Latest Posts

"Assegnisti o ricercatori?", di Luca Schiaffino

Attuando quanto previsto dalla legge 240, il MIUR ha creato una nuova pagina (link) per la pubblicazione, in italiano ed in inglese, dei bandi da ricercatore a tempo determinato emanati dalle università e dagli enti di ricerca. La consultazione del sito fornisce diverse interessanti informazioni sullo stato dell’università italiana e sull’applicazione della cosiddetta “riforma”.

Spulciando laboriosamente fra gli avvisi (per qualche misterioso motivo il sito non fornisce alcuna informazione riguardo la tipologia, RTDa o RTDb, di ciascun bando) è possibile, ad esempio, osservare come la tenure track decantata dai sostenitori della riforma sia pressoché scomparsa dal panorama accademico (link). Un altro aspetto interessante che balza immediatamente agli occhi è la presenza di un campo “titolo”, che a volte riporta semplicemente e correttamente la dicitura “Selezione pubblica per ricercatore a tempo determinato”, mentre nella maggior parte dei casi specifica addirittura un tema di ricerca.

L’articolo 24, comma 1, della legge 240 afferma che il contratto con il ricercatore stabilisce le modalità dello svolgimento dell’attività didattica e di ricerca. Evidentemente qualcuno ha pensato di sfruttare questa previsione non per definire il modo in cui i destinatari dei contratti saranno tenuti ad operare all’interno delle strutture dell’ateneo, ma per legare i singoli posti allo svolgimento di un “progetto di ricerca”, che si trasforma di fatto in una sorta di profilo del candidato.

Si tratta di una scelta quanto meno discutibile, visto che più avanti la stessa legge 240 afferma che i bandi di questo tipo devono contenere unicamente la “specificazione del settore concorsuale e di un eventuale profilo esclusivamente tramite indicazione di uno o più settori scientifico-disciplinari”.

Esistono argomentazioni pro e contro l’opportunità di inserire profili dettagliati nei bandi. I favorevoli tendenzialmente si appellano alla necessità di assumere persone in grado di soddisfare le esigenze didattiche e di ricerca specifiche dell’ateneo e alla circostanza che i profili sono un’abitudine ampiamente consolidata in altri paesi. I contrari vedono in questa prassi un ostacolo all’introduzione di nuove tematiche di ricerca nei dipartimenti e soprattutto uno stratagemma per ritagliare il bando attorno al curriculum del futuro vincitore (in effetti molti bandi sono talmente dettagliati da suscitare più di un sospetto, tanto più che la Carta Europea dei Ricercatori, il cui rispetto è esplicitamente richiesto dalla legge 240, afferma che “gli annunci non dovrebbero richiedere competenze così specifiche da scoraggiare i potenziali candidati”).

Un’altra stranezza presente in diversi bandi (e relativi regolamenti di ateneo) è la comparsa di “prove seminariali”, “accertamento di conoscenze e competenze” in ambiti molto specifici, “giudizio collegiale comparativo” in relazione alle prove sostenute e alle linee di ricerca specificate dal bando, laddove invece la legge 240 recita testualmente (art 24, comma 2): “Sono esclusi esami scritti e orali, ad eccezione di una prova orale volta ad accertare l’adeguata conoscenza di una lingua straniera.”

L’abolizione delle prove scritte e orali risponde alla chiara intenzione, da parte del legislatore, di eliminare spazi di manovra che potrebbero essere utilizzati per orientare gli esiti concorsuali. Anche questo è un tema discusso, e in parte collegato alla tematica dei profili, con argomentazioni pro (maggiore trasparenza concorsuale) e contro (poca flessibilità da parte delle commissioni nella valutazione dei candidati, eccessivo peso degli indicatori bibliometrici, approccio ragionieristico alla valutazione).

Comunque la si pensi (e le due questioni meritano certamente un dibattito approfondito) resta il fatto che la legge 240, attualmente in vigore, non prevede la specificazione di tematiche di ricerca e di profili dettagliati nei bandi ed esclude la possibilità di sottoporre i candidati a prove scritte e orali. Sarebbe allora opportuno che il sistema universitario, anche al fine di evitare di fornire argomentazioni a campagne denigratorie spesso per molti altri versi immotivate, evitasse di scrivere una pagina di abitudine all’inosservanza delle leggi che, fatto salvo il diverso ordine di conseguenze, nei suoi elementi di base non risulta poi molto diversa dalla tolleranza verso le rotte spericolate che ha causato il disastro navale di questi giorni.

da http://www.roars.it

«Al giuramento mi disse: non frequentare i salotti», intervista a Pier Luigi Bersani di Maria Zegarelli

Erano i giorni del famoso discorso televisivo del 9 novembre 1993, quel «non ci sto» pronunciato davanti a milioni di italiani, ma diretto soprattutto a chi stava manovrando nell’oscurità della Repubblica quasi a volerlo ricattare. «Il presidente Scalfaro venne in visita ufficiale in Emilia, era amareggiato ma determinato ad andare avanti. Gli dissi: “Presidente, facciamo una passeggiata, a piedi”. Quando la gente lo vide iniziò in coro a dirgli di resistere, di non mollare».

Gli italiani «avevano capito che stava accadendo qualcosa di importante e che era in gioco la struttura stessa della nostra democrazia e la tenuta delle istituzioni. Avevano capito che il presidente della Repubblica stava difendendo entrambe le cose avendo come unico faro la Costituzione».

Pier Luigi Bersani accende il suo toscano, al secondo piano del Nazareno, e per un po’ spegne il telefono. Raccontare un uomo che non c’è più, ripescando nei ricordi i momenti che più ne rappresentano lo stile, lo spessore e i tratti più forti del carattere, è come riannodare i fili tra la vita e la morte, tra il passato e il presente.
Il suo rapporto con Oscar Luigi Scalfaro iniziò durante gli anni in cui era presidente dell’Emilia Romagna e si consolidò, poco più tardi, quando fu chiamato a giurare nelle
sue mani come ministro. «Ci sentivamo spesso al telefono per fare qualche chiacchiera “fuori sacco” ed è difficile adesso selezionare i ricordi».
Quelli più intensi corrono indietro, ai giorni della «tempesta» che colpì il Quirinale, delle vecchie storie tirate fuori come bombe ad orologeria (le pene capitali che Scalfaro giovane magistrato inflisse subito dopo la guerra), i finti dossier. «Era scosso, sapeva che stavano mettendo alla prova la sua tenuta,ma era consapevole
che la partita era altra. In gioco non era soltanto la sua persona bensì la tenuta stessa delle istituzioni».
Questo era il suo tormento da uomo che la Costituzione aveva contribuito a scriverla. Ogni volta che ne parlava «ricordava la sua emozione, in quei giorni intensi e straordinari della Costituente, quando si sedeva, lui poco più che ventenne, affianco ai “padri nobili” della politica». Anni mai tranquilli quelli della presidenza Scalfaro: anni di fine prima Repubblica ed esordio della seconda con la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Ancora una prova di “tenuta”. «Quando Berlusconi pretese
lo scioglimento delle Camere per tornare al voto, Scalfaro disse uno dei suoi irrevocabili “No” – ricorda il segretarioPd- perché era fermamente legato alla Costituzione». Intoccabile la prima parte, ne avevano parlato spesso durante i loro incontri, «ma era convinto che alcuni passaggi andassero aggiornati restando ancorati
allo spirito della Costituzione».Da qui anche il suo atteggiamento verso il Cavaliere, «non posso escludere che fra i due abbia pesato una differenza stilistica. Ma trovo
sbagliato oggi, come allora, – prosegue il segretario – considerare la posizione di Scalfaro come un puntiglio personale.Non era così, era una puntigliosa difesa della Costituzione». Il limite invalicabile, la Carta fondante della Repubblica. Un altro incontro ci fu quando Bersani andò a giurare da ministro del governo Prodi: «Mi disse “tu sei uno di provincia come me, cerca di rimanere come sei”. Poi in tono quasi perentorio aggiunse: “Frequenta poco i salotti”». Nessuna fatica, aggiunge sorridendo il segretario Pd, a seguire quel consiglio-monito, frutto di un rapporto costante, fatto «di biglietti di incoraggiamento o telefonate che arrivavano nei momenti politici più delicati», che a rivederli oggi sono un po’ la sequenza degli ultimi tortuosi anni della storia di questo Paese. Appunti preziosi, però, «soprattutto ora che gli estensori della Costituzione stanno andando via lasciando un vuoto che spetta a noi riempire. Spetta a noi tenere fermi i valori e i principi di cui uomini come
Scalfaro sono diventati la bandiera».E si torna sempre lì, al ruolo dei partiti e all’idea di democrazia che vogliono incarnare. «Quando penso al Pd penso a quel suo modo
di vivere la funzione politica: Scalfaro era un uomo profondamente religioso, eppure uno dei suoi tratti distintivi più significativi è stato la sua capacità di dimostrare che le convinzioni più profonde non solo non confliggono con l’idea di laicità e responsabilità politica ma ne possono essere un motore formidabile». E che cosa è il Pd se non questo? si chiede a voce alta. Chi può incarnare meglio del Pd quei valori
su cui si fonda la Carta fondamentale dello Stato? «Ci ha sempre incoraggiato a noi del Pd. Andare avanti su questa strada parlando soprattutto ai più giovani, questo
era il suo pensiero costante in questi ultimi anni. Ci ha sempre seguito con grande simpatia e oggi che non c’è più c’è una frase che mi torna in mente. Penso ad Orazio,
“Nabis sine cortice”». Nuoterai senza salvagente. Che non vuol dire restare a galla,
vuol dire «attraversare anche le onde tempestose» senza mai perdere di vista la terra. «Spetta a noi, al partito democratico presidiare saldamente la Costituzione ed essere protagonisti del vero dibattito che la politica deve fare – continua -. Lo
dico anche al centrodestra. Quale idea di democrazia abbiamo? Quale legge elettorale vogliamo fare, come vogliamo superare il bicameralismo?». Riportare in alto il livello della discussione «è il modo migliore di rendere omaggio a uomini come Scalfaro», così come «deporre l’animosità su di lui da parte del Pdl vorrebbe dire ricondurre quella fase della politica a ciò che è stata realmente: la difesa delle istituzioni da parte di chi ne era la massima rappresentanza».
Era una questione istituzionale, ripete Bersani, non personale. Una questione condotta con lo stile dell’uomo che era l’allora presidente della Repubblica: «La sua idea di democrazia lo proiettava sempre avanti e gli aveva dato la percezione
di quanto pericoloso fosse attuare una riforma senza riforma, capace di mettere a repentaglio le fondamenta delle istituzioni». I «no» irreversibili, che mai sarebbero potuti diventare «sì» dopo «piccoli compromessi ». Come quel «no» che impose sul nome di Cesare Previti a ministro della Giustizia. Un’immagine che balza alla mente pensando a Scalfaro? «La freschezza delle sue idee, anche a novant’anni».

L’Unità 31.01.12

"Contratti a tempo determinato nel 70% delle assunzioni e aumentano i licenziamenti", di Valentina Conte

Crolla l´occupazione nella grande industria italiana. In sei anni, quelli che preparano e seguono la Grande Crisi (2005-2010), le imprese perdono l´8 per cento dei loro addetti. E intanto il lavoro si trasforma: 7 dipendenti su 10 entrano da precari, altrettanti escono quando scadono i contratti, se incentivati o licenziati. E quest´ultima voce mette il turbo, a conferma che l´articolo18 dello Statuto dei lavoratori forse è solo un falso problema. I licenziamenti fanno un balzo in avanti di oltre un terzo, raggiungendo nel 2010 il 7,5 per cento del totale delle uscite dal 5,5 del 2005. In sei anni sono cresciuti del 36,4 per cento. E dopo un 2011 di stagnazione, è già recessione. Si entra da precari e dunque si esce presto. Quando scade il contratto, quando l´azienda incentiva l´uscita o quando arriva il licenziamento. In sei anni, dal 2005 al 2010, nelle grandi aziende italiane con più di 500 addetti l´occupazione è calata del 2,9%: crollata nell´industria (-8%), a galla nei servizi (+0,2%). A farne le spese soprattutto gli operai, peggio nell´industria e specialmente nel biennio “horribilis” 2009-2010. Un flusso – un turnover, come lo definisce l´Istat nel Focus sui flussi occupazionali diffuso ieri – sempre più “flessibile”, ovvero incerto. Sette lavoratori su dieci sono assunti con contratti a tempo. Uno su due è fuori alla scadenza e la maggior parte dei restanti è incentivata a lasciare il posto o peggio licenziata. Questo il quadro dell´Italia alle soglie di un anno di recessione e con la fiducia degli imprenditori, certificata ieri sempre dall´Istat, ai minimi dal 2009 e per le aziende del commercio addirittura dal 2003.

COME SI ENTRA
Il 71,5% dei nuovi ingressi nel periodo 2005-2010 è avvenuto grazie a contratti a tempo determinato, soprattutto nei servizi (73,6%). I picchi più alti si sono registrati nel commercio all´ingrosso e al dettaglio (87,2%) e nella ristorazione e alloggio (82,1%), che più di altri in questi sei anni hanno fatto ricorso a contratti flessibili. Il contratto a termine è la forma regina della flessibilità, seguito da stagionale e apprendistato. La grande industria italiana ha applicato l´assunzione a tempo indeterminato solo nei confronti di impiegati, funzionari e dirigenti. Gli operai, falcidiati da crisi e ristrutturazioni, hanno avuto la peggio.

COME SI ESCE
La scadenza del contratto ha determinato quasi la metà (il 47,3%) delle uscite registrate tra il 2005 e il 2010. Peggio nel terziario (52,8%), meglio nell´industria (34,8%). In altri termini, non c´è stato bisogno di licenziare o applicare l´articolo 18. Finito il contratto, fuori. Le “cessazioni spontanee”, che sono anti-cicliche e che fino al 2008 erano un terzo delle uscite, con la crisi si sono contratte: si lascia un lavoro solo se si ha garanzia di trovarne a breve un altro. In parallelo, sono lievitate le “cessazioni incentivate” e per licenziamento. Le prime erano il 9% del totale nel quadriennio 2005-2008, ancora relativamente tranquillo, salite al 13% nel 2009 e al 12% nel 2010 (anno di timidi segnali di ripresa, poi uccisi dalla stagnazione del 2011). I licenziamenti erano il 5% annuo nel periodo 2005-2008. Diventano il 6,7% nel 2009 e il 7,5% nel 2010 con punte preoccupanti nelle attività manifatturiere (14,3%) e nelle costruzioni (18,4%). E parliamo di aziende molto grandi, con più di 500 addetti, dove in teoria l´articolo 18 si applica ancora.

SALDO TRA INGRESSI E USCITE
La differenza tra assunti e fuoriusciti ha presentato un saldo positivo – osservano i ricercatori Istat – nel biennio 2006-2007 e negativo nel triennio 2008-2010, quando le imprese hanno imbarcato sempre meno addetti e sfoltito manodopera. In particolare, l´Istat individua tre fasi distinte: una di crescita economica (2005-2007), una di crisi (dalla seconda metà del 2008) e una di leggera ripresa nel 2010. Nel corso della crisi, si ricorda, vi è stato un ampio uso di cassa integrazione. Altrimenti i numeri sarebbero stati ben peggiori.

La Repubblica 31.01.12

"Organici, riforma al rallentatore", di Alessandra Ricciardi

Il consiglio dei ministri frena sul contingente funzionale e l’autonomia, il Mef vuole vederci chiaro. Nel dl Semplificazioni, via la norma, spuntano le linee guida. Si è così alla terza versione, saltando le intermedie. La prima indicava i numeri del nuovo contingente di docenti e personale ausiliario, tecnico e amministrativo frutto della riforma dell’organico funzionale. Si è passati alla seconda: via tutti i numeri sul nuovo organico, restava però il riferimento al meccanismo che avrebbe consentito già dal prossimo anno di stabilizzare i lavoratori sui posti ordinariamente scoperti. É questa la versione, anticipata da ItaliaOggi martedì scorso, con cui è entrato al consiglio dei ministri il decreto legge Semplificazione.

Ma neanche questa sembra fosse quella buona: il provvedimento nel corso della riunione del consiglio dei ministri, durata oltre 6 ore, è stato oggetto di nuove modifiche, come ha confermato il ministro della funzione pubblica Filippo Patroni Griffi nel corsod ella cofnerenza stampa. Oggi dovrebbe essere pronto il testo definitivo. Versione dalla quale, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, risulta essere sparita la norma cogente su organico funzionale e autonomia responsabile per lasciare il posto a linee guida che il ministro dell’istruzione, d’intesa con Funzione pubblica e Tesoro, dovrà attuare. Tempo: 90 giorni. Una soluzione per superare le critiche sollevate soprattutto dalla Ragioneria generale dello stato, circa i rischi di un possibile aumento di spesa. Non sono bastate, a quanto pare, le rassicurazioni dell’Istruzione. La norma prevede che le scuole possano costituirsi in rete per la gestione delle risorse umane, strumentali e finanziarie. Il modello delle reti è stato già sperimentato in Italia, e ha fatto riscontrare risparmi. Inoltre, l’organico del personale verrebbe definito non più a livello di ufficio scolastico regionale, ma sul singolo istituto, o rete se costituita, in base al fabbisogno rivelato negli ultimi tre anni come stabile. All’organico così individuato si dovrà fare fronte con contratti triennali, ma su di esso si potranno anche realizzare assunzioni a tempo indeterminato. Un organico funzionale, al posto degli attuali contingenti di diritto e di fatto, consentirebbe poi una verifica molto più puntuale rispetto ad oggi dell’effettiva corrispondenza del personale assegnato rispetto ai fabbisogni predefiniti. Sarebbe anche più facile verificare gli scostamenti tra quantità di dipendenti pagati e posti previsti. Per capire come il piano sarà articolato, con quali benefici in termini dis tabilzizazione del personale e in quali tempi, è necessario però attendere la versione definitiva del dl. Così come per capire come funzionerà il nuovo fondo dell’autonomia responsabile, con quali risorse e se per far fronte anche alle supplenze brevi. Semplificazioni in vista poi per la formazione tecnica e professionale. Il ministero guidato da Francesco Profumo sarà competente a dettare linee guida per realizzare un’offerta coordinata sul territorio tra i percorsi degli istituti tecnici, professionali e di quelli di istruzione e formazione professionale di competenza delle regioni; per favorire la costituzione dei poli tecnico-professionali; per promuovere la realizzazione di percorsi in apprendistato, anche per il rientro in formazione dei giovani. Riguardo agli istituti tecnici superiori, Its, si profila una riorganizzazione per una migliore utilizzazione delle risorse: sarà possibile costituire non più di un istituto tecnico superiore in ogni regione per la stessa area tecnologica. Sembra invece essere saltata la previsione di una revisione del valore del voto in seno alle fondazioni. Confermata l’obbligatorietà delle prove Invalsi.

Accantonata infine la revisione del valore legale della laurea: ci sarà una consultazione on line, ha annunciato il premier Monti, per decidere il da farsi. Niente da fare pure per il reclutamento dei docenti con un tetto all’età dei nuovi prof. Ma potrebbe rispuntare in un nuovo provvedimento. Titolo: decreto giovani.

da ItaliaOggi 31.01.12

"Atenei, un test di valutazione per tutte le matricole", di Lorenzo Salvia

Non serviranno a mettere in moto la macchina implacabile del numero chiuso, lasciando fuori chi non è abbastanza bravo. Ma a dare allo studente qualche utile consiglio sul suo futuro, a dirgli se per quella facoltà è tagliato oppure no. È ancora presto per sapere se bisognerà prepararsi pure sulla grattachecca della sora Maria, come capitò l’anno scorso agli aspiranti infermieri della Sapienza. Ma presto tutti gli studenti che si vogliono iscrivere all’università dovranno sottoporsi ad un test, una serie di domande a risposta multipla. Non serviranno a mettere in moto la macchina implacabile del numero chiuso, lasciando fuori chi non è abbastanza bravo. Ma a dare allo studente qualche utile consiglio sul suo futuro, a dirgli se per quella facoltà è tagliato oppure no. Lasciandogli comunque la possibilità di iscriversi, anche se il risultato dovesse essere da ultimo della classe. Li chiamano test di autovalutazione, qualche università già li offre sul proprio sito internet. Ma nei piani del ministero dell’Istruzione dovrebbero diventare obbligatori per tutte le matricole se non dal prossimo anno accademico almeno da quello successivo. La norma doveva entrare nel decreto legge sulle semplificazioni approvato la settimana scorsa. Poi è stata tolta anche perché la discussione si è incagliata sulla questione del valore legale del titolo di studio. Ma il ministro Francesco Profumo vuole inserirla nel nuovo decreto al quale sta lavorando il governo, dedicato questa volta ai giovani.
Perché un test del genere? Oggi può capitare che chi è tagliato per fare l’ingegnere finisca per fare l’avvocato, chi sarebbe un bravissimo fisico si iscriva a lettere. I test di autovalutazione servono proprio a questo, a fare in modo che chi è tagliato per fare l’ingegnere faccia l’ingegnere, e così via. Non è solo una questione di aspirazioni personali, pure importanti perché la stoffa aiuta sempre. L’idea è che solo così possono essere distribuite al meglio le intelligenze e le capacità degli studenti italiani. Oggi un ragazzo su cinque abbandona l’università dopo il primo anno, 60 mila intelligenze sprecate ogni volta anche perché non avevano preso la strada giusta. Non perdere quei ragazzi fa parte di quell’attività di orientamento che è sempre mancata alla scuola e all’università italiana. E che potrebbe sviluppare al meglio quel capitale umano così importante per la crescita del Paese. È ancora presto per sapere come funzioneranno nel dettaglio i nuovi test. Saranno tagliati su ogni singola facoltà, proprio per individuare al meglio le capacità necessarie per ciascun corso. E dovrebbero essere fatti in giorni diversi a seconda della facoltà, per consentire agli studenti di tentare una strada diversa in caso di risultati poco brillanti.
Sempre nel decreto giovani ci dovrebbero essere altre due novità sui test universitari, che però riguarderanno solo le facoltà a numero chiuso come Medicina e Veterinaria. Sarà rafforzato il principio del punteggio minimo: chi entra dovrà prendere almeno 20 punti su un massimo di 80. Di fatto la norma riguarda solo gli studenti stranieri che in passato, grazie alle quote riservate per alcune nazioni, riuscivano ad entrare anche con una preparazione nulla o senza sapere l’italiano. C’era già un regolamento che adesso viene trasformato in legge per sbarrare la strada ai ricorsi al Tar visto che le prime sentenze favorevoli agli esclusi sono già arrivate. La seconda novità riguarda i posti riservati agli stranieri che, proprio con il meccanismo del punteggio minimo, non venivano assegnati. Non un dettaglio, a settembre sono stati quasi 900. Saranno assegnati automaticamente agli studenti italiani e comunitari rimasti fuori dalla graduatoria.

Il Corriere della Sera 31.01.12

"Tanti annunci ma zero risorse", di Mario D'Adamo

Obiettivi imponenti, azioni a tutto campo, la scuola come ascensore sociale, edilizia scolastica rinnovata, efficienza energetica ma risorse al palo. Il ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, illustra alla commissione istruzione e cultura del Senato la propria strategia e il 25 gennaio consegna un impegnativo documento che la riassume. Il ministro intitola il documento «Linee d’azione», quasi a voler sottolineare l’immediata fattibilità del suo programma di governo. Ma gli interventi sono solo enunciati, non sono descritti analiticamente, e, soprattutto per la scuola, non sono individuate risorse aggiuntive, soldi freschi. La scuola deve essere «uno dei motori di sviluppo del nostro paese», recuperando quel ruolo di rimozione delle disuguaglianze e di promozione sociale che oggi non riesce più a svolgere. Certificare così il fallimento dell’istruzione pubblica non basta a risollevarla. Gli elevati tassi di abbandoni, i numeri eccessivi di giovani tra i 18 e i 24 anni, in possesso del solo diploma di scuola media, che non studiano più né lavorano ancora, le grandi differenze di risultati tra le varie aree geografiche del paese e tra le varie scuole di uno stesso territorio, hanno origini lontane. Il loro recupero, dice il documento, non può non richiedere tempi che superano la durata di questo ministero, lunghi almeno quanto una generazione, e risorse per formare nuove leve di docenti che abbiano nel loro Dna questa mutata consapevolezza del ruolo che deve svolgere la scuola. Le scuole hanno necessità che sia semplificato il sistema che le governa, attraverso l’accentuazione di livelli decentrati di autonomia e di responsabilità, solo nuove leggi indispensabili, per il resto riordino e applicazione di quelle attuali. Quali nuove leggi? Quali interventi di riordino? Il ministro si propone di intervenire sulla formazione, sul reclutamento e sulla mobilità dei docenti, sugli organici delle scuole, reinventando l’organico funzionale, sul sistema di valutazione, sulla carriera, sulla valorizzazione della professionalità, ma come farà a sostenere la professionalità dei docenti e la loro carriera, se i contratti sono bloccati fino a tutto il 2014? Egli si propone di istituire le conferenze territoriali per l’autonomia, di rinnovare, come si sono proposti di fare quasi tutti i suoi predecessori dagli anni Ottanta in poi, gli organi collegiali della scuola e quelli territoriali. Sul piano dei contenuti, vuole adeguare gli elementi portanti della tradizione della scuola italiana alle esigenze educative delle nuove generazioni, rinvigorendo i processi di continuità educativa dall’infanzia alle superiori (e chi prima di lui non si è proposto lo stesso obiettivo?) e favorendo l’uso delle nuove tecnologie per i nativi digitali (sarebbe utile fare un passaggio in qualche scuola media a verificare lo stato delle LIM, lavagna multimediale interattiva, nda). Per mettere in sicurezza gli edifici scolastici, altro obiettivo delle Linee d’azione, dichiara il ministro «non è realistico un incremento di risorse disponibili nel breve periodo». E occorrono risorse enormi per reinventare gli spazi dei 64 milioni di metri quadri a disposizione degli otto milioni di studenti, non tutti funzionali allo svolgimento delle attività didattiche e organizzative, perché gran parte degli edifici risultano originariamente costruiti per altre destinazioni. Dal miglioramento dell’efficienza energetica delle scuole, quasi tutte in ultima classe, la G, potrebbero derivare risparmi fino a 9 miliardi, ma dove prendono gli enti locali le risorse? Solo un piano di sviluppo e di crescita della scuola ce la può fare. Ecco perché tout se tient: le Linee d’azione del ministro Profumo devono trovare una sponda nelle linee d’azione del collega ministro dell’economia, il premier mario Monti.

da ItaliaOggi 31.01.12

"Non basta un successo parziale", di Franco Bruni

Il vertice di Bruxelles di ieri sera ha cercato di raggiungere tre obiettivi: il rafforzamento della disciplina comunitaria dei bilanci pubblici, con un nuovo «patto fiscale» fra i Paesi dell’area dell’euro; il rilancio di politiche comunitarie di crescita, che si affianchino alla disciplina di bilancio e ne contengano gli effetti depressivi di breve periodo; l’istituzione di un fondo salva-Stati permanente, in grado di finanziare a medio termine i Paesi in difficoltà, dando loro tempo di riequilibrare i bilanci con buone riforme strutturali, in modi sostenibili, senza precipitazione controproducente.

Sui tre fronti c’è stato un successo parziale. Il patto fiscale è il testo di un Trattato che sarà sottoscritto anche dai Paesi che non hanno l’euro, salvo la Gran Bretagna e la Repubblica Ceca. Si sovrappone in modi non del tutto chiari alla legislazione sugli squilibri macroeconomici che l’Ue ha appena varato con un lavoro lungo e complesso; rischia di essere una complicazione che, nella sostanza, non aggiunge quasi nulla salvo imporre ai Paesi di introdurre alcune norme della disciplina fiscale nella propria legislazione, possibilmente a livello costituzionale.

L’ intervento dell’Italia è stato determinante per evitare clausole del patto formulate con severità controproducente. Il patto è soprattutto un risultato formale che Angela Merkel vuole esibire per giustificare ai suoi elettori gli aiuti e le attenzioni che il mantenimento della stabilità finanziaria europea richiede vengano riservati ai Paesi in maggiore difficoltà.

Il rilancio delle politiche per la crescita e l’occupazione rimane affidato a dichiarazioni di intenzioni (dalle quali si è sottratta la Svezia), la più concreta delle quali sembra per ora la mobilizzazione di fondi strutturali comunitari non spesi. Anche qui la spinta italiana, e quella personale di Mario Monti, è servita a evitare che questo tema fosse trascurato. Speriamo che il rilancio divenga presto concreto, che si trasformi in misure visibili per i progressi del mercato unico.

Quanto al fondo salva-Stati non è ancora chiaro quale dimensione potrà raggiungere e quale flessibilità operativa potrà avere. Il suo compito è fondamentale, soprattutto per sollevare la Bce dalla funzione di supplenza dei governi che l’ha costretta fino ad ora a sostenere i debiti pubblici dei Paesi in crisi con acquisti diretti o indiretti, attraverso le banche che lei finanzia, andando oltre il breve termine al quale i suoi interventi dovrebbero limitarsi.

Ora occorre perfezionare e completare gli accordi, rifinendoli entro il prossimo vertice di marzo.

Ma i tasti da toccare, per rafforzare durevolmente la stabilità finanziaria europea, sono anche altri. Innanzitutto tutti i Paesi devono mostrare una volontà nazionale, interna e indipendente dagli obblighi comunitari, dai diktat del «podestà forestiero», di aggiustare i loro squilibri e fare riforme strutturali importanti. Da questo punto di vista l’Italia è su una strada più promettente della Francia e della Spagna: sarebbe eroico ma sconveniente aver salvato l’Europa con i nostri sforzi ma vederci travolti con l’Europa per i mancato sforzi altrui.

In secondo luogo i meccanismi di credito del fondo salva-Stati devono venir precisati e attuati in modi tecnicamente efficienti, senza interferenze e lungaggini politiche, e devono permettere di affermare senza equivoci un «principio di solidarietà», senza il quale un’Europa profondamente interdipendente non sta in piedi. Inoltre, la regolamentazione e la vigilanza su banche e altri intermediari e mercati finanziari richiedono nuove messe a punto: hanno dato luogo a provvedimenti controversi, non hanno superato il nazionalismo con cui i singoli Paesi tendono a proteggere e nascondere i guai dei propri intermediari, è ancora inadeguato il loro coordinamento con l’azione della Bce. Infine, occorre mettere a punto procedure adeguate e omogenee in tutta l’Ue, per consentire senza traumi e contagi lo scioglimento di banche insolventi e il default, cioè la ristrutturazione, dei debiti dei governi.

Non ha senso negare il default quando proprio la sua eventualità è alla base della disciplina di mercato, cioè della pressione con cui l’attacco ai titoli di Stato dei Paesi più indebitati li ha portati a prendere importanti misure di correzione e, addirittura, a cambiare i governi. In un certo senso la disciplina di mercato, con tutte le sue esagerazioni speculative, la sua discontinuità, i suoi errori di prospettiva, è stata l’unico motore di aggiustamento che ha veramente funzionato finora in questa crisi. Ma è una disciplina che presuppone la possibilità di default: è indispensabile che, almeno nel caso della Grecia, un default ordinato e regolato possa aver luogo al più presto, scaricando così parte del costo di aggiustamento di Atene sui suoi creditori imprudenti e opportunisti. Non dobbiamo temere che ciò trascini l’Italia in default: stiamo dando prova di essere in decente salute e, soprattutto, di saper avviare la correzione delle nostre debolezze con determinazione politica e capacità tecnica.

Nel complesso non c’è ragione di pensare che l’Europa non ce la farà, ma il vertice di ieri non ha ancora tolto l’impressione di disordine che dà il governo dell’economia e della finanza europea. Il Consiglio di marzo avrà modo di migliorare.

La Stampa 31.01.12