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“I padroncini della mobilità” di Ilvo Diamanti

È inquietante, ma anche significativa, la condizione di questo Paese, in questo momento. Paralizzato, letteralmente. Città e autostrade, inagibili. Bloccate dalla protesta dei tassisti e dei camionisti. È significativa del paradosso in cui viviamo.
Noi, cittadini globali di un mondo globalizzato, dove le distanze spazio temporali sono vanificate, perché avvengono per via “immateriale”. Attraverso la Rete, la comunicazione internautica, satellitare, digitale.
Mentre il movimento delle persone – da casa al lavoro, scuola, alla palestra, al cinema (e viceversa) – avviene su strade, autostrade, rotaie: vie assolutamente “materiali”. Che è facile bloccare, interrompere, ostruire. Con conseguenze devastanti in un Paese, l´Italia, divenuto ormai una grande unica conurbazione. Una grande azienda diffusa, sparsa in larghe aree del Centro e del Nord. Ma anche nel Sud. Un Paese difficile da attraversare, perché occupato, per larghi tratti, da catene montuose. E perché le politiche, almeno fino agli anni Settanta, hanno badato agli interessi dell´industria dell´auto e del trasporto privato assai più che a quelli pubblici. Per questo oggi è divenuta strategica la questione della “mobilità” (come ha osservato, già alcuni giorni fa, Gigi Riva sul “Piccolo”). O, forse dell´im-mobilità. Per questo è difficile capire e adattarsi, molto più di ieri. Perché, nel frattempo, ci siamo abituati a vivere e convivere con le tecnologie della comunicazione. Per primi i giovani e le persone più istruite. Ma, progressivamente e rapidamente, anche gli altri. Perché tutti ormai hanno e usano un cellulare, mentre gran parte della popolazione ha un computer e comunica in rete. E molti, moltissimi, vivono in simbiosi con l´iPhone e l´iPad. Stanno in contatto fra loro attraverso i Social Network, esternano il loro pensiero mediante Twitter. Le aziende operano in rete. Così gli enti pubblici, le scuole. Produttori e clienti, professori, studenti e famiglie. In rete. Tutti in movimento, pur restando fermi. E tutti in relazione, pur restando soli. Per questo la protesta dei tassisti e degli autotrasportatori ci ha colti impreparati. Perché, appunto, non ce l´aspettavamo. Di essere vincolati in modo così stretto dalla nostra dimensione fisica. Materiale. Dalle autostrade piuttosto che dalle infostrade. Dalle vie urbane piuttosto che da quelle digitali. Dai tassisti invece che dagli hacker. Non ce l´aspettavamo di venir bloccati a casa o per strada e di scoprirci fermi. Noi che ci immaginiamo sempre in viaggio e sempre insieme agli altri. È, dunque, un problema di dissonanza cognitiva a rendere difficile comprendere e accettare quel che avviene in questi giorni. Prima ancora di affrontarlo. Al contrario di coloro che ci “bloccano”. Tassisti, camionisti, autotrasportatori. Ben consapevoli della nostra “dipendenza” dalle loro azioni e coazioni. Perché controllano il movimento “fisico” personale. E l´economia nazionale. Per loro, il numero non è un vincolo. Non sono “masse” ma le loro lotte hanno effetti di massa. Ventimila tassisti possono bloccare le città. Gli autotrasportatori sono molti di più, visto che in Italia operano circa 90.000 imprese (dati Eurostat), ciascuna con circa 5 veicoli. Facile per loro bloccare l´intero Paese. Non solo gli spostamenti delle persone. Ma – anche e anzitutto – quelli delle merci, che essi stessi (auto) trasportano. Peraltro, si tratta di un modello di lotta sperimentato, adottato, in passato, da altre categorie, anch´esse addette – non a caso – alla “mobilità”. Il personale delle ferrovie e dei trasporti urbani. I controllori di volo. In grado di bloccare – in poche decine – l´intero traffico aereo non solo di un Paese. E, ancora, i benzinai. “Padroni” del carburante da cui dipende la nostra mobilità personale. Si tratta, in gran parte dei casi, di figure professionali che non temono di intraprendere forme di lotta aspre e impopolari. Abituati, come sono, a un lavoro duro e usurante. Loro sì, sempre in viaggio, sulla strada. “Da soli”. Sempre in viaggio, sempre in movimento, sempre in rete. Da sempre (i camionisti, prima e più degli altri, hanno costruito una costellazione di CB). Sempre in contatto tra loro. Per esigenze di lavoro, ma anche per combattere la solitudine. Difficile coltivare legami di solidarietà con gli altri in questa condizione nomade. Anche se è loro chiaro quanto gli altri, la comunità, i cittadini dipendano da loro. Dal loro lavoro, dai loro servizi. Essi, d´altronde, hanno sperimentato la loro capacità di pressione da molto tempo e in molti contesti. Per non allontanarci troppo: in Francia, in Spagna e in Grecia. In Italia, però, c´è la complicazione di una rappresentanza frammentata in nove associazioni, quando negli altri Paesi ce ne sono al massimo due. In queste condizioni, il senso di responsabilità sociale e civile, la gravità del momento economico e politico non costituiscono argomenti particolarmente sentiti. Al contrario, il disagio sociale diventa un elemento di pressione politica particolarmente incisivo. In grado di influenzare pesantemente il clima d´opinione e il consenso. E nell´era dell´opinione pubblica, le lotte più efficaci sono quelle che colpiscono non tanto gli imprenditori e i produttori, ma i cittadini e i consumatori. I quali diventano vittime e ostaggi di ogni protesta.
Le liberalizzazioni, peraltro, sono difficili da realizzare e da attuare, da noi più che altrove. Perché cozzano contro una società stratificata e frammentata in un collage di appartenenze professionali e di mestiere, albi, ordini, gruppi, associazioni di categoria. Le liberalizzazioni, cioè, pretendono di slegare i legami di una società legata insieme da mille interessi: i familismi, i localismi, i particolarismi, le eredità. Dove molte persone – oltre e prima che “cittadini” – si sentono tassisti, farmacisti, camionisti, giornalisti, avvocati, notai, benzinai, politici, artigiani, banchieri, dirigenti, commercianti, commercialisti, consulenti, cambisti… Titolari di interessi di entità molto diversa. Più o meno piccoli, più o meno grandi. A cui, però, non intendono rinunciare.
È difficile immaginare che un cambiamento tanto profondo possa avvenire senza “spargimento di sangue”. (Parlo, ovviamente, in modo figurato e metaforico.) E a chi ritenga necessario “slegare” l´Italia – per rendere la società più equa e l´economia più aperta – la protesta dei Tir e dei tassisti è lì a rammentare che la lotta sarà lunga e dura. Prepariamoci. Ce n´est qu´un début…

da La Repubblica del 24 gennaio 2012
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“Il lato oscuro della rivolta”, di ATTILIO BOLZONI
SULLA RIVOLTA NATA IN SICILIA C´E´ L´OMBRA DI COSA NOSTRA

Il ribellismo siciliano è sempre stato portatore di disgrazie. Anche per l´Italia. Ogni volta che laggiù si parla di «zona franca» e rigurgiti indipendentisti si materializzano con moti di rivolta, c´è da stare sicuri che non si annuncia mai nulla di buono. La sommossa partita dall´isola – per fame e per disperazione dicono loro, gli insorti – è una febbre che ha contagiato il resto del Paese.
Dalla Calabria al Piemonte, l´Italia è ferma. Sta accadendo tutto in questi giorni, con rivendicazioni e obiettivi che solo apparentemente sono gli stessi. In Sicilia si è acceso un fuoco che sarà molto difficile da spegnere.
La testa del serpente è lì. Non sappiamo se dietro ai disordini «ci sia la mafia», come ha subito avvisato il presidente di Sicindustria Ivan Lo Bello. Di certo ci sono forze e milizie che hanno bisogno di farsi vedere, di farsi riconoscere a Roma da Monti e dal suo nuovo governo. Vogliono aprire un «tavolo». I blocchi dei padronicini e dei “forconi” portano solo un messaggio: siamo qui e siamo tanti, voi di Roma dovete fare i conti con noi.
Noi chi? E´ la solita Sicilia che cambia e non cambia mai. Con un Pdl allo sbando, con un Berlusconi che non è più garante e non è più condottiero, il ventre molle dell´isola ha la necessità di una sua rappresentanza. E quali facce e quali personaggi più adeguati e convenienti avrebbero potuto simboleggiare meglio questa voglia di «rivoluzione», se non questi vecchi arnesi del sottobosco politico siciliano?
Mariano Ferro, allevatore di cavalli di Avola, ex Forza Italia, ex Movimento per l´autonomia, in buoni rapporti con l´ex ministro dell´Agricoltura Saverio Romano sotto inchiesta per mafia. Giuseppe Richichi, quello di Tir selvaggio, consulente di Totò Cuffaro quando era il padreterno della Regione prima di finire a Rebibbia. Martino Morsello, un passato da socialista, ma un presente di estrema destra con Forza Nuova.
Eccoli gli uomini senza macchia e senza peccato che innalzano barricate, la “Forza d´Urto” che marcia su Roma sputando sulla «vecchia politica», scavalcando sindacati e associazioni di categoria.
E´ una Sicilia dei Gattopardi raffigurata, questa volta grossolanamente ma efficacemente, da questi uomini che hanno messo in ginocchio una regione con i suoi cinque milioni di abitanti. Sono cresciuti tutti nel brodo del sicilianismo reclamizzato negli ultimi anni dal governatore Raffaele Lombardo, anche lui un altro ferro arrugginito della Dc più preistorica ma che è riuscito furbescamente a riciclarsi come moderno.
Il 13 marzo del 2008, alla vigilia della sua trionfale elezione a Palazzo d´Orlèans, era nella sua patria – Caltagirone – davanti a un coloratissimo carrettino siciliano con issato un grande cartello: «Benzina a metà prezzo in Sicilia». Lo stesso slogan gridato in questi giorni a ogni incrocio fra Palermo e Catania. Come quell´altro, di ieri mattina: «Vogliano una moneta siciliana». Il governatore Lombardo non è solo in questa battaglia secessionista. C´è anche l´ex uomo immagine di Berlusconi a Palermo, Gianfranco Micciché. Da Forza Italia al Pdl, dal Pdl al “Grande Sud”. Un altro «rinnovatore».
In nome della Sicilia ai siciliani.

da La Repubblica del 24 gennaio 2012

"Nuova laurea, 12 anni dopo l’università è meno elitaria", di Flavia Amabile

La Fondazione Agnelli analizza gli effetti della riforma del 1999 Migliora l’accesso ai corsi, ma non basta. E ci vuole più qualità

Ricordate il «3+2»? È la «nuova» laurea, quella con cui hanno dovuto cimentarsi i diplomati dal 1999 in poi. Nei tre anni di conduzione gelminiana del ministero dell’Istruzione è andata in onda una campagna continua e dilagante sugli effetti disastrosi della riforma introdotta 12 anni fa dall’allora ministro Luigi Berlinguer. Oggi uno studio realizzato dalla Fondazione Agnelli ridimensiona molto di quanto si è detto in passato e disegna una situazione di luci ed ombre.

A tutti quelli che a lungo hanno criticato il «3+2» giudicandola una macchina «sforna-laureati» e dipingendo l’Italia come un luogo invaso da giovani pieni di titoli accademici, il rapporto risponde con dati che raccontano tutt’altro.
«Gli italiani tutti laureati? Una vox-populi», spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione. Abbiamo la metà dei laureati che dovremmo avere entro il 2020 in base agli obiettivi di Lisbona. In realtà il nuovo tipo di laurea permette finalmente di affrontare una situazione drammatica: nel 2000 si laurea in Italia il 9% di chi ha fra i 25 e i 64 anni di età, solo un punto in più della Turchia, tanto per dire, e 10 punti in meno della media europea. La metà di chi si iscriveva abbandonava gli studi.

A dieci anni dall’introduzione del «3+2» le cifre sono diverse: sono calati dal 20 al 17% gli abbandoni dopo il primo anno di corso e dal 24 al 13% gli immatricolati inattivi, quelli che non conseguono crediti nell’anno solare successivo a quello di immatricolazione.

E l’università ha perso il suo ruolo di formazione d’élite: nel 2009 il 74,6% dei laureati sono i primi a portare in famiglia un titolo universitario. Ancora molto c’è da fare se fra gli italiani tra i 25 e i 34 anni chi ha almeno una laurea breve è il 20%, mentre in Germania è il 26%, negli Stati Uniti il doppio dell’Italia, il 41%, e nel Regno Unito il 45%. E in dieci anni sono successe anche molte altre cose: sono raddoppiati i corsi e le sedi, ad esempio. «L’espansione dell’offerta formativa ha superato di gran lunga la crescita delle iscrizioni», è scritto nel rapporto. Difficile immaginare che il proliferare dei corsi sia dovuto all’aumento degli studenti. Non lo è, infatti, ed ecco la «distorsione», per usare una delle parole presenti nel rapporto, della riforma.

Ma non solo gli atenei, anche le aziende hanno la loro quota di responsabilità nell’aver depotenziato gli effetti benefici del «3+2».
Vengono assunti 100 mila laureati in più ma in condizioni di precarietà e con salari e mansioni molto vicine a quelle dei vecchi diplomati. «La verità è che le imprese hanno difficoltà a distinguere fra i diversi tipi di laurea e si è creata una gran confusione – spiega Gavosto – mentre sul fronte universitario, mancando sistemi di valutazione e controllo gli atenei hanno privilegiato obiettivi interni, piuttosto che la qualità dell’offerta».

www.lastampa.it

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“La nuova laurea ora vale quanto il diploma”, di SIMONETTA FIORI

Studio della Fondazione Agnelli: la triennale fa trovare lavoro, ma con stipendi sempre più bassi. Il bilancio sulla riforma del “3 più 2” mostra numeri in crescita e base sociale più larga. La riduzione delle immatricolazioni dopo il picco dell´ esordio ne segna il parziale fallimento

Roma – I “nuovi laureati” sono aumentati rispetto ai “vecchi”, e per la gran parte provengono da famiglie che non hanno mai conosciuto l´università. Ma – una volta trovata occupazione – guadagnano meno dei predecessori, e minimo appare il vantaggio retributivo nel confronto con i diplomati. Fine di un´illusione? A I nuovi laureati è dedicato il rapporto della Fondazione Giovanni Agnelli che sarà presentato oggi pomeriggio alla Laterza dal direttore Andrea Gavosto e dal ministro Elsa Fornero. Leggi…

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"Sanità, una responsabilità da condividere", di IGNAZIO MARINO*

Caro Direttore, è giusto che un ospedale al termine di un ricovero dimetta il paziente consegnandogli un documento che riassuma le spese che il Servizio sanitario nazionale ha sostenuto per lui? La Regione Lombardia e la Regione Piemonte hanno deliberato che nei prossimi mesi ogni paziente, al momento di congedarsi dall’ospedale riceverà, oltre alla lettera di dimissioni, il conto: una nota a due voci dove saranno registrate separatamente la somma eventualmente pagata dal paziente e i costi sostenuti dal servizio pubblico. Leggi…
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"LA PARTITA A SCACCHI DI RE LANTERNA", di FRANCO CORDERO

Che Berlusco Magnus abbia condotto l´Italia a due dita dalla fossa, lo dicono i numeri. Sembrava onnipotente e in tre anni dilapida il capitale: due mesi fa era un relitto, politicamente parlando, scaricato persino dall´apologetica pseudoequidistante; non capitolerà mai, ripete fino all´ultimo; e come Dio vuole, toglie l´ormai insostenibile disturbo, dimissionario coatto. Leggi…

"Dagli all'evasore" di Massimo Gramellini

Fra i pochi effetti positivi (Monti direbbe: «Non del tutto negativi») di questa crisi Fine di Mondo c’è il cambio di atteggiamento degli italiani nei confronti degli evasori. Fino a qualche tempo fa, intorno agli evasori luccicava ancora quell’alone di rispetto confinante con l’invidia che nel nostro Paese circonda sempre i furbi quando mettono in pratica le trasgressioni che gli altri osano soltanto immaginare. Leggi…

Bersani: «Guido Rossa fu ucciso perché difese democrazia»

«Nell’anniversario della morte di Guido Rossa, operaio e sindacalista della Cgil barbaramente ucciso il 24 gennaio di 33 anni fa dalle Brigate rosse, voglio unire il mio ricordo a quello di chi non dimentica il sacrificio delle vittime di quel folle progetto eversivo»: lo ha dichiarato oggi il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, in occasione dell’anniversario della morte dell’operaio genovese.

La figlia: «Giusto liberare i due br»

Sabina Rossa: «Mio padre e la sua lotta solitaria»

«La violenza terrorista – ha detto Bersani – volle colpire in Guido Rossa un uomo che con fermezza ed alto senso civico si schierò a difesa delle istituzioni democratiche. L’Italia superò quella gravissima minaccia grazie al contributo di uomini come Guido Rossa, che seppero opporsi alla violenza con coraggio e al prezzo della propria vita». Secondo Bersani, «in quella scelta di civismo va riconosciuto non solo il valore di un uomo ma di un mondo, quello del lavoro, che ha sempre difeso i principi della nostra Costituzione perché quei principi ne riconoscono il ruolo fondamentale per tutta la società».

da www.unita.it