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"Dagli indignati ai grillini le nuove mappe della politica", di Michele Smargiassi

C’è un modo progressista di rifiutare le categorie classiche e uno reazionario? Ecco cosa pensano gli studiosi
Queste forme di “agnosticismo” hanno una lunga tradizione nel nostro Paese

“Sopra”, “oltre”, “avanti”, “altrove”: deve convocare un´intera famiglia di avverbi di luogo chi vuole evadere la topografia politica del Novecento, disposta su una linea che corre da destra a sinistra. Affermare “non sono né di destra né di sinistra” rientra, è vero, nel diritto d´opinione del singolo cittadino, ma che succede quando il verbo viene coniugato al plurale collettivo, “non siamo né di destra né di sinistra”, quando è un movimento politico che rifiuta di collocarsi sugli assi cartesiani della democrazia occidentale? Succede che qualcuno gli ritorce addosso la furbizia: «Ci sono due modi di non essere né di destra né di sinistra: un modo di destra e uno di sinistra…».
È il beffardo «paradosso spaziale da disegno di Escher» con cui WuMing1, uno dei componenti “senza nome” del collettivo di scrittura che si affermò con l´allegoria storico-politica del romanzo Q, ha aperto le ostilità su Nuova rivista letteraria e poi su Giap, il blog che esprime il coté militante del sodalizio bolognese. Troppi, ormai, i movimenti sedicenti atopici nel mondo, dai nordici “partiti dei Pirati” agli Occupy Wall Street, per arrivare alle primavere arabe. Ma questo è «un velo che dobbiamo lacerare», sostiene WuMing1, e affonda: se gli Indignados spagnoli incarnano palesemente un “né-né” di sinistra, “egualitario, anticapitalista”, i grillini italiani per esempio sono senza dubbio un movimento di destra: “diversivo, poujadista, sovente forcaiolo”. Un testo articolato che procede citando criticamente George Lakoff e la sua coppia antitetica progressista/conservatore e utilizzando Fredric Jameson che intimava, nel suo Inconscio politico, a “Storicizzare sempre”.
Nel dibattito, ovviamente, i né-né rivendicano il loro rifiuto della polarizzazione obbligatoria con parole che risuonano nei sondaggi (l´ultimo quello di giovedì scorso dell´Ipsos dove il 57% ha risposto che «conta la capacità dei leader, che siano di destra o di sinistra è secondario») e in qualsiasi pizzeria: «destra e sinistra hanno fallito entrambe, fanno ugualmente schifo». Nascosto nel muto magma dell´astensionismo elettorale, è questo il voltafaccia dell´elettore identitario tradito, è il disgusto del consumatore insoddisfatto, «di chi non è contento dell´offerta sul mercato delle idee, comprensibile, perfino condivisibile», riconosce il politologo Piero Ignazi, studioso di postfascismo e quindi esperto di partiti “migratori”, «ma non ce la raccontiamo: non c´è altro modo, per chiunque chieda consensi, che collocarsi da qualche parte nel campo politico».
E la polarità destra-sinistra è ancora quella che meglio visualizza la mappa di quel territorio. Norberto Bobbio, che difese la bipartizione in un libro più citato che letto, avrebbe ribadito a questo punto che «chi dice di non essere né da una parte né dall´altra, non vuole semplicemente far sapere da che parte sta», lo ripete per lui uno dei suoi più accreditati eredi, Michelangelo Bovero: «È una collocazione inevitabile, qualunque altra cosa si affermi, perché destra e sinistra non sono concetti identitari, ma relazionali. Ti chiedono di rispondere non alla domanda “chi sei?”, ma a “dove sei rispetto agli altri?”: se non lo dichiari tu, saranno le tue relazioni a collocarti». Ma è proprio per evitare questo che il movimento di Beppe Grillo si impone di “non stare con nessuno”… «Allora saranno i tuoi “no”, la tua retorica, il tuo linguaggio a definire il tuo luogo politico».
Eppure la tentazione agnostica ha una lunga storia nella nostra democrazia caotica. A parte la parabola postbellica dell´Uomo qualunque, che oggi non si fa fatica a riconoscere come un movimento reazionario, la vicenda italiana ha conosciuto diverse anguille politiche. Quando nel ´76 la prima pattuglia di Radicali entrò in Parlamento, fu quasi zuffa per la scelta dei seggi: si piazzarono a un´estremità (quella sinistra, però…) per evidenziare la loro estraneità all´”arco costituzionale” e alla “partitocrazia” più che per autodefinizione logistica. La Lega Nord, com´è noto, ha rimpiazzato il destra-sinistra con altre polarità, geografiche o etniche, pseudonaturali, mitiche o folcloristiche. Ma anche Antonio Di Pietro, in più di una intervista, ha ceduto alla dolce tentazione del né-né. E tuttavia sono stati poi tutti quanti incastonati senza pietà a destra o a sinistra dalle rispettive alleanze politiche. Anche il pragmatismo localista delle liste civiche comunali, che visse un momento di fortuna alla fine degli anni Novanta, non riuscì a far credere a lungo al suo slogan: “i problemi non sono né di destra né di sinistra”, proprio perché, alla fine, governò le città alleandosi con la destra o, più raramente, con la sinistra.
Un luogo politico inesistente, il né-né? Per Gustavo Zagrebelski «esiste solo nel prepolitico, dove si incontrano i vasti princìpi condivisibili da tutti: ma appena si affronta il piano delle decisioni, la scelta è inevitabile». «Forse solo l´ecologismo radicale, che ha come orizzonte la specie, sfugge all´inevitabilità di scegliere fra l´interesse superiore dell´individuo o quello della comunità, fra destra e sinistra» aggiunge Carlo Galli, autore di Perché ancora destra e sinistra, «al di là dei contenuti che queste definizioni esprimono, e che variano nel tempo e nei contesti: non sono la stessa cosa nell´Italia odierna e negli Usa, o nell´Italia degli anni Cinquanta. Si può anche essere più cose contemporaneamente, come i grillini che sono di sinistra per l´attenzione ai diritti, e di destra per gli atteggiamenti populisti. Ma pretendere di stare da un´altra parte è insipienza politica, o più verosimilmente tattica».
Non c´è “terzismo” che tenga, sostengono dunque concordi i politologi: anche Sofia Ventura, considerata vicina al Terzo Polo politico, non deflette: «Se non ci fossero disposizioni nello spazio politico, non ci sarebbe neppure la politica. Le posizioni possono non essere stabili, di fatto non lo sono mai nel lungo periodo, ma chi si muove è tenuto a dire dove va». Negli anni del terrorismo, in effetti, chi diceva “né con lo Stato né con le Br” rivendicava una collocazione politica chiara, di sinistra critica ma non omicida. Mentre col suo preteso rifiuto bilaterale anticapitalista e anticollettivista Terza Posizione era fin troppo chiaramente un movimento di estrema destra.
Ma il marketing politico non ascolta certo le lezioni teoriche dei professori. Da Celentano a don Verzè, da Gaber a Grillo, proclamare la fuga sprezzante o snob o furbesca dalla geografia dell´agorà è una strategia d´immagine che paga sempre. Un grave difetto di lateralizzazione in un bambino di prima elementare impone una visita dal medico; in un adulto, può fondare una carriera.

da Repubblica del 28.1.12

"Uno scatto bipartisan verso l'Europa", di Antonio Puri Purini

Si profila una grande opportunità per le forze politiche di centrodestra e centrosinistra. Il ricorso a mozioni unitarie sull’Europa sembrava scomparso dall’agenda del Parlamento. L’ultima (dicembre del 2001) prima del Consiglio europeo di Laeken che lanciò il trattato costituzionale rimase lettera morta, indebolita dalle divisioni fra una maggioranza euroscettica e un’opposizione europeista. Leggi…

"Il Questionario di Davos", di Federico Fubini

Lo spread dei Btp sui Bund, il termometro della febbre, è più basso di quando Standard & Poor’s declassò l’Italia due settimane fa. Ieri era a quota 404 punti, allora era a 487. L’agenzia di rating quel giorno spiegò la sua decisione dicendo che il mercato di fatto l’aveva già presa, ma forse è proprio perché S&P si è limitata a seguire gli investitori che questi ora rifiutano di seguire lei: in quella scelta non c’era molta analisi dei dati di fondo del Paese, dalla riforma pensioni al taglio del deficit verso quota zero. Era solo la presa d’atto che un debitore può finire in difficoltà se i suoi creditori pensano che lo sia, lesinandogli dunque i prestiti.
Simili osservazioni si potrebbero muovere da ieri sera sul conto di Fitch. Anche la terza delle grandi società di valutazione ieri ha tagliato di due gradini il giudizio sull’affidabilità finanziaria dell’Italia, benché il suo rating resti sopra a quello delle concorrenti S&P e Moody’s. Ma le motivazioni suonano decisamente familiari. Fitch parla dell’assenza di quello che chiama un vero «muro taglia fuoco», un fondo salvataggi credibile in Europa. Evoca il rischio che una crisi si auto-avveri solo perché i mercati la pensano plausibile e finiscono quindi preda del panico, acuendo così la crisi stessa. Ricorda la recessione nella quale gran parte dell’area euro sta scivolando. Per la verità, l’agenzia cita anche fattori specifici sull’Italia, soprattutto il rischio che la caduta dell’economia vanifichi quanto fatto sinora per mettere i conti in ordine. È una tela di Penelope, l’austerità tessuta di giorno rischia di disfarsi con il calo del fatturato che può provocare. E anche qui i contro argomenti non mancherebbero: se un anno fa l’Italia meritava un rating due gradini sopra, perché tagliarlo ora che ha fatto manovre per il 5,5% del Pil e ha risolto il problema delle pensioni prima e meglio della Germania o dell’Olanda?
È una discussione che può andare avanti all’infinito, ma non sposta di un centimetro una realtà di fondo che ieri Fitch stessa ha ricordato: da questa crisi si esce solo con una ripresa vera e diffusa, cioè non subito. Noi italiani siamo i campioni del mondo dei colpi di reni, degli scatti improvvisi per balzare fuori da situazioni che sembravano disperate. Ma con tutte le incoerenze del caso, le agenzie di rating e i tanti investitori in questi giorni riuniti a Davos non si preoccupano di questo. Ci parlano di ordini temporali diversi. Il malessere dell’Italia viene da lontano e neppure il più efficiente dei governi lo risolverà mai in un anno solo.
Ripensare un Paese non può essere un esercizio una tantum. In questi dodici anni di euro, l’Italia ha perso trenta punti percentuali di competitività rispetto alla Germania e non li recupererà più con nessuna svalutazione: né esterna della moneta, né interna deprimendo all’infinito il potere d’acquisto dei salari. La sola via possibile per gli italiani è accettare che dopo un brillante scatto sui cento metri, guidato da questo governo, la corsa continuerà. La domanda di fondo di Fitch, di S&P e degli investitori è che Paese sarà questo fra cinque anni. Non vogliono sapere solo se riuscirà a finanziarsi nei prossimi dodici mesi. La tenuta anche nel breve periodo dipende in buona parte dalla consapevolezza che la metamorfosi che viviamo ha radici lontane e una dimensione nella lunga durata. Ma su questo la risposta devono darla gli italiani, non Mario Monti.

da Il Corriere della Sera

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“Visco: ma io sono ottimista il piano del governo piace”, di FRANCESCO MANACORDA

Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, è convinto che il piano del governo riesca a convincere in positivo i mercati

La bocciatura di Fitch, la promozione di Bankitalia. Nelle sale del World Economic Forum di Davos, dove il caso italiano appare decisamente meno preoccupante di un anno fa, il governo Monti incassa anche il pieno sostegno del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. «Sono ottimista – dichiara alla Bbc -. Molta fiducia è stata riguadagnata per alcune ragioni. Una sono le politiche messe in atto o in via di implementazione da parte dei governi. In Italia, senza dubbio, politiche molto importanti».

Nei colloqui riservati che Visco ha a Davos in questi giorni – ha visto altri banchieri centrali, lo stesso Draghi e il direttore del Fmi Christine Lagarde, mentre oggi parteciperà a un vertice sulla stabilità finanziaria i concetti espressi dal Governatore sono stati molto chiari. In sintesi: grande apprezzamento per il piano di bilancio del governo e per l’importanza strutturale della riforma delle pensioni. Secondo il Governatore quello dell’esecutivo Monti è un buon avvio, anche se ovviamente il lavoro è ancora da completare. Siamo all’inizio – ha spiegato Visco ai suoi interlocutori che gli chiedevano un giudizio sui primi atti del governo – delle riforme strutturali che devono avere effetti su produttività e competitività.

Un giudizio che pare condiviso da molti a Davos. Sarà inutile prendersela con il termometro – in fondo è questo il lavoro che le agenzie di rating dicono di fare – che informa dello stato di salute dei Paesi. Ma visto dalle pur fredde nevi svizzere il termometro di Fitch pecca certamente di qualche ritardo nella diagnosi del paziente Italia.

«Sono cautamente ottimista su quello che sta avvenendo in Italia commenta il Nobel per l’economia Michael Spence – alla luce di un programma di riforme che mi pare molto comprensivo. Certo, una cosa è convincere l’opinione pubblica della necessità delle riforme e un’altra è far passare il concetto che qualcuno deve pagare per le riforme. Penso che alla fine il pacchetto di riforme passerà, ma è il caso che l’Italia si muova velocemente, che il governo tecnico di Monti e il sistema politico negozino una soluzione rapida». Vede sostanzialmente ridotta la percezione del rischio-Italia anche l’ex ministro del Tesoro Domenico Siniscalco, oggi alla guida di Morgan Stanley in Europa, che avverte un sentimento collettivo migliore sull’intera zona euro e rovescia addirittura i termini: «Non è più l’Italia a mettere a rischio l’Europa. Semmai è il caso opposto. Come si è visto oggi (ieri, ndr) è il successo dei negoziati europei a determinare l’andamento dell’Italia sui mercati internazionali». E in generale, aggiunge Siniscalco, «il quadro europeo è un po’ migliorato. Soprattutto gli scenari catastrofici sono ritenuti improbabili».

«La grande differenza è che adesso c’è speranza, mentre prima non c’era – dice parlando del cambio di governo l’economista Daniel Gros, che dirige il Ceps di Bruxelles -. Ma ovviamente se dovessi dare una ricetta per l’Italia direi che dovete fare di più e più presto su tutti i fronti. Quello fiscale, quello strutturale e anche sul taglio dei costi». Sul rischio che una cura da cavallo, in Italia come in Europa, inneschi la quasi inevitabile recessione, Gros è lapidario: «Si può scegliere tra una situazione in cui prima si cala e poi si cresce, disegnando una sorta di V, oppure adeguarsi a una stagnazione di lunga durata».

Più ottimista rispetto al passato è anche Moisés Naim, l’economista del Carnegie Endowment, che guarda all’Italia, ma soprattutto all’Europa nel suo complesso: «La situazione è decisamente migliore adesso di due o tre mesi fa. L’Europa non andrà all’Inferno, anche se deve abituarsi a vivere in Purgatorio, con una crescita bassa o assente. Ma almeno eviterà la catastrofe che un anno fa appariva probabile». Per Naim il problema deriva anche dal fatto che «i mercati si muovono alla velocità di Internet e i governi, invece, alla velocità della democrazia». Inutile chiedergli quale delle due velocità seguano le agenzie di rating.

da www.lastampa.it

"Italia, troppi primati negativi", di Guelfo Fiore

Mandare a quel paese le agenzie di rating, ammettiamolo, dà gusto. Soprattutto se a farlo con noi sono i mitici “mercati”, fregandosene delle bocciature distribuite con irritante prodigalità. Compiuta però la gradevole operazione non è che ci ritroviamo meno malconci di prima. Forse la serie B assegnataci da Standard&Poor’s, in attesa che le sorelle la imitino, non è meritata, ma in quante altre classifiche l’Italia sta messa proprio male.
Non avranno, queste graduatorie, le stesse conseguenze delle retrocessioni decise da “Qui, Quo e Qua” – come le spernacchia Romano Prodi – però non ci fanno fare lo stesso una bella figura. E alla fine, sommate, danno materia agli estensori di outlook negativi e giustificano mortificanti downgrade.
Per cominciare, la più fresca, fornita qualche giorno fa dal ministro Severino alle camere: da noi occorrono in media 1210 giorni per conoscere, in primo grado, l’esito di un processo civile, siamo all’ultimo posto tra i paesi Ocse; secondo il “Rapporto doing business” l’Italia è al 157° posto su 183 paesi censiti per il recupero di un credito commerciale: occorrono 1210 giorni contro i 394 della Germania o i 399 dell’Inghilterra. Ecco l’inappellabile sentenza del ministro della giustizia: «L’inefficienza della giustizia civile può essere misurata in termini economici come pari all’1% del Pil», una robetta da 12 mld di euro, all’anno.
Un’altra graduatoria solo in apparenza meno svantaggiante per un moderno funzionamento del “sistema paese”: in Italia esistono 230 km di rete metropolitana (75 a Milano, 52 a Napoli, 38 a Roma, etc) mentre nella sola Londra sono 408, a Madrid 310, a Parigi 213 e Berlino 152. In un ipotetico scontro diretto Madrid batte Roma otto a zero.
Vediamo un pò come siamo messi a capelli bianchi: l’indice di vecchiaia, ovvero il rapporto tra ultrasessantacinquenni e ragazzi fino ai 15 anni (dati 2007) è pari a 143, quindi dopo la Germania (146,4%) siamo il paese più vecchio d’Europa mentre il valore medio dell’Ue è 108,6. E sul fronte opposto, dei nuovi nati? Ecco un primato che proprio non fa piacere: in Italia (dati 2008) le donne diventano madri più tardi, 31,1 è l’età media al parto, il valore più alto nell’Ue a 27.
Continuando: da molti anni, nascono meno di 600mila bambini l’anno (561.944 nel 2010), negli anni Settanta erano circa 900mila/l’anno; la fecondità è di circa 1,4 figli per donna, peggio di noi, nell’Europa a 27, Germania, Portogallo, Polonia, Ungheria e Romania.
Ritorniamo all’economia. Dando la parola al governatore della Banca d’Italia Draghi: «Le imprese italiane sono in media del 40 per cento più piccole di quelle dell’area euro. Fra le prime 50 imprese europee per fatturato sono comprese 15 tedesche, 11 francesi e solo 4 italiane». Il 95 per cento delle aziende ha meno di dieci dipendenti, le grandi imprese manifatturiere con oltre 250 addetti sono un terzo di quelle tedesche. Ancora Draghi, così ci capiamo: «La nostra produttività ristagna perché il sistema non si è ancora bene adattato alle nuove tecnologie, alla globalizzazione». A proposito di produttività, nei dieci anni precedenti l’esplosione della crisi internazionale, la produttività per ora di lavoro è cresciuta in Italia del 3 per cento contro il 14 per cento dell’area euro. E la competitività? Siamo piazzati al 48° posto (dati 2010), tra Lituania e Montenegro, la Germania è quinta, l’Inghilterra dodicesima, la Francia quindicesima.
Chiudiamo con la crescita economica: nel decennio 2001/2010 abbiamo realizzato la performance di crescita peggiore tra tutti i paesi dell’Ue con un tasso medio annuo di appena lo 0,2 per cento contro l’1,3 per cento registrato dall’Ue e l’1,1 per cento dalla zona euro.
Ed ora una spruzzata di tasse. L’evasione dell’Iva è tra più alte d’Europa: viene evasa il 36,39 per cento di quella che si dovrebbe pagare, ci supera solo la Spagna col 39,5 mentre Francia e Germania stanno tra 8 e 10 per cento. La pressione fiscale? Con i dati 2009 (oggi abbondantemente superati grazie alle ultime manovre) solo la Francia chiede di più ai suoi cittadini nell’Unione europea, 7438 euro l’anno contro i 7359 dell’Italia, tutti gli altri seguono. Naturalmente il calcolo sarebbe corretto se tutti i cittadini italiani pagassero ma poiché viene stimata un’evasione totale tra i 120 e 150 mld di euro l’anno, quelli che pagano – i soliti noti – pagano molto di più dei 7359 euro che la statistica gli assegna.
Soldi che vanno, soldi che vengono. Per esempio, sotto forma di aiuti alla famiglia: nel 2009 alle politiche per la famiglia è stato destinato l’1,4 per cento del Pil, siamo agli ultimi posti in Europa con Spagna e Portogallo, mentre la media europea è 2,1 per cento; Germania, Francia, Austria spendono il doppio.
Dell’occupazione, anzi della disoccupazione, sappiamo tutto: complessiva, giovanile, femminile, meridionale. Precari. E poi generazione neet (i giovani che non studiano né lavorano) e quelli che hanno rinunciato a cercare un’occupazione: occhio solo a chi squaderna (capitava col governo precedente) quell’8,6 per cento di disoccupati dicendo, con un accenno di sorriso, che siamo sotto la media Ue, in questo caso è bene ricordare che aggiungendo cassintegrati a zero ore, neet e quant’altro la suddetta “media Ue” ce la lasciamo abbondantemente alle nostre spalle. Con le classifiche non si finirebbe mai.
Ma già queste, senza pretesa scientifica, un’idea l’hanno resa. E non è proprio incoraggiante. Nè, vestendo i panni dei ragazzi e dei giovani, foriera di stima per le generazioni che li hanno preceduti. Al di là della speranza che sappiano fare di meglio (e non dovrebbe essere assai complicato) forse è bene far sapere loro che le famiglie italiane sono insuperabili certo su tante cose ma anche su questa: hanno un debito pari al 59,9 per cento del reddito disponibile contro l’89 per cento della virtuosa Germania, il 76 per cento della Francia, il 91 per cento medio dell’area euro, il 145 per cento della Gran Bretagna e il 155 per cento degli Stati Uniti. Fino ad ora è una delle condizioni che ci ha permesso di non affondare. E scusate se è poco.

da www.europaquotidiano.it

"La nostalgia dell´uguaglianza", di Adriano Sofri

L´equità è un´uguaglianza cui sono state messe le braghe, come ai nudi della Cappella Sistina. Bisognava farlo, perché ci fu un momento in cui l´uguaglianza smise di essere guardata negli occhi, e pagò il pegno della temerarietà.
Fu allora che le cose cominciarono a essere guardate di sotto in su, dal lato della disuguaglianza, e lo spettacolo era davvero madornale. Sul conto dello scandalo per l´”appiattimento” e il “livellamento” si banchettò a oltranza per qualche decennio, e la disuguaglianza – di soldi e di potere – non fece che moltiplicarsi. Non passa giorno senza che le statistiche ne registrino nuovi record. Assoluti, e non solo relativi. Non, cioè, di redditi che crescono, benché gli uni molto di più degli altri, bensì dei redditi che crescono a dismisura mentre gli altri diminuiscono. Le statistiche arrivano a sancire quello che le persone avevano capito da un bel po´, però fanno sempre il loro effetto. Ne vorrei leggere una sul reddito e il patrimonio medio dei presidenti del consiglio e dei loro ministri, dal dopoguerra a oggi. Dal fiabesco cappotto di De Gasperi all´anomalia di Berlusconi, elegantemente corretta dall´anomalia dei banchieri. Le statistiche hanno un contesto, e il contesto cambia. I politici di professione a un certo punto si invaghirono del denaro e lo arraffarono alla rinfusa: tempi di gente nova e súbiti guadagni. Allora Massimo Cacciari, a un amico che lo invitava a iscriversi al Partito socialista, rispose: “Grazie no, sono ricco di famiglia”. La ruota gira. Oggi essere ricco di famiglia non è la migliore delle raccomandazioni. Specialmente essere troppo ricco di famiglia. Buffett si chiede se diseredare o no i figli, Romney è alle prese con la sua dichiarazione dei redditi e delle tasse, Obama va in campagna contro i grandi patrimoni. Obama invoca “i valori americani”: sarebbe curioso che in omaggio ai valori americani uno non venga eletto presidente, e neanche nominato candidato, perché è troppo ricco. A Davos, montagna incantata, i contestatori si sono piazzati – alla periferia – dentro tende da pellerossa e igloo: il sindaco, dicono le cronache, ha dato una mano a costruire l´igloo.
A quanto pare, oggi basta esser ricchi per star lì lì per “scendere in politica”. Ma la fila di aspiranti a una nuova leadership politica che vengono da liquidazioni troppo cospicue deve rifare i conti, un po´ dovunque. Si sente un brontolio che sale da sottoterra, e già trova i suoi varchi. Detestate Landini, diffidate di Camusso: arriverà Savonarola. Poi, perché la ruota gira, lo brucerete, ma intanto vi rincorreranno coi forconi e i crocifissi.
Si è (giustamente) insistito sul ruolo dell´invidia sociale, sul suo ripiegamento sul vicino, sulla sobillazione della guerra fra i poveri. È vero, può arrivare un punto in cui i poveri antepongano il desiderio della rovina altrui a quello del proprio miglioramento. Però non va sottovalutata nemmeno la disgrazia dei ricchi (dico ricchi e poveri come se si potesse generalizzare, ma ho l´attenuante dei precedenti, per esempio i vangeli). Si dovrebbe spiegare ai ricchi che anche se i poveri non fossero troppo poveri, i ricchi sarebbero lo stesso piuttosto odiosi e odiati. Non lo capirebbero. I ricchi infatti sarebbero infelici se non ci fossero i poveri, e in particolare i troppo poveri. È quella, la ricchezza. È un confronto. Voi e noi. La fotografia di Valletta e del mendicante. Secondo Luca, Gesù disse: “Beati i poveri…”, e però completò: “Ma guai a voi, i ricchi…”. In economia come in psicologia, sulla terra come nel regno dei cieli, ricchi e poveri si tengono come due che facciano l´altalena, e però un trucco ha bloccato l´altalena. E anche quando a furia di puntare i piedi si compie uno sblocco improvviso – una rivoluzione, diciamo – quelli arrivati su si arrangiano a restarci. Nel vangelo del resto la sfortuna dei bonus e delle liquidazioni dei manager era stata annunziata con una spiritosa comprensione: il giovane cui il Maestro propone di vendere tutto, dare il ricavato ai poveri e seguirlo, si rabbuia e se ne va tutto rattristato, “perché era molto ricco”, il poveretto.
Siccome ho due diletti bassotti, ho letto Daniel Rigney. I suoi due bassotti sono gemelli, maschio e femmina. Il maschio è più forte, e quando ha finito con la propria scodella spinge via la sorella e finisce la sua. Dunque diventa ancora più forte, e la prossima volta mangerà una porzione ancora maggiore. La femmina potrebbe anche morire, mentre l´altro cresce. Anche fra i miei due le cose andrebbero così, se io non fossi un animalista keynesiano e non facessi la guardia alla scodella debole. Rigney (“Sempre più ricchi, sempre più poveri”, Etas) tratta sistematicamente dell´effetto san Matteo, così nominato da Robert K. Merton. “A chi ha sarà dato e sarà nell´abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” – ma Matteo, inflessibile coi ricchi, sta parlando del vantaggio cumulativo di chi ha la grazia e il senso delle cose divine, non di soldi. Infatti la disuguaglianza e la sua crescita illimitata coprono una quantità di campi: e se ce n´è uno che, nonostante gli scandalosi privilegi nella scuola e l´istruzione, vede più equilibrata o a volte rovesciata la piramide è il sapere, dal momento che ricchi e potenti sono spesso, e non per caso, ignoranti, e giovani e precari, non a caso, capaci di conoscenza e saperi.
C´è anche in giro, motivata dallo slogan delle liberalizzazioni, dal ripudio del consociativismo, dall´insofferenza per lacci taxi eccetera, un fastidio per le rappresentanze tutte, un “tana libera tutti”. Viene in mente il famoso discorso parlamentare di Giovanni Giolitti (che non fu solo il ministro della malavita) nel 1901: “Io poi non temo mai le forze organizzate, temo assai più le forze disorganiche (Bravo! Bene!) perché se su di quelle l´azione del governo si può esercitare legittimamente e utilmente, contro i moti inorganici non vi può essere che l´uso della forza”. A un rivoluzionario, quella sembrava un´astuzia tesa a intrappolare la spontaneità dei movimenti e delle lotte. A chi ora si voglia riformatore dovrebbe ricordare che la dissoluzione dei legami e del confronto sociale porta con sé una costellazione di rivolte particolari, la cui quota di spontaneità è confiscata da professionisti congiunti di politica e antipolitica. Non è quello che sta avvenendo? Giolitti invocava “un miglior riparto dei prodotti della terra e dei capitali”. Siamo al peggior riparto. Un governo liberale è un dono del cielo – del colle, dell´accerchiamento europeo e mondiale, dell´altura che volete – anche perché ridà a una sinistra riformatrice un interlocutore avversario di cui essere all´altezza. Difficile sollecitare una crescita senza favorire i consumi, impossibile uscire dalla pania senza convertire produzioni e consumi. Alla conversione appartiene una nostalgia dell´uguaglianza guardata negli occhi, e un impegno ad accorciare le distanze. Anche a guardare di sotto in su, che cosa c´è di più moderato del proposito di ridurre le disuguaglianze – di sedare gli eccessi, di tagliare gli artigli e riportarli a unghie? Eppure.

da La Repubblica del 28 gennaio 2012

Per l’occupazione giovanile e femminile

Contributo del PD al confronto tra forze sociali e governo sul tema del Lavoro, in coerenza con le proposte approvate dall’Assemblea Nazionale del PD del maggio 2010 e dalla Conferenza per il Lavoro di Giugno 2011.

Il cambiamento della politica macroeconomica nell’area euro per uno sviluppo sostenibile è condizione necessaria per aumentare l’occupazione e contrastare la precarietà, in particolare giovanile e femminile.

A complemento di tale strategia, in Italia si possono prevedere alcuni interventi specifici per il mercato del lavoro:

– 1 la definizione di un contratto per l’ingresso dei giovani e per il reingresso dei lavoratori e delle lavoratrici deboli al lavoro stabile (sostituisce il “contratto di apprendistato professionalizzante”, il “contratto di apprendistato di alta qualificazione” ed il “contrato di inserimento”). Uno strumento di inserimento e reinserimento formativo caratterizzato da durata da 6 mesi a tre anni definita dalla contrattazione collettiva, livello contributivo inferiore a quanto in vigore per i “contratti atipici”, retribuzione crescente fino ai livelli delle qualifiche corrispondenti previsti nel contratto collettivo nazionale di riferimento, agevolazioni contributive per il triennio successivo alla trasformazione in contratto a tempo indeterminato secondo le regole vigenti (incluso art. 18 dello Statuto dei Lavoratori). Durante la fase iniziale, il licenziamento prevede una compensazione monetaria crescente in riferimento alla durata del rapporto di lavoro;

– 2 la drastica riduzione delle forme contrattuali precarie (contratto di collaborazione coordinata e continuativa, contratto a progetto limitato alle alte qualifiche, associazione in partecipazione, rapporti a partita Iva in mono-committenza o a committenza prevalente, ecc), la limitazione per ogni impresa dell’utilizzo dei contratti a tempo determinato (in riferimento a quote e causali) e l’eliminazione dei vantaggi di costo delle forme contrattuali flessibili residue;

– 3 nel quadro di una complessiva riforma degli ammortizzatori sociali, ad esempio secondo le linee della legge delega del 2007 condivisa da tutte le parti sociali, un’indennità di disoccupazione universale e tutele fondamentali (malattia, infortunio, ferie, congedi parentali, sostegno ai carichi familiari) ridefinite ed estese a tutte le tipologie di lavoro, dipendente, autonomo;

– 4 una retribuzione o compenso minimo orario, determinato in relazione ai minimi dei contratti nazionali di riferimento per i rapporti di lavoro fuori dal contratto nazionale;

– 5 in particolare, per l’occupazione femminile, il potenziamento dei servizi pubblici per conciliare lavoro e maternità ed un significativo aumento della detrazione fiscale per le mamme che lavorano; il ripristino delle norme di contrasto alle “dimissioni in bianco” e l’universalizzazione dell’indennità di maternità.

– 6 Le politiche attive per il lavoro e la riforma dei servizi per l’impiego, al fine di costruire sinergie tra intervento pubblico e privato profit e non profit, e della formazione professionale e della formazione continua.

– 7 La defiscalizzazione per i primi tre anni di attività delle imprese avviate da giovani.

– 8 La regolazione e la remunerazione degli stage.

– 9 La riforma del processo del lavoro.

– 10 L’introduzione di uno Statuto per i lavoratori autonomi ed i professionisti.

Documento elaborato a cura di Stefano Fassina, responsabile del Forum Lavoro della Segreteria nazionale del PD

"Il problema non è il titolo di studio ma i baroni", di Benedetto Vertecchi

Mi auguro che l’accantonamento, sia pure temporaneo, della proposta di intervenire sul valore legale dei titoli di studio sia solo la premessa del suo abbandono. Ancora una volta, di fronte alla crisi innegabile che attanaglia le nostre università, la soluzione è stata trovata in una cura sintomatica. Non si interviene sulle cause del disagio profondo che limita la capacità dei nostri atenei di assumere quel ruolo propulsivo che dovrebbero avere nello sviluppo del Paese e ci si trincera dietro interventi di facciata, che lasciano che il male annidato nel sistema degli studi superiori continui a crescere. Nessuno dubita che il valore legale dei titoli di studio appaia, nelle condizioni attuali, molto appannato, e che non si possa avere nei confronti delle certificazioni accademiche la fiducia che ne dovrebbe accompagnare il rilascio. In queste condizioni abolire, o anche limitare com’era nelle proposte avanzate nei giorni passati, il valore legale dei titoli equivarrebbe a lasciare che quanti hanno operato per disgregare la cultura accademica, trasformando le università in centri di potere, abbiano le mani libere per proseguire nella loro opera disgregatrice. Non serve dunque intervenire su patologie certamente fastidiose, ma che rappresentano solo una conseguenza vistosa della caduta di una tensione insieme culturale e morale nelle nostre università. Occorre impegnarsi per rendere, se non impossibili, almeno drasticamente più difficili le pratiche che sono all’origine della decadenza degli studi e del livello non eccelso della ricerca. Mi rendo conto che è difficile dire ciò che sto dicendo, e che si rischia di fare tutt’uno dei molti che s’impegnano per onorare la loro condizione di studiosi e di quanti appaiono presi da tutt’altre faccende. Individuare le cause del deterioramento delle attività accademiche costituisce la condizione per svolgere al meglio i compiti collegati all’insegnamento superiore e alla ricerca scientifica. È da una nuova qualificazione delle attività accademiche che può derivare una rinnovata fiducia nei titoli di studio. Non è diverso il problema se si nega la validità delle notazioni valutative .Non tener conto dei punteggi attribuiti si presenta come una misura di moralizzazione per contrastare l’inflazione di voti positivi attribuiti in sede d’esame (talvolta in discipline cui corrispondono solo vaghi tentativi di attività didattica), mentre finisce col nascondere l’effettiva differenza di qualità esistente tra le sedi e spesso all’interno della stessa sede. Nessuno si lascia ingannare da notazioni valutative manifestamente irrealistiche, mentre sarebbe più difficile prendere le distanze da giudizi indifferenziati, che coprono pudicamente risultati che non si comprende come possano essere accettati. Quello delle notazioni valutative potrebbe essere il punto di partenza di un percorso di moralizzazione della vita accademica ben più significativo degli interventi volti a rimuovere manifestazioni evidenti, ma che non possono essere considerati altro che l’effetto di quanto non sta funzionando nelle nostre università. Si possono pensare molte soluzioni per restituire credibilità alle certificazioni accademiche senza coinvolgere in un intervento distruttivo i titoli di studio: l’autonomia delle sedi va salvata, ma non si può consentire che diventi un feticcio. Chi è contrario al valore legale dei titoli ricorda che in altri Paesi esistono condizioni diverse. È vero. Ma è anche vero che in Italia, se abbiamo un sistema degli studi che in qualche modo (potrebbe farlo meglio) risponde alla domanda sociale di istruzione, ciò si deve all’intervento dello Stato. Non sono stati i privati a sostener la crescita degli studi (a tutti i livelli). La perdita del valore legale dei titoli sarebbe un regalo per chi, a fronte di una manciata di spiccioli investiti, ha raccolto vantaggi sostanziosi.

da L’Unità