteristiche essenziali non difformi» dal secondo.
Come se si trattasse di tanti atti individuali senza collegamento tra loro, ignorando proprio il contenuto di gruppo dell´atto e le sue conseguenze per la vittima. Eppure, per altri reati, l´essersi organizzati con altri per compierli è un´aggravante che in qualche modo cambia il tipo di reato.
Se il farlo in gruppo è un´aggravante quando si distruggono cose e si aggrediscono (non sessualmente) persone, o si partecipa a forme di protesta non autorizzate, perché se si stupra una donna invece diviene irrilevante?
Perché uno stupro è solo uno stupro, a prescindere che a compierlo sia uno solo, due o, perché no, cinquanta, dato che l´atto materiale è compiuto sempre da uno per volta? Si può discutere di carcerazione preventiva e di forme di custodia cautelare alternative. Ma in questione qui è l´equiparazione di due reati, gravissimi entrambi ma non identici né nelle motivazioni né nelle conseguenze, dal punto di vista della vittima, ma anche di chi li compie.
La pronuncia della Corte riguarda solo le misure di custodia cautelari. Ma non è difficile ipotizzare che gli avvocati difensori degli stupratori la utilizzeranno in sede di giudizio, per alleggerire la posizione dei loro clienti.
Non è la prima volta, purtroppo, che la terza sezione della Corte di Cassazione sottovaluta la violenza sulle donne. Rimane indimenticabile la sentenza del 1999 che dichiarò l´insussistenza dello stupro, perché incompatibile con il fatto che la vittima indossava i jeans. Anche se successivamente, in un altro caso, la stessa Corte corresse il tiro, probabilmente resa più avvertita dalle proteste seguite a quella ridicola sentenza.
Il fatto che ripetutamente incorra in questo tipo di infortuni valutativi induce al sospetto che molti giudici della Corte non considerino poi così grave lo stupro, individuale o di gruppo che sia, e siano disposti a concedere molte attenuanti agli stupratori.

La Repubblica 03.02.12

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“No al carcere obbligatorio per gli stupri di gruppo” è bufera sulla Cassazione, di Elsa Vinci

La Corte: possibili misure cautelari alternative. Insorgono le donne. In Parlamento sdegno bipartisan Un replay del caso jeans, indumento “istigatore”. Stupro di gruppo, «il carcere non è più obbligatorio». Da oggi il giudice può concedere i domiciliari, applicare o mantenere misure alternative alla custodia in cella a coloro sono accusati di violenza sessuale. La Cassazione, con una interpretazione estensiva di una sentenza della Consulta del 2010, ha inviato al massimario, dunque a far giurisprudenza, una pronuncia che fa discutere. La prima di questo tenore dopo l´ondata di sdegno e d´emozione che nel 2009 accompagnò lo stupro della Caffarella a Roma e la conseguente modifica di legge. Adesso, afferma la Suprema Corte, sul carcere si dovrà valutare caso per caso.
Fu la violenza su una ragazzina di soli 13 anni a provocare il decreto, poi convertito, che rese obbligatorie le sbarre agli aguzzini. Solitari o in branco. Decine e decine di giovani e di uomini per quella legge furono riportati in cella. Ogni ricorso davanti al giudice ordinario da allora è stato bollato come «inammissibile». Tutti dentro, senza scuse. Ma non senza polemiche.
Nel 2010 un giovane accusato di stupro si è rivolto alla Consulta, contestando proprio la norma sul carcere obbligatorio. L´Alta Corte ha ritenuto il punto in contrasto con gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione della pena) della Costituzione, dicendo sì alle alternative sulla custodia in cella. Ma solo «nell´ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Invocando questa sentenza, l´avvocato Lucio Marziale solo pochi mesi fa non è riuscito a convincere il Tribunale del Riesame di Roma a non mettere “dentro” due giovani accusati di violenza sessuale su una sedicenne. Lo stupro è avvenuto l´estate scorsa nel Frusinate, nelle campagne di Sora. Così si è arrivati in Cassazione.
La terza sezione penale ha stabilito che «i principi affermati dalla Corte Costituzionale nel 2010 appaiono potenzialmente riferibili» alla vicenda in questione. E unica interpretazione compatibile con i principi della Consulta «è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia carceraria» per la violenza sessuale di gruppo. La decisione del tribunale di Roma è stata annullata con rinvio, e ora il Riesame dovrà pronunciarsi sulla “libertà” dei due giovani. «La Cassazione – spiega l´avvocato Marziale – ha restituito al giudice la possibilità di valutare caso per caso». Dunque il carcere non sarà più obbligatorio per i reati sessuali, dallo stupro alla pacca sul sedere data con insistenza che, come è noto, rientra per giurisprudenza di Cassazione tra quelli puniti come violenza.
«Niente carcere per gli stupratori?». In Parlamento lo sdegno è bipartisan. Il pensiero va alla famosa sentenza sui jeans, indumento «istigatore». «Impossibile da condividere», afferma l´ex ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna. Sentenza «lacerante», dice Barbara Pollastrini del Pd. «Un passo indietro», ammonisce “Telefono Rosa”. «Aumenteranno i silenzi delle vittime», sottolinea la democratica Donata Lenzi. Ombretta Colli, vicepresidente del Pdl a Palazzo Madama, invita le parlamentari di qualunque schieramento a «correggere», con un «tempestivo» intervento delle Camere, la Corte di Cassazione.

La Repubblica 03.02.12

“Stupro, “salta” il carcere si ribellano le donne”, di Chiara Saraceno

Lo stupro di gruppo è un atto particolarmente odioso, che moltiplica la violenza subita dalla donna che ne è vittima. La moltiplica materialmente, aggravando il danno fisico, psicologico, emotivo che infligge. Lo stupro viola l´intimità della donna, il suo senso di integrità e di controllo su di sé.
Quando è più di uno a compierlo l´esperienza di perdita di sé diventa estrema.
Lo stupro di gruppo esplicita anche, enfatizzandola, l´oggettivazione della vittima e del suo corpo, reso puro oggetto delle pulsioni dello stupratore e insieme trofeo di gruppo, documentazione reciproca del proprio potere di maschi, strumento di consolidamento del rapporto di gruppo. Infine, è un atto ancora più vigliacco dello stupro individuale, dato che i singoli usano la forza del gruppo per sopraffare la loro vittima.
È difficile comprendere come la Corte di Cassazione abbia potuto equiparare lo stupro di gruppo allo stupro individuale, con l´argomento che il primo «presenta caratteristiche essenziali non difformi» dal secondo.
Come se si trattasse di tanti atti individuali senza collegamento tra loro, ignorando proprio il contenuto di gruppo dell´atto e le sue conseguenze per la vittima. Eppure, per altri reati, l´essersi organizzati con altri per compierli è un´aggravante che in qualche modo cambia il tipo di reato.
Se il farlo in gruppo è un´aggravante quando si distruggono cose e si aggrediscono (non sessualmente) persone, o si partecipa a forme di protesta non autorizzate, perché se si stupra una donna invece diviene irrilevante?
Perché uno stupro è solo uno stupro, a prescindere che a compierlo sia uno solo, due o, perché no, cinquanta, dato che l´atto materiale è compiuto sempre da uno per volta? Si può discutere di carcerazione preventiva e di forme di custodia cautelare alternative. Ma in questione qui è l´equiparazione di due reati, gravissimi entrambi ma non identici né nelle motivazioni né nelle conseguenze, dal punto di vista della vittima, ma anche di chi li compie.
La pronuncia della Corte riguarda solo le misure di custodia cautelari. Ma non è difficile ipotizzare che gli avvocati difensori degli stupratori la utilizzeranno in sede di giudizio, per alleggerire la posizione dei loro clienti.
Non è la prima volta, purtroppo, che la terza sezione della Corte di Cassazione sottovaluta la violenza sulle donne. Rimane indimenticabile la sentenza del 1999 che dichiarò l´insussistenza dello stupro, perché incompatibile con il fatto che la vittima indossava i jeans. Anche se successivamente, in un altro caso, la stessa Corte corresse il tiro, probabilmente resa più avvertita dalle proteste seguite a quella ridicola sentenza.
Il fatto che ripetutamente incorra in questo tipo di infortuni valutativi induce al sospetto che molti giudici della Corte non considerino poi così grave lo stupro, individuale o di gruppo che sia, e siano disposti a concedere molte attenuanti agli stupratori.

La Repubblica 03.02.12

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“No al carcere obbligatorio per gli stupri di gruppo” è bufera sulla Cassazione, di Elsa Vinci

La Corte: possibili misure cautelari alternative. Insorgono le donne. In Parlamento sdegno bipartisan Un replay del caso jeans, indumento “istigatore”. Stupro di gruppo, «il carcere non è più obbligatorio». Da oggi il giudice può concedere i domiciliari, applicare o mantenere misure alternative alla custodia in cella a coloro sono accusati di violenza sessuale. La Cassazione, con una interpretazione estensiva di una sentenza della Consulta del 2010, ha inviato al massimario, dunque a far giurisprudenza, una pronuncia che fa discutere. La prima di questo tenore dopo l´ondata di sdegno e d´emozione che nel 2009 accompagnò lo stupro della Caffarella a Roma e la conseguente modifica di legge. Adesso, afferma la Suprema Corte, sul carcere si dovrà valutare caso per caso.
Fu la violenza su una ragazzina di soli 13 anni a provocare il decreto, poi convertito, che rese obbligatorie le sbarre agli aguzzini. Solitari o in branco. Decine e decine di giovani e di uomini per quella legge furono riportati in cella. Ogni ricorso davanti al giudice ordinario da allora è stato bollato come «inammissibile». Tutti dentro, senza scuse. Ma non senza polemiche.
Nel 2010 un giovane accusato di stupro si è rivolto alla Consulta, contestando proprio la norma sul carcere obbligatorio. L´Alta Corte ha ritenuto il punto in contrasto con gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione della pena) della Costituzione, dicendo sì alle alternative sulla custodia in cella. Ma solo «nell´ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Invocando questa sentenza, l´avvocato Lucio Marziale solo pochi mesi fa non è riuscito a convincere il Tribunale del Riesame di Roma a non mettere “dentro” due giovani accusati di violenza sessuale su una sedicenne. Lo stupro è avvenuto l´estate scorsa nel Frusinate, nelle campagne di Sora. Così si è arrivati in Cassazione.
La terza sezione penale ha stabilito che «i principi affermati dalla Corte Costituzionale nel 2010 appaiono potenzialmente riferibili» alla vicenda in questione. E unica interpretazione compatibile con i principi della Consulta «è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia carceraria» per la violenza sessuale di gruppo. La decisione del tribunale di Roma è stata annullata con rinvio, e ora il Riesame dovrà pronunciarsi sulla “libertà” dei due giovani. «La Cassazione – spiega l´avvocato Marziale – ha restituito al giudice la possibilità di valutare caso per caso». Dunque il carcere non sarà più obbligatorio per i reati sessuali, dallo stupro alla pacca sul sedere data con insistenza che, come è noto, rientra per giurisprudenza di Cassazione tra quelli puniti come violenza.
«Niente carcere per gli stupratori?». In Parlamento lo sdegno è bipartisan. Il pensiero va alla famosa sentenza sui jeans, indumento «istigatore». «Impossibile da condividere», afferma l´ex ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna. Sentenza «lacerante», dice Barbara Pollastrini del Pd. «Un passo indietro», ammonisce “Telefono Rosa”. «Aumenteranno i silenzi delle vittime», sottolinea la democratica Donata Lenzi. Ombretta Colli, vicepresidente del Pdl a Palazzo Madama, invita le parlamentari di qualunque schieramento a «correggere», con un «tempestivo» intervento delle Camere, la Corte di Cassazione.

La Repubblica 03.02.12

"Anime morte il veleno della politica", di Federico Geremicca

Ormai è come una caccia all’uomo. Casa per casa, ufficio per ufficio, segretaria per segretaria, vitalizio per vitalizio. Non siamo ancora al clima dei mesi terribili di Tangentopoli, quando politici, ministri e amministratori di qualunque livello non potevano nemmeno mostrarsi in pubblico – pena insulti e lanci di monetine – ma non è detto che non ci si arrivi.

E non sarebbe un bene, se è vero (come è vero) quel che ha lamentato ieri Bruno Tabacci, uno che Tangentopoli l’ha vista da vicino: «Siamo passati da Severino Citaristi a Luigi Lusi… La questione morale non è stata affatto risolta. Anzi: negli ultimi venti anni si è andata appesantendo».

Si tratta di un giudizio difficilmente contestabile: e di una situazione – quella attuale – della quale i partiti portano, naturalmente, il massimo della responsabilità. Tutti i partiti, con differenze non significative: a cominciare da quella Lega «di lotta e di governo» che un tempo con pessimo gusto – faceva penzolare cappi nell’aula di Montecitorio ma i cui parlamentari, oggi, ricorrono in massa contro la riforma dei vitalizi. E’ ai partiti, dunque, che va imputato l’attuale stato di cose, compreso il perdurante discredito che li circonda: ma se si vuole davvero cambiare questa insostenibile situazione, è precisamente dai partiti (soprattutto in presenza di un governo che per il momento, saggiamente, si tiene alla larga dalla canea montante) che va pretesa una soluzione.

Naturalmente, il punto è volerla davvero, una soluzione. E non limitarsi considerata la già provata insufficienza – a campagne di denuncia, invettive e cavalcate moralistiche (nelle quali i partiti stessi sono spesso in prima fila…) che possono tutt’al più fungere da lavacro per troppe cattive coscienze, ma certo non cambiare lo stato delle cose. Se nonostante il moltiplicarsi di censori severissimi e di moralizzatori dell’ultima ora nulla è cambiato da Tangentopoli a oggi, è semplicemente perché nulla di concreto è stato fatto: nulla che impedisse – o rendesse più difficile – il ripetersi di episodi di corruzione e di malcostume politico.

Oggi, in tutta evidenza, il bivio è chiaro: si intende far qualcosa o solo dare l’impressione di star facendo qualcosa? Se la maggioranza degli eletti in Parlamento pensasse che sia la seconda la via da battere, sappia che il rischio è elevatissimo, perché non c’è Paese democratico che possa restar tale a lungo con la politica, i partiti e le istituzioni ridotte ad anime morte. Se invece – anche solo per l’evidente impossibilità di difendere posizioni di privilegio non più tollerabili – ci si fosse finalmente convinti ad intervenire, il lavoro da fare è certo molto: ma la strada è tracciata. E sono le stesse forze politiche, del resto, ad elencare da anni (e naturalmente a non fare) le tre, quattro cose da cui partire.

Una legge che dia attuazione all’articolo 49 della Costituzione e disciplini ruolo, funzioni e regole interne dei partiti politici; una legge elettorale che ridia ai cittadini il diritto di scegliere i propri eletti, così da poterli cambiare (oggi nemmeno questo è possibile!) in caso di inefficienza o immoralità; norme che disciplinino le primarie, così da assicurarne la regolarità e da renderne vincolante l’esito; una legge che riduca il numero dei parlamentari (è imbarazzante perfino scriverlo per la millesima volta…) e differenzi compiti e ruoli delle due Camere. E poi regolamenti che ristabiliscano – per gli ex presidenti della Repubblica, gli ex presidente di Camera e Senato, gli ex parlamentari e quelli in carica – chi ha diritto a cosa e perché.

Senza riferimenti certi – senza leggi, insomma – tutto resterà nell’incertezza e nella discrezionalità più assoluta: e il populismo demagogico imperante (dentro e fuori i partiti) non potrà che ingrossare ulteriormente le proprie fila. Ciò a cui si assiste ormai da mesi, infatti, non è un dibattito (magari duro ma civile) su come rifondare politica e partiti, quanto – piuttosto una sorta di regolamento di conti, una guerra senza quartiere che difficilmente potrà avere vincitori.

Accadde lo stesso venti anni fa con Tangentopoli, dopo la quale sul terreno non rimasero che macerie politiche. Su quelle macerie nessuno ricostruì un sistema fatto di regole e leggi che impedissero il ritorno del malcostume e della corruzione: il risultato, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Il fatto che l’errore rischi di ripetersi è avvilente. Avvilente e pericoloso: per il Paese – certo – e per gli stessi partiti ormai sul punto di affogare nel loro stesso discredito.

La Stampa 03.02.12

“Anime morte il veleno della politica”, di Federico Geremicca

Ormai è come una caccia all’uomo. Casa per casa, ufficio per ufficio, segretaria per segretaria, vitalizio per vitalizio. Non siamo ancora al clima dei mesi terribili di Tangentopoli, quando politici, ministri e amministratori di qualunque livello non potevano nemmeno mostrarsi in pubblico – pena insulti e lanci di monetine – ma non è detto che non ci si arrivi.

E non sarebbe un bene, se è vero (come è vero) quel che ha lamentato ieri Bruno Tabacci, uno che Tangentopoli l’ha vista da vicino: «Siamo passati da Severino Citaristi a Luigi Lusi… La questione morale non è stata affatto risolta. Anzi: negli ultimi venti anni si è andata appesantendo».

Si tratta di un giudizio difficilmente contestabile: e di una situazione – quella attuale – della quale i partiti portano, naturalmente, il massimo della responsabilità. Tutti i partiti, con differenze non significative: a cominciare da quella Lega «di lotta e di governo» che un tempo con pessimo gusto – faceva penzolare cappi nell’aula di Montecitorio ma i cui parlamentari, oggi, ricorrono in massa contro la riforma dei vitalizi. E’ ai partiti, dunque, che va imputato l’attuale stato di cose, compreso il perdurante discredito che li circonda: ma se si vuole davvero cambiare questa insostenibile situazione, è precisamente dai partiti (soprattutto in presenza di un governo che per il momento, saggiamente, si tiene alla larga dalla canea montante) che va pretesa una soluzione.

Naturalmente, il punto è volerla davvero, una soluzione. E non limitarsi considerata la già provata insufficienza – a campagne di denuncia, invettive e cavalcate moralistiche (nelle quali i partiti stessi sono spesso in prima fila…) che possono tutt’al più fungere da lavacro per troppe cattive coscienze, ma certo non cambiare lo stato delle cose. Se nonostante il moltiplicarsi di censori severissimi e di moralizzatori dell’ultima ora nulla è cambiato da Tangentopoli a oggi, è semplicemente perché nulla di concreto è stato fatto: nulla che impedisse – o rendesse più difficile – il ripetersi di episodi di corruzione e di malcostume politico.

Oggi, in tutta evidenza, il bivio è chiaro: si intende far qualcosa o solo dare l’impressione di star facendo qualcosa? Se la maggioranza degli eletti in Parlamento pensasse che sia la seconda la via da battere, sappia che il rischio è elevatissimo, perché non c’è Paese democratico che possa restar tale a lungo con la politica, i partiti e le istituzioni ridotte ad anime morte. Se invece – anche solo per l’evidente impossibilità di difendere posizioni di privilegio non più tollerabili – ci si fosse finalmente convinti ad intervenire, il lavoro da fare è certo molto: ma la strada è tracciata. E sono le stesse forze politiche, del resto, ad elencare da anni (e naturalmente a non fare) le tre, quattro cose da cui partire.

Una legge che dia attuazione all’articolo 49 della Costituzione e disciplini ruolo, funzioni e regole interne dei partiti politici; una legge elettorale che ridia ai cittadini il diritto di scegliere i propri eletti, così da poterli cambiare (oggi nemmeno questo è possibile!) in caso di inefficienza o immoralità; norme che disciplinino le primarie, così da assicurarne la regolarità e da renderne vincolante l’esito; una legge che riduca il numero dei parlamentari (è imbarazzante perfino scriverlo per la millesima volta…) e differenzi compiti e ruoli delle due Camere. E poi regolamenti che ristabiliscano – per gli ex presidenti della Repubblica, gli ex presidente di Camera e Senato, gli ex parlamentari e quelli in carica – chi ha diritto a cosa e perché.

Senza riferimenti certi – senza leggi, insomma – tutto resterà nell’incertezza e nella discrezionalità più assoluta: e il populismo demagogico imperante (dentro e fuori i partiti) non potrà che ingrossare ulteriormente le proprie fila. Ciò a cui si assiste ormai da mesi, infatti, non è un dibattito (magari duro ma civile) su come rifondare politica e partiti, quanto – piuttosto una sorta di regolamento di conti, una guerra senza quartiere che difficilmente potrà avere vincitori.

Accadde lo stesso venti anni fa con Tangentopoli, dopo la quale sul terreno non rimasero che macerie politiche. Su quelle macerie nessuno ricostruì un sistema fatto di regole e leggi che impedissero il ritorno del malcostume e della corruzione: il risultato, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Il fatto che l’errore rischi di ripetersi è avvilente. Avvilente e pericoloso: per il Paese – certo – e per gli stessi partiti ormai sul punto di affogare nel loro stesso discredito.

La Stampa 03.02.12

"Le ricette immaginarie", di Luciano Gallino

L´occupazione, in Italia, sta assumendo il profilo di una catastrofe sociale. I disoccupati sono almeno 3,5 milioni. Altri 250.000 posti sono a rischio nel corso del 2012, cui vanno aggiunti un miliardo di ore di cassa integrazione. I precari, molti vicini alla mezza età, sono almeno 3 milioni. Tanti disoccupati e precari comportano decine di miliardi sottratti al reddito familiare e alla domanda interna. Comportano pure costi umani inauditi, e tensioni sociali crescenti.
Dinanzi a tali segnali di allarme rosso, governo e parti sociali si sono messi a discutere anzitutto su come modificare i contratti di lavoro. Il presidente del Consiglio decanta la bellezza del cambiare ripetutamente posto e accettare nuove sfide. La ministra del Lavoro annuncia che la riforma si farà con o senza il dialogo. I sindacati si irritano perché vedono in tali annunci l´intento di rendere più facili i licenziamenti. Per lo stesso motivo la Confindustria plaude alle dichiarazioni governative.
Nessuno dubita che siano tutti in buona fede. In base alla dottrina che professano, si può star certi che i membri del governo credono davvero che le “nuove regole sui licenziamenti per ragioni economiche relative ai contratti permanenti di lavoro”, richieste da una lettera del commissario europeo Olli Rehn del novembre scorso, servano ad aumentare l´occupazione e ridurre la precarietà. E di certo i sindacati hanno ragione nel temere un peggioramento delle condizioni di lavoro se si comincia con il modificare i contratti.
Il problema è che appaiono anche tutti sulla strada sbagliata. In quanto è stato finora detto e ridetto da membri del governo (oltre ad asserire che ce lo chiede l´Europa), dai sindacati (salvo affermare, e si può essere d´accordo, che l´articolo 18 non si tocca) o dalla Confindustria (per la quale l´articolo 18 è il maggior ostacolo allo sviluppo), non c´è una sola indicazione che riguardi da vicino il problema di quanto, entro quale data, con quali mezzi si voglia ridurre il numero dei disoccupati e dei precari.
Si prenda il caso della “flessibilità buona”, un ossimoro (difficile dire se geniale o perfido) coniato da poco. Se ha un senso, essa significa che le imprese dei settori in crisi perché obsoleti o superati dalla competività cinese, possono sì licenziare i dipendenti invece che metterli in Cig per due o tre anni; però esistono meccanismi che provvedono in modo sollecito a ricollocare i medesimi, magari dopo un periodo di riqualificazione, in imprese con sicure prospettive. Si dirà che questo è appunto l´intento del governo. Ma è proprio qui che sta l´errore. Le imprese in crisi hanno nome, indirizzo e un dato numero di dipendenti. Le imprese ed i settori in sviluppo pure. Il numero dei lavoratori da ricollocare può e deve essere determinato: sono tutti quelli delle imprese in crisi, o solo una data fascia di età di essi, o altro? Infine i percorsi di ricollocazione hanno un costo, anch´esso determinabile in base al numero di lavoratori che si vogliono coinvolgere e alla durata dei relativi programmi. Un ragionamento analogo si potrebbe fare circa il numero dei precari che si vuol togliere dalla loro condizione, riducendo il numero dei 46 tipi di contratti esistenti. La strategia è sempre la stessa: prima si provvede a stabilire quante persone si vogliono coinvolgere in un piano di riduzione della precarietà, quali sarebbero i costi, da dove verrebbero le risorse, e quali sarebbero i tempi. Poi si passa a esaminare quale tipo di contratto potrebbe risultare efficace, oltre che equo e decente, per perseguire lo scopo di ridurre di una data quantità il numero dei precari.
Partire da scopi reali e quantificati per ridurre disoccupati e precari non significa sminuire il ruolo della legislazione del lavoro. Significa riportarlo alla sua funzione primaria di ottenere che le condizioni di lavoro siano aderenti agli articoli della Costituzione che di esse si occupano. Per creare occupazione la ricetta è un´altra: decidere come si fa a crearla davvero, e farlo.

La Repubblica 03.02.12

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“Nuove regole per vivere senza il posto fisso”, di IRENE TINAGLI
La realtà è questa: in Italia ci sono oltre 10 milioni di persone, tra cui moltissimi giovani, che vivono situazioni di lavoro inesistenti oppure estremamente precarie. E per precarie, sia ben inteso, non si intende semplicemente un contratto a tempo determinato, ma si intende una posizione di lavoro in cui non si ha alcuna forma di tutela, dove non ci si può permettere di ammalarsi né tantomeno una gravidanza, dove non ci sono ferie pagate né indennità di fine rapporto e dove, come nel caso delle migliaia di persone costrette ad aprirsi una partita Iva pur non essendo professionisti, bisogna anche pagarsi da soli i contributi che normalmente paga il datore di lavoro. Per queste persone il miraggio non è tanto il posto fisso, ma condizioni di lavoro degne di questo nome, e un qualche supporto che le aiuti quando un contratto finisce e hanno bisogno di tempo o di nuova formazione per trovarne un altro. Milioni di giovani di fatto chiedono questo. Quello che già hanno gran parte dei loro coetanei nel resto d’Europa.

Di fronte a questa realtà possiamo fare due cose. Possiamo dire a questi giovani che non devono stare a guardare questi «dettagli», ma che devono aspettare e puntare al posto fisso, come i loro nonni e i loro padri, perché quando ce lo avranno vivranno felici e protetti per il resto dei loro giorni. Poco importa se la competizione internazionale ha reso i mercati talmente instabili che le aziende non assumono più con contratti fissi. Poco importa se quel posto arriverà tra venti anni o forse mai. L’importante è tenere vivo l’obiettivo. Nel frattempo alle aziende che non riescono a sopravvivere offrendo contratti vecchio stampo si concede una serie di possibilità contrattualistiche ad altissima «deregolamentazione». In questo modo le aziende sono più o meno contente, i sindacati pure. I giovani un po’ meno, ma pazienza. Gli resta comunque il sogno di entrare prima o poi a far parte dei lavoratori «veri».

Oppure possiamo dire a questi giovani che, viste le turbolenze economiche attuali e con aziende che aprono e chiudono nel giro di pochi mesi, sarà sempre più difficile avere un posto che duri tutta la vita. Che se continua così si ritroveranno in milioni a scannarsi per poche migliaia di posti che arriveranno quando saranno impoveriti e stremati. E possiamo quindi provare a rendere questo percorso meno logorante. Da un lato, cercando di stimolare le imprese ad assumere, allentando le incertezze più gravose (come quelle delle cause di lavoro per reintegro che durano anni), alleggerendo la burocrazia e provando a rilanciare un po’ di investimenti. Dall’altro lato creando per questi giovani lavoratori, col coinvolgimento di Stato e aziende, nuove reti di sicurezza che in caso di malattia, gravidanza o ricerca di nuovo lavoro, non li lascino soli con la promessa che «quando avranno il posto fisso sarà tutto diverso».

La prima strada è quella che abbiamo perseguito sino ad oggi. La seconda è quella che il governo Monti dice di voler intraprendere. Si può certamente discutere sui bei tempi che furono, e, più seriamente, sugli strumenti che verranno adottati e sul come implementarli. Ma non si può dire che cercare di riformare un mercato del lavoro e del welfare squilibrato come il nostro sia sbagliato. Perché l’obiettivo, almeno per come è stato presentato fino ad oggi da Monti e da Fornero, non è smantellare un sistema di tutele, ma ridisegnarle per fare in modo che milioni di persone che oggi hanno poco lavoro e zero protezioni, possano finalmente ritrovare un po’ di speranza. Non ci dimentichiamo che oggi, al di là dei due milioni e duecentoquarantamila disoccupati, più della metà dei lavoratori italiani non è protetta né dall’articolo 18 né, molto spesso, da forme di tutela assai più basilari: quattro milioni e centomila dipendenti di imprese con meno di 15 addetti, un milione e mezzo di collaboratori autonomi tipo cocopro, un milione e mezzo di interinali o con contratti a termine, mezzo milione di stagist, un milione di collaboratori domestici, e due milioni e mezzo di irregolari. Per non contare la marea di partite Iva che di fatto operano come lavoratori dipendenti. E’ chiaro che ridisegnare un sistema in questo senso chiama in causa tutti: le aziende – che non potranno più avere l’alibi di regole troppo rigide per andare a questuare sussidi allo Stato; i sindacati – che dovranno trovare un modo di fare lotta sindacale incentrato sulla persona, la sua formazione e crescita più che sul posto di lavoro; e infine lo Stato – che dovrà garantire formazione e servizi efficienti e vigilare sul funzionamento del mercato. Certamente questo ridisegno richiede estrema cura, per evitare gli errori e le distorsioni delle riforme passate. Ma proprio questa cura e questo concorso di forze sono necessarie per ridare a tante persone una serenità che un tempo veniva trovata da molti nel lavoro fisso ma che oggi ha bisogno di nuovi strumenti per essere raggiunta da tutti.

La Stampa 03.02.12

“Le ricette immaginarie”, di Luciano Gallino

L´occupazione, in Italia, sta assumendo il profilo di una catastrofe sociale. I disoccupati sono almeno 3,5 milioni. Altri 250.000 posti sono a rischio nel corso del 2012, cui vanno aggiunti un miliardo di ore di cassa integrazione. I precari, molti vicini alla mezza età, sono almeno 3 milioni. Tanti disoccupati e precari comportano decine di miliardi sottratti al reddito familiare e alla domanda interna. Comportano pure costi umani inauditi, e tensioni sociali crescenti.
Dinanzi a tali segnali di allarme rosso, governo e parti sociali si sono messi a discutere anzitutto su come modificare i contratti di lavoro. Il presidente del Consiglio decanta la bellezza del cambiare ripetutamente posto e accettare nuove sfide. La ministra del Lavoro annuncia che la riforma si farà con o senza il dialogo. I sindacati si irritano perché vedono in tali annunci l´intento di rendere più facili i licenziamenti. Per lo stesso motivo la Confindustria plaude alle dichiarazioni governative.
Nessuno dubita che siano tutti in buona fede. In base alla dottrina che professano, si può star certi che i membri del governo credono davvero che le “nuove regole sui licenziamenti per ragioni economiche relative ai contratti permanenti di lavoro”, richieste da una lettera del commissario europeo Olli Rehn del novembre scorso, servano ad aumentare l´occupazione e ridurre la precarietà. E di certo i sindacati hanno ragione nel temere un peggioramento delle condizioni di lavoro se si comincia con il modificare i contratti.
Il problema è che appaiono anche tutti sulla strada sbagliata. In quanto è stato finora detto e ridetto da membri del governo (oltre ad asserire che ce lo chiede l´Europa), dai sindacati (salvo affermare, e si può essere d´accordo, che l´articolo 18 non si tocca) o dalla Confindustria (per la quale l´articolo 18 è il maggior ostacolo allo sviluppo), non c´è una sola indicazione che riguardi da vicino il problema di quanto, entro quale data, con quali mezzi si voglia ridurre il numero dei disoccupati e dei precari.
Si prenda il caso della “flessibilità buona”, un ossimoro (difficile dire se geniale o perfido) coniato da poco. Se ha un senso, essa significa che le imprese dei settori in crisi perché obsoleti o superati dalla competività cinese, possono sì licenziare i dipendenti invece che metterli in Cig per due o tre anni; però esistono meccanismi che provvedono in modo sollecito a ricollocare i medesimi, magari dopo un periodo di riqualificazione, in imprese con sicure prospettive. Si dirà che questo è appunto l´intento del governo. Ma è proprio qui che sta l´errore. Le imprese in crisi hanno nome, indirizzo e un dato numero di dipendenti. Le imprese ed i settori in sviluppo pure. Il numero dei lavoratori da ricollocare può e deve essere determinato: sono tutti quelli delle imprese in crisi, o solo una data fascia di età di essi, o altro? Infine i percorsi di ricollocazione hanno un costo, anch´esso determinabile in base al numero di lavoratori che si vogliono coinvolgere e alla durata dei relativi programmi. Un ragionamento analogo si potrebbe fare circa il numero dei precari che si vuol togliere dalla loro condizione, riducendo il numero dei 46 tipi di contratti esistenti. La strategia è sempre la stessa: prima si provvede a stabilire quante persone si vogliono coinvolgere in un piano di riduzione della precarietà, quali sarebbero i costi, da dove verrebbero le risorse, e quali sarebbero i tempi. Poi si passa a esaminare quale tipo di contratto potrebbe risultare efficace, oltre che equo e decente, per perseguire lo scopo di ridurre di una data quantità il numero dei precari.
Partire da scopi reali e quantificati per ridurre disoccupati e precari non significa sminuire il ruolo della legislazione del lavoro. Significa riportarlo alla sua funzione primaria di ottenere che le condizioni di lavoro siano aderenti agli articoli della Costituzione che di esse si occupano. Per creare occupazione la ricetta è un´altra: decidere come si fa a crearla davvero, e farlo.

La Repubblica 03.02.12

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“Nuove regole per vivere senza il posto fisso”, di IRENE TINAGLI
La realtà è questa: in Italia ci sono oltre 10 milioni di persone, tra cui moltissimi giovani, che vivono situazioni di lavoro inesistenti oppure estremamente precarie. E per precarie, sia ben inteso, non si intende semplicemente un contratto a tempo determinato, ma si intende una posizione di lavoro in cui non si ha alcuna forma di tutela, dove non ci si può permettere di ammalarsi né tantomeno una gravidanza, dove non ci sono ferie pagate né indennità di fine rapporto e dove, come nel caso delle migliaia di persone costrette ad aprirsi una partita Iva pur non essendo professionisti, bisogna anche pagarsi da soli i contributi che normalmente paga il datore di lavoro. Per queste persone il miraggio non è tanto il posto fisso, ma condizioni di lavoro degne di questo nome, e un qualche supporto che le aiuti quando un contratto finisce e hanno bisogno di tempo o di nuova formazione per trovarne un altro. Milioni di giovani di fatto chiedono questo. Quello che già hanno gran parte dei loro coetanei nel resto d’Europa.

Di fronte a questa realtà possiamo fare due cose. Possiamo dire a questi giovani che non devono stare a guardare questi «dettagli», ma che devono aspettare e puntare al posto fisso, come i loro nonni e i loro padri, perché quando ce lo avranno vivranno felici e protetti per il resto dei loro giorni. Poco importa se la competizione internazionale ha reso i mercati talmente instabili che le aziende non assumono più con contratti fissi. Poco importa se quel posto arriverà tra venti anni o forse mai. L’importante è tenere vivo l’obiettivo. Nel frattempo alle aziende che non riescono a sopravvivere offrendo contratti vecchio stampo si concede una serie di possibilità contrattualistiche ad altissima «deregolamentazione». In questo modo le aziende sono più o meno contente, i sindacati pure. I giovani un po’ meno, ma pazienza. Gli resta comunque il sogno di entrare prima o poi a far parte dei lavoratori «veri».

Oppure possiamo dire a questi giovani che, viste le turbolenze economiche attuali e con aziende che aprono e chiudono nel giro di pochi mesi, sarà sempre più difficile avere un posto che duri tutta la vita. Che se continua così si ritroveranno in milioni a scannarsi per poche migliaia di posti che arriveranno quando saranno impoveriti e stremati. E possiamo quindi provare a rendere questo percorso meno logorante. Da un lato, cercando di stimolare le imprese ad assumere, allentando le incertezze più gravose (come quelle delle cause di lavoro per reintegro che durano anni), alleggerendo la burocrazia e provando a rilanciare un po’ di investimenti. Dall’altro lato creando per questi giovani lavoratori, col coinvolgimento di Stato e aziende, nuove reti di sicurezza che in caso di malattia, gravidanza o ricerca di nuovo lavoro, non li lascino soli con la promessa che «quando avranno il posto fisso sarà tutto diverso».

La prima strada è quella che abbiamo perseguito sino ad oggi. La seconda è quella che il governo Monti dice di voler intraprendere. Si può certamente discutere sui bei tempi che furono, e, più seriamente, sugli strumenti che verranno adottati e sul come implementarli. Ma non si può dire che cercare di riformare un mercato del lavoro e del welfare squilibrato come il nostro sia sbagliato. Perché l’obiettivo, almeno per come è stato presentato fino ad oggi da Monti e da Fornero, non è smantellare un sistema di tutele, ma ridisegnarle per fare in modo che milioni di persone che oggi hanno poco lavoro e zero protezioni, possano finalmente ritrovare un po’ di speranza. Non ci dimentichiamo che oggi, al di là dei due milioni e duecentoquarantamila disoccupati, più della metà dei lavoratori italiani non è protetta né dall’articolo 18 né, molto spesso, da forme di tutela assai più basilari: quattro milioni e centomila dipendenti di imprese con meno di 15 addetti, un milione e mezzo di collaboratori autonomi tipo cocopro, un milione e mezzo di interinali o con contratti a termine, mezzo milione di stagist, un milione di collaboratori domestici, e due milioni e mezzo di irregolari. Per non contare la marea di partite Iva che di fatto operano come lavoratori dipendenti. E’ chiaro che ridisegnare un sistema in questo senso chiama in causa tutti: le aziende – che non potranno più avere l’alibi di regole troppo rigide per andare a questuare sussidi allo Stato; i sindacati – che dovranno trovare un modo di fare lotta sindacale incentrato sulla persona, la sua formazione e crescita più che sul posto di lavoro; e infine lo Stato – che dovrà garantire formazione e servizi efficienti e vigilare sul funzionamento del mercato. Certamente questo ridisegno richiede estrema cura, per evitare gli errori e le distorsioni delle riforme passate. Ma proprio questa cura e questo concorso di forze sono necessarie per ridare a tante persone una serenità che un tempo veniva trovata da molti nel lavoro fisso ma che oggi ha bisogno di nuovi strumenti per essere raggiunta da tutti.

La Stampa 03.02.12

"Lusi, Conti e dintorni: come si alimenta il fiume dell'antipolitica", di Stefano Folli

Tra i paradossi della politica c’è anche questo. Da mesi si discute su come ridurre i costi della politica, via maestra in vista di restituire una qualche credibilità al sistema dei partiti. Negli ultimi giorni, e non senza sofferenza, Camera e Senato hanno definito alcuni parziali interventi volti ad arginare antichi privilegi e a ridurre il costo pro-capite di deputati e senatori.

Misure tutt’altro che rivoluzionarie, decise o forse strappate ai diretti interessati con l’argomento che è urgente risalire la china del discredito.
Ebbene, mentre si sbandierano le poche centinaia di euro risparmiate sui «cedolini» dei parlamentari, ecco che esplode nel Pd l’affare Lusi. Milioni di euro distratti dalle casse della Margherita, un ex partito che sopravvive in qualche modo all’interno del Pd con una propria contabilità, un autonomo flusso di denaro, un bilancio distinto. Vicenda oscura, a dir poco, che sta suscitando infiniti interrogativi. Ci sarà modo di capire se il tesoriere traditore, nel frattempo espulso dal Pd, ha agito da solo o ha goduto di coperture. Certo, è tutto piuttosto strano.

Non ultimo il fatto che tredici milioni scomparsi avrebbero dovuto lasciare una traccia profonda nel bilancio di un semi-partito che non è una multinazionale. Invece nessuno si è accorto di nulla e il solo Arturo Parisi ha ricordato di essersi opposto a bilanci poco convincenti. Il meno che si possa dire è che i flussi del finanziamento pubblico sono eccessivi e incontrollati, se consentono che il denaro in circolazione sia abbondante al punto che tredici milioni svaniti non si notano.
Secondo punto. La compravendita di un palazzo a Roma curata da un senatore del Pdl, Riccardo Conti, che ha realizzato – a quanto pare – una plusvalenza davvero ragguardevole. Ne ha parlato il TgSette di Mentana e ieri il diretto interessato ha smentito sdegnato, con l’appoggio del suo partito. Cosa ha smentito? Non che l’operazione ci sia stata, ma che fosse illegale. Lo disturba l’accostamento a Lusi, perché «in quel caso si tratta di risorse pubbliche, qui invece è il mio lavoro privato» (Conti è un intermediario immobiliare).

E i suoi colleghi di partito lo difendono sullo stesso registro: «Si tratta di un’attività imprenditoriale». Eppure è singolare che sfugga il lato grottesco della vicenda. Siamo in quella zona grigia in cui politica e affari si sfiorano o s’intrecciano. Un senatore della Repubblica non vede alcuna anomalia nel proseguire la sua professione di mediatore sfruttando, si suppone, i contatti e le opportunità che gli si presentano anche grazie al mandato parlamentare (quel mandato che dovrebbe assorbire tutte le sue energie).
Due casi molto diversi: uno (Lusi) incredibile, l’altro (Conti) sconcertante. Il primo configura un grave reato, il secondo quantomeno un’attitudine del tutto inopportuna. Entrambi convergono nell’alimentare senza posa il fiume dell’anti-politica. Altro che limature agli stipendi dei deputati, se poi le prime pagine dei giornali si riempiono di notizie come queste, lasciando intravedere un retroterra di insensibilità civile. Va bene allora mettere mano alle assurdità del finanziamento dei partiti (ma c’era bisogno dell’affare Lusi per accorgersene?). Ben vengano i controlli e il «codice etico» di cui parla Violante. Ma prima di tutto servirebbe che certi personaggi e certe forze politiche si rendessero conto del baratro in cui stanno scivolando.

Il SOle 24 Ore 02.02.12