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"Investiamo su donne e giovani", di Alessio Postiglione

L’austerità da sola non basta. Anzi, può affossare l’Italia e l’Europa. Lo sa bene Mario Monti che, non a caso, subito dopo il piano tagli, ha puntato sulle liberalizzazioni. Aprire i mercati, infatti, equivale a spalancare le finestre e far spirare la brezza fresca della concorrenza, il cui obiettivo è rimettere in moto l’economia e favorire la crescita.
Ma ritenere le liberalizzazioni l’unica soluzione sarebbe un fatale errore. Negli ultimi quindici anni, d’altronde, abbiamo registrato un tasso medio di crescita economica annua pari ad un mediocre 0,75 per cento; molto di meno dell’interesse sul debito che paghiamo. Non usciremo dai marosi della crisi, dunque, solo con i tagli finalizzati ad abbattere un debito pubblico pari al 118 per cento del Pil.
Preoccupa, anche, la nostra probabile incapacità a ripagare gli interessi sul debito, che il governo salda con un imponente ricorso alle tasse. Gli italiani, d’altronde, sono gravati da pochi debiti privati e hanno sottoscritto pochi mutui. Lo stato è indebitato, gli italiani no. In questo modo, la debolezza della finanza pubblica è controbilanciata da contribuenti ricchi e parsimoniosi. Ecco perché alla nostra altissima pressione fiscale fa seguito un’erogazione di servizi pubblici mediamente scarsa.
Si tratta di un “paradosso logico”: l’ipertrofia della pubblica amministrazione ha avuto il merito storico di alimentare la domanda interna, configurandosi come una particolare forma di keynesismo funzionale agli squilibri territoriali della nazione. Sono stati, infatti, in gran parte i meridionali i beneficiari delle prebende pubbliche, che sono servite a sostenere soprattutto la domanda di beni prodotti nel Settentrione d’Italia, attraverso il deficit spending. Ciò non di meno, in questo momento, anche combinando austerità e liberalizzazioni, potremmo trovarci nel baratro. Le alte tasse, infatti, affossano la domanda interna che è al contempo schiacciata dalla crescente preoccupazione dei cittadini verso i propri redditi, che possono calare o azzerarsi a seconda che le liberalizzazioni mettano a rischio semplicemente delle rendite corporative, come nel caso di taxi o notai, o attentino allo stesso lavoro, come temono i commercianti di prossimità, minacciati dalla grande distribuzione.
L’effetto finale di questo circolo vizioso è che potremmo registrare anche la riduzione del gettito fiscale. In pratica, sono sia il nominatore che il denominatore del rapporto deficit/Pil a rischiare di deflagrare. Questa analisi, d’altronde, è stata avanzata anche da Standard & Poor’s in occasione dell’ultimo, discusso, downgrading che ha coinvolto l’Italia. Paradossalmente, è stata proprio l’agenzia di rating americana, da molti dipinta come la manifestazione di un crudele potere finanziario senza volto, a dirci: «I mercati non hanno fiducia in voi perché dovete fare qualcosa per la crescita». È indubbio, d’altronde, che le liberalizzazioni, in prospettiva, servano. Ma il problema è che esse funzionano nella lunga durata, mentre subito servono azioni anticicliche.
Quel che può sembrare un’eresia al dogma monetarista di Berlino è la via più praticabile per salvare l’euro. Anche a fronte del niet opposto dalla cancelliera Merkel in merito ad ogni ulteriore rafforzamento dell’Esfm, dopo la perdita della tripla A, che sarebbe superabile solo con un nuovo esborso da parte della Germania. L’idea che ci si arricchisca spendendo, d’altronde, è condivisa da Monti che ha più volte posto il problema di come sia essenziale stornare le spese per gli investimenti pubblici dai parametri del patto di stabilità.
Anche molti amministratori locali hanno chiesto lo sblocco del patto, a cominciare dal presidente dell’Anci e dal sindaco di Torino, Fassino. Vale la pena ammettere, tuttavia, che non siano immotivati i timori tedeschi che ogni euro pubblico speso dal nostro paese possa andare a foraggiare clientele inefficienti, allontanandoci dal cammino apparentemente virtuoso dell’austerità.
Gli investimenti, allora, dovrebbero rappresentare un vero volano di sviluppo. E il settore che garantirebbe le migliori performance è rappresentato indubbiamente dalle politiche attive del lavoro finalizzate ad aumentare i tassi di occupazione femminile e giovanile. L’Italia, infatti, è fra le nazioni dell’Ocse che registrano i più bassi tassi di lavoro femminile e giovanile, con il Mezzogiorno fanalino di coda. Abbiamo bisogno, in definitiva, di investimenti che favoriscano l’autoimprenditorialità.
Donne e giovani sono la grande risorsa inespressa dell’Italia. Con la crisi, è giunto il momento di metterli a sistema.

da www.europaquotidiano.it

Colpo di scena: Archiviato "Valorizza 2", di Anna Maria Bellesia

Già durante gli incontri precedenti fra Ministero e Sindacati era emerso un crescente dissenso riguardo al controverso “metodo reputazionale” utilizzato per la valutazione e la premialità dei docenti.

Dell’archiviazione di Valorizza II dà notizia per prima la Cgil, riferendo in merito alla riunione odierna.
Nei giorni scorsi, fra le voci contrarie, “la più ferma opposizione al progetto”, era stata ribadita dalla Gilda, che ne ha sempre contestato radicalmente la scientificità. Anche lo Snals ha detto di non condividere il criterio della “reputazionalità”, sottolineando che tale sperimentazione non porterebbe a percorsi condivisibili in sede di futuro Ccnl. La Cgil ha evidenziato “l’estrema confusione” sul delicato tema della valutazione di sistema, che necessita al contrario “di minor approssimazione, di risorse e investimenti adeguati e di un dibattito quanto più ampio possibile”.
Praticamente il capo dipartimento Biondi ha dovuto prendere atto della esplicita indisponibilità della quasi totalità delle organizzazioni sindacali nei confronti di Valorizza II.
Nato nel 2010 per volontà del ministro Gelmini, il progetto Valorizza aveva il solo punto di forza di mettere in atto un esperimento “snello, veloce, economico e originale” e soprattutto praticabile in tempi brevi, come richiesto dal committente. Fin dall’inizio però, c’era la diffusa consapevolezza dei limiti intriseci di una “valutazione reputazionale di tipo olistico” da parte di un Nucleo interno (due docenti e il dirigente scolastico), non collegata a sviluppi di carriera, e soprattutto senza dimostrabili feedback idonei a migliorare la qualità del sistema educativo e i risultati degli apprendimenti. Con l’archiviazione del progetto, insomma è prevalso il buon senso.
Maggiori aperture si sono registrate invece sulla seconda sperimentazione proposta dal Miur, che in parte continua il progetto avviato l’anno scorso col nome di VSQ (Valutazione per lo Sviluppo della Qualità delle scuole), e quest’anno prende il nome di Vales (Valutazione e Sviluppo Scuola), con alcuni significativi cambiamenti, fra cui l’introduzione di criteri, strumenti e metodologie per la valutazione dei dirigenti scolastici.
Secondo i sindacati, le finalità sono maggiormente condivisibili, soprattutto nel diffondere una cultura della valutazione esterna e della rendicontazione finalizzata al miglioramento dei servizi. Pare finita insomma l’era della “premialità selettiva di brunettiana memoria” o del “dare i voti alle scuole”. Inoltre, stimolando il ruolo e la leadership del dirigente, si può ottenere un impiego più efficace delle risorse a disposizione.
“Vales” sarà indirizzato a circa trecento scuole. Per l’adesione, serve la disponibilità del dirigente e la delibera del collegio dei docenti. Le scuole partecipanti avranno un finanziamento di 10-20mila euro in ragione del maggiore impegno profuso dalla comunità professionale coinvolta nel processo di valutazione.
Ci saranno comunque altri incontri Miur-Sindacati per cercare di individuare percorsi condivisibili finalizzati alla valorizzazione del personale docente, per definire una pluralità di fattori idonei a concorrere alla valutazione di sistema, e per contrattare l’attribuzione di risorse economiche al personale. Una specifica riunione è prevista per l’area V della dirigenza.

da La Tecnica della Scuola

"La linea d´ombra del comando", di Barbara Spinelli

Ci viene spesso dalle esperienze di mare, perché il mare ha baratri imprevisti e quindi ferree leggi, la sapienza del comando. Quest´arte ruvida, che in democrazia è sempre guardata con un po´ di diffidenza, quasi fosse arte legale ma non del tutto legittima.
C´è diffidenza perché l´immaginario democratico è colmo di miraggi: là dove governa il popolo ognuno è idealmente padrone di sé, e fantastica di poter fare a meno del comando. Nella migliore delle ipotesi parliamo di responsabilità, che del comando è la logica conseguenza, in qualche modo l´ornamento. Ma la responsabilità è obbligo di ciascuno, governanti e governati. Il comandoha un ingrediente in più, un occhio in più: indispensabile. Ancora una volta dal mare, dunque, ci giunge in questi giorni un esempio di cosa sia questo mestiere che impaura ed è al contempo profondamente anelato: il mestiere di guidare gli uomini nelle situazioni-limite, quando tutto, salvezza o disastro,dipende da chi è al comando, sempre che qualcuno ci sia. L´esempio lo conosciamo ormai: ce l´ha dato Gregorio De Falco, capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Nella notte del 13 gennaio fu lui a intimare, al comandante Schettino, di tornare subito a bordo anziché cincischiare frasi sull´inaudita trasgressione appena commessa: l´abbandono del posto di comando sulla nave, prima del salvataggio di passeggeri e equipaggio. Un peccato imperdonabile in mare.
Difficile dimenticare il tono di quell´ingiunzione a rispettare le regole: incaponito, incorruttibile. Una voce analoga s´era udita a Capodanno, inattesa, quando le Guardie di finanza diedero la caccia agli evasori fiscali di Cortina, ricordando che la legge non solo esiste ma può essere applicata, per castigare chi vitupera lo Stato esattore e al tempo stesso ne profitta – le parole sono di Mario Monti – «mettendo le mani nelle tasche degli italiani onesti, che pagano le tasse». È come se da tempi immemorabili non avessimo ascoltato voci simili. Come se la chiamata che intima, stronca imperiosamente egoismi, tergiversazioni, fosse la cosa che più ci manca. Manca d´altronde non solo da noi ma anche fuori, in Europa, dove un marasma senza precedenti incancrenisce perché è assente, ai vertici dell´Unione, l´occhio in più che dia l´ordine di trasformare il coordinamento dei singoli soccorsi in salvataggio di tutti.
Ma in Italia la questione è incandescente, perché sono in tanti a reagire alla nuova severità dello Stato con la fuga o lo scompiglio. Non che sia mancata, per anni, la voce dei padroni. Ma non era intimazione, la loro: era intimidazione, al tempo stesso strillata e sterile. Abbiamo udito l´urlo di chi s´indigna e l´urlo di chi dall´alto dei propri scranni insulta, lancia ukase, grida menzogne per difendere gli interessi propri o dei propri clan. Per oltre un decennio abbiamo vissuto in mezzo a indistinte cacofonie: e vediamo in questi giorni, con le rivolte antistataliste che straripano, la potenza accumulata dalla cultura dell´urlo. L´intimazione stentorea di autorità emblematiche come il comandante di Livorno o le Guardie di finanza è di natura differente, ci sorprende come ladro di notte, come bisturi che ricuce ma resta pur sempre lama che offende. Abbiamo visto in de Falco un eroe ma non è un eroe. Il suo modo d´essere dovrebbe essere la normalità: è contro un muro di norme indiscusse che dovrebbero sbattere i battelli ebbri senza comando né legge che metaforicamente ci rappresentano. Che impazzano addosso alle coste per fare inchini a amici complici in irresponsabilità, e impunemente s´avvolgono nella propria incuria come in un manto.
Chi ha letto Joseph Conrad sa le grandezze e i segreti fardelli del comando. Quasi tutti i suoi romanzi ruotano attorno a questa vocazione, che mette alla prova e decide chi sei, se vali oppure no. Anche qui, niente di eroico. Ecco il protagonista di Tifone: «Il capitano MacWhirr, del piroscafo Nan-Shan, aveva, per quanto concerne l´aspetto esteriore, una fisionomia che rispecchiava fedelmente l´animo suo: non presentava alcuna distinta caratteristica di fermezza o di stupidità; non aveva caratteristiche pronunciate d´alcun tipo; era soltanto comune, insensibile e imperturbabile».
Il comando non è solo imperio della legge, rule of law. C´è un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma (la gravitas degli antichi latini) che il comandante possiede o non possiede. In democrazia è dura arte anche per questo, perché la gravitas ha qualcosa di aristocratico, di insensibile: la schiviamo, se possibile. Invece ce n´è bisogno, perché sempre possiamo incrociare una crisi, un´emergenza, ed è qui che servono le forze congiunte del comando, dell´imperio della legge e del carisma. Torniamo ancora a Conrad, quando narra la nostra Linea d´ombra: d´un colpo scorgiamo innanzi a noi «una linea d´ombra che ci avverte che la regione della prima giovinezza, anch´essa, la dobbiamo lasciare addietro». Il protagonista del racconto affronta a quel punto la massima prova esistenziale: l´esercizio del comando. Alcuni soccombono: è il caso di Lord Jim, che tutta la vita pagherà il prezzo – in dolore, rimpianto, vita d´angoscia – del peccato originale commesso quando abbandonò la nave. La linea d´ombra, in Italia, è come se non la scorgessimo mai. C´è qualcosa di ostinatamente minorenne, nel nostro rapporto con l´autorità, la legge, lo Stato.
Stentiamo a capire una cosa, dell´ordine dato in nome del bene pubblico: il comando è quello che ci protegge dall´esplosione dell´urlo scomposto, dal caos propizio allo Stato d´eccezione. Fu con l´urlo che Hitler s´affacciò al mondo: la democrazia di Weimar non era stata capace di comando. Kurt Tucholsky, scrittore veggente, descrisse fin dal ´31 quel che nel futuro dittatore più spaventava: «Non l´uomo in sé, che non esiste. Ma il rumore, che egli scatena». Stentiamo a capire soprattutto in Italia, perché siamo da poco una nazione e ogni comune, ogni corporazione, usa urlare più che dirigere. Fellini descrisse questa cacofonia anarcoide – era il ´79, dilagava il terrorismo – nell´apologo Prova d´Orchestra. Il tema cruciale era il comando: in che condizioni è esercitato, come degenera in urlo, e perché degenera.
L´Italia benpensante accolse il film con enorme diffidenza, sospettò nell´autore buie propensioni fascistoidi. Fellini le aveva messo davanti uno specchio, perché contemplasse i suoi vizi, e gli italiani voltarono la faccia sdegnati. Il film non perse mai da noi un odore di zolfo che altrove non ebbe. «Tutto è prova d´orchestra», disse il regista. E sulla pellicola capimmo perché la prova falliva: ogni violinista, flautista, clarinettista, pensava agli affari suoi, alcuni addirittura erano armati e ciascuno aveva a fianco un sindacalista tutore.
Qualcosa di simile accade a Monti, assalito da proteste quando si sforza di ammansire l´ego di corporazioni, lobby, clan semimafiosi (le grandi mafie suppongo siano in attesa: non ancora toccate, fanno quadrato attorno ai propri referenti, ne cercano di nuovi, sfruttano alla meglio i malcontenti di chi si sente ferito dal bisturi). Nonostante questo clima di sbandamento il Premier resta popolare, nell´Italia smarrita e infine conscia della crisi. Lo aiutano le virtù del comando: la gravitas, il rispetto meticoloso delle istituzioni, l´autorevolezza che accresce l´autorità dandole sostanza. Lo aiuta la vocazione a tenere i conti, e a chieder conto.
Non dimentichiamo la fine del film di Fellini: il direttore d´orchestra che non ha saputo comandare esplode in urla scomposte, mescolando vocaboli italiani e parole d´ordine naziste. «Estrema pazienza e estrema cura», questo il comando secondo Conrad: oltrepassata la linea d´ombra, sempre possiamo mancare la prova, sottrarci al dovere di portare la nave sana e salva in porto. Ecco perché la via di Monti è così stretta.

da La Repubblica del 25 gennaio 2012

"La competenza per sfidare la protesta", di Gian Enrico Rusconi

Quale impatto hanno o avranno le violente proteste di questi giorni sul quadro politico? Parlare di «rivolta» dei Tir non è solo un modo di dire giornalistico. Quanto è accaduto sino a ieri, è andato ben oltre le dimensioni di una protesta sociale, già ai limiti della legalità.
Siamo stati posti davanti non soltanto alla contestazione di misure prese dal governo, ma al confuso, virtuale rifiuto della sua autorità politica. Questi due aggettivi – «confuso», «virtuale» sono la chiave di lettura di quello che è successo e che condiziona le modalità con cui la situazione si sta normalizzando. Speriamo che avvenga presto – altrimenti le conseguenze saranno incontrollabili.

Siamo davanti ad una severa prova per il governo Monti, probabilmente inattesa. È perfettamente inutile aggiungere che si tratta di una prova «politica». Ma aggiungiamo pure l’aggettivo, se serve a chiudere una volta per tutte l’inconsistente diatriba sulla natura «tecnica» del governo in carica, su cui si sono esercitati sin qui politici e pubblicisti.

La rivolta di minoranze di cittadini, organizzati in categorie professionali dotate di uno sproporzionato potenziale di danno e di intimidazione, è virtualmente politica perché è il contrario dell’affidamento che la maggioranza degli italiani mostra verso il governo Monti. Da un lato c’è un sofferto riconoscimento di autorevolezza politica, dall’altro la sua negazione.

Con il passare delle settimane è evidente che la vera base del consenso del governo consiste nella paziente fiducia dei cittadini che arrivino risultati tangibili. Di fronte a questo fatto la legittimazione politica formale offerta dai partiti rischia di rimanere una sorta di sovrastruttura parlamentare, debole e condizionata da mille reticenze.

In questo contesto la rivolta strisciante di alcune categorie imbarazza alcuni partiti, rivelandone aspetti oscuri. Non è un mistero che nel Pdl e nella Lega ci sono falchi che nelle agitazioni di questi giorni (e nelle prossime in calendario) hanno visto l’opportunità di quella spallata contro il governo che il partito berlusconiano ufficiale non osa dare. Per loro è stata una grande soddisfazione sentir gridare – in perfetto stile berlusconiano – che a Roma c’è «l’ultimo governo comunista del mondo». Non sappiamo se dietro a queste provocazioni – a cominciare dalla Sicilia – ci siano disegni più mirati.

Nel complesso però i politici di destra si barcamenano tra la denuncia della violenza e della illegalità dei comportamenti, il premuroso riconoscimento della legittimità di alcune richieste di alcune parti coinvolte (senza spingersi troppo avanti nei dettagli) e la voglia di approfittare del clima di scontentezza per farsi protagonisti di correzioni delle proposte governative.

Quello che non capiscono è che con il governo Monti è venuta meno o quantomeno si è drasticamente ridimensionata la funzione dei partiti di rappresentanti diretti di interessi particolari (non illegittimi, beninteso, ma gestiti in forma quasi sovrana) che hanno portato alla creazione di quel universo di lobbies, corporazioni e categorie di fatto privilegiate – di cui oggi si parla tanto apertamente quanto retoricamente.

«Lobbies» e «corporazioni» infatti sono sempre quelle degli altri. Mentre da parte loro i partiti si sentono offesi se vengono riduttivamente considerati rappresentanti o protettori di interessi di parte, insensibili all’interesse comune. La dialettica democratica – ripetono – consiste nel contemperare gli interessi particolari con quelli generali ecc ecc. Conosciamo questi nobili discorsi edificanti. Ma servono poco a capire la brutale realtà di quello che è accaduto e che potrebbe ripetersi nei prossimi giorni su altri fronti non meno sensibili.

Torniamo alla vicenda dei Tir. Il governo è sembrato inizialmente preso in contropiede, ha sottovalutato la gravità della situazione. Soltanto nelle ultime ore si è sentita chiara la voce del ministro degli Interni che ha rivendicato di avere affrontato i disagi della protesta «coniugando fermezza e dialogo», consentendo di «stemperare le situazioni di tensione e di far sì che la gestione dell’ordine e della sicurezza pubblica non subisse, nel complesso, grave pregiudizio». Segue la minaccia di energiche misure coercitive nel caso si verificassero nuovi episodi che compromettono la sicurezza delle persone. Tutto sommato quella del ministro può apparire una reazione sin troppo «temperata» di fronte ai gravissimi disagi imposti alla popolazione e al Paese stesso. Eppure mi chiedo se paradossalmente proprio questo atteggiamento non abbia avuto l’effetto benefico di mostrare alla grande opinione pubblica l’insensatezza della rivolta contro il governo. La grande discriminante politica passa ormai tra chi, disposto a pagare di persona, si affida – sia pure con un tocco di rassegnazione – alla competenza di questo governo, dialogando e interagendo costruttivamente. E chi lo considera nemico, punto e basta.

da La Stampa del 25 gennaio 2012

"Classi sociali, i ricchi sempre più su ora guadagnano 10 volte più dei poveri", di Luisa Grion

IL DOSSIER. Le misure del governo. I dati diffusi dall´Istat collocano l´iniquità economica italiana al di sopra della media dei Paesi dell´Ocse
Il reddito del 10% di popolazione più benestante è di 49.300 euro, mentre al 10% più povero ne vanno 4.877

Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. In Italia l´ascensore sociale si è rotto, le categorie di reddito sono sempre più chiuse e il divario fra classi – invece di diminuire – aumenta.
La tendenza accomuna quasi tutte le economie sviluppate, ma da noi la distanza è superiore rispetto alla media dei Paesi Ocse. Uomini e donne non salgono più i gradini della scala sociale e restano aggrappati alla ringhiera anche al momento delle nozze: il matrimonio tende a «polarizzare» i redditi. Il medico sposa quasi sempre il medico, l´avvocato dice «sì» solo all´avvocatessa, l´operaio all´operaia. Ricchi con ricchi, poveri con poveri: una dura legge che nemmeno la favola bella di Cenerentola riesce a contrastare. Oggi i principi azzurri e le ricche ereditiere non rappresentano più la soluzione del problema: ce lo dice l´Ocse nel suo rapporto «Divided we stand», una spietata analisi sulla crescita delle ineguaglianze sociali presentata ieri all´Istat.
UNO A DIECI
Le cifre indicate dallo studio dettano una tendenza netta: nel 2008, anno degli ultimi dati disponibili (e periodo comunque antecedente alla fase più pesante della crisi), il reddito medio del 10 per cento di popolazione più ricco del Paese era di oltre dieci volte superiore a quello del 10 per cento più povero (49.300 euro contro 4.887). A metà degli anni Ottanta il rapporto era di 8 a 1: il gap sta quindi peggiorando. Non è un fenomeno solo italiano, sia chiaro: il divario fra più e meno abbienti, sottolinea l´Ocse, sta aumentano in quasi tutti i paesi europei. Francia a parte dove – come in Giappone – il quadro è rimasto più o meno stabile, il differenziale è salito anche nella ricca Germania e nell´evoluta penisola Scandinava (passando dall´1 a 5 degli anni Ottanta all´attuale 1 a 6). Imbarazzante l´1 a 17 degli Stati Uniti, drammatico – pur se in netto miglioramento – il dato del Brasile dove i più ricchi hanno redditi cinquanta volte superiori a quelli dei più poveri.
I MEGLIO E I PEGGIO PAGATI
Più sei pagato, più lavori, più ti arricchisci: a guardare le tabelle dello studio Ocse par di capire che le occupazioni di basso livello difficilmente evolvono e permettono il riscatto. Secondo gli studi dell´Ocse in Italia (ma la tendenza è confermata anche negli altri paesi) quantità e qualità del lavoro vanno di pari passo. Dalla metà degli anni Ottanta ad oggi il numero annuale di ore di lavoro effettuate dai dipendenti meno pagati è passato dalla 1580 alle 1440 ore. Anche fra i lavoratori meglio pagati la quantità è diminuita, ma in minor misura, passando dalle 2170 alle 2080 ore. Faticare, quindi, non basta. Ed essere lavoratore dipendente non aiuta: a differenza di molti paesi Ocse in Italia la diseguaglianza sociale va di pari passo con l´aumento dei redditi dei lavoratori autonomi. La loro quota sul totale della ricchezza è aumenta, negli ultimi trenta anni, del 10 per cento.
CENERENTOLA E ALTRI RIMEDI
Cos´è che fa aumentare la diseguaglianza? Il livello minimo di istruzione, certo, la bassa percentuale di lavoro femminile, lo storico divario fra Nord e Sud. Ma non basta. Il gap di casa nostra è causato anche dalla tendenza degli italiani a celebrare unioni fra caste: i principi azzurri non vanno più in cerca della loro Cenerentola e questa mancanza di fantasia ha contribuito per un terzo dell´aumento delle diseguaglianze di reddito. Cosa fare per invertire la tendenza? L´estensione dei servizi pubblici non basta più: istruzione, sanità e welfare riducono il gap, ma in modo meno incisivo rispetto al passato (di un quarto nel 2000, di un quinto oggi). La svolta, suggerisce l´Ocse, per l´Italia passa attraverso una riforma del fisco e della previdenza, il potenziamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche di sostegno al reddito.

da La Repubblica del 25 gennaio 2012

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“Italia, ricchi e poveri”, di Jolanda Bufalini

La distanza sociale aumenta. Classe media italiana in difficoltà anche per la spesa. Una delle raccomandazioni della ricerca: investire sul capitale umano, cioè su scuola e formazione

I precari dell’Istat che «hanno fornito gli indicatori e le misure della diseguaglianza », protagonisti e, al tempo stesso, oggetto della ricerca dell’Ocse sulle diseguaglianze, hanno salutato il ministro Elsa Fornero con uno striscione nell’Aula magna dell’Istituto di Statistica, ispirato al titolo della ricerca: «Precarious We Stand». Un inflessibile Enrico Giovannini non ha dato loro la parola ma il ministro ha assicurato: «I precari di tutta Italia sono nel cuore del governo». Viviamo in un paese dove i poveri restano poveri, i ricchi sposano i ricchi, dove le diseguaglianze sono aumentate anche negli anni in cui cresceva l’occupazione, smentendo l’idea che «i benefici della crescita economica ricadano sulle classi meno abbienti e che una maggiore diseguaglianza stimoli la mobilità sociale». È il profilo dell’Italia che emerge dalla presentazione, fatta da Stefano Scarpetta, della ricerca comparata fra i paesi Ocse in cui si cerca risposta all’interrogativo: «Perché le diseguaglianze continuano a crescere?». Dice Scarpetta che della povertà in Italia preoccupa la sua «persistenza», che i matrimoni fra persone dello stesso ceto «contribuiscono per un terzo all’aumento delle diseguaglianze». In Italia la crescita della diseguaglianza è all’apice dagli anni Novanta ed è superiore alla media Ocse: nel 2008 il reddito medio del 10% più ricco del paese era di 49.300 euro,10volte di più del reddito medio del 10% più povero (4.877 euro), venti anni fa la differenza fra ricchi e lavoratori poveri era invece di sette punti. Se si allarga lo zoom e si guarda all’insieme il quadro è ancora più fosco: negli Stati Uniti i ricchi hanno 18 volte di più rispetto ai redditi minimi, in Brasile la differenza è pari a 50. Non solo, i maggiori guadagni in alcuni paesi sono raccolti dallo 0,1 per cento della popolazione: negli Usa la quota di reddito familiare netto per l’1%della popolazione più ricca è più che raddoppiata, passando dall’8% nel 1979 al 17 % nel 2007. Solo alcuni paesi in via di sviluppo come la Turchia hanno ridotto il differenziale mentre anche nel Nord Europa le differenze sono aumentate, solo in Francia e Giappone sono rimaste stabili. RIVOLUZIONE TECNOLOGICA Passando dalla fotografia alle cause si scopre che la globalizzazione (cioè l’aumento degli scambi e degli investimenti stranieri) non sono la causa diretta del maggiore gapmentre le riforme del mercato del lavoro, come l’aumento dei contratti atipici, hanno ampliato la platea degli occupati ma anche ridotto i salari. Un fattore che ha influenzato, invece, direttamente le disparità è la rivoluzione tecnologica. Di qui una delle raccomandazioni della ricerca: investire sul capitale umano, cioè su scuola e formazione perché i lavoratori più qualificati hanno visto incrementare rapidamente i loro redditi mentre i meno qualificati sono rimasti indietro. E la sfida, per i paesi Ocse «è creare posti di lavoro qualitativamente e quantitativamente migliori». C’è un altro fattore che ha aumentato le disparità, l’esigenza di contenere la spesa di welfare: minore protezione sociale, minore capacità redistributiva delle politiche fiscali, meno previdenza, meno assistenza. Di qui la sottolineatura dell’Ocse: agire sulla qualità dei servizi gratuiti come la sanità e l’istruzione. E sulla leva fiscale, «perché le quote crescenti di reddito per le retribuzioni più elevate suggerisce che la capacità contributiva è aumentata» e con la recessione «le politiche di sostegno sono molto importanti».

da l’Unità

"Per una vera competizione", di Giliberto Capano

Il governo Monti sembra intenzionato ad entrare nella «nebulosa» del valore legale dei titoli di studio universitari. Prima che gli alfieri dell’abolizione del valore legale si eccitino eccessivamente, cantando vittoria, è bene fissare alcuni punti fermi sulla questione. Cosa non facile perché si tratta proprio di una «nebulosa», come sottolineato dal massimo studioso di diritto amministrativo del nostro paese, il giudice costituzionale Sabino Cassese, alla fine di un suo illuminante saggio dedicato a questo tema, pubblicato dieci anni fa (Annali di storia delle università italiane 6/2002).
Infatti, le soluzioni di cui il governo sta discutendo, stando ai resoconti di stampa, mostrano come la questione sia intricata e come non si tratti di abolire alcunché ma di approvare norme regolative. Il governo pare stia discutendo di almeno tre questioni: l’eliminazione del voto di laurea come criterio di valutazione ai concorsi pubblici; l’eliminazione del tipo di laurea (basterebbe, tranne che per i ruoli tecnici, un qualsiasi tipo di diploma di laurea); un “apprezzamento” della qualità delle università che hanno rilasciato il titolo.
I primi due elementi non devono abolire alcuna legge dello stato italiano, perché non esiste alcuna legge che imponga l’uso del voto di laurea nei concorsi e nemmeno del tipo di laurea per l’ammissione ai concorsi. Incredibile ma è così. In realtà questi due strumenti non sono affatto regolati dalla legge bensì sono utilizzati, nella propria autonomia, dalle singole amministrazioni al fine di rendersi la vita più facile.
Ponendo vincoli ai tipi di laurea necessari per partecipare a un concorso le amministrazioni riducono il numero dei partecipanti da gestire; adoperando il voto di laurea per assegnare dei punteggi ai fini della valutazione dei candidati le amministrazioni pensano di “oggettivare” il giudizio sui candidati, limitando le possibilità di ricorso giurisdizionale.
Quindi, se il governo decidesse di intervenire su questi due questioni, opererebbe un intervento di regolazione di ciò che era lasciato alla libera autonomia delle amministrazioni. E sarebbe un intervento interessante (anche se nella testa dei valutatori il voto di laurea continuerebbe a contare) che però non abolisce alcunché se non le prassi sedimentate delle amministrazioni pubbliche.
La terza questione, rimanda alla possibilità che un ranking delle università possa far pesare di più un titolo di studio rispetto ad un altro in un concorso. Un’ipotesi davvero poco percorribile. Perché sarebbe incostituzionale (lederebbe l’uguaglianza dei cittadini: ad un concorso pubblico deve contare quello che un candidato sa, non dove si è laureato, tenuto conto che, comunque, se uno si è laureato nella migliore università dovrebbe vincere no?). E perché sarebbe insensata: non si può stabilire l’eccellenza per legge.
Senza contare poi che nel nostro paese, a differenza di altri, le eccellenze sono distribuite non tra istituzioni universitarie ma tra aree disciplinari. Per cui un’università può essere eccellente in economia e giurisprudenza ma mediocre in lettere o architettura.
I ranking servono per indirizzare ed informare in modo trasparente le famiglie e i potenziali iscritti rispetto alla qualità della didattica offerta. Quindi, se fossi in chi sta lavorando nel governo su questo tema ci andrei con i piedi di piombo ed andrei a guardare come funzionano gli altri sistemi universitari. Perché, mi duole dirlo a tutti coloro i quali immaginano l’abolizione del titolo di studio e la competizione pura tra università come una panacea di tutti i mali, non esiste nessun paese al mondo in cui i titoli di studio non abbiano una qualche forma di certificazione (per via normativa o mediante accreditamento); e non esiste alcun paese al mondo in cui sia formalizzata, a livello di ammissione ai concorsi pubblici, una differenza sostanziale tra le università che hanno rilasciato il titolo di studio.
Nei paesi in cui esiste un ranking tra le università è consentito ad esse di scegliersi gli studenti: ciò ha come effetto che gli studenti migliori vadano nelle università migliori e, quindi, questi studenti, una volta laureati, hanno molte più possibilità di altri laureati di accedere a professioni migliori, nel pubblico e nel privato. Ma tutto questo processo non è affatto regolato dalla legge. Ci mancherebbe davvero che si arrivasse alla legalizzazione del valore differenziato del titolo di studio!
La questione, come si può capire, è davvero complessa e confusa e, come ci ricorda sempre Cassese, «non merita filippiche, ma analisi distaccate, che non partano da furori ideologici o da modelli ideali». Pertanto, c’è da augurarsi che il governo proceda in modo accorto e lungimirante su questo tema, senza farsi tirare dalla giacchetta dai troppi Soloni (ahimè, provenienti proprio dal mondo accademico) che propongono soluzioni semplicistiche basate, appunto, su furori ideologici o su modelli ideali che non esistono in nessuna parte del mondo. ​

Da www.europaquotidiano.it

Pd si batte per la libertà della rete, per difendere il diritto d'autore contro la pirateria

E’ approdata in aula alla Camera la legge comunitaria, che a causa di un emendamento presentato dal deputato della Lega Fava, rischia di trasformarsi in un pericoloso strumento di censura della rete

L’emendamento infatti, prevede all`articolo 18, procedure facili e veloci per far rimuovere dalla rete contenuti ritenuti illegittimi. In altre parole si rende possibile a qualsiasi utente, chiedere al «prestatore» di servizi Internet (Google, YouTube, Facebook, siti di ogni genere) la chiusura di un hosting provider e la rimozione di un contenuto senza nessun ruolo affidato all’Agcom o alla magistratura.

A lanciare l’altolá sono Vincenzo Vita (Pd) e Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21.
“Con l’emendamento Fava, è stato dato un colpo ferale alla libertá della rete anche in Italia”, affermano Vita e Giulietti.
“Dopo Sopa e Pipa negli Stati Uniti arriva pure da noi il bavaglio digitale. Ora il testo è in discussione nell’aula della Camera. Per i deputati del Pd Silvia Velo e Sandro Gozi è urgente bloccarlo prima che sia troppo tardi e necessario tenere alta l’attenzione su un argomento così delicato. Il Pd ha presentato un emendamento soppressivo e non abbandonerà la battaglia contro questo strumento di censura .

“Il prestatore del servizio – proseguono Velo e Gozi – agendo in qualitá di mero intermediario, non ha la capacitá ne il compito di accertarsi se i contenuti segnalati siano effettivamente illeciti. Fra l’altro questa segnalazione potrebbe essere fatta da ‘qualunque soggetto interessato”. “Non devono essere imposti ai prestatori di servizio obblighi di identificazione e monitoraggio preventivo dal momento che ciò è in aperto contrasto con la normativa europea sul commercio elettronico e potrebbe avere gravi conseguenze in termini di libertá di espressione e di sviluppo del mercato digitale italiano”.

Il diritto d’autore va protetto dalla pirateria con leggi apposite e anche attraverso adeguate riforme ma è possibile farlo senza mettere a rischio la libertá della rete.

da www.partitodemocratico.it