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“Auschwitz. Le parole per dirlo: ai nostri figli”, di Paolo Nori

Appena tornato ho detto alla Battaglia che il vento, a Cracovia, ti tagliava la faccia.“E come facevi? ”, mi ha chiesto lei. “Eh, c’eran dei medici, in albergo, che tutte le sere ti ricucivan la faccia te la mettevano a posto”. “Davvero? ” mi ha detto lei. No, – le ho detto io. – Scherzavo”. Ero stato ad Auschwitz con la fondazione Fossoli, cinque giorni. Eravamo andati in treno. Eravamo andati da Carpi a Cracovia. Poi da Cracovia, in corriera, tutti i giorni andavamo sui campi, se così si può dire, ad Auschwitz e a Birkenau. Tutto il giorno sui campi, a quindici sotto zero, al vento, a tagliarsi la faccia. E dopo indietro a Cracovia. E di sera, tutte le sere, a veder gli spettacoli, al cinema Kijow, i primi due giorni, poi in una discoteca polacca nel quartiere universitario. Una discoteca che si doveva chiamare Officina Metallurgica e invece non si chiamava così. Si chiamava Studio zero, o Club studio, o qualcosa del genere. E, si vede, avevano appena lavato i pavimenti, c’era un gran odore di detersivo.
Eravamo in settecento.
E lo storico Carlo Saletti diceva: “Siamo qui in massa”. E a me veniva da pensare: “Siamo qui insieme”.
Tutta questa bontà
C’ERANO delle cose complicate, lì ad Auschwitz.
La cosa più complicata, mi sembra, era: tutta questa bontà. Esser lì insieme a settecento studenti, tutta questa bontà. Ma lì io non ci pensavo, ci penso adesso che sono tornato: tutta questa bontà. Noi, siamo abituati che essere buoni c’è da avere vergogna, mi sembra. Noi siamo abituati così. Non in Polonia, in Italia.
Agli studenti, uno, non sa cosa dirgli.
A uno studente di diciassette anni, che è lì ad Auschwitz e a Birkenau, in gennaio, con quindici gradi sottozero, a tagliarsi la faccia, uno, cosa gli dice? Uno magari non gli dice niente.
Però magari se ti chiedono di accompagnare le guide, di aggiungere ogni tanto qualcosa ai loro discorsi che sembrano preregistrati, tu, cosa gli dici? Magari gli dici che tu, un po’ di anni fa, su youtube, hai trovato un discorso del presidente della camera Fini sulle leggi razziali che cominciava dicendo che era strano, che in un paese cattolico come l’Italia ci fossero state queste leggi contro gli ebrei e, quando avevi sentito così, ti era venuto in mente che ghetto, “ghetto”, è una parola italiana.
I ghetti e la bolla papale del 1555
E CHE i ghetti erano stati istituiti il 14 luglio del 1555 dal papaPaoloIV, italiano. Conlabolla Cum nimis absurdum. E che Cum nimis absurdum era l’incipit della bolla, e significava: “Poiché è oltremodo assurdo”. E la cosa oltremodo assurda e “disdicevole”, c’era scritto nella bolla, era il fatto “che gli ebrei, che sono condannati per propria colpa alla schiavitù eterna”, avevano “l’insolenza” di voler vivere in mezzo ai cristiani, e di voler possedere immobili, e di voler assumere balie e donne di casa. E per punirli per la loro insolenza, il papa italiano Paolo IV, con la bolla Cum nimis absurdum ordinava loro di “Abitare in un luogo separato dalle case dei cristiani”, il ghetto, che nella bolla viene chiamato il serraglio, serraglio che doveva avere un solo ingresso e una sola uscita, e che di notte doveva essere chiuso, e tutti gli animali dentro, e due sentinelle cristiane all’ingresso a controllare, e pagate dalla comunità ebraica. E la bolla del papa italiano stabiliva, per gli ebrei, l’obbligo di portare un segno distintivo di colore giallo (un cappello giallo per gli uomini e un fazzoletto giallo per le donne), e l’obbligo di non tenere servitù cristiana, e l’obbligo di non lavorare durante le festività cristiane, e l’obbligo di non prestare denaro a cristiani, e l’obbligo di mantenere buoni rapporti con i cristiani. E il divieto di esercitare alcun commercio al di fuori di quello degli stracci e dei vestiti usati, e l’esplicito divieto a commerciare “beni alimentari destinati al sostentamento umano”; non potevano toccare con le mani una cosa che doveva esser mangiata da un cristiano. E non potevano curare i cristiani, i medici ebrei; e non potevano farsi chiamare con l’appellativo di “signore” da alcun cristiano, e non potevano fare un sacco di altre cose.
Cultura e barbarie
E DOPO aver letto Cum nimis absurdum, dicevi, non c’era tanto da sorprendersi, che in un paese cattolico come l’Italia ci fossero state le leggi razziali, e che questa idea che noi italiani siam tanto bravi, e che con la Shoah non c’entriamo niente e che quello è stato il male assoluto e che son stati i tedeschi e l’han fatto allora e coi nostri tempi non c’entra niente, questo ti sembra un modo per farti dimenticare per esempio che tua nonna, quandoeripiccolo, tidicevadi stare attento agli zingari che rubano i bambini, e ti diceva che le zingare hanno le gonne così larghe perché sotto ci nascondono i bambini, e quella cosa lì, anche se la diceva tua nonna, che tu le hai voluto un bene che non si può dire, era una menzogna razzista, perchénonc’èmaistato, nellastoria della Repubblica Italiana, nessuno zingaro condannato per rapimento di bambini. E ti viene in mente quelli che pochi mesi fa, a Torino, hanno bruciato un campo rom per vendicarsi di uno stupro che non c’era mai stato, e poi hanno impedito ai pompieri di avvicinarsi per spegnere il fuoco, esattamente come i nazisti con i negozi degli ebrei la notte dei cristalli. E ti viene in mente Dickens, che da qualche parte racconta che quando, da piccolo, andava a scuola, c’era un insegnante che prendeva sempre in giro un ragazzochenonerasveglissimo; “Enoi, –scriveDickens, –cani, ridevamo”. E che forse comincia tutto lì. E che in quel senso, solo in quel senso, tu riesci a capire quello che dice lo storico Carlo Saletti che dice che la cultura è il miglior alleato della barbarie, e lui ti sembra non lo dica in quel senso. E difatti è per quello che il compositore Carlo Boccadoro dice che quella, adesso riassumo, è una gran puttanata. E in tutto il vagone ristorante, siete in treno, state tornando, si accende una discussione e sono tutti intorno a Carlo Saletti a chiedergli: “Ma cosa dici? ”. E lui dice che quello che voleva dire era che “La cultura non ti immunizza dalla barbarie”. E gli altri dicono “Ahhhh”. E una ragazza di diciassette anni ti chiede “Ma come faccio, a capire quello che devo fare? ”. E tu le rispondi che non lo sai. E di portare pazienza. E che se sta attenta, forse, se ne accorge da sola. E una ragazza di diciotto anni ti dice che lei, a Birkenau, voleva stare da sola. Senza la guida, senza la gente, senza la massa. Non insieme, da sola. E tu dici che Birkenau, è strano, ma è un posto bellissimo. E è un posto che non si può raccontare. E che ti mette addosso una voglia di raccontarlo che, da un certo punto di vista, inspiegabile. E che tu, la prima volta che l’hai visto, quando sei uscito, hai pensato Quando torno a casa lo devo raccontare alla Battaglia”. E ti sei inspiegabilmente commosso. E la Battaglia è tua figlia. E allora aveva tre anni. E dopo, quando sei tornato, hai avuto vergogna non gliel’hai raccontato.

Il Fatto Quotidiano 02.02.12

"Mettere i giovani al centro del confronto", di Dario Di Vico

Bisogna saperlo. La trattativa sulla riforma del lavoro che si apre oggi a Roma parte al buio. In passato iniziative di questo tipo erano accompagnate dal lavoro certosino degli sherpa ministeriali e alcuni di loro sono stati delle figure-chiave non solo per l’esito dei negoziati che avevano curato ma più in generale per l’evoluzione delle relazioni industriali italiane. Si parte al buio, dunque, ma in compenso il governo si è dato un calendario plausibile visto che pensa di arrivare a produrre un’intesa grosso modo entro la fine di marzo. Due mesi. Con molta probabilità userà un disegno di legge con delega «aperta» per evitare la doppia insidia del decreto (giudicato eccessivamente decisionista) e del disegno di legge tout court (troppo dilatorio). Un ulteriore e relativamente inedito motivo di conforto viene dal clima cooperativo che si respira tra le tre grandi confederazioni sindacali e tra loro e la Confindustria. Il feeling è così intenso che nei giorni scorsi si era pensato addirittura all’ipotesi di un avviso/documento comune industriali-sindacato che fornisse al governo una sorta di «precotto». Poi, giustamente, ci si è fermati al palo per evitare che il premier Mario Monti e il ministro Elsa Fornero potessero interpretarlo come un documento-diga più che una traccia di lavoro.
Pesati gli elementi negativi e quelli positivi sul piano del metodo, proviamo però a capire qualcosa di più sul merito della trattativa e sulle strade che batterà. Messe da parte, almeno per un momento, le strategie dei protagonisti, sarà utile fare riferimento anche alle attese dell’opinione pubblica. Se infatti si vuole superare una pratica della concertazione ristretta alla sola soddisfazione delle parti sociali varrà la pena chiedersi cosa si aspettano dal «tavolo lavoro» coloro che non sono rappresentati, gli outsider. E la risposta è sin troppo facile: attendono decisioni che favoriscano l’occupazione e insieme correggano i rapporti di lavoro. E allora perché il governo non prova a calare un asso nel negoziato, a mettere subito al centro del confronto «le vitamine per i giovani» (copyright di Tiziano Treu) o, come si dice in gergo, le politiche attive del lavoro? In concreto, attingendo ai nuovi fondi europei per la crescita si può portare al tavolo un programma immediato capace di avviare al lavoro, con lo strumento dell’apprendistato, un numero consistente di giovani? Per carità è solo un suggerimento ma prima di scartarlo il governo dovrebbe vedere se esistono le condizioni per varare un programma di questo tipo. Ci fosse anche solo uno spiraglio…
Una buona partenza potrebbe contribuire a smussare gli angoli e a motivare le parti sociali in direzione della discontinuità. È vero che Cgil, Cisl e Uil fino ai primi di marzo sono in campagna elettorale per il rinnovo delle Rsu del pubblico impiego e della scuola e quindi saranno estremamente prudenti nel fare concessioni. Ed è altrettanto vero che la corsa al dopo-Marcegaglia ha visto finora (e purtroppo) i due maggiori candidati battagliare sostanzialmente su un unico punto, la rimozione o meno dell’articolo 18. L’una e l’altra coincidenza potranno condizionare l’atteggiamento delle parti sociali al tavolo e nell’incertezza spingerle alla scelta più facile, quasi inerziale. Sarebbe un errore e lo pagheremmo tutti.
Il governo ha pienamente ragione nell’indicare con forza la via delle riforme strutturali, si devono correggere le storture che hanno creato quel mix disastroso fatto di bassa crescita e largo precariato. Nell’ultima apparizione televisiva ad Otto e mezzo il ministro Fornero ha fatto capire di essere disposta a considerare l’ipotesi di una sfasatura temporale tra i nuovi regimi che saranno stati concordati e la loro effettiva entrata in vigore. Bruxelles con tutta probabilità non avrebbe niente da ridire e le parti sociali più tempo per digerire le novità. Un esempio su tutti, la delicata questione della riforma della cassa integrazione straordinaria. Una forzatura del governo e un timing non opportunamente governato porterebbero ad abolirla proprio nel momento in cui le esigenze di ristrutturazione delle aziende si fanno più impellenti. È pensabile che avvenga e che addirittura convenga? Certo che no. E Monti non può non saperlo.
P.S. Se in una delle sedute del «tavolo lavoro» si trovasse tempo per esaminare i risultati della contrattazione aziendale se ne ricaverebbero input di sicuro interesse.

Il Corriere della Sera 02.02.12

“Mettere i giovani al centro del confronto”, di Dario Di Vico

Bisogna saperlo. La trattativa sulla riforma del lavoro che si apre oggi a Roma parte al buio. In passato iniziative di questo tipo erano accompagnate dal lavoro certosino degli sherpa ministeriali e alcuni di loro sono stati delle figure-chiave non solo per l’esito dei negoziati che avevano curato ma più in generale per l’evoluzione delle relazioni industriali italiane. Si parte al buio, dunque, ma in compenso il governo si è dato un calendario plausibile visto che pensa di arrivare a produrre un’intesa grosso modo entro la fine di marzo. Due mesi. Con molta probabilità userà un disegno di legge con delega «aperta» per evitare la doppia insidia del decreto (giudicato eccessivamente decisionista) e del disegno di legge tout court (troppo dilatorio). Un ulteriore e relativamente inedito motivo di conforto viene dal clima cooperativo che si respira tra le tre grandi confederazioni sindacali e tra loro e la Confindustria. Il feeling è così intenso che nei giorni scorsi si era pensato addirittura all’ipotesi di un avviso/documento comune industriali-sindacato che fornisse al governo una sorta di «precotto». Poi, giustamente, ci si è fermati al palo per evitare che il premier Mario Monti e il ministro Elsa Fornero potessero interpretarlo come un documento-diga più che una traccia di lavoro.
Pesati gli elementi negativi e quelli positivi sul piano del metodo, proviamo però a capire qualcosa di più sul merito della trattativa e sulle strade che batterà. Messe da parte, almeno per un momento, le strategie dei protagonisti, sarà utile fare riferimento anche alle attese dell’opinione pubblica. Se infatti si vuole superare una pratica della concertazione ristretta alla sola soddisfazione delle parti sociali varrà la pena chiedersi cosa si aspettano dal «tavolo lavoro» coloro che non sono rappresentati, gli outsider. E la risposta è sin troppo facile: attendono decisioni che favoriscano l’occupazione e insieme correggano i rapporti di lavoro. E allora perché il governo non prova a calare un asso nel negoziato, a mettere subito al centro del confronto «le vitamine per i giovani» (copyright di Tiziano Treu) o, come si dice in gergo, le politiche attive del lavoro? In concreto, attingendo ai nuovi fondi europei per la crescita si può portare al tavolo un programma immediato capace di avviare al lavoro, con lo strumento dell’apprendistato, un numero consistente di giovani? Per carità è solo un suggerimento ma prima di scartarlo il governo dovrebbe vedere se esistono le condizioni per varare un programma di questo tipo. Ci fosse anche solo uno spiraglio…
Una buona partenza potrebbe contribuire a smussare gli angoli e a motivare le parti sociali in direzione della discontinuità. È vero che Cgil, Cisl e Uil fino ai primi di marzo sono in campagna elettorale per il rinnovo delle Rsu del pubblico impiego e della scuola e quindi saranno estremamente prudenti nel fare concessioni. Ed è altrettanto vero che la corsa al dopo-Marcegaglia ha visto finora (e purtroppo) i due maggiori candidati battagliare sostanzialmente su un unico punto, la rimozione o meno dell’articolo 18. L’una e l’altra coincidenza potranno condizionare l’atteggiamento delle parti sociali al tavolo e nell’incertezza spingerle alla scelta più facile, quasi inerziale. Sarebbe un errore e lo pagheremmo tutti.
Il governo ha pienamente ragione nell’indicare con forza la via delle riforme strutturali, si devono correggere le storture che hanno creato quel mix disastroso fatto di bassa crescita e largo precariato. Nell’ultima apparizione televisiva ad Otto e mezzo il ministro Fornero ha fatto capire di essere disposta a considerare l’ipotesi di una sfasatura temporale tra i nuovi regimi che saranno stati concordati e la loro effettiva entrata in vigore. Bruxelles con tutta probabilità non avrebbe niente da ridire e le parti sociali più tempo per digerire le novità. Un esempio su tutti, la delicata questione della riforma della cassa integrazione straordinaria. Una forzatura del governo e un timing non opportunamente governato porterebbero ad abolirla proprio nel momento in cui le esigenze di ristrutturazione delle aziende si fanno più impellenti. È pensabile che avvenga e che addirittura convenga? Certo che no. E Monti non può non saperlo.
P.S. Se in una delle sedute del «tavolo lavoro» si trovasse tempo per esaminare i risultati della contrattazione aziendale se ne ricaverebbero input di sicuro interesse.

Il Corriere della Sera 02.02.12

"Bilanci certificati e trasparenti: il Pd li ha, e gli altri?", di Antonio Misiani *

L’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto il senatore Luigi Lusi, tesoriere nazionale della Margherita, mette in luce con crudezza alcuni nodi politici che vanno affrontati a viso aperto. Prima di parlarne credo che sia necessario chiarire che l’altra sera, nella sua performance, Maurizio Crozza, apprezzato da un vasto pubblico (tra cui il sottoscritto), ha lasciato intendere e detto cose sbagliate. È satira, ma c’è il rischio che per far ridere si incida nelle convinzioni di molte persone. Alcune cose vanno dunque precisate.
Primo: il Partito Democratico e la Margherita sono soggetti del tutto distinti, politicamente, giuridicamente ed economicamente. Il Pd, perciò, non ha alcun titolo per determinare indirizzi e fare controlli sul bilancio della Margherita, il cui presidente (Francesco Rutelli) è peraltro il leader di un’altra formazione politica. I 13 milioni di euro al centro delle indagini della magistratura sono stati sottratti alla Margherita, non al Pd. E il Pd non ha mai girato rimborsi elettorali alla Margherita: gli unici rapporti economici sono il pagamento da parte del Pd della sublocazione della sede di Sant’Andrea delle Fratte e il rimborso di alcune spese di gestione della sede e del personale distaccato.Secondo punto da precisare e ricordare: il bilancio nazionale del Pd, sin dalla nascita nel 2007, è controllato fino all’ultima fattura da una società di revisione indipendente (PriceWaterhouse Coopers, gli stessi che certificano il bilancio della Banca d’Italia). Siamo gli unici a farlo, sulla base di una precisa scelta politica di trasparenza. Terzo: il Pd ha reagito all’indagine che ha coinvolto un suo parlamentare senza alcuna timidezza, seguendo con rigore le regole che ci siamo dati.
Tutto questo, naturalmente, non toglie in alcun modo dal campo i riflessi politici della vicenda, perché il punto di fondo è la necessità di una profonda riforma del sistema dei partiti, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. Uno snodo cruciale della più complessiva riforma della politica, che chiama in causa tutte le forze politiche, Pd compreso.
I rimborsi elettorali, di gran lunga la principale fonte di finanziamento dei bilanci nazionali dei partiti, negli anni più recenti sono stati drasticamente ridimensionati: è stato cancellata la prosecuzione dei rimborsi anche in caso di scioglimento anticipato della legislatura e sono stati ridotti del 30 per cento gli stanziamenti. Nel 2010 i rimborsi elettorali ammontavano a 290 milioni. Nel 2011, con la fine dei rimborsi relativi alle politiche 2006, questa cifra è scesa a 189 milioni. Con la progressiva entrata in vigore dei tagli già decisi le risorse si ridurranno ulteriormente a 143 milioni: è un livello inferiore, in termini pro capite, a quanto viene destinato ai partiti in Germania, Francia e Spagna.
Ciò che invece è rimasto invariato è il sistema dei controlli interni ed esterni sui bilanci dei partiti. Secondo la normativa vigente ogni partito che riceve i rimborsi elettorali deve redigere un rendiconto, che viene esaminato dai revisori dei conti interni. Il rendiconto è trasmesso al Presidente della Camera e un collegio di revisori, nominato d’intesa tra i Presidenti di Camera e Senato, verifica la regolarità formale del rendiconto. I bilanci dei partiti sono pubblicati su due quotidiani e sulla Gazzetta Ufficiale. Punto. È un sistema chiaramente insufficiente, che va radicalmente cambiato guardando alle migliori esperienze europee.
Il Pd ha da tempo detto come la pensa: proponiamo che i rendiconti siano sottoposti obbligatoriamente alla certificazione di organismi esterni, siano essi società di revisione o un’autorità indipendente o la Corte dei Conti. Chi sgarra, deve perdere il diritto ai rimborsi elettorali. I rendiconti dei partiti vanno pubblicati non solo sui giornali ma anche su Internet, a disposizione dei cittadini che hanno il diritto di vedere e capire come i partiti si procurano le risorse e come le spendono.
La trasparenza non è uno slogan, abbiamo scritto nelle pagine Internet in cui abbiamo messo online i conti del Pd. Oggi è una questione vitale, se vogliamo che i partiti riconquistino la fiducia e il rispetto dei cittadini.

*Tesoriere PD

L’Unità 02.02.12

******

“Rimborsi, così non va”, di Vannino Chiti

Il tema dei rimborsi elettorali ai partiti non può essere ridotto ad un dibattito sull’opportunità o meno di prevedere il finanziamento pubblico. La Costituzione stabilisce che i partiti svolgano il ruolo di cerniera tra cittadini e istituzioni.
Una funzione indispensabile, senza di essi non c’è la democrazia. Ciò che è importante e urgente fare è una vera riforma del finanziamento. Essere cerniera è il contrario dell’autoreferenzialità, che consente purtroppo anche sbandate affaristiche.
Il senatore Luigi Lusi non fa più parte del gruppo del Partito Democratico al Senato, in virtù del fatto che noi abbiamo delle regole rigide, sulle quali non si transige. Immagino che verranno adottate delle misure coerenti con questa decisione anche a livello di partito. La vicenda Lusi, al di là delle responsabilità sue e di eventuali altre persone – che la magistratura dovrà accertare, rapidamente e bene – ha comunque riportato al centro una necessità per troppo tempo trascurata.
Il sistema del finanziamento ai partiti così non funziona: va cambiato. La normativa negli anni ha subito dei peggioramenti a cui dobbiamo porre subito rimedio: nel luglio 2002 la soglia minima per accedere al rimborso è stata ridotta dal 4% all’1% dei voti ottenuti alle elezioni della Camera, una misura che incoraggia la frammentazione. Inoltre, nel febbraio 2006 si è stabilito che i partiti percepiscano il rimborso elettorale per tutti e cinque gli anni della legislatura, anche in caso di scioglimento anticipato delle Camere. Questa norma non varrà a partire dalla prossima legislatura, ma tra il 2008 e il 2011 i partiti hanno percepito un doppio finanziamento a causa della fine anticipata della scorsa legislatura. C’è poi un’altro aspetto grave da modificare: non è immaginabile che i rimborsi vengano erogati anche ai partiti che siano nel frattempo scomparsi. Tra il 2006 e il 2011 è avvenuto per Ds, Margherita, Forza Italia e An. È questo che fa perdere credibilità ai partiti e allontana i cittadini dalle istituzioni.
Porre rimedio a questi errori è necessario, ma non basta. Occorre che il finanziamento pubblico ai partiti sia più contenuto e ancorato, in parte, al metodo democratico per la scelta dei candidati alle elezioni e alla presenza – non inferiore a un terzo – di donne tra gli eletti nelle istituzioni. Per assicurare piena trasparenza, deve essere preteso, pena la non erogazione, che il controllo sull’uso di queste risorse destinate ai partiti avvenga con certificazione esterna, ad opera di società di revisione riconosciute. Questa è una misura che il Partito Democratico, unico tra quelli italiani, ha già assunto da tempo. Al tempo stesso è urgente procedere all’obbligo per i gruppi parlamentari di rendere pubblico il loro bilancio.
Se si vuole che la politica dei partiti riprenda credibilità è indispensabile e urgentissimo procedere nella direzione della trasparenza e del rigore. Pensare che sia sufficiente il solo ricambio delle classi dirigenti è una illusione: il distacco dei partiti dai cittadini è drammatico e crescente. Affrontarlo con serietà e determinazione, finché siamo in tempo, è il nostro dovere.

da Europa Quotidiano 02.02.12

“Bilanci certificati e trasparenti: il Pd li ha, e gli altri?”, di Antonio Misiani *

L’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto il senatore Luigi Lusi, tesoriere nazionale della Margherita, mette in luce con crudezza alcuni nodi politici che vanno affrontati a viso aperto. Prima di parlarne credo che sia necessario chiarire che l’altra sera, nella sua performance, Maurizio Crozza, apprezzato da un vasto pubblico (tra cui il sottoscritto), ha lasciato intendere e detto cose sbagliate. È satira, ma c’è il rischio che per far ridere si incida nelle convinzioni di molte persone. Alcune cose vanno dunque precisate.
Primo: il Partito Democratico e la Margherita sono soggetti del tutto distinti, politicamente, giuridicamente ed economicamente. Il Pd, perciò, non ha alcun titolo per determinare indirizzi e fare controlli sul bilancio della Margherita, il cui presidente (Francesco Rutelli) è peraltro il leader di un’altra formazione politica. I 13 milioni di euro al centro delle indagini della magistratura sono stati sottratti alla Margherita, non al Pd. E il Pd non ha mai girato rimborsi elettorali alla Margherita: gli unici rapporti economici sono il pagamento da parte del Pd della sublocazione della sede di Sant’Andrea delle Fratte e il rimborso di alcune spese di gestione della sede e del personale distaccato.Secondo punto da precisare e ricordare: il bilancio nazionale del Pd, sin dalla nascita nel 2007, è controllato fino all’ultima fattura da una società di revisione indipendente (PriceWaterhouse Coopers, gli stessi che certificano il bilancio della Banca d’Italia). Siamo gli unici a farlo, sulla base di una precisa scelta politica di trasparenza. Terzo: il Pd ha reagito all’indagine che ha coinvolto un suo parlamentare senza alcuna timidezza, seguendo con rigore le regole che ci siamo dati.
Tutto questo, naturalmente, non toglie in alcun modo dal campo i riflessi politici della vicenda, perché il punto di fondo è la necessità di una profonda riforma del sistema dei partiti, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. Uno snodo cruciale della più complessiva riforma della politica, che chiama in causa tutte le forze politiche, Pd compreso.
I rimborsi elettorali, di gran lunga la principale fonte di finanziamento dei bilanci nazionali dei partiti, negli anni più recenti sono stati drasticamente ridimensionati: è stato cancellata la prosecuzione dei rimborsi anche in caso di scioglimento anticipato della legislatura e sono stati ridotti del 30 per cento gli stanziamenti. Nel 2010 i rimborsi elettorali ammontavano a 290 milioni. Nel 2011, con la fine dei rimborsi relativi alle politiche 2006, questa cifra è scesa a 189 milioni. Con la progressiva entrata in vigore dei tagli già decisi le risorse si ridurranno ulteriormente a 143 milioni: è un livello inferiore, in termini pro capite, a quanto viene destinato ai partiti in Germania, Francia e Spagna.
Ciò che invece è rimasto invariato è il sistema dei controlli interni ed esterni sui bilanci dei partiti. Secondo la normativa vigente ogni partito che riceve i rimborsi elettorali deve redigere un rendiconto, che viene esaminato dai revisori dei conti interni. Il rendiconto è trasmesso al Presidente della Camera e un collegio di revisori, nominato d’intesa tra i Presidenti di Camera e Senato, verifica la regolarità formale del rendiconto. I bilanci dei partiti sono pubblicati su due quotidiani e sulla Gazzetta Ufficiale. Punto. È un sistema chiaramente insufficiente, che va radicalmente cambiato guardando alle migliori esperienze europee.
Il Pd ha da tempo detto come la pensa: proponiamo che i rendiconti siano sottoposti obbligatoriamente alla certificazione di organismi esterni, siano essi società di revisione o un’autorità indipendente o la Corte dei Conti. Chi sgarra, deve perdere il diritto ai rimborsi elettorali. I rendiconti dei partiti vanno pubblicati non solo sui giornali ma anche su Internet, a disposizione dei cittadini che hanno il diritto di vedere e capire come i partiti si procurano le risorse e come le spendono.
La trasparenza non è uno slogan, abbiamo scritto nelle pagine Internet in cui abbiamo messo online i conti del Pd. Oggi è una questione vitale, se vogliamo che i partiti riconquistino la fiducia e il rispetto dei cittadini.

*Tesoriere PD

L’Unità 02.02.12

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“Rimborsi, così non va”, di Vannino Chiti

Il tema dei rimborsi elettorali ai partiti non può essere ridotto ad un dibattito sull’opportunità o meno di prevedere il finanziamento pubblico. La Costituzione stabilisce che i partiti svolgano il ruolo di cerniera tra cittadini e istituzioni.
Una funzione indispensabile, senza di essi non c’è la democrazia. Ciò che è importante e urgente fare è una vera riforma del finanziamento. Essere cerniera è il contrario dell’autoreferenzialità, che consente purtroppo anche sbandate affaristiche.
Il senatore Luigi Lusi non fa più parte del gruppo del Partito Democratico al Senato, in virtù del fatto che noi abbiamo delle regole rigide, sulle quali non si transige. Immagino che verranno adottate delle misure coerenti con questa decisione anche a livello di partito. La vicenda Lusi, al di là delle responsabilità sue e di eventuali altre persone – che la magistratura dovrà accertare, rapidamente e bene – ha comunque riportato al centro una necessità per troppo tempo trascurata.
Il sistema del finanziamento ai partiti così non funziona: va cambiato. La normativa negli anni ha subito dei peggioramenti a cui dobbiamo porre subito rimedio: nel luglio 2002 la soglia minima per accedere al rimborso è stata ridotta dal 4% all’1% dei voti ottenuti alle elezioni della Camera, una misura che incoraggia la frammentazione. Inoltre, nel febbraio 2006 si è stabilito che i partiti percepiscano il rimborso elettorale per tutti e cinque gli anni della legislatura, anche in caso di scioglimento anticipato delle Camere. Questa norma non varrà a partire dalla prossima legislatura, ma tra il 2008 e il 2011 i partiti hanno percepito un doppio finanziamento a causa della fine anticipata della scorsa legislatura. C’è poi un’altro aspetto grave da modificare: non è immaginabile che i rimborsi vengano erogati anche ai partiti che siano nel frattempo scomparsi. Tra il 2006 e il 2011 è avvenuto per Ds, Margherita, Forza Italia e An. È questo che fa perdere credibilità ai partiti e allontana i cittadini dalle istituzioni.
Porre rimedio a questi errori è necessario, ma non basta. Occorre che il finanziamento pubblico ai partiti sia più contenuto e ancorato, in parte, al metodo democratico per la scelta dei candidati alle elezioni e alla presenza – non inferiore a un terzo – di donne tra gli eletti nelle istituzioni. Per assicurare piena trasparenza, deve essere preteso, pena la non erogazione, che il controllo sull’uso di queste risorse destinate ai partiti avvenga con certificazione esterna, ad opera di società di revisione riconosciute. Questa è una misura che il Partito Democratico, unico tra quelli italiani, ha già assunto da tempo. Al tempo stesso è urgente procedere all’obbligo per i gruppi parlamentari di rendere pubblico il loro bilancio.
Se si vuole che la politica dei partiti riprenda credibilità è indispensabile e urgentissimo procedere nella direzione della trasparenza e del rigore. Pensare che sia sufficiente il solo ricambio delle classi dirigenti è una illusione: il distacco dei partiti dai cittadini è drammatico e crescente. Affrontarlo con serietà e determinazione, finché siamo in tempo, è il nostro dovere.

da Europa Quotidiano 02.02.12

"Il governo batta un colpo", di Vittorio Emiliani

Il presidente Monti non può non dare corso, al più presto, all’iniziativa sulla “governabilità” della Rai prima della scadenza dell’attuale consiglio di amministrazione annunciata su Raitre e l’altro ieri a Bruxelles, in sede europea. Come richiede la lettera di denuncia scritta dal presidente dell’azienda di Stato, Paolo Garimberti. E come sollecitano le chiare dimissioni del consigliere Nino Rizzo Nervo.
Non era mai successo che la Rai, cioè la più grande azienda di informazione, intrattenimento e cultura del Paese, venisse asservita da una ex maggioranza di governo, divisa su tutto, ridiventata autosufficiente e funzionante soltanto in Viale Mazzini 14. Non era mai successo che, con un chiaro atto di rottura, il direttore generale portasse in consiglio, contro il parere del presidente, le nomine strategiche del direttore del Tg1 attribuito ad un giornalista già pensionato (e quindi non suscettibile di rinomina) portato dal Pdl, e del direttore della testata TgR ad un giornalista voluto dalla Lega Nord, in funzione delle prossime amministrative, delle elezioni del 2013 o di un possibile voto politico anticipato. Non erano mai successe tante cose negative in Rai da quando Berlusconi è “sceso in campo” col fine primario di difendere aziende, interessi, patrimoni di famiglia. Ma soprattutto non era mai accaduto, da quando l’Eiar mussoliniano divenne la Rai Radio Televisione Italiana, che una legge come la Gasparri tuttora vigente facesse diventare l’emittente di Stato una dépendance del premier e dei partiti di maggioranza, pronti a metterla al guinzaglio.
Ora quella maggioranza non è più tale e Berlusconi circola più per le aule del Palazzo di Giustizia di Milano che non a Palazzo Grazioli o a Montecitorio. Ora una maggioranza che riunisce tutti i partiti, fuorché la Lega, sostiene il governo Monti e il suo programma. In forza della legge tuttora vigente, la Rai-Tv è del Tesoro e Mario Monti ne è l’azionista di maggioranza. Tant’è che, di fronte a milioni di telespettatori, ha promesso (vista la situazione di precarietà in cui versa la Rai) novità importanti a breve. Novità a garanzia del servizio pubblico ovviamente.
Dopo il colpo di mano in Rai della resuscitata maggioranza Pdl-Lega Nord e del suo direttore generale, milioni di utenti si attendono dal presidente e ministro dell’Economia quelle novità “interessanti”. Questo CdA Rai deve scadere a fine marzo con l’approvazione dei bilanci. Sarebbe gravissimo se decidesse, ancora a maggioranza, di ritardare questa operazione sino a fine giugno. Petruccioli e Cappon, nel 2008, fecero correttamente approvare i bilanci il 1° aprile per dire che la loro corsa era finita. Monti può assumere più di una iniziativa: dal richiamare il consigliere nominato dal Tesoro al far rispettare la scadenza di fine marzo, al porre mano ad una prima riforma della governance, allo stesso commissariamento. Ma deve dar corso all’iniziativa, annunciata e promessa, che ha in mente. Senza indugio.

L’Unità 02.02.12

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L’asse Pdl-Lega per non cambiare la Rai”, di Fabrizia Bagozzi

Il terremoto a viale Mazzini diventa un problema sul tavolo di Monti
Maccari e Casarin imposti dal resuscitato tandem Pdl-Lega alla direzione del Tg1 e delle testate regionali. Con un voto a maggioranza ottenuto a muso duro anche contro la volontà esplicita del presidente della Rai che ha votato no. Un consigliere in quota centrosinistra, Nino Rizzo Nervo, che si dimette per protesta.
Lo showdown andato in scena martedì nel cda mostra che – sia pur con molti se e qualche ma – il mood Monti funziona in parlamento, ma non riesce a sfondare la barriera del suono di viale Mazzini e delle sue radicate consuetudini. Dal conclave in cui la vecchia maggioranza di centrodestra ha portato a casa i suoi desiderata non sono arrivati nomi condivisi, come vorrebbe la nuova stagione. Facendo esplodere, oltre a una crisi formale (il Pd non sostituirà Rizzo Nervo), la questione incandescente della governance Rai, a poco più di due mesi della scadenza del vertice. Fa notare Paolo Gentiloni, responsabile del forum Itc del Pd: «La crisi della Rai è giunta a un punto di non ritorno. Se il governo intende intervenire per salvare il servizio pubblico, non c’è più un giorno da perdere».
E che Mario Monti abbia aperto sul tavolo il dossier Rai lo ha detto lui stesso più volte, prima ospite da Fabio Fazio, l’ultima volta due giorni fa al termine del consiglio Ue. La tempesta in viale Mazzini e l’atteggiamento assunto dal consigliere del tesoro Petroni hanno reso il trattamento della questione ancora più urgente. Ma il premier, che a Che tempo che fa era sembrato più possibilista su un intervento diretto («mi dia qualche settimana e vedrà»), lunedì notte a Bruxelles ha precisato: il governo si occuperà della Rai «nei limiti delle competenze, nella sua qualità di azionista e regolatore, entro le scadenze stabilite che si stanno avvicinando». Parole che non fanno pensare a decisioni straordinarie, mentre i tempi per entrare in medias res con una norma – un decreto o un disegno di legge – si fanno sempre più stretti: il cda scade il 28 marzo, e gli eventi di mertedì rendono più difficile la proroga dell’attuale consiglio di amministrazione.
Mentre si fa sempre più forte il pressing per dare un segnale di svolta, dal Pd e dagli stessi vertici Rai: nei giorni scorsi ha chiesto un incontro a Monti il presidente del cda Paolo Garimberti. Ma se in un primo tempo, per quanto informalmente, il Pdl non aveva sbarrato le porte a eventuali proposte di cambiamento che arrivassero dall’esecutivo, la blindatura in viale Mazzini dà l’idea di una maggioranza che, ancorché vecchia, quando si tratta di Rai, gioca di sponda per tenere saldamente le posizioni strategiche.
Da questo punto di vista, la soluzione gradita alla coppia Pdl-Lega è una proroga dell’attuale cda, direttore generale incluso. Ma è un’opzione decisamente improbabile. In alternativa, meglio andare a votare con le regole della legge Gasparri, con le quali gli alleati del tempo che fu pensano ancora di potersi giocare una partita.
Non a caso un uomo di fiducia di Berlusconi come Antonio Verro ha scelto di rimanere consigliere di un cda in scadenza anziché trasferirisi a Montecitorio. Anche se il rinnovo dei vertici a condizioni date porta con sé l’incognita di un nuovo e diverso consigliere espresso dal tesoro che, al netto del presidente (proposto dal governo e votato dai due terzi della Vigilanza), può cambiare gli equilibri in Rai, e non a vantaggio del centrodestra.
Quanto al Pd, di votare il rinnovo con la legge Gasparri non vuole neppure sentire parlare. Ma il rischio, oggi, è proprio questo.

da Europa quotidiano 02.02.12

“Il governo batta un colpo”, di Vittorio Emiliani

Il presidente Monti non può non dare corso, al più presto, all’iniziativa sulla “governabilità” della Rai prima della scadenza dell’attuale consiglio di amministrazione annunciata su Raitre e l’altro ieri a Bruxelles, in sede europea. Come richiede la lettera di denuncia scritta dal presidente dell’azienda di Stato, Paolo Garimberti. E come sollecitano le chiare dimissioni del consigliere Nino Rizzo Nervo.
Non era mai successo che la Rai, cioè la più grande azienda di informazione, intrattenimento e cultura del Paese, venisse asservita da una ex maggioranza di governo, divisa su tutto, ridiventata autosufficiente e funzionante soltanto in Viale Mazzini 14. Non era mai successo che, con un chiaro atto di rottura, il direttore generale portasse in consiglio, contro il parere del presidente, le nomine strategiche del direttore del Tg1 attribuito ad un giornalista già pensionato (e quindi non suscettibile di rinomina) portato dal Pdl, e del direttore della testata TgR ad un giornalista voluto dalla Lega Nord, in funzione delle prossime amministrative, delle elezioni del 2013 o di un possibile voto politico anticipato. Non erano mai successe tante cose negative in Rai da quando Berlusconi è “sceso in campo” col fine primario di difendere aziende, interessi, patrimoni di famiglia. Ma soprattutto non era mai accaduto, da quando l’Eiar mussoliniano divenne la Rai Radio Televisione Italiana, che una legge come la Gasparri tuttora vigente facesse diventare l’emittente di Stato una dépendance del premier e dei partiti di maggioranza, pronti a metterla al guinzaglio.
Ora quella maggioranza non è più tale e Berlusconi circola più per le aule del Palazzo di Giustizia di Milano che non a Palazzo Grazioli o a Montecitorio. Ora una maggioranza che riunisce tutti i partiti, fuorché la Lega, sostiene il governo Monti e il suo programma. In forza della legge tuttora vigente, la Rai-Tv è del Tesoro e Mario Monti ne è l’azionista di maggioranza. Tant’è che, di fronte a milioni di telespettatori, ha promesso (vista la situazione di precarietà in cui versa la Rai) novità importanti a breve. Novità a garanzia del servizio pubblico ovviamente.
Dopo il colpo di mano in Rai della resuscitata maggioranza Pdl-Lega Nord e del suo direttore generale, milioni di utenti si attendono dal presidente e ministro dell’Economia quelle novità “interessanti”. Questo CdA Rai deve scadere a fine marzo con l’approvazione dei bilanci. Sarebbe gravissimo se decidesse, ancora a maggioranza, di ritardare questa operazione sino a fine giugno. Petruccioli e Cappon, nel 2008, fecero correttamente approvare i bilanci il 1° aprile per dire che la loro corsa era finita. Monti può assumere più di una iniziativa: dal richiamare il consigliere nominato dal Tesoro al far rispettare la scadenza di fine marzo, al porre mano ad una prima riforma della governance, allo stesso commissariamento. Ma deve dar corso all’iniziativa, annunciata e promessa, che ha in mente. Senza indugio.

L’Unità 02.02.12

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L’asse Pdl-Lega per non cambiare la Rai”, di Fabrizia Bagozzi

Il terremoto a viale Mazzini diventa un problema sul tavolo di Monti
Maccari e Casarin imposti dal resuscitato tandem Pdl-Lega alla direzione del Tg1 e delle testate regionali. Con un voto a maggioranza ottenuto a muso duro anche contro la volontà esplicita del presidente della Rai che ha votato no. Un consigliere in quota centrosinistra, Nino Rizzo Nervo, che si dimette per protesta.
Lo showdown andato in scena martedì nel cda mostra che – sia pur con molti se e qualche ma – il mood Monti funziona in parlamento, ma non riesce a sfondare la barriera del suono di viale Mazzini e delle sue radicate consuetudini. Dal conclave in cui la vecchia maggioranza di centrodestra ha portato a casa i suoi desiderata non sono arrivati nomi condivisi, come vorrebbe la nuova stagione. Facendo esplodere, oltre a una crisi formale (il Pd non sostituirà Rizzo Nervo), la questione incandescente della governance Rai, a poco più di due mesi della scadenza del vertice. Fa notare Paolo Gentiloni, responsabile del forum Itc del Pd: «La crisi della Rai è giunta a un punto di non ritorno. Se il governo intende intervenire per salvare il servizio pubblico, non c’è più un giorno da perdere».
E che Mario Monti abbia aperto sul tavolo il dossier Rai lo ha detto lui stesso più volte, prima ospite da Fabio Fazio, l’ultima volta due giorni fa al termine del consiglio Ue. La tempesta in viale Mazzini e l’atteggiamento assunto dal consigliere del tesoro Petroni hanno reso il trattamento della questione ancora più urgente. Ma il premier, che a Che tempo che fa era sembrato più possibilista su un intervento diretto («mi dia qualche settimana e vedrà»), lunedì notte a Bruxelles ha precisato: il governo si occuperà della Rai «nei limiti delle competenze, nella sua qualità di azionista e regolatore, entro le scadenze stabilite che si stanno avvicinando». Parole che non fanno pensare a decisioni straordinarie, mentre i tempi per entrare in medias res con una norma – un decreto o un disegno di legge – si fanno sempre più stretti: il cda scade il 28 marzo, e gli eventi di mertedì rendono più difficile la proroga dell’attuale consiglio di amministrazione.
Mentre si fa sempre più forte il pressing per dare un segnale di svolta, dal Pd e dagli stessi vertici Rai: nei giorni scorsi ha chiesto un incontro a Monti il presidente del cda Paolo Garimberti. Ma se in un primo tempo, per quanto informalmente, il Pdl non aveva sbarrato le porte a eventuali proposte di cambiamento che arrivassero dall’esecutivo, la blindatura in viale Mazzini dà l’idea di una maggioranza che, ancorché vecchia, quando si tratta di Rai, gioca di sponda per tenere saldamente le posizioni strategiche.
Da questo punto di vista, la soluzione gradita alla coppia Pdl-Lega è una proroga dell’attuale cda, direttore generale incluso. Ma è un’opzione decisamente improbabile. In alternativa, meglio andare a votare con le regole della legge Gasparri, con le quali gli alleati del tempo che fu pensano ancora di potersi giocare una partita.
Non a caso un uomo di fiducia di Berlusconi come Antonio Verro ha scelto di rimanere consigliere di un cda in scadenza anziché trasferirisi a Montecitorio. Anche se il rinnovo dei vertici a condizioni date porta con sé l’incognita di un nuovo e diverso consigliere espresso dal tesoro che, al netto del presidente (proposto dal governo e votato dai due terzi della Vigilanza), può cambiare gli equilibri in Rai, e non a vantaggio del centrodestra.
Quanto al Pd, di votare il rinnovo con la legge Gasparri non vuole neppure sentire parlare. Ma il rischio, oggi, è proprio questo.

da Europa quotidiano 02.02.12