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Mezze parole, mezze decisioni, passi a metà, non servono più

“Il PD si sta impegnando perché ci sia una piattaforma comune dei progressisti europei, così che nella crisi già si veda finalmente un’Europa come comunità e non solo come tavolo di nazioni”. Dichiarazione di voto di Pier Luigi Bersani alla Camera dopo il discorso del premier Monti sulla politica europea dell’Italia

Signor Presidente, come si sa noi sosteniamo lealmente e con le nostre idee il Governo Monti, che per noi è un Governo di emergenza e di impegno nazionale. Fuori sacco dirò che al Governo di emergenza formuliamo l’auspicio che voglia presidiare visibilmente emergenze sociali che si mostrano nel Paese; un Paese che deve essere guardato in faccia certamente nell’esigenza di riforma, ma anche nelle difficoltà più immediate ed acute che sta vivendo. Al Governo di impegno nazionale – arrivo al tema di oggi – chiediamo, fra le altre cose, di rimettere in carreggiata il nostro ruolo europeo e di ridarci il nostro profilo europeo, che non è quello di parlare di Europa come se si bussasse alla porta di casa altrui per vedere se qualcuno ce la apre, ma parlarne come si parla della casa comune, che in questo momento sta pericolosamente incrinandosi, parlare da Paese fondatore cioè, che non rinuncia all’obiettivo storico dell’unità federale dell’Europa.

Dentro la crisi, quel grande obiettivo – voglio dirlo semplicemente e chiaramente – rischia di sfuggirci di mano e l’euro rischia di diventare non il nuovo inizio ma la colonna d’Ercole del sogno europeo. Dobbiamo assolutamente reagire, partendo certamente dalle questioni economiche e finanziarie, ma senza fermarci lì. Sul tema economico e della finanza pubblica, al di là delle diplomazie, credo vada detto con chiarezza che questa divisione dell’Europa in buoni e cattivi ci sta portando ad un disastro collettivo.

È vero, dopo l’euro i Paesi più indebitati avrebbero dovuto approfittare del calo dei tassi per aggiustare le cose a casa propria, è vero, e me lo si lasci dire, conti alla mano e per amor di verità, questo fu fatto dai Governi di centrosinistra, che lasciarono, andandosene via, un avanzo primario superiore al 3 per cento. Obiettivamente e conti alla mano non fu fatto dopo e adesso dobbiamo e vogliamo rimediare, ma è altrettanto vero che l’euro è stato un toccasana per dei surplus come quello tedesco. Un grande tedesco, il cancelliere Helmut Schmidt, in un recente discorso che andrebbe letto nelle scuole, secondo me, ha detto: «Gli avanzi di noi tedeschi sono in realtà i deficit degli altri».

da www.partitodemocratico.it

"Laurea triennale abbandonata", di Luigi Berlinguer

Lo studio della Fondazione Agnelli di cui Il Sole 24 Ore ha dato conto ieri è, come sempre, un contributo serio per l’Italia e non solo. Vorrei però fare qualche precisazione. Lo studio evidenzia una diminuzione delle immatricolazioni negli atenei italiani. È un fenomeno preoccupante ma sarebbe sbagliato imputarlo al Processo di Bologna.

La commissione cultura del Parlamento europeo ha approvato ieri la mia risoluzione per il rilancio del Processo di Bologna, ovvero lo spazio europeo dell’istruzione universitaria. Il voto favorevole, praticamente all’unanimità (due soli i contrari), è stato espresso dai parlamentari popolari, socialisti e democratici, verdi, liberali.

Lo spirito di questa scelta segna una svolta per il mondo universitario: rilancia infatti il processo di armonizzazione dei diversi sistemi e afferma che, insieme alla competenza dei singoli Stati, esiste anche una competenza in materia dell’Unione Europea. L’obiettivo principale è quello di far sì che le diverse università “nazionali” offrano titoli riconosciuti da tutti gli Stati d’Europa.

Naturalmente si tratta di un percorso che individua alcune misure da adottare per tagliare un traguardo così importante. Un traguardo che potrà assicurare ai laureati la spendibilità ovunque del titolo di studio, ovvero la concreta possibilità di poter lavorare in ogni parte d’Europa. C’è in questa scelta la consapevolezza che l’istruzione universitaria è leva della crescita e strumento per uscire dalla crisi che ci attanaglia. Ricordo che uno degli obiettivi cruciali della strategia di Europa 2020 è che il 40% della leva d’età arrivi alla laurea. L’Italia, purtroppo, è ampiamente al di sotto di tale percentuale.

Nella risoluzione approvata c’è anche l’elenco dei difetti e alcuni possibili rimedi, tanto attraverso prescrizioni di carattere generale quanto con incentivi ed azioni che sostengano gli sforzi delle università più virtuose. Esistono problemi per quel che riguarda le discipline umanistiche. Occorre, ad esempio, approfondire la definizione interna di laurea triennale e, parallelamente, la reale spendibilità di tale titolo nel lavoro.

Lo studio della Fondazione Agnelli di cui Il Sole 24 Ore ha dato conto ieri è, come sempre, un contributo serio per l’Italia e non solo. Vorrei però fare qualche precisazione. Lo studio evidenzia una diminuzione delle immatricolazioni negli atenei italiani. È un fenomeno preoccupante ma sarebbe sbagliato imputarlo al Processo di Bologna. Infatti i dati dello stesso studio registrano, nel periodo immediatamente precedente alla crisi economica, il calo dal 20 al 17% degli abbandoni nel corso del primo anno di università e dal 24 al 13% degli immatricolati inattivi. Oggi la diminuzione delle immatricolazioni è piuttosto l’allarmante conseguenza della crisi economica e della drammatica riduzione della capacità di spesa delle famiglie. Occorrono, ín questa fase, misure di sostegno per l’accesso all’università. Inquadriamo allora il problema e chiamiamolo con il suo nome: più fondi per il diritto allo studio. So che il ministro Profumo ha chiaro il problema.

Lo studio della Fondazione Agnelli mette in evidenza un confortante dato “sociale”: il 74,6% di chi arriva alla laurea triennale del Processo di Bologna ha genitori non laureati. Vorrei concludere affiancando allo studio della Fondazione Agnelli i dati forniti dalle recenti ricerche di Alma Laurea e Stella sempre sul mondo universitario. Emerge con chiarezza il fatto che i governi hanno lasciato a se stesso il Processo di Bologna, non lo hanno sostenuto né corretto come sarebbe stato necessario. Eppure, a un anno dal conseguimento del titolo, oltre il 40% dei laureati triennali e circa il 60% dei laureati specialistici trova una occupazione in un mercato del lavoro colpito dalla crisi economica e che, come è noto, penalizza (e molto) i più giovani.

Domani a Roma, su input del Consiglio universitario nazionale (Cun) e del Comitato per la divulgazione della cultura scientifica e tecnologica, si discuterà delle correzioni e del sostegno al Processo di Bologna. Un percorso irreversibile che allarga all’Europa l’orizzonte degli studi, della ricerca, della mobilità studentesca e del lavoro. Il Processo di Bologna, nonostante le criticità, restituisce alle università (anche agli atenei italiani) quello spirito universalistico che non può essere rinchiuso negli angusti confini nazionali.

da Il Sole 24 Ore, pubblicato il 25 gennaio 2012

"I laureati non sono tutti uguali", di Marco Meloni

L’abolizione del valore legale del titolo di studio è come l’araba fenice, ma in questo caso “cosa sia nessun lo sa”. Il suo ruolo nel dibattito pubblico si riduce spesso a una sfida tra due tifoserie che non si comprendono, né si sforzano di capire di cosa stiano parlando. Proviamo piuttosto a entrare nel merito delle questioni, per cogliere davvero l’opportunità di varare riforme utili in tempi rapidi e far maturare il nostro discorso pubblico. Partiamo dai fatti. Come ha correttamente ricordato ieri su queste colonne Giliberto Capano, non possiamo abolire qualcosa che non esiste.
Il complesso concetto di valore legale dei titoli, studiato tempo fa da Sabino Cassese, richiama un insieme di norme che, in termini generali, disciplinano da un lato l’autorizzazione ad istituire le università, e dall’altro la capacità delle medesime di rilasciare attestati dotati di effetto giuridico. A loro volta, a questi ultimi sono connessi la facoltà di svolgere esami di stato per l’esercizio di alcune professioni (medico, ingegnere, eccetera), i meccanismi di reclutamento tramite concorsi e le progressioni di carriera nella pubblica amministrazione.
Entro questi confini, il Pd ha formulato una serie di proposte volte a introdurre maggior rigore nell’affidamento della capacità di conferire titoli di laurea, ad affievolire gli effetti formali di questi ultimi per premiare le capacità individuali e a eliminare le storture tipiche della logica del “pezzo di carta”. Entrando nel merito, crediamo anzitutto che le norme recentemente adottate per l’accreditamento debbano prevedere requisiti rigorosi e verifiche periodiche, in termini di qualità della ricerca e della didattica, di strutture al servizio degli studenti, di corretto rapporto tra numero di docenti e di studenti. Per questo è fondamentale il corretto funzionamento della valutazione.
Quanto agli effetti del titolo rilasciato degli atenei accreditati, è chiaro che chi è responsabile della vita di un paziente o della tenuta di una diga è bene che sia laureato in medicina o in ingegneria. Ma vi sono ampi spazi d’intervento. Anzitutto si può abolire il valore legale del voto di laurea, ovvero la facoltà di considerarlo ai fini di un concorso. I concorsi – che devono tornare a essere l’unica via di accesso all’impiego pubblico – dovranno essere organizzati meglio, ma le competenze di ciascun candidato saranno affidate totalmente alle prove concorsuali tarate sulle specifiche esigenze di ciascuna pubblica amministrazione. Allo stesso scopo mira l’ampliamento delle classi di laurea che consentono l’accesso ad impieghi che non richiedono competenze specifiche.
Ancora, si può cancellare la connessione tra l’acquisizione di un titolo di studio nel corso della carriera nelle pubbliche amministrazioni e le progressioni interne. La finalità è bloccare i diplomifici, che da un lato mortificano il sistema universitario, dall’altro sottraggono impegno al lavoro dei pubblici dipendenti orientandoli verso l’acquisizione di titoli di studio fittizi. È invece interesse delle amministrazioni valorizzare le competenze acquisite dai dipendenti attraverso la valutazione delle capacità mostrate “sul campo”. Si dovrà poi ampliare nel massimo grado possibile la fruibilità della laurea triennale e riconoscere lo specifico valore formativo del dottorato di ricerca, oggi per niente valorizzato dalle pubbliche amministrazioni.
Si tratta di misure semplici ed efficaci che garantiscono effettivamente che il formalismo non prevalga sulle capacità e sul merito individuale. Ora sarebbe invece sbagliato allontanarsi dal nocciolo della questione, allargando la discussione ad altri temi. L’unico effetto sarebbe infatti impedire ogni riforma e rimandare alla prossima occasione un confronto fondato solo su preconcetti.
Perciò è insensato pensare che si possa parametrare il voto di laurea al ranking delle università, col paradosso di attribuire ai titoli di studio un valore legale addirittura maggiorato. La differente preparazione fornita da un corso di laurea potrà emergere attraverso le migliori performance individuali nelle prove concorsuali. Altrettanto sbagliato è collegare questo tema con l’aumento della tassazione (abbiamo le tasse più alte d’Europa dopo la Gran Bretagna, ricordo) finanziata coi prestiti: perché gli studenti possano realmente scegliere le università migliori è necessario che funzionino orientamento e valutazione, e, alla base, un vero diritto allo studio. Temi sui quali l’Italia è molto indietro e che dovranno essere, a nostro avviso, tra le principali priorità di questo governo.

da www.europaquotidiano.it

E i docenti difendono gli universitari: "Spesso devono lavorare", di Maria Novella De Luca

Pochi tutor e atenei sovraffollati ecco perché l´università dura di più
“In Italia c´è un docente ogni 800 ragazzi, contro l´uno a uno anglosassone”

Nelle loro università, spesso, hanno dovuto fronteggiare occupazioni e proteste, giornate dure, tensioni, assemblee, cortei. “Loro” infatti sono l´istituzione, l´ateneo, rappresentano il sistema, sono la controparte. Eppure questa volta rettori, docenti e studenti sembrano essere dalla stessa parte della “barricata”, singolarmente uniti nel respingere al mittente (cioè al sottosegretario al Welfare Michael Martone) quell´accusa di “sfigati” e fuoricorso lanciata agli universitari d´Italia. Perché i problemi degli atenei sono così grandi, e così grande è la crisi che riguarda il futuro dei giovani, che quella parola, “sfigati”, anche se molto “teen” suona davvero un po´ offensiva.
Spiega Massimo Maria Augello, rettore dell´università Pisa, 50mila studenti in una città di 90mila abitanti: «Il tema è sensibile, ma è davvero fuorviante trattarlo così, anche perché i laureati italiani, vorrei ricordarlo, non sono secondi a nessuno. È vero però che esiste una parte di ragazzi che all´università si perde, rallenta, abbandona. E infatti noi abbiamo da poco distribuito 50mila questionari a tutti i nostri studenti, proprio per indagare le cause di questa dispersione. Ma credo che alcune risposte le abbiamo già: dalla mancanza della figura del tutor all´assenza di una guida nella scelta delle facoltà. E non dimentichiamo che in Italia c´è un numero crescente di universitari lavoratori, perché le famiglie non riescono più a mantenerli agli studi». Chi oggi arranca, perde tempo, ha infatti un profilo assai diverso dal “fuoricorso” degli anni Settanta e Ottanta, pur restando accomunato, questo dicono le statistiche, dalla provenienza, spesso, da famiglie con reddito basso.
Ma i dati dicono anche che dopo la famosa “riforma Berlinguer”, che istituì in Italia la laurea triennale, seguita, facoltativamente da altri due anni di specialistica, il numero globale dei laureati è sensibilmente cresciuto, e quelli in corso sono passati dall´11,1% del 2000 al 39,1% del 2009. Anche se nessuno, certo, ignora la distanza, che ancora ci separa, nel numero dei laureati, da paesi come la Germania, l´Inghilterra, gli Stati Uniti.
«Non me la prenderei con gli studenti, ma con le strutture che ingenerano questi risultati», afferma infatti Marco Mancini, presidente della Conferenza dei rettori universitari italiani. «Perché se uno studente va male è colpa dello studente, se due studenti vanno male è colpa degli studenti, ma se tre vanno male c´è qualcosa che non funziona nel sistema universitario». E quel qualcosa, racconta Paolo Ferri, docente di Tecnologie e Nuovi Media all´università Bicocca di Milano, è molto legato, oggi, a quanto succede in Italia. A quella mancanza di prospettive e di futuro, come suggerisce anche il rettore dell´università di Pisa Augello, «che i ragazzi percepiscono ovunque, e che ha portato alla crisi di identità di un´intera generazione». «Chi parla di giovani “sfigati” – suggerisce Paolo Ferri – forse non sa che un´enorme numero di giovani universitari oggi lavora. Sono loro l´esercito dei parasubordinati, per pagarsi una stanza a 500 euro al mese in città dove non esistono residenze universitarie fanno di tutto, commessi, camerieri, mi è capitato più volte di incontrare miei studenti dietro la cassa del supermercato». Ma anche secondo Ferri, una grossa responsabilità dietro gli abbandoni di tanti studenti ce l´ha il sistema universitario. «Tra i prof e i ragazzi c´è spesso una distanza siderale, basti pensare che in Italia il rapporto è di un docente ogni 800 studenti, contro l´uno a uno delle università anglosassoni. E i docenti italiani – ammette Ferri – lavorano davvero poco, soltanto 350 ore l´anno…Nonostante questo il numero dei laureati in corso aumenta, alla Bicocca siamo oltre il 60%».
Ricorda infatti l´ex ministro dell´Istruzione Luigi Berlinguer, che varò appunto alla fine degli anni Novanta la riforma del 3 più 2: «Da allora sono diminuiti i fuoricorso e gli abbandoni ed è enormemente cresciuto il numero dei laureati, che oggi sono in Italia il 20% tra i giovani dai 25 ai 34 anni, contro il 26% della Germania, il 41% degli Stati Uniti, e il 45% del Regno Unito. Ma queste differenze dimostrano che l´Italia ha bisogno ancora di un gran numero di laureati…Eppure il sostegno a chi non ha mezzi per studiare è bassissimo, il rapporto con l´università resta per la maggior parte degli studenti molto lontano, è evidente che c´è bisogno di cambiare l´impianto didattico. E spero che il ministro Profumo, che stimo, possa agire in questo senso». Ma il percorso continua, dice ancora Berlinguer, ripartendo proprio da quel “processo di Bologna” che doveva istituire, entro il 2010, uno Spazio Europeo dell´Istruzione Superiore. «E proprio ieri la commissione Cultura del Parlamento Europeo di cui faccio parte – aggiunge Berlinguer – ha votato all´unanimità un provvedimento che rilancia, appunto, il processo di Bologna».

da la Repubblica

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“L´amaca”, di MICHELE SERRA

Anteporre una buona scuola professionale a una mediocre e tardiva laurea, come ha fatto il viceministro Martone, significa affrontare un tabù. Nella tradizione classista del nostro Paese, le scuole professionali e i lavori manuali sono considerati da sempre lo sbocco naturale dei figli dei poveri; la laurea, il dovuto approdo dei figli dei ricchi. E dunque, quel politico che faccia l´elogio delle scuole professionali rischia di passare per un reazionario che non vuole aprire a tutti le porte dell´università. Leggi…

"Non colpevolizzare i ragazzi, introdurre sistemi premianti", di Mila Spicola

Le storie di chi si impegna ma poi è costretto a mollare o a lasciare l’Italia dimostrano che il problema è altrove ed è strutturale. Purtroppo «sfigati» si diventa dopo la laurea

De sfigatibus. Laura si è laureata in ingegneria idraulica a 22 anni, quasi 23,un genio delle turbine e dei calcoli, ha poi vinto il dottorato, a Palermo,“ da sola”, senza calci, ha trovato pure il tempo di sposarsi e la domenica va a pranzo dai suoi.«Mamma, straccio le statistiche, discuto la tesi next year,un anno a Baltimora, torno, concorso da ricercatore e zac! Bambino entro i 29, scommettiamo? ». Scommessa persa. «Dottoressa, con questi chiari di luna io non posso assicurarle nulla al suo rientro dagli Usa; sì c’è il concorso ma…».Ma un collega milanese del prof c’ha il figlio e, si sa, i figli so’ figli…» e Laura piange: parte e rimane fuori? E Mauri? Rimane? A fare che? Pensa a Norman: due anni fa si è lanciato da una finestra del pensionato universitario. Il suo prof gli aveva detto le stesse cose che lei ha sentito ieri. Certo, «era un depresso», dicono, ma… Come si fa a non esserlo? Giulietta è la sorella di Laura, solo di un anno minore, sta ancora all’Università, ad architettura. «Mica sono scema. Un anno di Erasmus a Berlino e, da allora, sei mesi in giro per studi a lavorare quasi gratis, Koolhas, Gerhy, Tadao Ando, e sei mesi in Italia a dare qualche esame». Sa già che lavorerà dopo la laurea. Non in Italia, per carità, qua gli architetti di un certo livello non battono chiodo. Sposarsi? Figli? E come? All’estero, forse, non qui… Poi c’è Lucia, la più piccola, al liceo. Guarda le sorelle e disegna punti interrogativi. «Io volevo fare l’alberghiero e mi avete guardata come un’idiota. Biologia… Ma tanto farò la cuoca…». Già lavora nei weekend in una trattoria. Certo, se le dessero un premio per laurearsi in tempo, anche in crediti di tasse, studierebbe soltanto. È il 20 luglio del ’92, Mila ha 23 anni, laureata da 7 giorni. Massimo dei voti e menzione. Strage di via D’Amelio. «Devi andar via». «No, voglio fare la storica dell’architettura, a Palermo». Per sette anni tenta il dottorato, per sette anni segata. Infine tenta in altre cinque città. Vince dappertutto. Sceglie Roma. Va via dunque, ma mollerà la carriera accademica, per sfinimento e fame, nel 2007. Certo, poi c’è la viziata, la pigra, la cretina… La mamma mammona che non ti sprona. Troppe variabili; penso che si sbagli campione statistico d’indagine. Tre storie e tre sfighe. Essere donne, essere giovani, e laureate, essere in Italia. Con tutta la buona volontà, come farcela con questi adulti? E ti danno pure le colpe. Quello è il campione d’indagine. Con questo sistema? Altro campione. Il dito, la luna… Per avere le giuste risposte, le domande bisognerebbe farle alle giuste persone. Come i giudizi. Meglio sospenderli se prima non si chiarisce il contorno. Martone, risponda lei alla sfiga, visto che è esperto. Un suggerimento da prof: gratifiche. Mettete a punto delle gratifiche adeguate e di laureati a ventiquattro anni ne vedrete molti, ma molti di più. Rimane comunque un dito. Non la luna.

da l’Unità

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“Rivalutiamo i secchioni, ma dopo facciamoli lavorare”, di Fabio Luppino

Da bamboccioni a precari il passo è breve. Gli alibi del conflitto padri-figli allontana dal senso di responsabilità. Anche se il sacrificio è annichilito dal resto che non funziona

Mi sono laureato a 24 Anni appena compiuti e ancora mi brucia. Ho perso nove mesi per rifare un capitolo della tesi solo per non contraddire il relatore. Il viceministro ha utilizzato un termine slang, ma tanto per farsi capire. La provocazione è giusta in un Paese eternamente fermo, in cui si contrappongono i padri ai figli fornendo alibi a questi ultimi, che amabilmente passano dal ruolo di bamboccioni a quello di precari sempre giustificati, con le dovute eccezioni s’intende. Tralasciamo anche la storia personale di chi l’ha lanciata la provocazione, altrimenti finiamola qui: se non può fare il viceministro qualcuno lo dica forte ora o taccia per sempre. I figli di stanno dappertutto, a destra come a sinistra, con le raccomandazioni lievi e quelle forti, quando basta il cognome o anche solo il nome… Dire sfigati, dunque, è dire mollaccioni eternamente figli, per sempre irresponsabili, anche dopo i 28 anni. In parte è così, in parte non lo è. Io sono uno sfigato, per censo, nel novero di quelli che ai tempi stavano in una famiglia che non poteva permetterselo un figlio all’università. O, meglio. Di quelle in cui i risparmi, i pochi risparmi stavano là per quello,ma nonc’era tempo per i sofismi culturali, del lo devi maturare tu, dell’approfondisci, ma fai anche le tue esperienze che hai tempo, del sì studia ma ti devi divertire, quando ritorna la bella età… Studiare per laurearsi, come riscatto sociale, come passaggio da un mondo ad un altro e forse venticinque anni fa aveva un senso dirlo. Studiare con senso di responsabilità, perché è quella l’occasione che non torna più nella vita, per non avere rimpianti dopo, per non dirsi se l’avessi fatto meglio. Anche per mettersi alla prova, perché è giusto imparare a non rimandare, che poi è per sempre. La facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza aveva ai tempi aule di mille posti e passa. Il primo anno bisognava stare seduti in terra, avvolti dal fumo e il professore lo sentivi comunque se lo volevi sentire:da Monticone, Martino, Marzano, Scoppola, Amato, De Felice presidente di commissione di laurea. Non era ancora partita la corsa verso le università private. Erano i tempi in cui si dava per scontato il sapere e tu eri conscio che non potevi dare per scontato nulla e te ne dovevi appropriare. In corso, alla fine, eravamo cinquanta sì e no, e ci conoscevamo tutti, sfigati e figli dì. Studiare quando si deve significa anche lottare per qualcosa che abbia senso. E lottare significa anche, se si ha un’ambizione, lavorare per questo, fare sacrifici, anche rinunce personali. Allora come ora ti dicevano che eri un secchione. Li vedevi sfilare gli altri quando partivano per i viaggi al mare o in montagna, fare le cinque del mattino che tanto poi ho tutto il giorno per dormire. Studiare aveva un senso ieri e ce l’ha anche oggi. Quel che manca è il senso del dopo. Su questo Martone, ma soprattutto Monti e i ministri più di peso dovrebbero interrogarsi profondamente un po’ di più. Visto che non lo hanno fatto fino ad ora, tanto meno chi li ha preceduti nell’ultimo decennio. La vera sfiga è questa.

da L’Unità

"Fornero frena «Mai detto di togliere la Cigs»", di Massimo Franchi

Giornata difficile per la ministra dopo le polemiche. Anche nel governo c’è freddezza Il nuovo testo da presentare ai sindacati sarà pronto soltanto la prossima settimana.

Precisazioni e amarezza. Il day after del primo tavolo con le parti sociali per il ministro Elsa Fornero non è facile. C’è da rassicurare sulla cassa integrazione straordinaria gli oltre 300mila lavoratori che ne stanno usufruendo. «Sono assolutamente ipotesi premature,non siamo entrati nella individuazione di soluzioni, il che sarebbe stato arrogante da parte del governo», precisa di buon mattino il ministro. «È stato detto che Fornero vuole eliminare la Cassa straordinaria. Non è scritto nel documento e non lo so, vedremo, ne parleremo con i sindacati», precisa ulteriormente nel pomeriggio.
Poi l’amara constatazione: «Il 2012 sarà un anno molto difficile, non potremo fare grandi innovazioni». La professoressa non è abituata ad essere nell’occhio del ciclone. Le era già capitato dopo le lacrime nel pronunciare la parola «sacrifici» per la sua riforma delle pensioni. Questa volta è diverso. Questa volta in discussione non è una sua reazione emotiva. Questa volta si parla del suo approccio e del testo, scritto di suo pugno e letto davanti a Monti e mezzo governo, tutto farina del suo sacco, in cui disegnava la «grande riforma» per «il futuro del Paese ». E anche nel governo ora c’è freddezza verso di lei. Tra un rimbrotto ai giornalisti («alcune polemiche sono totalmente create») e uno allo staff («potevamo gestire meglio la cosa»), la giornata del ministro del Welfare è lunga e piena di appuntamenti istituzionali. Alla mattina è all’Istat per la presentazione del rapporto Ocse. E lì che trova la protesta degli oltre 400 precari dell’istituto. Le consegnano un documento e chiedono di poterne discutere. «Vi assicuro che leggerò il documento con grande attenzione, vi assicuro che tutti i precari del Paese stanno a cuore a tutti noi», risponde lei.
«PARI OPPORTUNITÀ»
Dopo una battuta sulla scivolata del suo viceministro Michel Martone («Già mi accusano di fargli mobbing ») arrivano le audizioni parlamentari. Proprio lì dove dovrà trovare il consenso sulla sua riforma, Elsa Fornero è chiamata a parlare di pari oppurtunità, prima al Senato e poi allaCamera. In entrambe le commissioni però è inevitabile che l’argomento del giorno sia affrontato. Grazie al parallelo fra la condizione della donna e quella dei giovani, il ministro lo affronta mettendo tanta altra carne al fuoco. Per Fornero, quello italiano «è un mercato che esclude invece di includere, ed è un mercato che scarica i costi sui segmenti più deboli, giovani, donne e lavoratori anziani». Sul fronte della flessibilità in uscita, il ministro ricorda che oggi è «congegnata solo per mandare in pensione la gente giovane con la mobilità: con la riforma delle pensioni questo non si può più fare, il sistema pensionistico non si può usare come un grande ammortizzatore sociale». E proprio parlando degli ammortizzatori sociali, Fornero ritiene che il sistema possa essere migliorato «in modo assicurativo, con le assicurazioni sociali». Poi, però, «c’è una parte redistributiva – aggiunge – che un paese civile deve fare, non è l’assegno di disoccupazione, è una questione di trasferimento ». Il ministro ha poi assicurato che il documento di riforma del marcato del lavoro «sarà presto distribuito, la prossima settimana. L’ho chiamato obiettivo occupazione e linee per una riforma del mercato del lavoro». Si tratta di un «documento strutturato a partire dai colloqui bilateral» che nasce da una diagnosi di come funziona in Italia il mercato del lavoro.
In conclusione arriva almeno una buona notizia. Il pressing di Cgil e Pd ha fatto breccia: «Al momento non avrei l’intenzione di ripristinare solo la norma cancellata contro le dimissioni in bianco ma di affrontare il tema per cercare una soluzione». Qui il consenso lo ha già.

da L’Unità

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“Le parti sociali al lavoro per presentare un testo comune”, di R.Gio.

Sindacati e imprese dopo il primo confronto

Vorrà dire che la riforma la scriveremo noi». Così commenta, rigorosamente anonimo, un autorevole dirigente sindacale. Nei commenti ufficiali a caldo, sindacati e imprenditori sono stati corretti anche se molto critici. Il giorno dopo però l’atmosfera che si respira nelle stanze dei leader delle organizzazioni delle parti sociali è pesante. Chi si definisce «basito», chi «sconcertato». Chi opina che la professoressa sicuramente avrà una grande competenza in materia di pensioni, «ma di certo di lavoro non sembra saperne molto». Chi la definisce «astratta e teorica». Qualcuno già prevede che a tempo debito dovranno scendere in campo Mario Monti e il ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera per «sostituire» Fornero al timone della trattativa. E adesso? Adesso, come diceva appunto il sindacalista, sembra di capire che toccherà a sindacati e imprese cercare di rimediare. Ancora non è stato fissato nulla di preciso, ma compatibilmente con gli impegni di Emma Marcegaglia appena possibile delegazioni delle parti sociali si incontreranno per cercare di stilare un accordo quanto più preciso e ampio possibile da «girare» successivamente al governo.

In queste ore le diplomazie lavorano di fino per costruire il calendario di questo negoziato che – apertamente – taglia fuori l’Esecutivo. C’è da fare i conti con le perplessità della Cgil di Susanna Camusso, che stavolta non sono (o non sembrano essere) di merito, ma di metodo. «Sentirci tra di noi è una cosa giustissima spiega il segretario confederale della Cgil Fulvio Fammoni – ma sarei scettico sull’utilità di fare un documento vero e proprio, registrando i consensi solo sulle cose che condividiamo. Vorrebbe dire lasciare mano libera al governo perché poi intervenga d’imperio sulle cose su cui non c’è accordo tra noi e le imprese». In altre parole, sull’articolo 18. «L’obiezione non è infondata – concede il numero due della Cisl Giorgio Santini ma dobbiamo correre il rischio». Oltretutto, si ragiona in casa Cisl, alla fine le idee tra le parti sociali sono molto più vicine di quanto si pensi: se Emma Marcegaglia insiste sul tema della modifica dell’articolo 18 lo fa «più che altro perché è obbligata, in Confindustria adesso fa premio la campagna per l’elezione del nuovo presidente». Intanto, a breve è previsto un nuovo vertice tra i leader di Cgil-Cisl-Uil. Nel frattempo, da Confindustria si cerca di lavorare per favorire il negoziato delle sole parti sociali: «lo schema – dicono a Viale dell’Astronomia – è quello dell’accordo del 28 giugno sui contratti. In ogni caso ci sembra difficile che si possa chiudere in sole tre settimane, come vuole il governo. Il mercato del lavoro è una materia complicatissima…». Certo è che in ogni caso la performance di Fornero ha destato davvero molte perplessità. Quasi tutti sono rimasti sbalorditi quando il ministro ha definito «linee condivise» proposte che condivise non erano. Altri sono rimasti colpiti (molto negativamente) dall’idea di fare il negoziato via email. «Bastava che facesse leggere quel documento al suo capodipartimento o a qualche altro funzionario esperto del suo ministero – dice un altro dirigente sindacale – le avrebbe spiegato subito che sulla cassa integrazione non poteva dire quelle cose». Un altro sindacalista punta il dito su certe affermazioni poco realistiche di Fornero. «Il ministro – afferma – ha detto che non si può più adoperare il sistema pensionistico come ammortizzatore sociale in caso di crisi? Chiede cosa ne pensa al suo collega Passera, che ha appena firmato un accordo per l’Eutelia che prevede esattamente il transito alla pensione per molti lavoratori in esubero…».

da La Stampa