Latest Posts

"La povertà che nasce dal mercato del lavoro", di Tito Boeri

Speriamo che i protagonisti dei tavoli sul mercato del lavoro (virtuali o di legno che siano) abbiano trovato il tempo nel fine settimana di leggere i risultati dell´ultima indagine sui bilanci delle famiglie italiane, resi disponibili da Bankitalia nei giorni scorsi. Ci dicono che dal 2006 al 2010 la povertà è aumentata di 6 punti percentuali fra chi ha meno di 45 anni, è cresciuta di poco tra i 45 e i 65 anni e si è ridotta al di sopra di questa età.
È un profilo per età che corrisponde perfettamente a quello del precariato: la povertà aumenta perché non si riesce ad entrare nel mercato del lavoro, perché ci sono molti lavoratori poco qualificati con lavori temporanei con bassi salari che non tengono il passo con l´inflazione e perché chi non è tutelato perde il posto di lavoro. Tutto questo spiega anche perché in questi anni si è invertita la tendenza, che sembrava sin qui inarrestabile, alla riduzione della dimensione media dei nuclei famigliari. Il fatto è che giovani tornano a casa perché per loro la famiglia rappresenta l´unico ammortizzatore sociale. È una scelta costosa perché comporta la rinuncia a fare progetti di vita, fare figli, e impedisce la mobilità sociale. Il vice-ministro Martone, che ha ricevuto l´idoneità in uno di quei concorsi in cui si vince perché tutti gli altri candidati si ritirano, li potrà pure chiamare “sfigati”, ma i laureati di lungo fuori corso sono principalmente persone che vivono in famiglia con genitori che hanno solo la licenza elementare.
Le disuguaglianze prodotte sul lavoro e fuori dal lavoro non servono, come in altri paesi, a farne crescere la produttività. Al contrario, il divario nella produttività del lavoro, dunque nella competitività delle nostre imprese, si è ulteriormente accentuato. Abbiamo perso quasi 30 punti di competitività al cospetto della Germania nel giro di 10 anni. Il fatto è che chi viene espulso dal mercato e chi fatica ad entrare è spesso chi ha maggiore capitale umano e potrebbe grandemente contribuire a rendere più competitive le nostre imprese.
Ci sono perciò ragioni tanto “di sinistra” (le disuguaglianze crescenti) che “di destra” (la produttività in calo) per riformare il mercato del lavoro, i cui nodi strutturali sono stati solo esacerbati dalla recessione. Bisogna riformarlo sul serio. Far finta di cambiare per non cambiare nulla non servirà neanche a rassicurare i mercati finanziari che hanno perfettamente capito che i problemi del nostro paese sono legati alla bassa crescita. Il contratto di apprendistato c´è già in Italia, c´era già prima della recessione. È uno strumento utile, ma non può contrastare il precariato che ormai riguarda persone con più di 40 anni, tra cui molte donne che rientrano dopo periodi di maternità. Oggi il contratto di apprendistato coinvolge circa 250.000 persone, con livelli di istruzione più alti della media e riguarda in 7 casi su 10 chi ha meno di 24 anni. Non potrà mai riguardare milioni di lavoratori di tutte le età. Bene, in ogni caso, accertarsi che ci sia effettivamente contenuto formativo e non solo sconto retributivo in questi contratti, che possono oggi essere rescissi dal datore di lavoro, senza costi, al termine del periodo di formazione.
Gli incentivi fiscali alla conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato sono costosissimi (come prova l´esperienza dei bonus-Sud e bonus assunzioni introdotti nel 2000 e poi rimossi in fretta e furia perché erano costati 10 volte di più di quanto preventivato) e non servono minimamente a ridurre il dualismo. I datori di lavoro assumono i lavoratori fin quando dura il sussidio per poi licenziarli subito dopo. In Spagna sono stati ampiamente sperimentati per concludere che “il loro ampio utilizzo ne ha compromesso pesantemente l´efficacia”, come recita un documento ufficiale del Governo spagnolo, basato sulle conclusioni di commissione parlamentare e del Consejo Economico y Social, con tutte le forze sociali rappresentate. Hanno raggiunto questa conclusione perché si sono accorti che i lavoratori delle regioni coinvolte avevano subito un incremento della probabilità di essere licenziati rispetto a quelli delle regioni non coperte dagli incentivi fiscali.
Un salario minimo orario non costerebbe nulla alle casse dello Stato. Servirebbe molto a proteggere i lavoratori più deboli negli anni ad alta inflazione che presumibilmente ci stanno di fronte. In Italia il salario minimo favorisce anche il decentramento della contrattazione, che permette di stabilire un legame più stretto fra salari e produttività, motivando di più i lavoratori che hanno già un contratto a tempo indeterminato e che continueranno ad essere protetti dalle tutele attuali. Prospettare un percorso di ingresso nel mercato del lavoro che non comporti in partenza una data di scadenza stimola, questo sì, gli investimenti in formazione: la percentuale di lavoratori formati in azienda cresce con la durata potenziale dei contratti. Avere nei primi anni di assunzione risarcimenti monetari in caso di licenziamento senza giusta causa, crescenti col tempo passato in azienda, offre tutele a chi oggi non ne ha e non ne toglie a chi le ha già. Al contempo serve a permettere ai datori di lavoro di scegliere meglio chi assumere, su chi investire, migliora il clima in azienda scoraggiando i comportamenti opportunistici. Questo percorso di ingresso va peraltro offerto a tutte le età, a 20 anni come a 55. Come dimostrano l´esperienza dell´Austria e della Francia, la scelta di far crescere i costi di licenziamento con l´età (anziché con la durata del posto di lavoro) fa aumentare la disoccupazione fra i lavoratori più anziani. Perché datori di lavoro già diffidenti sulla produttività di questi lavoratori, non sono in genere propensi a prendere impegni di lungo periodo con lavoratori vicini all´età di pensionamento. Il contratto di ingresso servirà così anche a dare opportunità e tutele ai lavoratori bloccati dalla riforma delle pensioni varata dal Governo in dicembre. Sarebbe pure servito anticipare per queste coorti limitate di lavoratori la riforma degli ammortizzatori sociali, offrendo a chi è povero in famiglia, non trova un lavoro alternativo e ha esaurito le indennità di mobilità e i sussidi di disoccupazione, un reddito minimo garantito fino, e se necessario oltre, l´andata in pensione. Sarebbe stata un´utile sperimentazione di una riforma da estendere gradualmente a tutti e un primo passo verso quella separazione fra previdenza e assistenza che tutti, a parole, dicono di volere. Invece si è scelta la strada degli interventi ad hoc per i lavoratori “esodati” e “precoci”, una strada inevitabilmente iniqua perché crea asimmetrie nei trattamenti a seconda del periodo in cui si è entrati nelle liste di mobilità.

da La Repubblica del 30 gennaio 2012

"L'ok del Nord a Monti pesa sul Pdl", di Lina Palmerini

Il Nord e Sud sono piuttosto distanti anche nel giudizio sul Governo Monti ma in un modo che non piacerà alla Lega. E che fa riflettere il Pdl ormai in costante oscillazione tra l’appoggio e la minaccia all’Esecutivo. A dare due numeri chiave è proprio una delle esperte in sondaggi più stimata da Silvio Berlusconi – Alessandra Ghisleri di Euromedia Research – che mostra quanto il Nord abbia sposato la causa-Monti, più del Mezzogiorno.

In particolare, ci sono 15 punti di differenza a misurare la distanza tra le due aree del Paese. «Il 75% dei cittadini del Nord dà sostegno al Governo e vuole che duri fino al 2013, al Sud la percentuale si riduce fino al 60%, mentre la media nazionale è del 65%», spiega la Ghisleri che illustra dati molto recenti, rilevati da appena una settimana e che scontano anche l’effetto liberalizzazioni. Ma c’è un’altra cifra interessante, quella sulla fiducia al premier. Anche qui c’è uno stacco di circa 10 punti da Milano a Palermo. «Il dato nazionale – racconta la Ghisleri – è del 56,7%, quello del Nord supera di un po’ il 60%, quello del Sud è di poco più basso del 50%. Vorrei chiarire che la fiducia riassume una serie di indicatori come la competenza, la credibilità, la capacità di riuscita e che è risalita dopo essere scivolata molto in basso subito dopo la manovra. Va detto, poi, che Monti è visto come un “buon prodotto” del Nord».
articoli correlati

Lavoro, Monti fissa le priorità: serve maggiore mobilità nel tempo, sono fiducioso ma il negoziato è in salita
Fornero: riforma entro un mese, ma le risorse per gli ammortizzatori sociali sono poche
Stretta sulla Cig e contratto calibrato sul ciclo di vita: ecco come il Governo vuole riformare il lavoro

Vedi tutti »

Insomma, la parte più produttiva del Paese, la più esposta alla crisi e quella che in qualche modo è più consapevole della posta in gioco, sembra abbia fatto una scelta molto netta sull’attuale Esecutivo. E questo accade nonostante i partiti più in sintonia con quest’area del Paese siano o incerti – come il Pdl – o addirittura ostili, come accade alla Lega. Senza approfondire il sondaggio casereccio di Radio Padania – dove l’80% di ascoltatori ha appoggiato Monti – basta guardare quello già noto di Euromedia per vedere come il 74% di elettori padani abbia apprezzato le liberalizzazioni mentre il Senatur gli dà battaglia. Sembra un cortocircuito ma, secondo Paolo Feltrin, professore di scienza della politica all’Università di Trieste, siamo semplicemente tornati indietro. «Siamo più o meno nella stessa fase del ’97-’98 quando Bossi scelse di fare la guerra all’Europa e all’euro e di alzare i toni per salvare il partito. Se si ricorda anche in quel periodo ci fu una scissione in Veneto così come oggi ci sono divisioni interne. Dunque, l’obiettivo del Senatur appare lo stesso: salvare la nave-Carroccio dando fiato all’ala più estrema dei militanti. E questo comporta lo scollamento con quell’area di elettori più moderati del Nord che invece vuole Monti per uscire dalla crisi».

È come una partita a poker, dice Feltrin: «La puntata attuale di Bossi non è quella probabile ma quella possibile, il fallimento di Monti e dell’Europa. Solo così può massimizzarla. Il Pdl, che non ha ancora scelto come giocare, sarà costretto a rafforzare il suo consenso per il Governo. Non può seguire la Lega perché il Nord, oggi, sta con il premier. Ma è chiaro che tutto questo vale per l’oggi: tutto è aperto, è l’azione di Monti a essere ancora in sospeso». Le riflessioni di Feltrin si ritrovano anche nei numeri dei sondaggi della Ghisleri. «Il Pdl da quando c’è Monti ha perso quasi 3 punti, oggi è intorno al 24-25%. Ed è in sofferenza perché non spiega, non ha un ruolo di mediazione con i cittadini o le categorie, non è più un punto di riferimento per i suoi elettori. A crescere, infatti, sono i partiti che motivano la loro scelta rispetto a Monti: si rafforza di un paio di punti l’Udc – e non è poco per un partito che vale il 6% – si rafforza il Pd (27-28%) ma anche Vendola che ai suoi fa un racconto di quello che accade».

Tornando al Nord, anche in Veneto, “cratere” dei consensi padani, il Carroccio sembra dover fare i conti con una realtà produttiva che, almeno ora, si aggrappa al Governo. Lo spiega Daniele Marini, direttore della Fondazione Nord-Est, che raccoglie i principali soggetti produttivi di quell’area. «Nessun imprenditore può volere lo scenario evocato da Bossi, cioè il default dell’Italia e dell’euro. E questo perché comporta il peggiore dei mali per un uomo d’azienda: l’incertezza. Nessuno oggi sa cosa accadrebbe e come verrebbe gestito il fallimento della moneta e dunque i produttori puntano su Monti perché ritengono sia l’unica strada per non affrontare l’esito più pericoloso. Questa è la ragione per cui il Nord – che aveva già voltato le spalle al centro-destra prima che Berlusconi cadesse – oggi appoggia il Governo». Intanto quello che si dice in piazza a Milano o a Montecitorio non coincide sempre con le parole delle piazze locali, tant’è che Marini fa notare che «anche la Lega, con i suoi amministratori locali, si guarda bene – qui – dall’usare i toni di Bossi. Qui si è molto più soft verso Monti proprio perché sono ben presenti le preoccupazioni delle aziende».

Sono, dunque, le paure a tenere alti gli indici di gradimento che scendono quando si tratta di valutare l’effetto concreto delle scelte di Monti. «Al Nord, per esempio, il 49% non pensa che il Pil aumenterà con le liberalizzazioni», fa sapere la Ghisleri che invece dice sia piaciuto, e molto, il blitz a Cortina anti-evasione: «Siamo oltre il 65% di approvazione». E anche questo, forse, era sfuggito al centro-destra.

da www.ilsole24ore.com

"Sì di Bankitalia agli sgravi Irpef con i proventi dell'evasione", di Elena Polidori

Sul progetto del Tesoro consensi da Pd e parti sociali

DAVOS – Ridurre le tasse grazie al recupero dell’evasione. Non è un sogno ma un progetto vero, una norma di principio, confermata ieri anche da fonti ministeriali. La Banca d’Italia l’appoggia da sempre. Il governo la vuole inserire nella delega fiscale che si appresta a presentare. Se ne è parlato molto anche a Davos, nei colloqui a margine del World economic forum, cui ha partecipato il governatore Ignazio Visco. É la “fase tre”, quella che segue il rigore e la crescita e che è dedicata all’equità.

Ai partner internazionali, agli economisti e ai top manager giunti sulle nevi svizzere, Visco si è detto “ottimista” sulle riforme del governo. Ha spiegato che l’esecutivo “si sta dando molto da fare” e che ha “il sostegno della gente”. Nei colloqui riservati ha insistito sull’importanza di un’efficace contrasto all’evasione che, in Italia, rappresenta il maggior ostacolo ad una equa distribuzione dell’elevato onere fiscale tra i cittadini. Nella sua visione, ribadita in più di un’occasione, una riduzione delle aree di evasione facilita tra l’altro la definizione di interventi in favore delle persone con redditi modesti. Può consentire- ecco il punto – una riduzione in prospettiva del carico fiscale.

A Davos se ne discute. A Roma si decide. Archiviati i due decreti su liberalizzazioni e semplificazioni, il governo ora intende appunto concentrarsi sul fisco. Nelle prossime due settimane arriverà un provvedimento con le semplificazioni fiscali. Poi metterà mano alla maggiore imposta italiana: l’Irpef. Il governo lavora a una nuova delega fiscale per superare quella già presentata in Parlamento dal precedente governo che nei fatti è già vecchia. Si pensa di introdurre nella delega un vincolo per destinare ogni anno il gettito recuperato dalla lotta all’evasione fiscale alla riduzione dell’Irpef per i lavoratori dipendenti, i pensionati e le famiglie. Si punta a programmare – come fece Amato nel 2000 – una vera e propria “restituzione”. Il “cantiere” è dunque aperto.

E soprattutto, l’idea è molto bene accolta. Da Roma rimbalza un coro di consensi. Plaude il Pd, soddisfatto perché già aveva presentato una proposta del genere. Plaudono i sindacati, tutti uniti, con la Cgil che suggerisce detrazioni per lavoratori e pensionati. Fioriscono anche le ipotesi tecniche: calo dal 23 al 20% dell’aliquota Irpef, è la principale. E si parla anche di un allargamento dello scaglione corrispondente per estendere lo sgravioa una maggiore platea dii redditi medio-bassi. O del rafforzamento di alcune detrazioni in favore di famiglie, lavoratori e pensionati. Ma quel che conta è il principio: destinare il “tesoretto” recuperato dalla lotta all’evasione per ridurre le tasse a chi le paga. Ed è proprio questo principio che interessa anche i big dell’economia presenti a Davos. Perché gli evasori, i nostri come quelli nel resto del mondo, accumulano ricchezza nelle loro mani, aggravando così il problema delle disuguaglianze sociali, quando non anche la stessa recessione. Al dunque, gli evasori “sottraggono” risorse alla collettività, creando quello che gli economisti chiamano “effetti distorsivi”. Edè questo che interessa a livello globale, specie in un momento nel quale l’economia soffre in molte aree del pianeta, Europa in testa. A maggior ragione interessa all’Italia, dove l’evasione è una vera e propria piaga.

Visco è uno studioso dell’equità. Ricerche della Banca d’Italia documentano l’esistenza di un sistema dove il prelievo fiscale è alto, con aliquote nettamente più elevate rispetto alla media dei Paesi euro. E dove si inserisce il fenomeno dell’evasione con i suoi effetti distorsivi.

da la Repubblica

"È nel diritto alla cultura la nuova lotta di classe", di Guido Rossi

Gira su internet la seguente frase, datata nel 55 A.C., attribuita a Marco Tullio Cicerone: «Il bilancio nazionale deve essere portato in pareggio. Il debito pubblico deve essere ridotto; l’arroganza delle autorità deve essere moderata e controllata. (…) Gli uomini devono imparare di nuovo a lavorare, invece che vivere di pubblica assistenza».

La frase, che sembra dettata dalla signora Angela Merkel e dai Governi europei, in verità non è affatto di Cicerone. La citazione, tratta da una biografia romanzata, scritta nel 1965 da Taylor Caldwell, A Pillar of Iron, è un falso, come aveva già dimostrato il professor Collins fin dal 1971; ciò nonostante, essa è stata abbondantemente abusata persino dall’Ocse e dal Fondo monetario internazionale, alla ricerca di autorevoli precedenti a giustificazione della loro politica monetaria.
Le politiche europee che si sono ispirate ai principi del falso Cicerone hanno poi provocato una serie di proteste che caratterizzano un po’ ovunque la vita sociale dei Paesi globalizzati. Così è anche per le ultime “liberalizzazioni” del Governo italiano. Eppure queste dovrebbero favorire la concorrenza e dunque alla fine giovare all’interesse degli autotrasportatori, dei tassisti, dei farmacisti, dei pescatori, degli agricoltori e degli avvocati, dirette a eliminare strutture arcaiche alle quali nessuno aveva mai posto mano.

Queste strutture avevano trovato un loro scadente equilibrio, certo non giusto né trasparente, ma appena è stato rotto, ha provocato la rivolta.
di Guido Rossi S’è è fatto così l’esempio dell’autotrasporto, che vede a capo del circuito economico nel quale è inserito società di spedizione multinazionali, per lo più straniere, che controllano reti commerciali e software e collegano la produzione e la destinazione finale delle merci, mentre gli autotrasportatori non sono che l’ultimo sfortunato anello della catena. E già liberalizzato quanto basta. Diverso discorso si potrebbe affrontare per le altre liberalizzazioni, ma lo schema più o meno si ripete.
Le rivolte che ne sono state la conseguenza si accomunano alle molte altre in giro per un mondo nel quale la disoccupazione aumenta e le prospettive di lavoro sembrano azzerarsi, sicché esse paiono una scomposta e flebile reviviscenza della tradizionale “lotta di classe”.

Ma così non è. La lotta, a tutti i livelli, fra ricchi e poveri, fra capitalisti e proletari, non è più quella. E soprattutto la grande ricchezza non è più il surplus prodotto dallo sfruttamento di lavoro nella produzione di merci, anche se esso tuttora esiste. Né diverso sarebbe il discorso sui beni naturali come il petrolio, il cui prezzo altalenante fra gli interessi dei paesi produttori e le corporations occidentali sarebbe ridicolo vederlo riferito ai costi di produzione. Una prima conclusione che si può trarre è che il grande cambiamento che ha reso possibile la globalizzazione e questi fenomeni che ne fanno parte integrante è l’importanza che ha assunto quello che già Karl Marx, pur senza averne previsto la straordinaria capacità di trasformazione del capitalismo, aveva chiamato «l’interesse generale», inteso come la conoscenza collettiva in tutte le sue forme, dalla scienza alle applicazioni pratiche delle tecnologie.

In verità, già ben prima, uno dei più grandi innovatori nella storia del pensiero, il nostro Giambattista Vico, aveva scoperto l’esistenza di un senso comune in tutto il genere umano collegato alla sapienza insita nell’ingenium. Ed è così che oggi la vera fonte di ricchezza sta nella privatizzazione di una parte rilevante dell'”interesse generale” o dell'”ingenium” vichiano. È così infatti che l’aumento della produttività e dell’efficienza attraverso il determinante ruolo che nella trasformazione dell’economia mondiale ha avuto la conoscenza collettiva costituisce il grande successo del capitalismo globale. Ma questo successo ha altresì prodotto una disoccupazione di carattere strutturale, che ha reso dovunque una moltitudine di lavoratori inutili e superflui.
Il risultato di questo successo è che ai capitalisti di antica tradizione si sono sostituiti i manager i quali, in base a meriti e competenze sempre più incerte e discutibili, si appropriano del surplus della produzione, vengono pagati con lauti bonus, stock options e liquidazioni forsennate; al contrario degli antichi capitalisti non rischiano, ma addirittura si arricchiscono anche quando le imprese sono in perdita.

È così che la classe media, la borghesia, che era il collante d’equilibrio delle società del capitalismo industriale, va via via sparendo e il suo lavoro, come hanno dimostrato anche da noi le recenti indagini dell’Istat, ha un reddito reale che viene eroso dall’inflazione.
Ma le rivolte e lo sconfortante pessimismo non servono. Ciò che pare essenziale per la borghesia proletarizzata è il recupero della conoscenza collettiva da parte di tutti e soprattutto da parte dei giovani. Pare che questa nuova dimensione, al di fuori dei falsi Ciceroni, sia stata finalmente capita anche dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama con l’imponente programma di aiuti per accedere all’istruzione dei giovani e all’educazione degli adulti. Sarà forse così anche possibile ridurre, e quando necessario, eliminare, la deriva finanziaria che si è inserita nel gioco perverso della privatizzazione della conoscenza collettiva. Ancora una volta la vera e non la falsa cultura costituiscono la via d’uscita dalla crisi.

da www.ilsole24ore.com

"Severino: sulle carceri test di civiltà. Prescrizione sotto accusa a Milano", di L. MI.

La Severino apre l’anno giudiziario

Carceri incivili e prescrizione “assassina”. Sono gli argomenti da tormentone delle 26 cerimonie nelle 26 città dove si celebra l’apertura dell’anno giudiziario. Sono i 26 distretti dove il Guardasigilli Paola Severino dovrà “potare” gli uffici inutili. Lei, da Catania, insiste sulla situazione dei penitenziari, il problema che la «angoscia» da quando si è insediata in via Arenula. Fa un’affermazione forte: «Dalle situazioni delle carceri si misura il livello di civiltà di un Paese». Aggiunge: «Lo Stato non ripaga mai con la vendetta, ma vince con il diritto e l’applicazione scrupolosa di regole e legge». Prosegue: «La giusta detenzione dimostra ai criminali l’intima diversità tra la legalità della nostra democrazia e ogni forma intollerabile di arbitrio».

Delle carceri e delle loro spaventose condizioni parlano tanti magistrati. I radicali insistono con l’amnistia. Il governatore della Puglia Nichi Vendola fa questa previsione: «Stiamo regredendo verso un moderno Medioevo».

Negli stessi minuti, a Milano, il presidente della Corte di appello Giovanni Canzio- alla sua prima inaugurazione dopo gli anni trascorsi all’Aquila in pieno terremoto – pone l’altro grande tema della giornata, l’incombere della prescrizione che falcidia i processi. La definisce un «agente patogeno». Ne parla così: «Non è sostenibile l’attuale disciplina sostanziale della prescrizione perché induce premialità di fatto, incentiva strategie dilatorie della difesa, implementa oltre ogni misura il numero delle impugnazioni». Ancora: «In casi eccezionali può anche sollecitare, come agente terapeutico, maggior rigore ed efficienza organizzativa, ma oggi si rivela un agente patogeno». Canzio parla della questione in generale, così come accade su Repubblica da tre giorni. Il vice presidente del Csm Michele Vietti ha proposto di congelare la prescrizione a processo iniziato; il primo presidente della Cassazione Ernesto Lupo di allungarla. Ma il ministro della Giustizia non è di quella idea. Per lei – dice al Messaggero- una modifica nonè «un tabù», ma neppure «la priorità».

Perché «si deve valutare se la prescrizione rappresenta la causa o la conseguenza della lentezza dei processi». Bisogna «partire dalle cause e non dagli effetti, dalla testa e non dalla coda». Prima bisogna rimuovere le cause che allungano i processi e semmai poi intervenire sulla prescrizione.

Dibattito generale dunque. Ma quando Canzio parla a Milano subito il Pdl si scatena perché ritiene che lo abbia fatto per via del processo Mills in cui Berlusconi ha appena fatto ricusare i suoi giudici che tentano di arrivare alla sentenza di primo grado prima che l’11 febbraio la prescrizione fulmini il processo. Si scatena il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto: «È evidente che Canzio vuole confermare pubblicamente che tutto il “rito ambrosiano” si muove per assicurare a Berlusconi una sicura condanna». Lo segue l’omologo in commissione Giustizia Enrico Costa: «Perché Canzio ne parla proprio adesso che il suo ufficio è investito della decisione sul processo Mills?». Ma a Roma, dove non c’è un caso Mills, il presidente della Corte d’appello di Roma Giorgio Santacroce ricorda come «l’Europa ci critichi per gli effetti dannosi della prescrizione nei processi per corruzione». La Pd Donatella Ferranti propone di cambiare la prescrizione allungandola e inserire subito le modifiche nel ddl anticorruzione che questa settimana riprende il suo faticoso e lentissimo iter alla Camera.

Come dice il presidente dell’Anm Luca Palamara, anche lui a Milano, «il clima politico è sicuramente diverso rispetto a quello degli ultimi anni», ma lo scontro sulla prescrizione e gli attacchi a Canzio dimostrano che sarà difficile intervenire sul tema. Palamara insiste: «Bisogna avere il coraggio di mettere mano alla disciplina della prescrizione». Ma tutto lascia intendere che questo «coraggio» ancora non c’è.

da la Repubblica

******

L’intervista Franco Ionta, il capo del Dap: va limitato l’afflusso in entrata negli istituti penitenziari

“Il sovraffollamento lede la dignità anche nelle celle c’è il diritto al pudore”, di ANNALISA CUZZOCREA

«Quello delle carceri non è solo un problema di sovraffollamento, è un problema di dignità della detenzione».

Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, conosce bene il grido di dolore che si è levato dai tribunali di mezz’Italia.

Il ministro Severino l’ha definito un test di civiltà per il Paese. L’Italia è molto indietro? «Quando una persona- al di là delle responsabilità accertate o da accertare – si trova in una struttura penitenziaria, ne devono essere salvaguardate la vita, la salute e la dignità. Così come il lavoro che fa la polizia penitenziaria deve essere dignitoso e ritenuto tale dalla società».

Le carceri italiane possono accogliere 43mila persone. Quante ce ne sono oggi? «Abbiamo 66.800 detenuti, e se nel dicembre 2010 non fosse stata introdotta una legge di grande saggezza – quella che consente di scontare ai domiciliari l’ultimo anno di pena – il problema sarebbe ancora maggiore. Il 42 per cento di detenuti è in attesa di giudizio, e si trova in condizione di non essere rispettato nella sua dignità».

In che modo? «Dormire e condividere gli ambienti igienici con troppe persone rende inaccettabile anche la quotidianità. Cucinarsi un pranzo, leggere un giornale, prendersi un caffè, lo svolgimento ordinario della vita – seppure da detenuto – non dev’essere ostacolato da un’eccessiva promiscuità. La cessazione della libertà non può essere accompagnata da un di più. Non dico che debba esserci una cella per ogni detenuto, ma non è neanche giusto che ci siano troppe persone in una stessa cella».

Quante ce ne sono oggi? «Dipende, in quelle piccole due. In altre, fino a 8».

Qual è la situazione che la preoccupa di più? «Vorrei fare un esempio di eccellenza, perché bisogna lavorare in questo senso. Il carcere di Trento, che abbiamo inaugurato l’anno scorso, dimostra come se c’è dietro un’idea intelligente di detenzione le condizioni migliorano. Con meno persone per cella, servizi ben separati dalla parte abitativa, la possibilità di aprire elettronicamente cancelli e porte, alloggi per il personale». Cosa deve cambiare? «Il carcere non può essere un contenitore del disagio sociale.

E deve essere collegato con altre strutture territoriali. Penso alla sanità penitenziaria, che è un problema nel problema. E agli ospedali psichiatrici giudiziari, che dobbiamo riuscirea trasformare in luoghi di cura».

C’è il dramma dei suicidi. A volte legati alla tossicodipendenza. «Bisogna intervenire limitando l’afflusso in carcere, con una modalità per gli arresti in flagranza che eviti che 100mila persone attraversino una struttura penitenziaria.E aumentare il deflusso, scontare fuori – invece di dodici – gli ultimi 18 mesi di pena. Ovviamente escludendo tutti i reati che hanno un tasso di alta pericolosità sociale. Perché ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, né mi consolano i raffronti con gli altri paesi. L’anno scorso si sono uccisi in carcere oltre 60 detenuti, e 8 agenti di polizia penitenziaria. Troppi».

Bisogna intervenire sulla custodia preventiva? «Già nel codice attuale la misura cautelare in carcere dev’essere l’ultima delle misure, quando nessun’altra può fronteggiare le esigenze processuali».

da la Repubblica

"Antimafia tripla A: il rating alla legalità", di Rinaldo Gianola

Qual è il differenziale di costi, di trasparenza, di concorrenza che un’azienda attiva in un territorio infiltrato dalla criminalità paga rispetto a chi opera in una zona bonificata? C’è la possibilità che lo Stato, il governo, il sistema finanziario e bancario riconoscano alle imprese virtuose, dotate di sistemi anti-corruzione e di codici etici, un “premio”, non solo morale ma anche economico, per il loro ruolo svolto nel campo dell’innovazione e dello sviluppo di un sistema di concorrenza leale, trasparente, efficace?

La proposta avanzata ieri sull’Unità da Antonello Montante, imprenditore siciliano e vicepresidente di Confindustria, per il riconoscimento di un rating più alto alle imprese che si oppongono alla criminalità organizzata merita attenzione da parte del governo, delle forze politiche e sociali perché pone sul tavolo una questione centrale per il Paese. Una proposta che condividiamo perché costringe a confrontarsi non solo con la filosofia del contrasto alla mafia, ma con decisioni concrete che dovrebbero essere anche rapide.

LA PROPOSTA: un rating più alto per le imprese anti-mafia di Antonello Montante

Oggi tutto il Paese è chiamato a fronteggiare la crisi economica, l’instabilità dei conti pubblici, l’emergenza sociale di chi perde il lavoro e di chi ancora non lo trova, ma questa battaglia diventa più ardua nel Mezzogiorno dove i ritardi economici e industriali, la carenza di infrastrutture, la difficoltà di erogazione del credito, lo sfilacciamento del tessuto sociale sono aggravati dalle infiltrazioni e dalle minacce della criminalità organizzata.

Le parole di Montante sono un richiamo forte alla realtà, alle condizioni concrete in cui vive una gran parte del Paese.

Liberalizzazioni? Semplificazioni? Certificati on line? Meno burocrazia? Va bene, tutto bene, per carità. Però non facciamoci troppe illusioni. «Senza legalità non ci saranno liberalizzazioni e semplificazioni efficaci», scrive Montante, invitando tutti a riconoscere che nel piano di risanamento e di rilancio del nostro sistema, nel nostro impegno “Salva Italia”, bisogna porre la condizione irrinunciabile della difesa della legalità nel Sud, che significa combattere la mafia, la ’ndrangheta, ma anche pagare regolarmente le tasse, contrattualizzare i dipendenti e più in generale diradare quella gigantesca nube del “sommerso” che rappresenta ormai, come ha scritto Luciano Gallino, un “fattore strutturale” della nostra economia. Questo è il punto di partenza, pregiudiziale, essenziale per andare avanti, per raggiungere anche quella “coesione territoriale” tanto auspicata dal governo Monti.

Le imprese del Sud, quelle siciliane in particolare, hanno fatto grandi passi in avanti nella battaglia per la legalità, arrivando a imporre l’esclusione dalle associazioni industriali le aziende colluse con la mafia. La mobilitazione anche ideale attorno a questa battaglia è stata significativa, ma oggi non basta. Perché è proprio quando la crisi morde di più, quando le difficoltà pesano enormemente sulla regolare conduzione aziendale, che il ricatto malavitoso diventa più pericoloso, perché in certe situazioni, avverte Montante, «seguire con rigore i codici etici può risultare più problematico al fine di raggiungere guadagni sicuri da parte delle imprese».

E allora, proprio oggi, il Parlamento, il governo, i partiti possono riconoscere che lo spread negativo non è solo quello tra i Btp e i Bund, ma c’è un differenziale pesante che grava su quelle imprese che cercano la strada dello sviluppo e della competizione restando in prima fila nella lotta alla corruzione e alla criminalità. Montante chiede se non sia arrivato il momento di concedere a queste imprese coraggiose un rating più alto per lo stesso know how acquisito nella creazione e nella applicazione di solidi modelli aziendali improntati a principi etici.

Non sarebbe un regalo e nemmeno un privilegio, ma sarebbe la dimostrazione della vicinanza dello Stato, delle istituzioni a quelle forze economiche, a quegli imprenditori che hanno scelto la legalità come strada dello sviluppo.

da www.unita.it

Morto Scalfaro, il presidente del «Non ci sto»

L’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è morto nella notte nella sua abitazione romana.

Nato a Novara il 9 settembre 1918, Scalfaro è stato presidente della Repubblica dal 1992 al 1999. Politico ed ex magistrato italiano, è stato il nono Presidente della Repubblica dal 1992 al 1999.

IL DISCORSO: «A questo gioco al massacro io non ci sto», GUARDA IL VIDEO

BIOGRAFIA
Oscar Luigi Scalfaro, nato a Novara il 9 settembre 1918, vedovo di Maria Inzitari dalla quale ha avuto una figlia Marianna. Si laurea in Giurisprudenza nel 1941 ed è chiamato alle armi e assegnato al 38^ Reggimento di Fanteria a Tortona. Sottotenente di Commissariato in Sicilia è congedato, in quanto magistrato, nell’ottobre del 1942. Presidente dell’Azione Cattolica della Diocesi di Novara e Delegato Regionale per il Piemonte. Viene eletto deputato all’Assemblea Costituente il 2 giugno 1946 nelle liste della Democrazia Cristiana risultando capolista della circoscrizione Torino-Novara-Vercelli. È eletto deputato al Parlamento in tutte le legislature dal 1948 al 1992. Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dal 1954 al 1955 (Governo Scelba) si adopera attivamente per il rientro di Trieste all’Italia, per l’accoglienza dei profughi giuliano-dalmati e per l’attuazione degli accordi De Gasperi-Gruber riguardanti l’Alto Adige. Sottosegretario al ministero della Giustizia dal 1955 al 1958 (1^ Governo Segni -Governo Zoli) promuove e porta all’approvazione la legge che consente alle donne l’accesso alla carriera di magistrato. Sottosegretario al ministero dell’Interno dal 1959 al 1962 (2^ Governo Segni – Governo Tambroni – 3^ Governo Fanfani) promuove e porta all’approvazione la legge che istituisce la Polizia femminile.

da www.unita.it

******

La scomparsa di Scalfaro. Bersani: “Non abbandoneremo le sue battaglie”
Napolitano: “Un esempio di integrità e coerenza”. Il cordoglio del PD

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha reso omaggio alla figura di Scalfaro: “E’ con profonda commozione che rendo omaggio alla figura di Oscar Luigi Scalfaro nel momento della sua scomparsa, ricordando tutto quel che egli ha dato al servizio del Paese, e l’amicizia limpida e affettuosa che mi ha donato. E’ stato un protagonista della vita politica democratica nei decenni dell’Italia repubblicana, esempio di coerenza ideale e di integrità morale”.

Nato a Novara il 9 settembre del 1918, Scalfaro fu eletto in Parlamento nel 1946 e fu eletto Capo dello Stato nel 1992.
In quello che fu un settennato tra i più delicati, Scalfaro assistette allo sgretolamento della Prima Repubblica determinato dall’inchiesta su Tangentopoli.

Per il segretario del PD, Pier Luigi Bersani “Sono moltissimi i ricordi che Oscar Luigi Scalfaro lascia a chi ha avuto la fortuna di conoscere la sua umanità, la sua intelligenza, i suoi valori, la sua passione per la Costituzione e per l’Italia. I democratici oggi inchinano per lui le loro bandiere e ricordano soprattutto un grande presidente della Repubblica, che seppe guidare il nostro Paese in una delle sue stagioni più difficili e difese le istituzioni nel mezzo di una delle crisi più gravi. Lo fece con una decisione, una lucidità e un equilibrio impossibili da dimenticare.

La Costituzione, che aveva contribuito da giovanissimo a scrivere, era per lui, uomo di profonda fede religiosa, qualcosa di laicamente sacro. In nome della Costituzione ha difeso la centralità del Parlamento, il rispetto della legalità e la dignità delle istituzioni. Verso di lui come italiani e come democratici abbiamo una riconoscenza infinita e un grande dovere: non abbandonare le sue battaglie, ricordando sempre che la nostra è la Costituzione più bella del mondo, e continuare a impegnarci per l’idea di Italia che ha prima costruito e poi difeso nel corso di tutta la sua vita”.

“Giovani, non arrendetevi mai” furono le parole con cui Scalfaro si rivolse ai giovani nella sua ultima intervista, trasmessa da Youdem il 22 dicembre 2012.

Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea PD, ricorda “il suo appassionato amore per la politica e la democrazia, che ne hanno fatto un esempio raro di politico che univa senso della dignità delle Isituzioni, attenzione ai problemi reali dei cittadini, capacità di cogliere i segni dei tempi e le esigenze di cambiamento. Democrazia, Giustizia, Solidarietà e Pace sono state le stelle polari del suo lungo e fecondo impegno di uomo di Stato, ministro dell’Interno, Presidente della Camera dei deputati e Presidente della Repubblica.

Non ha mai smesso di partecipare attivamente alle vicende del Paese. Amava l’Italia e non si stancava di sollecitare tutti all’impegno civile, alla partecipazione alla cosa pubblica, alle responsabilità che ciascuno deve sentire per il bene comune. Da qui la sua strenua e coerente difesa della Costituzione e la sua ultima bella fatica, con i giovani e i ragazzi che incontrava andando in per l’Italia, di formazione e di educazione alla cittadinanza e ai valori della nostra Carta fondamentale.”

Enrico Letta, vicesegretario del PD, esprime “profonda tristezza per la scomparsa di Scalfaro. Ci ha insegnato il rispetto sacro per le istituzioni. Ha difeso e servito la Costituzione sopra ogni altra cosa”.

Anche Walter Veltroni esprime il suo cordoglio per la scomparsa di “una persona insieme severa e sorridente. Uno dei protagonisti della nostra storia repubblicana, un presidente amato e che aveva saputo fare della Costituzione la sua bussola in una delle fasi più difficili e per molti versi drammatiche della nostra storia. Scalfaro di questa nostra Costituzione è stato un difensore e un interprete fermo e appassionato”.

Il Sindaco di Torino, Piero Fassino ha espresso il cordoglio suo e della Città per la scomparsa del Presidente Emerito in un messaggio inviato alla figlia Marianna. Fassino considera Scalfaro un “riferimento morale costante per l’intera nazione, un punto di certezza costituzionale in anni difficili per la vita delle Istituzioni e della Repubblica. Ci ha insegnato che la politica deve alimentarsi ogni giorno di dedizione alla cosa pubblica, forte passione civile, solidi principi morali e che al centro dell’agire di una classe dirigente deve essere sempre il bene comune e la coerenza tra il dire e il fare. In queste ore lo ricordo con particolare commozione e gratitudine per i tanti momenti in cui ha voluto essermi vicino e per l’affetto paterno e l’amicizia profonda che sempre mi ha manifestato”.

la senatrice del PD Mariapia Garavaglia ha definito il Presidente scomparso “un modello da seguire e al tempo stesso un grande politico con il quale ho potuto godere nel corso degli anni del privilegio di un rapporto d’affetto che mi fa oggi piangere d’amaro dolore. Penso all’uomo, ma anche al Paese che il Presidente Scalfaro ha sempre servito senza esitazione, in momenti difficili, senza mai risparmiarsi anche sul piano personale. Penso all’Italia orfana di uno statista capace di parlare a tutti i cittadini, in particolare ai giovani, non solo colle parole ma con i fatti concreti e soprattutto grazie a un’indiscussa integrità morale. Con lui la Repubblica ha vissuto momenti travagliati ripensando ai quali qualcuno potrebbe essere tentato di considerarli già appartenenti al passato. È vero il contrario, la sua lezione deve rimanere viva e c’è chi, facendo politica, cercherà, nelle possibilità che gli sono offerte, di tenerne non solo vivo il ricordo, ma attuale il suo insegnamento”.

da www.partitodemocratico.it