Da tempo il tema della diseguaglianza non aveva il rilievo di questi giorni nel dibattito pubblico. Martedì il presidente Obama, nel discorso sullo stato dell’Unione, ha indicato quale sfida centrale del nostro tempo la creazione di un società in grado di distribuire all’intera popolazione, e non a pochi privilegiati, i benefici della crescita economica. Leggi…
Latest Posts
"Quel 40% di famiglie senza Internet", di Massimo Sideri
La transizione verso il digitale in Italia è a buon punto. La percentuale di servizi pubblici di base interamente disponibili online è al 100%: siamo davanti a Germania (90,9), Francia (83,3) e Unione Europea a 27 (80,9). Ma finiamo in fondo alla classifica se consideriamo la percentuale di cittadini che negli ultimi tre mesi hanno inviato o ricevuto un documento della pubblica amministrazione online: 10,7% contro il 19,3 della Ue. Perché? In Italia quattro famiglie su dieci non hanno la possibilità di collegarsi al Web tramite rete fissa.
Tutti i servizi pubblici online, ma la nostra rete non è completa
Lo stato di salute del rapporto tra noi cittadini e la pubblica amministrazione è ricco di statistiche e alcune sono sorprendenti. La transizione verso il digitale in Italia è al palo? Tutt’altro. Se si va a prendere la percentuale di servizi pubblici di base interamente disponibili online — la fonte è la Commissione europea — l’Italia raggiunge il 100%, saldamente davanti alla Germania (90,9), Francia (83,3) e Unione Europea a 27 (80,9). Anche la tanto osannata Finlandia è ora sotto di noi. La crescita è stata esponenziale. Solo a metà del 2009 eravamo al 55,6% e dovevamo guardare in alto per subire l’ironia degli altri Paesi europei. Per inciso, è interessante osservare che anche la Spagna ha subito un’accelerazione fermandosi però al 91,7%. Dovendo riconoscere a Cesare quel che è di Cesare quella curva esponenziale ha un nome: Renato Brunetta, il ministro della Pubblica amministrazione del governo Berlusconi. Il suo progetto di digitalizzazione della Pubblica amministrazione ha ottenuto deirisultati che sulla carta sono ottimi. Ora il decreto legge sulle Semplificazioni, nel capitolo in cui implementa la cosiddetta Agenda digitale, ha dato un’ulteriore spinta a questo processo con 7 milioni di documenti e certificati che verranno forniti «solo» online. È la prima fase di quella che Stefano Parisi, alla guida della neonata Confindustria digitale, ha definito sul Corriere come switch off dello stato analogico. Una strategia condivisibile anche per Francesco Sacco dell’Università Bocconi che, insieme a Stefano Quintarelli, è stato uno dei promotori del manifesto per l’Agenda digitale in Italia.
Ma allora la domanda spontanea è: come mai l’e-government italiano non fa scuola? Se ci si sposta sulla percentuale di cittadini che negli ultimi 3 mesi ha inviato o ricevuto un documento della pubblica amministrazione online si scopre che rifiniamo in fondo alla classifica: 10,7% contro il 19,3 dell’Unione, il 21,2 della Francia e il 32,3 della Finlandia. Addirittura tra il 2008 e il 2010 siamo peggiorati di quasi due punti percentuali. Nel 2006 eravamo al 13,7%. Da una parte una crescita esponenziale, dall’altra un trend negativo: il nodo da sciogliere inizia a intravedersi. E per definirne meglio i contorni vale la pena di incrociare i numeri della Commissione con i dati Eurostat del dicembre 2011 sulle case con un accesso a Internet: 62% in Italia, contro l’83 della Germania, il 76 della Francia, l’85 della Gran Bretagna, l’84 della Finlandia e il 91 della Svezia. In soldoni: 4 famiglie su dieci in Italia non hanno fisicamente la possibilità di collegarsi al web tramite rete fissa. Peggio: il 39% della popolazione tra i 16 e i 74 anni non si è mai collegata alla rete né fissa né mobile. Solo un inglese su dieci non ha mai sperimentato una pagina web in qualunque sua forma. Siamo degli emarginati digitali. E questi due ultimi dati ci dicono che un po’ è analfabetismo e un bel po’ assenza di infrastrutture.
In Italia è come se avessimo costruito tutti i caselli ma non ci fosse ancora l’autostrada (e, anzi, talvolta si spaccia per autostrada una semplice statale). Come faranno a ritirare i certificati coloro che non hanno accesso al web? Il digital divide non può essere nascosto sotto un tappeto. E forse varrebbe la pena di pensare a una sorta di incentivo per chi si allaccia alla rete dopo averne dati per cambiare l’automobile e gli elettrodomestici.
Il tema delle infrastrutture è caldo, anzi caldissimo tra le società di telecomunicazioni. E authority di settore e ministeri ci hanno sbattuto già la testa. Il tavolo dell’ex ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, sulla rete di nuova generazione non ha sortito effetti. La litigiosità degli operatori sul tema (Telecom Italia, Vodafone, Wind, Fastweb e Tiscali) anzi è aumentata. Permettendo a tutti di uscire sbattendo la porta. Forse è per questo che il governo con il decreto sulle Semplificazioni e il ministro dello Sviluppo Corrado Passera (che ha anche la delega sulle infrastrutture) hanno optato per la «cabina di regia», cioè un coordinamento degli interventi, senza però fare cenno alla patata bollente della rete. «L’assenza di una strategia per le infrastrutture allo stato attuale è l’anello mancante. Bisognerà attendere l’attuazione della cabina di regia per vedere come si vorrà procedere», concorda Sacco, il cui nome era emerso tra quello dei possibili candidati alla poltrona di sottosegretario con delega al digitale.
Intanto la banda larga e ultra larga in Italia resta un miraggio. Il piano di Francesco Caio che, richiesto dal governo Berlusconi, era stato presentato già nel febbraio del 2009, è finito in un cassetto, nonostante contenesse anche interventi a costo zero. Le regole sulla nuova rete in fibra ottica dell’Agenzia garante per le comunicazioni guidata da Corrado Calabrò sono state pubblicate da pochi giorni. Ma si è ben lontani dal capire chi dovrà costruire e quando. Intanto il cronometro europeo avanza. E l’e-government è solo uno degli obiettivi europei. Abbiamo un altro anno per collegare a banda larga tutti e siamo ancora al 52%. Il target è già sfumato.
Entro il 2020, poi, ognuno dovrà poter accedere a una banda a 30 megabyte al secondo, mentre metà delle famiglie dovrà poter avere un abbonamento a 100 megabyte. Entro il 2015 metà della popolazione europea dovrebbe fare abitualmente shopping online. E la possibilità per noi di restare confinati nell’altro 50% è alta: nel 2011 solo 27 italiani su 100 hanno ordinato beni sul web (contro 67 della Francia, 77 della Germania e 82 della Gran Bretagna). Duro da digerire: ma ora che non ci sono più i vecchi «Paesi in via di sviluppo», trasformatisi in economie in crescita, chi non centrerà gli obiettivi farà parte della nuova serie B: quella dei Paesi in via di sviluppo digitale.
dal Corriere della Sera
"Noi, Lama e la crisi ma il '78 è lontano", di Susanna Camusso
Quante differenze dagli anni di Lama oggi la precarietà è il primo problema
Caro Direttore,
nel suo editoriale di ieri Scalfari cita un´intervista a Luciano Lama, della quale si tralascia di ricordare le affermazioni sui profitti e sulla funzione “programmatica” dell´accumulazione che è fondamentale nel pensiero di Lama, e nella svolta dell´Eur.
La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall´inflazione, oggi siamo alla perdita sistematica del loro potere d´acquisto e ciò rappresenta una ragione importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado.
La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a reddito dei «capitalisti», a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati.
Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l´idea di flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento sui lavoratori dei rischi del fare impresa.
Quale straordinaria differenza dal 1978! E ancora si potrebbe sottolineare che invece di avere attenzione ai redditi, si continua ad agire sulle accise, attuando una politica dei redditi senza nessun controllo dei prezzi.
Quanta disattenzione, poi, alle proposte vere della Cgil, quando indichiamo come priorità un Piano per il Lavoro, che per noi affronta i grandi temi del paese e interroga equità e crescita non come mantra per edulcorare, ma come scelte che devono intervenire sulla responsabilità e i comportamenti di ciascuno, se si vuole dare senso alla riduzione della diseguaglianza e riparlare di futuro.
Il Piano del Lavoro si misura con la funzione dell´intervento pubblico, troppo facilmente archiviato dal liberismo e dai suoi effetti evidenti, sulla funzione del welfare come motore di uno sviluppo attento alle persone e non mera «assicurazione» o costo, sulla funzione dello sviluppo che ha esaurito la spinta propulsiva del puro consumismo.
Ancora, un Piano del Lavoro per giovani e donne del nostro paese a cui non possiamo solo raccontare che avranno meno tutele perché i padri gli avrebbero mangiato il futuro. Un Piano per il Lavoro che voglia bene al nostro paese, non solo perché la Cgil (per troppo tempo da sola) ha indicato che non fare politiche industriali e di sistema ci avrebbe portato al declino, ma perché non ci sfugge il pericolo economico e democratico di una crisi prolungata di cui la disoccupazione è primo indicatore.
A noi è chiara l´emergenza così come la necessità di una nuova idea di sviluppo. Per questo, voler bene al paese e voler attivare i giovani, o meglio riconoscergli l´età adulta, può partire dalla scelta pubblica e politica di un Piano del Lavoro.
Un Piano per il Lavoro guarda, ovviamente, all´immediato e alla capacità di programmare. In questo quadro intende affrontare anche i nodi della produttività, della contrattazione, della rappresentanza, del mercato del lavoro, e soprattutto del fisco.
Il coro sull´importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le cause del suo declino in Italia. O inventa cause di comodo: qualcuno arriva a teorizzare l´assurdità che sarebbe per colpa dell´articolo 18. Al contrario, la produttività nel nostro paese decresce al crescere della precarietà, che non ha neanche incrementato l´occupazione, producendo, invece, quel lavoro povero su cui sarebbe bene interrogarsi.
Per noi l´urgenza è la riduzione della precarietà che viene prima, molto prima, di altri temi. Nella riduzione della precarietà vi è compresa certamente la riformulazione degli ammortizzatori, su cui da tre anni abbiamo proposto una riforma. Vorrei poi ricordare che la mobilità annunciata dall´intervista di Lama è realtà da molti anni, che la Cigs ha la durata di un anno rinnovabile a due, che comunque ha un tetto, come pure la Cig ordinaria, in ogni quinquennio, che una stagione di riorganizzazione del sistema produttivo non deve disperdere professionalità e competenze. Oppure si deve ritenere che la società della conoscenza è solo dei manager? Credo che sarebbe bene per tutti, discutere fuori dai pregiudizi e dagli slogan facili, e non confondere l´emergenza con l´idea che «qualunque cosa può essere fatta».
Siamo i primi ad apprezzare che l´Italia sia tornata al tavolo dei grandi, a sostenere sforzi per far ripartire il paese, ma se ogni scelta presenta il conto solo al lavoro (nella finanziaria la cassa sulle pensioni; nelle liberalizzazioni il contratto ferrovie e l´equo compenso dei tirocinanti, ad esempio), abbiamo il legittimo dubbio, anzi la certezza, che si affronta il « nuovo» con uno strumento antico e che il fine non sia far ripartire il paese, ma “salvare il soldato Ryan”. Se sarà così, non si salverà l´Italia ma una sua piccola parte, che forse non ha bisogno di salvarsi, perché lo fa già tra evasione, sommerso e lobbismo di ogni specie.
Questa è un´ipotesi cui non intendiamo rassegnarci. Siamo seriamente impegnati al confronto su crescita e mercato dal lavoro: l´abbiamo preparato con un documento unitario, abbiamo guardato ai modelli europei, fra cui la Germania che usa l´orario ridotto finanziato dallo stato e non licenzia. Ci siamo trovati di fronte ad un documento del ministro, non condiviso da nessuno. Senza nostalgie di nessun tipo pensiamo sia utile proporre un negoziato vero e non affidarsi a ricette preconfezionate il cui fallimento è nei numeri della precarietà e della disoccupazione, a partire dai settecentomila posti di lavoro persi dell´industria in cinque anni.
* Segretario generale della Cgil
da la Repubblica del 30 gennaio 2012
"Quei tabù dei giornali", di Guglielmo Epifani
Il confronto tra governo e parti sociali sul riordino del mercato del lavoro è oggetto di forti pressioni da parte dei due principali giornali del Paese. L’editoriale di ieri del «Corriere della sera» invitava il governo a procedere speditamente per non dare l’impressione di usare due pesi e due misure nei confronti delle costituency sociali di centrodestra e centrosinistra. L’abolizione della cassa integrazione e il superamento dell’articolo 18, insomma, dovrebbero riequilibrare gli interventi sulle liberalizzazioni. Si tratta evidentemente di una tesi senza capo né coda: infatti i durissimi interventi sulle pensioni come e dove andrebbero collocati? E l’inopinato aumento delle accise sui carburanti con il conseguente effetto sull’inflazione? E come si può pensare di fare un confronto prescindendo dal merito e dal rapporto che questo ha con la condizione dell’occupazione, su cui la crisi continua a incidere, o con l’assenza confermata dal governo delle risorse necessarie per una profonda riforma che allarghi le tutele e non le riduca? Ma anche Eugenio Scalfari su Repubblica ha ripreso ieri il tema della responsabilità del sindacato in occasione delle più gravi crisi del Paese, invitando la Cgil e le altre confederazioni a fare anche adesso la loro parte e a sostenere lo sforzo del governo. L’esortazione di Scalfari è comprensibile, ma meno convincente è mettere assieme stagioni politiche e sociali tanto diverse e soprattutto non affrontare i temi di merito e la natura delle questioni che possono dividere sindacati e governo.
Entrambi gli articoli in realtà sono figli di una medesima preoccupazione ma rimuovono il merito, mentre sarà proprio questo a segnare l’esito del confronto, tanto più necessario in quanto non è la concessione a un rito nostalgico o alla difesa di interessi corporativi, bensì il rispetto che si deve a chi da tre anni, giorno dopo giorno, è impegnato a governare crisi, ristrutturazioni e licenziamenti.
C’è infatti una grande distanza tra gli schemi astratti e la realtà che si vive. Ad esempio: superare la cassa straordinaria in questa crisi vuol dire licenziare centinaia di migliaia di lavoratori. Si vuole questo? Si abbia il coraggio di dirlo. Non lo si vuole? Allora si discuta. La stessa questione della precarietà che va sradicata deve partire dal superamento delle 46 forme e tipologie di contratti oggi esistenti e dai differenziali di costo che rendono troppo conveniente il loro uso. In sostanza bisogna affrontare i punti di merito del documento unitario Cgil, Cisl, Uil e poi lavorare per trovare le soluzioni condivise. Circola una strana teoria del tabù. Può qualcuno spiegare perché, a proposito di esperienze europee, nessuno mai fa riferimento al modello tedesco (che nella crisi ha perso meno lavoro e tiene i lavoratori in azienda, riducendo gli orari di lavoro con lo Stato che integra le retribuzioni)? E ancora: se si aumenta l’età di permanenza al lavoro, quando si affronta il tema della seniority e cioè delle nuove tutele e possibilità dei lavoratori ultrasessantenni per evitare che le aziende li mettano fuori dall’organizzazione produttiva? E quando si parla di mobilità a cosa ci si riferisce? Ai licenziamenti? Alla mobilità di un lavoratore sardo o siciliano? A una presunta rigidità del lavoro italiano, magari a causa dell’articolo 18? Perché, se fosse così, è evidente la clamorosa inversione tra cause ed effetti nel leggere la situazione produttiva e sociale italiana. Altri sono i temi da affrontare più utilmente: la formazione, la formazione permanente, l’apprendistato per i giovani e i contratti di inserimento per le persone svantaggiate, la flessibilità nell’organizzazione del lavoro. Tutti temi che possono far crescere la produttività aziendale insieme con gli investimenti e l’innovazione di prodotto. Il governo ha di fronte a sé due strade: aprire un confronto vero, ascoltare le ragioni di chi giorno dopo giorno si sforza di governare gli effetti di una crisi devastante, ricercare le migliori soluzioni che su questa materia sono quelle condivise; oppure procedere secondo le proprie convinzioni, magari dopo una serie di incontri rituali. In queste ultime settimane il Paese è stato attraversato da tanti e complessi movimenti di protesta, molti dei quali tuttora in corso. L’Italia non ha bisogno di altre divisioni e conflitti, semmai di coesione e giustizia nei sacrifici. Ci vuole perciò responsabilità e misura anche in questa occasione e in questo confronto. Anche perché una divisione sociale più profonda non lascerebbe inalterato lo stesso quadro politico.
da L’Unità
"La costituzione come bandiera", di Gustavo Zagrebelsky in ricordo di Oscar Luigi Scalfaro
Quella virtù di dire no che ha salvato il Paese dalle forzature autoritarie
Poche parole, a poche ore dalla morte del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: un uomo politico e un servitore della Costituzione rigoroso, roccioso e intransigente e, proprio per questo, molto amato e anche molto osteggiato.
“Non c´è da temere mai di fronte alle pressioni esterne. L´unico che può temerle è chi è ricattabile”: sono parole sue, rivolte ai giudici ma valide con riguardo a qualunque magistratura e tanto più valide in quanto riferite alle più alte cariche della Repubblica. Di queste, la prima e fondamentale “prestazione” costituzionale che si ha necessità e diritto di pretendere, soprattutto nei tempi di incertezza o di crisi, è la rassicurazione che viene dalla serenità e dalla forza, cioè dalla certezza che non vi possono essere cedimenti e deviazioni.
Altri, col tempo e con la riflessione necessari, scriveranno di lui e della sua opera nella storia della Repubblica, una storia che la copre dall´inizio all´altro ieri. Allora si faranno bilanci. Nella commozione del momento, vorrei ricordarlo con parole nelle quali egli probabilmente si riconoscerebbe volentieri, quasi come in un suo motto: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37).
Una delle cause del degrado e della corruzione della vita pubblica nel nostro Paese, egli l´imputava ai troppi sì che si dicono da parte di chi avrebbe il dovere di dire di no, in modo di stabilire il confine del lecito e dell´illecito e quindi il territorio entro il quale può legittimamente valere il gioco democratico. Quelle che seguono sono sue parole: «Il compito del Capo dello Stato non è quello di essere equidistante tra due parti politiche. Sarebbe fin troppo facile. Si dà ragione una volta all´uno e una volta all´altro e si sta a posto con la coscienza. No, il compito del Capo dello Stato è quello di garantire il rispetto della Costituzione su cui ha giurato. Di difenderla a ogni costo, senza guardare in faccia nessuno. Tra il ladro e il carabiniere non si può essere equidistanti: se qualcuno dice di esserlo vuol dire che ha già deciso di stare con il ladro». L´imparzialità di cui la Costituzione ha bisogno non è dunque un´equidistanza senza carattere, ma presuppone che si stabilisca quali sono le parti le cui pretese sono legittime e che da queste siano tenute separate quelle che non lo sono. Soprattutto nei momenti di turbolenza e di tentativi di forzatura, il Capo dello Stato non può esimersi dal compito – un compito che nell´ordinaria vita costituzionale gli è risparmiato – di stabilire i confini tra il lecito e l´illecito costituzionale. Tra questi due poli non può esservi imparzialità. In una Costituzione pluralista e inclusiva com´è la nostra, il terreno dell´inclusione costituzionale è assai ampio ma non è certo illimitato. Una Costituzione che “costituzionalizzasse” tutto e il contrario di tutto sarebbe non una costituzione ma il caos.
È perfino superfluo ricordare che gli anni del settennato presidenziale di Scalfaro furono un periodo di accesissime polemiche e non infondati timori per la “tenuta” delle istituzioni costituzionali. Al centro delle tensioni si trovò proprio la Presidenza della Repubblica e la sua interpretazione della Costituzione. Non furono solo polemiche verbali ma anche attacchi personali il cui obbiettivo era trasparente. Il drammatico discorso televisivo delle 9 della sera del 3 novembre 1993, il discorso del “non ci sto”, fu al tempo stesso una denuncia e una risposta. La reazione dell´opinione pubblica non iniziata alle segrete cose fu, inizialmente, di sconcerto. Non si comprendeva che cosa stesse accadendo, anche se si avvertiva l´eccezionalità del momento e delle parole appena udite, che alludevano a manovre tanto più inquietanti quanto meno limpide. Col senno di poi, comprendiamo che quelle tre parole dicevano a chi doveva intendere: “ho compreso” e un “sappiate che cedimenti non sono alle viste”. Che cosa “ho compreso”? Si dice che fosse in atto un attacco, un ricatto al Capo dello Stato da parte di uomini della maggioranza d´allora, che non lo consideravano malleabile. La parte finale del discorso allude certamente a ciò. Ma la parte iniziale è quella che deve essere riascoltata oggi. Vi si parla non di un atto grande e conclamato, contro la Costituzione e le sue istituzioni. Si parla di degrado e corruzione attraverso piccoli cedimenti, di per sé poco evidenti, ma tali da sommarsi l´uno all´altro e di fare massa, fino al momento in cui, quando ci se ne fosse accorti e si fosse voluto reagire, sarebbe stato troppo tardi. Qui, nel “bel paese là dove il sì suona” troppo frequentemente, i “no” scalfariani sono stati una scossa salutare. Egli stesso ne era orgoglioso. Nelle sue numerose e generose interviste, conferenze, lezioni degli ultimi anni, usava ricordare agli uditori, che avevano evidentemente bisogno di parole di rigore e le salutavano con entusiasmo, i tre rotondi “no” (senza “il di più” satanico) che seguirono alla richiesta di elezioni anticipate dopo la rottura dell´alleanza Lega-Forza Italia nel 1994. Quei “no” hanno salvato la Costituzione da quella che sarebbe stata una prima interpretazione anti-parlamentare destinata a fare scuola, secondo la quale il presidente del Consiglio può pretendere nuove elezioni per essere “plebiscitato” contro un Parlamento che non sta alle sue volontà. Scalfaro è stato la prima pietra d´inciampo nella marcia verso qualcosa d´inquietante, una sorta di “democrazia d´investitura” personalistica che non sappiamo dove ci avrebbe portato. Se, oggi, il presidente della Repubblica ha potuto resistere alle pressioni per elezioni anticipate, a seguito delle dimissioni del governo Berlusconi, lo dobbiamo anche alla fermezza mostrata allora dal presidente Scalfaro.
Ma altri, importantissimi “no” sono stati pronunciati. Non possiamo dimenticare con quale alto senso della laicità delle istituzioni repubblicane, egli – cattolicissimo – rivendicò davanti al Papa il suo essere presidente di tutti gli italiani, credenti e non credenti, cattolici e non cattolici, quando è tanto facile acquisire meriti e farsi belli agli occhi della gerarchia ecclesiastica, appellandosi alla tradizione cattolica, maggioritaria in Italia. Così, le questioni di fede o non fede, con lui, non erano mai motivi di divisione. Ciò che mi pare contasse davvero era l´evangelica rettitudine del sentire e dell´agire. Questo spiega l´ottimo rapporto personale – ch´egli soleva ricordare – con tanti galantuomini d´altri partiti, talora lontani politicamente dal suo e, al contrario, il pessimo rapporto con chi galantuomo non era, ancorché del suo stesso partito.
Infine, il suo impegno per la difesa della Costituzione, nel quale fino all´ultimo non risparmiò le sue energie. Presiedette il comitato Salviamo la Costituzione, al quale si deve un contributo decisivo alla vittoria nel referendum del 2006, che impedì una trasformazione profonda e ambigua delle nostre istituzioni. Ecco un altro no. Alla Costituzione andavano costantemente i suoi pensieri, consapevole ch´essa rappresenta uno dei frutti più elevati della cultura e della politica del nostro Paese. E insieme alla Costituzione, la Resistenza che ne è la radice storica e morale. Nel discorso alle Camere riunite, in occasione del giuramento, il 28 maggio 1992, rese omaggio agli uomini e alle donne che parteciparono alla lotta di Liberazione. La Costituzione “io non l´ho pagata nella Resistenza […] Altri non la votarono ma la pagarono con la vita. Non dimentichiamolo mai”. Retorica, diranno coloro ai quali questa Costituzione non aggrada. Parole profonde, diranno invece coloro che hanno consapevolezza del valore storico di quel periodo della nostra storia e del suo frutto più importante. E questi ti saranno per sempre in debito di affetto e di riconoscenza, presidente Scalfaro.
da La Repubblica del 30 gennaio 2012
******
“Il Galantuomo e il Cavaliere “, di Eugenio Scalfari
Non era un uomo delle istituzioni ma un uomo politico prestato alle istituzioni. In questo tratto della sua biografia Oscar Luigi Scalfaro somigliava più a Napolitano che a Ciampi.
Anche Napolitano infatti è stato per molti anni un uomo di partito, un dirigente politico, ma nella seconda parte della sua vita emerse una vocazione che fino ad allora era rimasta sopita e le istituzioni, sia a Roma sia a Bruxelles, diventarono per lui una condizione molto importante. Forse fu il suo modo di superare l´esperienza comunista senza tuttavia rinnegarla.
Scalfaro non aveva nulla da superare se non un episodio di intemperanza che per molti anni lo perseguitò: il preteso schiaffo che aveva dato ad una giovane signora incontrata in un ristorante e abbigliata in modo troppo audace, che aveva scandalizzato il cattolico magistrato (allora era quella la sua professione). Nel suo racconto non ci fu nessuno schiaffo ma un diverbio sì. Quando molti anni dopo ne parlammo insieme, lui ancora si rimproverava d´essere andato oltre la giusta misura.
La nostra amicizia cominciò in occasione d´un dibattito parlamentare sul tema del Concordato. Avvenne nei primi mesi del 1971, eravamo tutti e due deputati (ma lui da molto più tempo) e partecipammo a quel dibattito che la presidenza della Camera aveva indetto in vista d´una riforma dei Patti Lateranensi stipulati nel 1929 in epoca fascista. Scalfaro indicò nel suo intervento le linee della possibile riforma; seguirono altri discorsi e poi venne il mio turno. Alla fine del mio intervento ci fu un solo applauso: era lui, il cattolico per eccellenza, che applaudiva un discorso anticoncordatario. La mia tesi era infatti l´abolizione di quel trattato e la rigorosa applicazione del principio cavouriano della libera Chiesa in libero Stato.
Scalfaro s´era alzato dal suo seggio e veniva verso di me battendo ancora le mani. Gli andai incontro e mi spiegò che se avessi fatto un discorso anticlericale l´avrebbe aspramente criticato; avevo invece sostenuto che la Chiesa doveva esser libera di diffondere i suoi principi nello spazio pubblico che la democrazia riserva a tutti. «Lo Stato democratico è laico» mi disse «e può decidere di accordarsi con la Chiesa su alcune modalità di comune convenienza oppure distinguere nettamente le rispettive sfere di competenza garantendo la libertà religiosa. Oggi noi due abbiamo rappresentato con chiarezza queste alternative e questo è il compito del Parlamento».
Ho citato questo lontano episodio perché mi dette la misura del rapporto che un cattolico politicamente impegnato deve avere con la religione. Quando Scalfaro diventò presidente della Repubblica ebbe naturalmente rapporti frequenti con il Papa e furono cordiali e rispettosi da ambo le parti. Ma i suoi furono più rispettosi che cordiali perché tanto più viveva la sua intima religiosità tanto più sentiva di dover rappresentare anche nella forma e nel cerimoniale lo Stato laico del quale era il più alto rappresentante. L´ho sempre ammirato per questo.
* * * *
Il tratto saliente della sua biografia politica riguarda tuttavia il suo rapporto dialettico con Silvio Berlusconi. Scalfaro fu eletto al Quirinale nel 1992 e fu sostituito da Ciampi nel ‘99. Attraversò dunque tutta la stagione di «Mani pulite», il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica e il debutto politico di Berlusconi e di Forza Italia. Tenne a battesimo il suo primo governo che durò pochi mesi. Poi venne la rottura con la Lega, il governo Dini con caratteristiche istituzionali, infine il governo Prodi e il rilancio del centrosinistra. Il suo settennato arrivò al termine in coincidenza con il governo D´Alema.
Nei cinque anni di convivenza con il populismo berlusconiano rifulsero le capacità politiche di Scalfaro e insieme la piena consapevolezza dei limiti che la Costituzione poneva al suo ruolo. Rispettò quei limiti con estremo rigore ma con lo stesso rigore difese ed esercitò le sue prerogative. Quando Berlusconi dovette dimettersi perché sfiduciato dalla Lega, il partito di Forza Italia chiese lo scioglimento delle Camere. Scalfaro obiettò che non poteva richiamare alle urne gli italiani senza aver prima verificato se esistesse una soluzione alternativa. Ci fu un´accesa contestazione su questo punto ma il Quirinale non cedette. Fece tuttavia un gesto di cortesia e anche di saggezza politica: chiese a Berlusconi di designare lui il nome del suo successore, chiarendo al tempo stesso che si sarebbe trattato d´un governo istituzionale necessario per decantare la situazione e poi tornare a interpellare il popolo sovrano. Fu Berlusconi a indicare Dini che era stato fino ad allora il suo ministro del Tesoro. Dini accettò e formò un governo che non aveva una maggioranza precostituita ma aveva alle spalle il Quirinale e funzionò benissimo alimentando però un´antipatia non solo politica ma anche personale di Berlusconi nei confronti del presidente della Repubblica.
Va ricordato che Scalfaro si tenne sempre nei limiti delle sue prerogative e reagì alle contumelie che gli venivano scagliate contro solo quando esse divennero una vera e propria aggressione alla vita privata sua e della sua famiglia, tirando in ballo anche la magistratura.
Ricordo anche che fu lui, d´accordo con l´allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, a chiamare Ciampi e nominarlo capo del governo. Era il 1993; qualcosa di molto simile è avvenuto diciannove anni dopo quando nel novembre scorso Napolitano ha nominato Monti a Palazzo Chigi.
Infine un ultimo ricordo privato. Nel 1996, pochi mesi dopo le mie dimissioni dalla direzione di Repubblica, Scalfaro mi nominò Cavaliere di Gran Croce. Ci fu una piccola cerimonia nella Sala della Vetrata al Quirinale e io gli dissi scherzando che con quella onorificenza diventavano cugini poiché era quello il cerimoniale dei Cavalieri dell´Annunziata ai tempi della monarchia. Mi rispose: «Ma noi cugini lo siamo già. Ho fatto delle ricerche in proposito perché i miei genitori erano di origini calabresi. Scalfaro e Scalfari provengono da un unico ceppo. Siamo cugini in trentesimo grado». Ci abbracciammo ridendo e da allora la nostra amicizia è diventata ancora più stretta.
L´Italia saluterà oggi a Santa Maria in Trastevere uno dei grandi servitori dello Stato. Anch´io ci sarò a dolermi della sua scomparsa e ad onorare la sua memoria.
da La Repubblica del 30 gennaio 2012
"Quale Autonomia responsabile?", di Pippo Frisone
Tra le novità del decreto semplificazioni, varato dal governo Monti il 27 gennaio, ce ne sono alcune molto significative che riguardano la scuola.
Qui ci limiteremo a considerare l’art.54, quello che ha come titolo “Autonomia responsabile”. Sono 7 commi, uno più impegnativo dell’altro.
La prima impressione che si ricava da una lettura sommaria del testo è quella di ritrovarvi alcune istanze sindacali che da oltre un decennio cadevano nel vuoto, sovrastate dai tagli e dal contenimento della spesa per l’istruzione. La prima novità sugli organici del 2012/13 è che non ci saranno altri tagli. Gli organici rimarranno invariati e saranno quelli definiti nel 2011/12 : 724mila posti docenti e 233.100 Ata. Questo è il primo dato da cui bisogna partire.
Ma questa è una buona notizia solo a metà. Infatti se da un lato i posti non diminuiranno ulteriormente , dall’altro restano ahimè confermati i 130mila posti in meno (45mila Ata+85mila docenti) tagliati per effetto della Legge n.133/08.
Lo stesso art.54 prevede in prospettiva 10mila posti aggiuntivi, da destinare tramite sequenza contrattuale, all’autonomia, flessibilità, potenziamento dell’offerta formativa e interventi perequativi. E’ ipotizzabile che questi 10mila posti vadano a finire nel previsto organico di rete .
Alla singola scuola verrà assegnato, sempre secondo il suddetto decreto, un organico dell’autonomia, funzionale all’attività didattica,educativa,amministrativa,tecnica e ausiliaria, finalizzata allo esigenze di sviluppo delle eccellenze, di recupero, del sostegno ai disabili e di programmazione dei fabbisogni. Tale organico funzionale sarà triennale, con vincoli di stabilità di pari durata per tutto il personale .
Nell’intero art.57 non si fa cenno alcuno al tempo scuola né ai modelli didattici, garantendo cosi continuità alla cosiddetta riforma Gelmini ( maestro unico, superamento dei precedenti modelli di tempo pieno e prolungato, abolizione di tutte le compresenza in ogni ordine e grado di scuola, nuovi ordinamenti della secondaria…).
Sarà dunque impossibile almeno per ora recuperare anche solo in parte, con la novità dell’organico funzionale quanto è andato perso coi tagli degli ultimi anni. Anzi, il costante richiamo nella determinazione degli organici, all’art.64 della L.133/08 ne fa un punto di non ritorno.
Tuttavia, il superamento dei due tempi tra organico di diritto e organico di fatto rimane un passo avanti che fa ben sperare in prospettiva sulla stabilizzazione di circa 55mila precari, di cui almeno 30mila sul sostegno. A cosa dovrebbe servire la tanto auspicata autonomia responsabile? Naturalmente ad affrontare anche il problema delle supplenze! E non poteva essere diversamente. Del resto non si poteva chiedere di più ad un governo tecnico che ha nella sua mission , non dimentichiamolo, il pareggio di bilancio alla fine del 2013.
Ma noi ci auguriamo che nei passaggi istituzionali sulla determinazione degli organici, l’autonomia responsabile delle scuole non debba ridursi a risolvere soltanto lo spinoso problema delle supplenze.
E’ importante riuscire a discutere la recente proposta della conferenza delle regioni che riequilibra le dotazioni organiche tra le varie regioni, oltre che sulla popolazione scolastica ,sulla base di parametri più aderenti ai fabbisogni espressi da ciascun territorio, al tempo scuola richiesto dalle famiglie, al fenomeno dell’integrazione degli alunni diversamente abili e all’integrazione di quelli stranieri. Criteri che tuttavia si muovono all’interno dell’invarianza di spesa per l’istruzione.
Con l’art.54 non siamo ancora ad una vera e propria inversione di tendenza ma per la prima volta in questi ultimi anni registriamo interventi di un altro segno e di un certo interesse.
Non disgiunto dal problema degli organici rimane quello degli esuberi e come verranno sistemati gli oltre 10mila docenti.
Se per il governo tecnico la gran parte degli esuberi dovrà rimanere nelle dotazioni organiche, da riqualificare e riconvertire oppure zavorra da mettere in mobilità coatta ed espellere dalla scuola, lo sapremo abbastanza presto.
Una maggiore attenzione e una sana razionalizzazione da soli non bastano a risolvere i gravi problemi in cui versa la scuola. Come non ci potrà essere una vera autonomia responsabile senza risorse adeguate e senza investimenti .
Ben venga allora un’autonomia responsabile se ciò voglia dire meno vincoli, meno centralismo e nuovi spazi decisionali per le scuole mentre l’organico funzionale, adeguatamente arricchito, dovrà servire a garantire il regolare funzionamento dell’istituzione scolastica, continuità, stabilità e qualità all’azione educativa .
Un buon inizio senz’altro ma non ancora sufficiente a far cambiare rotta alla scuola pubblica.
da ScuolaOggi
"Non basta, lo Spread deve calare ancora", di Stefano Lepri
Il vertice europeo di oggi si impegnerà a mostrare che si fa qualcosa anche per la crescita economica. I fondi a favore dell’Italia sono una buona notizia. Leggi…