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2032, l'Italia invasa dal cemento "Scompariranno 75 ettari al giorno", di Carlo Brambilla

Un pericoloso «incendio grigio» sta bruciando il paesaggio italiano. Niente a che vedere con le fiamme dei veri roghi. Il territorio del Bel Paese rischia di venire definitivamente incenerito da un’immensa colata di cemento che lo sta sommergendo giorno dopo giorno. A lanciare l’allarme, con un nuovo drammatico dossier, presentato ieri, “Terra rubata. Viaggio nell’Italia che scompare”, sono due grandi associazioni ambientaliste, il Fai, Fondo per l’ambiente italianoe il Wwf. Non solo una valanga di dati allarmanti, evidenziati dalla ricerca, promossa dall’Università degli Studi dell’Aquila, in collaborazione con la Bocconi di Milano, ma un appello pressante a l G o v e r n o Monti perché l ‘ e m e r g e n z a economica non lo distolga dall’intervenire attivamente in un’altra emergenza non meno grave: la salvaguardia del territorio. «Un consumo di suolo che nella sola pianura padana divora ogni giorno molti ettari di campagne fertili che sono assorbiti per sempre dal cemento – denuncia Fulco Pratesi, presidente del Wwf. – Un danno ancora più grande della distruzione fisica, perché i terreni vicini non vengono più coltivati nella speranza che un domani diventino edificabili». L’indagine condotta su 11 regioni italiane, corrispondenti al 44% della superficie totale, sottolinea come l’area urbana in Italia, negli ultimi 50 anni, si sia moltiplicata di 3,5 volte, aumentando dagli anni Cinquanta ai primi del Duemila, di quasi 600 mila ettari, oltre 33 ettari al giorno. Un ritmo che si sta spaventosamente incrementando. «Le lobby del cemento e del mattone fagociteranno per sempre, nei prossimi 20 anni, al ritmo di 75 ettari al giorno, tesori naturalisticie paesaggistici, terreni agricoli e spazi di aggregazione sociale, che non saranno più restituiti alla collettività – denunciano gli ambientalisti. – E la superficie occupata dalle aree urbane crescerà di circa 600 mila ettari».

Città che crescono anche quando gli abitanti diminuiscono. Un consumo irreversibile del suolo che ha nell’abusivismo edilizio la sua causa più insidiosa. Secondo i dati ufficiali riportati nel dossier dal 1948 a oggi si sono registrati in Italia 4,6 milioni di abusi edilizi: 75 mila all’anno, 207 al giorno. Nello stesso periodo sono stati costruiti 450 mila edifici abusivi per un totale di un milione e 700 mila alloggi abusivi abitati da circa 6 milioni di abitanti. Interessi economici favoriti da un’assenza di pianificazione urbanistica. E da varianti e deroghe concesse ad hoc da amministratori complici.

Non solo lamenti. Per contrastare i «ladri di territorio» e arrestare il consumo di suolo Fai e Wwf suggeriscono una precisa Road Map con 11 linee di intervento. Da piani urbanistici che pongano rigidi limiti al nuovo edificato, alla lotta severa all’abusivismo. In particolare si chiede che venga aumentato il grado di tutela delle coste introducendo un’estensione generalizzata dei 300 metri di salvaguardia dalla linea di battigia sino ad almeno mille metri, come aveva previsto in Sardegna il piano paesistico della giunta Soru. Si chiede inoltre che vengano introdotti meccanismi fiscali che prevedano da un lato un più severo regime di tassazione sull’utilizzo di nuove risorse territoriali e dall’altro individuino agevolazioni sul riuso virtuoso di territorio.

La Repubblica 01.02.12

2032, l’Italia invasa dal cemento “Scompariranno 75 ettari al giorno”, di Carlo Brambilla

Un pericoloso «incendio grigio» sta bruciando il paesaggio italiano. Niente a che vedere con le fiamme dei veri roghi. Il territorio del Bel Paese rischia di venire definitivamente incenerito da un’immensa colata di cemento che lo sta sommergendo giorno dopo giorno. A lanciare l’allarme, con un nuovo drammatico dossier, presentato ieri, “Terra rubata. Viaggio nell’Italia che scompare”, sono due grandi associazioni ambientaliste, il Fai, Fondo per l’ambiente italianoe il Wwf. Non solo una valanga di dati allarmanti, evidenziati dalla ricerca, promossa dall’Università degli Studi dell’Aquila, in collaborazione con la Bocconi di Milano, ma un appello pressante a l G o v e r n o Monti perché l ‘ e m e r g e n z a economica non lo distolga dall’intervenire attivamente in un’altra emergenza non meno grave: la salvaguardia del territorio. «Un consumo di suolo che nella sola pianura padana divora ogni giorno molti ettari di campagne fertili che sono assorbiti per sempre dal cemento – denuncia Fulco Pratesi, presidente del Wwf. – Un danno ancora più grande della distruzione fisica, perché i terreni vicini non vengono più coltivati nella speranza che un domani diventino edificabili». L’indagine condotta su 11 regioni italiane, corrispondenti al 44% della superficie totale, sottolinea come l’area urbana in Italia, negli ultimi 50 anni, si sia moltiplicata di 3,5 volte, aumentando dagli anni Cinquanta ai primi del Duemila, di quasi 600 mila ettari, oltre 33 ettari al giorno. Un ritmo che si sta spaventosamente incrementando. «Le lobby del cemento e del mattone fagociteranno per sempre, nei prossimi 20 anni, al ritmo di 75 ettari al giorno, tesori naturalisticie paesaggistici, terreni agricoli e spazi di aggregazione sociale, che non saranno più restituiti alla collettività – denunciano gli ambientalisti. – E la superficie occupata dalle aree urbane crescerà di circa 600 mila ettari».

Città che crescono anche quando gli abitanti diminuiscono. Un consumo irreversibile del suolo che ha nell’abusivismo edilizio la sua causa più insidiosa. Secondo i dati ufficiali riportati nel dossier dal 1948 a oggi si sono registrati in Italia 4,6 milioni di abusi edilizi: 75 mila all’anno, 207 al giorno. Nello stesso periodo sono stati costruiti 450 mila edifici abusivi per un totale di un milione e 700 mila alloggi abusivi abitati da circa 6 milioni di abitanti. Interessi economici favoriti da un’assenza di pianificazione urbanistica. E da varianti e deroghe concesse ad hoc da amministratori complici.

Non solo lamenti. Per contrastare i «ladri di territorio» e arrestare il consumo di suolo Fai e Wwf suggeriscono una precisa Road Map con 11 linee di intervento. Da piani urbanistici che pongano rigidi limiti al nuovo edificato, alla lotta severa all’abusivismo. In particolare si chiede che venga aumentato il grado di tutela delle coste introducendo un’estensione generalizzata dei 300 metri di salvaguardia dalla linea di battigia sino ad almeno mille metri, come aveva previsto in Sardegna il piano paesistico della giunta Soru. Si chiede inoltre che vengano introdotti meccanismi fiscali che prevedano da un lato un più severo regime di tassazione sull’utilizzo di nuove risorse territoriali e dall’altro individuino agevolazioni sul riuso virtuoso di territorio.

La Repubblica 01.02.12

"Perché i vecchi ci fanno paura", di Barbara Spinelli

Le ultime statistiche Istat sull’invecchiamento degli italiani erano prevedibili, ma vale la pena soffermarsi su di esse e pensarle sino in fondo. Non di rado i numeri sono una gabbia, e non è vero che «parlano da soli»: siamo noi a farli parlare. Nel 2030, dicono, i vecchi saranno il doppio dei bambini. Non molto diverse sono le statistiche sugli immigrati: loro aumenteranno, gli italiani diminuiranno. Tutto questo accadrà non in un domani lontano, ma fra poco. Sarà una crisi di civiltà, annunciano i giornali: una mutazione antropologica che non avremo voluto, ma che dovremo patire e chissà come ne usciremo. La mutazione fin d’ora la viviamo come disagio della civiltà, ma non a causa di questi numeri: a causa delle parole che usiamo per interpretarli, commentarli. Sono parole che salgono in noi come una nebbia, e tutte sono intrise di spavento, smarrimento: come fossimo una civiltà in preda a incursioni selvagge.

Nell’ultimo ventennio si è parlato dell’imbarbarimento dei nostri costumi, ma forse la barbarie l’abbiamo dentro. Forse i barbari siamo noi, a meno di non preparare il futuro con maggiore cura delle parole, innanzitutto, e con politiche di prudenza e giustizia che non si facciano irretire da cifre, da percentuali, dalle insidie che sempre son racchiuse nelle statistiche, specie demografiche. A meno di non fronteggiare e guardare in modo diverso la crisi, l’economia di scarsità che impone, e come ci siamo arrivati.

Ancora una volta tendiamo a pensare la crisi in maniera rivoluzionaria, concentrando forze e sguardi su uno soltanto dei nodi da sciogliere: una razza, una classe, un’età da tutelare a scapito di altre (ci aiuta nella disumanizzazione semplificatrice la parola «fascia»: non siamo persone, ma strati ). Le rivoluzioni sono state più volte questo, e spesso son seguite dal Terrore.

Conservatrici o progressiste, hanno sete di capri espiatori. La categoria su cui s’addensa oggi l’attenzione di governi e economisti è quella dei giovani, non c’è discorso o proclama che non evochi la loro condizione di sacrificati sull’altare d’un paese che invecchiando si disfa. I politici ne hanno la bocca piena, e non stupisce perché l’ingiustizia davvero va raddrizzata.

Ma non dimentichiamo che Stalin e Hitler inneggiavano ai giovani, e alla panacea del muscolo, dello sport. Kundera lo ricorda con maestria quando descrive la «lirica totalitaria della giovinezza», che diventa culto. Concentrarsi esclusivamente sui giovani vuol dire dare all’esistenza umana una sola identità e un solo tempo, non vedere in essa una collana fatta di molte fluide identità, tempi di vita, e nodi.

Forse è venuto il momento di ricostruire il tragitto che ci ha condotti a parlare in un certo modo, da decenni, dei vecchi che ci stanno accanto: di capire come mai, quasi senza accorgercene, adottiamo nei loro confronti gli stessi vocaboli usati – in Italia con speciale disinvoltura – per gli immigrati, cittadini europei compresi. Da tempo siamo come ammaliati dal loro numero che sale: la loro longevità ci sbigottisce, assume le fattezze di biblica piaga. Accade di frequente, quando cominciamo a diffidare di una popolazione e la mente s’abitua a segregarla. In genere ricorriamo a metafore marine: i grandi vecchi in sovrannumero irromperanno come un’ ondata, ci sommergeranno.A ottant’anni hanno davanti a sé più anni di vita? Dalle penne, inavvertitamente, escono strani aggettivi: «macabre» sono le statistiche che ne danno notizia. E usurpatrici le attività remunerate che tolgono ai giovani (anche questo è un argomento mutuato dall’eloquio leghista o del Fronte nazionale francese sugli immigrati). Accorta, il ministro Fornero dice: «Il lavoro non è una quantità fissa. È qualcosa che può crescere, può esser distribuito meglio». Si potrebbe dire anche degli anni di vita, del complesso corpo d’una società.

Forse è qui il maleficio di un invecchiare che intimidito si nasconde, si rifugia in svariati trucchi pur di fermare il tempo. Finché l’anziano appare giovane c’è salvezza. Meglio: finché è cliente, consumatore.

L’unico modo di non veder spezzata l’appartenenza alla comunità è di non sottrarsi alle esigenze del mercato: d’impersonare un’inalterata domanda, correlata all’offerta.

Ogni volta che annunciamo che l’Italia sarà (è già) un paese di vecchi, manipoliamo il tempo, lo congeliamo, e questa è la vera crisi di civiltà, che imputiamo all’invasore esterno e poi automaticamente a paria interni, non dissimili dalle caste indiane: gli oppressi dovettero attendere Gandhi per sapersi cittadini. Paria in sanscrito significa spezzare. La collana si spezza a causa dello straniero, dell’immigrante nato in Italia, del malato, del povero. Infine dei grandi vecchi.

Se non corriamo ai ripari – Croce direbbe: «se non invigilo me stesso, e procuro di correggermi» – non potremo scansare la minaccia: a forza di considerare gli anziani un flagello, verrà il tempo (magari già inizia) in cui converrà sbarazzarsene. Costano troppo alla comunità, con tutti i farmaci che prendono, gli arnesi di cui necessitano. E chi pagherà se i giovani continuano a vivere vite precarie, impossibilitati anche numericamente a versar contributi per la spesa sanitaria di cui l’alta vecchiaia abbisogna? A ciò s’aggiunga che questo avviene in un’epoca storica che disdegna lo Stato. Lo vuole smilzo, non esattore, inclusivo sì ma molto selettivo: quasi non avesse insegnato nulla la crisi del mercato senza briglie, incapace di invigilare spontaneamente se stesso, esplosa nel 2007. Per questo è ingiusto e anche miope, il no di Beppe Grillo alla cittadinanza per gli immigrati nati in Italia: affermare che il problema oggi è altro – per esempio, arrivare alla fine del mese – è pensare il brevissimo termine, non vedere lo spezzarsi dell’intera collana di civiltà, considerarla una «quantità fissa», fatalmente scarsa.

È scabroso parlare di queste cose, perché le utopie maltusiane – i freni brutali all’aume nto di popolazione in assenza di guerre, carestie, epidemie – rischiano di realizzarsi. Descriverle è già un po’ accettarle. Chi ha letto il racconto di Buzzati sull’eliminazione dei vecchi, nel Viaggio agli inferni del secolo (1966) ricorderà il malessere che procura: l’immaginaria città parallela – una sotterranea seconda Milano – può pian piano inverarsi, se non mutiamo le parole e gli atti che ne scaturiscono. Nella città nascosta (vi si accede varcando una porticina «che apre all’inferno»), ogni primavera si celebra un rito eccentrico, agghiacciante, detto «grande festa della pulizia». La festa si chiama Entrümpelung, che in tedesco è repulisti generale di roba vecchia. Nel giorno della Entrümpelung «le famiglie hanno il diritto anzi il dovere di eliminare i pesi inutili. Perciò i vecchi vengono sbattuti fuori con le immondizie e i ferrivecchi». Nei mucchi d’immondezza, accanto a lampade passate di moda, antichi sci, vasi slabbrati, libri che nessuno ha letto, stinte bandiere nazionali, pitali, sacchi di patate marce, segatura, ci sono sacchi che ancora si muovono un poco, «per interni svogliati contorcimenti». Contengono i vecchi. Un’abitante della città parallela dice: «Cosa vuole che sia? Uno di quelli. Un vecchio. Era ora, no?». Erculei inservienti comunali gettano la gentile zia Tussi dalla finestra. I nipoti non fiatano. Difficile non pensare al vecchio ebreo in sedia a rotelle scaraventato giù sul selciato, nel Pianista di Polanski.

La prima reazione è di dire: «Da noi non così!» (sono le parole di Gesù sui potenti del tempo). Ne siamo davvero sicuri? I numeri, quando ci figuriamo che parlino da soli togliendoci responsabilità, possono essere una maledizione. Rilke lo sapeva bene quando ingiungeva: «Alle risorse esauste, alle altre informi e mute della piena natura, alle somme indicibili, te stesso aggiungi, nel giubilo, e annienta il numero ».

La Repubblica 01.02.12

“Perché i vecchi ci fanno paura”, di Barbara Spinelli

Le ultime statistiche Istat sull’invecchiamento degli italiani erano prevedibili, ma vale la pena soffermarsi su di esse e pensarle sino in fondo. Non di rado i numeri sono una gabbia, e non è vero che «parlano da soli»: siamo noi a farli parlare. Nel 2030, dicono, i vecchi saranno il doppio dei bambini. Non molto diverse sono le statistiche sugli immigrati: loro aumenteranno, gli italiani diminuiranno. Tutto questo accadrà non in un domani lontano, ma fra poco. Sarà una crisi di civiltà, annunciano i giornali: una mutazione antropologica che non avremo voluto, ma che dovremo patire e chissà come ne usciremo. La mutazione fin d’ora la viviamo come disagio della civiltà, ma non a causa di questi numeri: a causa delle parole che usiamo per interpretarli, commentarli. Sono parole che salgono in noi come una nebbia, e tutte sono intrise di spavento, smarrimento: come fossimo una civiltà in preda a incursioni selvagge.

Nell’ultimo ventennio si è parlato dell’imbarbarimento dei nostri costumi, ma forse la barbarie l’abbiamo dentro. Forse i barbari siamo noi, a meno di non preparare il futuro con maggiore cura delle parole, innanzitutto, e con politiche di prudenza e giustizia che non si facciano irretire da cifre, da percentuali, dalle insidie che sempre son racchiuse nelle statistiche, specie demografiche. A meno di non fronteggiare e guardare in modo diverso la crisi, l’economia di scarsità che impone, e come ci siamo arrivati.

Ancora una volta tendiamo a pensare la crisi in maniera rivoluzionaria, concentrando forze e sguardi su uno soltanto dei nodi da sciogliere: una razza, una classe, un’età da tutelare a scapito di altre (ci aiuta nella disumanizzazione semplificatrice la parola «fascia»: non siamo persone, ma strati ). Le rivoluzioni sono state più volte questo, e spesso son seguite dal Terrore.

Conservatrici o progressiste, hanno sete di capri espiatori. La categoria su cui s’addensa oggi l’attenzione di governi e economisti è quella dei giovani, non c’è discorso o proclama che non evochi la loro condizione di sacrificati sull’altare d’un paese che invecchiando si disfa. I politici ne hanno la bocca piena, e non stupisce perché l’ingiustizia davvero va raddrizzata.

Ma non dimentichiamo che Stalin e Hitler inneggiavano ai giovani, e alla panacea del muscolo, dello sport. Kundera lo ricorda con maestria quando descrive la «lirica totalitaria della giovinezza», che diventa culto. Concentrarsi esclusivamente sui giovani vuol dire dare all’esistenza umana una sola identità e un solo tempo, non vedere in essa una collana fatta di molte fluide identità, tempi di vita, e nodi.

Forse è venuto il momento di ricostruire il tragitto che ci ha condotti a parlare in un certo modo, da decenni, dei vecchi che ci stanno accanto: di capire come mai, quasi senza accorgercene, adottiamo nei loro confronti gli stessi vocaboli usati – in Italia con speciale disinvoltura – per gli immigrati, cittadini europei compresi. Da tempo siamo come ammaliati dal loro numero che sale: la loro longevità ci sbigottisce, assume le fattezze di biblica piaga. Accade di frequente, quando cominciamo a diffidare di una popolazione e la mente s’abitua a segregarla. In genere ricorriamo a metafore marine: i grandi vecchi in sovrannumero irromperanno come un’ ondata, ci sommergeranno.A ottant’anni hanno davanti a sé più anni di vita? Dalle penne, inavvertitamente, escono strani aggettivi: «macabre» sono le statistiche che ne danno notizia. E usurpatrici le attività remunerate che tolgono ai giovani (anche questo è un argomento mutuato dall’eloquio leghista o del Fronte nazionale francese sugli immigrati). Accorta, il ministro Fornero dice: «Il lavoro non è una quantità fissa. È qualcosa che può crescere, può esser distribuito meglio». Si potrebbe dire anche degli anni di vita, del complesso corpo d’una società.

Forse è qui il maleficio di un invecchiare che intimidito si nasconde, si rifugia in svariati trucchi pur di fermare il tempo. Finché l’anziano appare giovane c’è salvezza. Meglio: finché è cliente, consumatore.

L’unico modo di non veder spezzata l’appartenenza alla comunità è di non sottrarsi alle esigenze del mercato: d’impersonare un’inalterata domanda, correlata all’offerta.

Ogni volta che annunciamo che l’Italia sarà (è già) un paese di vecchi, manipoliamo il tempo, lo congeliamo, e questa è la vera crisi di civiltà, che imputiamo all’invasore esterno e poi automaticamente a paria interni, non dissimili dalle caste indiane: gli oppressi dovettero attendere Gandhi per sapersi cittadini. Paria in sanscrito significa spezzare. La collana si spezza a causa dello straniero, dell’immigrante nato in Italia, del malato, del povero. Infine dei grandi vecchi.

Se non corriamo ai ripari – Croce direbbe: «se non invigilo me stesso, e procuro di correggermi» – non potremo scansare la minaccia: a forza di considerare gli anziani un flagello, verrà il tempo (magari già inizia) in cui converrà sbarazzarsene. Costano troppo alla comunità, con tutti i farmaci che prendono, gli arnesi di cui necessitano. E chi pagherà se i giovani continuano a vivere vite precarie, impossibilitati anche numericamente a versar contributi per la spesa sanitaria di cui l’alta vecchiaia abbisogna? A ciò s’aggiunga che questo avviene in un’epoca storica che disdegna lo Stato. Lo vuole smilzo, non esattore, inclusivo sì ma molto selettivo: quasi non avesse insegnato nulla la crisi del mercato senza briglie, incapace di invigilare spontaneamente se stesso, esplosa nel 2007. Per questo è ingiusto e anche miope, il no di Beppe Grillo alla cittadinanza per gli immigrati nati in Italia: affermare che il problema oggi è altro – per esempio, arrivare alla fine del mese – è pensare il brevissimo termine, non vedere lo spezzarsi dell’intera collana di civiltà, considerarla una «quantità fissa», fatalmente scarsa.

È scabroso parlare di queste cose, perché le utopie maltusiane – i freni brutali all’aume nto di popolazione in assenza di guerre, carestie, epidemie – rischiano di realizzarsi. Descriverle è già un po’ accettarle. Chi ha letto il racconto di Buzzati sull’eliminazione dei vecchi, nel Viaggio agli inferni del secolo (1966) ricorderà il malessere che procura: l’immaginaria città parallela – una sotterranea seconda Milano – può pian piano inverarsi, se non mutiamo le parole e gli atti che ne scaturiscono. Nella città nascosta (vi si accede varcando una porticina «che apre all’inferno»), ogni primavera si celebra un rito eccentrico, agghiacciante, detto «grande festa della pulizia». La festa si chiama Entrümpelung, che in tedesco è repulisti generale di roba vecchia. Nel giorno della Entrümpelung «le famiglie hanno il diritto anzi il dovere di eliminare i pesi inutili. Perciò i vecchi vengono sbattuti fuori con le immondizie e i ferrivecchi». Nei mucchi d’immondezza, accanto a lampade passate di moda, antichi sci, vasi slabbrati, libri che nessuno ha letto, stinte bandiere nazionali, pitali, sacchi di patate marce, segatura, ci sono sacchi che ancora si muovono un poco, «per interni svogliati contorcimenti». Contengono i vecchi. Un’abitante della città parallela dice: «Cosa vuole che sia? Uno di quelli. Un vecchio. Era ora, no?». Erculei inservienti comunali gettano la gentile zia Tussi dalla finestra. I nipoti non fiatano. Difficile non pensare al vecchio ebreo in sedia a rotelle scaraventato giù sul selciato, nel Pianista di Polanski.

La prima reazione è di dire: «Da noi non così!» (sono le parole di Gesù sui potenti del tempo). Ne siamo davvero sicuri? I numeri, quando ci figuriamo che parlino da soli togliendoci responsabilità, possono essere una maledizione. Rilke lo sapeva bene quando ingiungeva: «Alle risorse esauste, alle altre informi e mute della piena natura, alle somme indicibili, te stesso aggiungi, nel giubilo, e annienta il numero ».

La Repubblica 01.02.12

"Ma la licenziabilità non crea posti di lavoro", di Walter Passerini

Né totem né tabù, ma nemmeno la chiave magica che riuscirà ad aprire le porte della riforma del lavoro. I manager italiani sdrammatizzano il peso dell’articolo 18, indicando la strada per un nuovo patto tra aziende e lavoratori. L’articolo 18 non è un tabù, ma da solo non serve più. La maggioranza degli 850 dirigenti e quadri intervistati rivela un atteggiamento pragmatico e laico verso quello che è diventato un territorio di crociate e di battaglie spesso ideologiche e riporta i problemi con i piedi per terra. Come risulta dall’indagine realizzata dall’associazione Manageritalia, che rappresenta oltre 35 mila direttori e capi d’impresa, con la collaborazione di Astra Ricerche, due manager su tre affermano che non è l’articolo 18 a impedire alle imprese di assumere personale (concorda con questa opinione il 61,7% degli intervistati). I dirigenti indicano con chiarezza quelle che dovrebbero essere le vere tutele in un moderno sistema del lavoro. Secondo l’86,7% degli interpellati, infatti, il punto critico è la forte competizione e l’obsolescenza di alcune professionalità, che vanno sostituite rapidamente, ma ciò deve e può avvenire solo con una riforma più ampia e complessiva del mercato del lavoro. Per questo, nove manager su dieci ritengono che compito delle aziende sia soprattutto assicurare e mantenere le competenze professionali dei propri lavoratori, con una crescita e una riconversione verso le nuove esigenze; mentre più di tre intervistati su quattro ritengono che compito del sindacato sia quello non tanto di difendere il singolo posto, ma il lavoro, l’occupabilità e la professionalità dei lavoratori. Infine, l’83,4% ritiene che sia compito di aziende e sindacati quello di aiutare i singoli ad avere cura del loro sviluppo professionale. L’articolo 18 è un falso problema, affermano quattro manager su dieci. Il fronte dei dirigenti si divide poi grosso modo in due parti uguali nel rispondere sulla difendibilità o meno in questa fase storica dell’articolo 18, per la spinta della competizione globale. Ma mantiene anche una relativa omogeneità nel rilevare i difetti che il limite dei 15 dipendenti ha creato. Due manager su tre affermano infatti di conoscere imprese che, pur di non superare la quota che fa scattare l’rticolo 18, hanno rinunciato ad assumere personale e fanno ricorso al lavoro straordinario, a lavoratori esterni o addirittura hanno creato aziende collaterali. «I manager hanno una visione moderna e pratica dei problemi del lavoro – conclude Guido Carella, presidente Manageritalia – Inutile, ci hanno detto, sovvenzionare con cassa integrazione e ammortizzatori sociali le aziende che non hanno futuro. Quei soldi vanno impiegati per aiutare i singoli e le aziende che hanno un futuro. Ai singoli serve un reddito, ma anche e soprattutto un percorso di formazione, di salvaguardia e aumento della professionalità». 83% pensano a un ruolo nuovo per il sindacato Secondo i manager più che a tutelare l’occupazione, il sindacato dovrebbe orientarsi a tutelare l’occupabilità. Per esempio attraverso corsi di formazione che mettano i lavoratori al passo con i tempi, permettendo loro di muoversi sul mercato meglio.

La Stampa 01.02.12

“Ma la licenziabilità non crea posti di lavoro”, di Walter Passerini

Né totem né tabù, ma nemmeno la chiave magica che riuscirà ad aprire le porte della riforma del lavoro. I manager italiani sdrammatizzano il peso dell’articolo 18, indicando la strada per un nuovo patto tra aziende e lavoratori. L’articolo 18 non è un tabù, ma da solo non serve più. La maggioranza degli 850 dirigenti e quadri intervistati rivela un atteggiamento pragmatico e laico verso quello che è diventato un territorio di crociate e di battaglie spesso ideologiche e riporta i problemi con i piedi per terra. Come risulta dall’indagine realizzata dall’associazione Manageritalia, che rappresenta oltre 35 mila direttori e capi d’impresa, con la collaborazione di Astra Ricerche, due manager su tre affermano che non è l’articolo 18 a impedire alle imprese di assumere personale (concorda con questa opinione il 61,7% degli intervistati). I dirigenti indicano con chiarezza quelle che dovrebbero essere le vere tutele in un moderno sistema del lavoro. Secondo l’86,7% degli interpellati, infatti, il punto critico è la forte competizione e l’obsolescenza di alcune professionalità, che vanno sostituite rapidamente, ma ciò deve e può avvenire solo con una riforma più ampia e complessiva del mercato del lavoro. Per questo, nove manager su dieci ritengono che compito delle aziende sia soprattutto assicurare e mantenere le competenze professionali dei propri lavoratori, con una crescita e una riconversione verso le nuove esigenze; mentre più di tre intervistati su quattro ritengono che compito del sindacato sia quello non tanto di difendere il singolo posto, ma il lavoro, l’occupabilità e la professionalità dei lavoratori. Infine, l’83,4% ritiene che sia compito di aziende e sindacati quello di aiutare i singoli ad avere cura del loro sviluppo professionale. L’articolo 18 è un falso problema, affermano quattro manager su dieci. Il fronte dei dirigenti si divide poi grosso modo in due parti uguali nel rispondere sulla difendibilità o meno in questa fase storica dell’articolo 18, per la spinta della competizione globale. Ma mantiene anche una relativa omogeneità nel rilevare i difetti che il limite dei 15 dipendenti ha creato. Due manager su tre affermano infatti di conoscere imprese che, pur di non superare la quota che fa scattare l’rticolo 18, hanno rinunciato ad assumere personale e fanno ricorso al lavoro straordinario, a lavoratori esterni o addirittura hanno creato aziende collaterali. «I manager hanno una visione moderna e pratica dei problemi del lavoro – conclude Guido Carella, presidente Manageritalia – Inutile, ci hanno detto, sovvenzionare con cassa integrazione e ammortizzatori sociali le aziende che non hanno futuro. Quei soldi vanno impiegati per aiutare i singoli e le aziende che hanno un futuro. Ai singoli serve un reddito, ma anche e soprattutto un percorso di formazione, di salvaguardia e aumento della professionalità». 83% pensano a un ruolo nuovo per il sindacato Secondo i manager più che a tutelare l’occupazione, il sindacato dovrebbe orientarsi a tutelare l’occupabilità. Per esempio attraverso corsi di formazione che mettano i lavoratori al passo con i tempi, permettendo loro di muoversi sul mercato meglio.

La Stampa 01.02.12

"E a soffrire di più sono il Mezzogiorno e le aree industriali", di Marco Alfieri

Nemmeno la jobless recove- ci salva più. La ripresa senza occupazione che ha tenuto compagnia all’Europa per un biennio (2˚semestre 2009 1˚ trimestre 2011). Giravi per le province industriali del nord – Varese, Vicenza, Treviso, Bergamo, Brescia, Torino, Reggio Emilia, Bologna – e la fotografia era quasi identica: ripresa di ordinativi, export e fatturato rispetto alla gelata 2008 ma calma piatta sull’occupazione.

La Cig non basta più Dalla scorsa primavera anche quello stato di sospensione, lenito dal materasso degli ammortizzatori sociali (30 miliardi spesi in 3 anni e mezzo per finanziare 3,4 miliardi di ore di cassa integrazione che hanno coinvolto oltre 4 milioni di lavoratori), è ormai un lontano ricordo. Il consuntivo 2011 calcolato dalla Cgil parla di 500mila lavoratori in cassa a zero ore, costretti a rinunciare a 8 mila euro in busta paga, pari a un taglio complessivo di 3,6 miliardi. Ma soprattutto di una disoccupazione ufficiale risalita a dicembre all’8,9%, al livello di 11 anni fa, prima della riforma Biagi. Quella reale, sommando gli inattivi che non cercano più, secondo la Cgia di Mestre avrebbe addirittura sfondato la barriera dell’11%. E’ un dato verosimile. Dopo l’estate, infatti, molte casse stanno diventando mobilità e licenziamenti, colpendo impieghi stabili in imprese tradizionali, età elevata e scolarità bassa. I profili più a rischio concorrenza asiatica su prezzo e prodotti.

Le industrie Al ministero dello Sviluppo le crisi industriali aperte sono quasi 250, con oltre 30mila dipendenti nel limbo. Coinvolti gruppi come Alcoa, Fincantieri, Sanofi-Aventis insieme a medie aziende che lavorano sul mercato interno (trasporti, telecomunicazioni e tessile). Finora ha tenuto il commercio: tra il 2000-2010 il settore ha generato quasi 900mila posti di lavoro. Ma quanto potrà resistere? «Rispetto al 2008-2009 spiegano gli economisti di Prometeia – la recessione in corso è dovuta all’andamento della domanda interna». La cassa degli ultimi 3 anni halimato di 48 miliardi i redditi degli italiani. Al sud, «intorno ai poli industriali campani e pugliesi al palo di commesse e costretti a tagliare occupazione – raccontano dalla Uil di Napoli – ci sono territori che vivono di sola Cig».

Meno consumi e occupazione Il risultato è che la spesa reale rischia di restare in rosso fino a metà 2013, per una riduzione complessiva del 4,5%. In particolare i consumi alimentari a fine 2014 potrebbero essere crollati del 9,6% sul 2007. «Siamo nel mezzo di un aggiustamento epocale», ragiona l’amministratore delegato di una nota catena di grande distribuzione. «Aumenta la clientela che sceglie i discount mentre chi frequenta i nostri scaffali si aggiusta al ribasso ripiegando sui prodotti a marchio, che costano il 20-30% in meno». Per Franca Porto, segretaria della Cisl veneta, siamo davanti ad una «disoccupazione di lungo periodo, sconosciuta, che colpisce territori ricchi che hanno avuto piena occupazione per 30 anni». In Lombardia, nell’ultimo anno, sono aumentati del 20% gli addetti incapaci di rioccuparsi nell’arco di 6 mesi, la boa tipica in cui chi veniva espulso dal circuito rientrava in gioco. Certo continua a tirare l’export del Quarto capitalismo internazionalizzato, che ha chiuso il 2011 a +6,2%, dopo la crescita del 12,2% nel 2010. Ma non basta a sollevare il sistema. Le somme da incubo le tira ancora Prometeia: «tra il 2008 e il 2013 avranno perso l’occupazione circa 650 mila persone, mentre il numero dei posti di lavoro si sarà ridotto di quasi 800 mila unità, di cui 700mila nel settore industriale».

I giovani da Milano a Napoli A farne le spese un’altra volta sono i giovani. Già oggi la disoccupazione ufficiale under 24 è arrivata al 31%, in aumento di 3 punti sul 2010. Ma quella reale vale molto di più. In Campania, secondo la Cgia tocca il 51,1%, in Basilicata il 48,3%, nel Lazio il 42,5%, in Sicilia 41,2% seguite a ruota, un po’ a sorpresa, dalle ricche Lombardia (40,3%) Piemonte (37,3%) e Veneto (37,2). Secondo Tito Boeri per fermare l’emorragia bisogna spezzare il circolo vizioso povertà/precariato in aumento al nord/disoccupazione giovanile. «La povertà aumenta (+6% negli ultimi 5 anni tra gli under 45) perché non si riesce ad entrare nel mercato del lavoro, perché ci sono molti lavoratori poco qualificati con lavori temporanei che non tengono il passo dell’inflazione (secondo l’Istat dal 2005 al 2010 il 71,5% dei neoassunti viene inquadrato con contratti a termine) e perché chi non è tutelato perde il posto», scrive l’economista della Bocconi. Lo si vede da alcuni segnali deboli: 2 giovani su 10 usciti di casa negli anni passati nel 2011 sono tornati all’ovile, in mancanza di altri ammortizzatori sociali. «In 10 anni abbiamo perso quasi 30 punti di competitività con la Germania. Chi viene espulso dal mercato e chi fatica ad entrare spesso è chi ha maggiore capitale umano e potrebbe contribuire a rendere più competitive le nostre imprese», continua Boeri. Non a caso nella Germania che tiene testa alla Cina la disoccupazione giovanile è ferma al 7,8%, 4 volte meno che in Italia.

La Stampa 01.02.12