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"Paura, instabilità, futuro. Ecco la generazione 2.0 che si affaccia al voto", di Carlo Buttaroni *

Ottimisti e attenti al «bene comune», ma già condizionati dalle prospettive di precarietà. Sono i ragazzi fra i 17 e i 21 anni che usano il web, comunicano con gli sms e temono di avere nella vita meno opportunità dei loro genitori

Ottimisti, attenti alle novità, positivamente orientati verso i diritti civili, la convivenza sociale e il bene comune. E naturalmente ipertecnologici. È questa la fotografia dei giovanissimi tra i 17 e i 21 anni. Nel complesso sono soddisfatti del proprio tenore di vita, ma allo stesso tempo, sono titubanti rispetto al futuro, anche perché un giovane su due ha paura di non trovare lavoro. Il 71% è convinto che valga la pena impegnarsi per valori come l’uguaglianza sociale e la solidarietà, piuttosto che puntare sui soldi e sul successo personale. Non si sentono rappresentati nella difesa dei loro diritti, se non parzialmente dai sindacati e dalle istituzioni. Nonostante questo non sono disattenti nei confronti della politica, che seguono prevalentemente attraverso internet o parlandone con gli amici. E, infatti tre giovani su quattro si collocano all’interno di un campo politico, anche se più della metà degli intervistati, se si trovasse davanti la scheda elettorale, non saprebbe quale partito votare.
È la generazione “2.0”, nata dopo la caduta del muro di Berlino, dopo il Caf, gli anni dell’edonismo e del rampantismo. Giovani cresciuti sotto il segno della globalizzazione, della comunicazione mobile, di internet di massa, delle classi multietniche. Bambini diventati adolescenti con le note del Grande fratello, i sentimenti compressi in pochi caratteri scritti sul display del cellulare, i sogni presi in prestito da una pubblicità che trasforma la realtà in videogioco.
Non hanno mai conosciuto la Prima Repubblica. E si sono formati interamente durante gli anni della Seconda. Nonostante questo non hanno mai avuto l’opportunità di eleggere un proprio rappresentante, esprimere un giudizio di merito sui governi che hanno tracciato il loro futuro, dare un indirizzo politico attraverso il voto. Apolidi nella società in cui hanno mosso i primi passi e sono cresciuti.
Troppo giovani per esprimere direttamente una rappresentanza e aver riconosciuto un ruolo. Troppo lontani dal cuore del sistema per dare qualcosa in cambio. Una generazione sulla quale nessuno ha investito nulla; non i politici, alla ricerca di consensi e voti; non le tv e i giornali, perché ci sono copie da vendere e obiettivi di audience da raggiungere; non gli uomini di economia e di azienda perché ci sono obiettivi di mercato da conservare; non gli intellettuali troppo distratti e appagati dai primi tre.
Saranno loro, nei prossimi anni, a pagare i costi di uno sviluppo che insieme all’aria, al suolo, alle risorse naturali, ha consumato quote del loro futuro. In eredità avranno molti debiti e poche certezze, se non quella di condizioni di vita peggiori dei loro padri. Non avranno in dote nemmeno la democrazia che abbiamo conosciuto, figlia dei grandi movimenti e delle grandi sfide del Novecento, ma una post-democrazia, dove i governi nazionali sono condizionati, nelle scelte di politica economica, da una finanza senza regole che distrugge quote di ricchezza reale e quote di democrazia sostanziale.
Vivono gli affanni della precarizzazione che si ripercuote sui progetti di vita. Una percezione che li spinge ad appiattirsi in un eterno presente, con il timore che ogni progetto possa trasformarsi in un insuccesso, tanto più doloroso quanto più inizialmente coinvolgente.
Paure che danno origine ad atteggiamenti che appaio contraddittori: da un lato, i giovani, sono portati ad attivarsi per rincorrere le proprie aspirazioni, dall’altro sono disorientati e lo smarrimento li porta a vivere un’incertezza che appare come una rinuncia ai propri sogni. Una precarietà che si trasforma nella paura di vivere la vita reale, dando corpo a quella cultura del risparmio emotivo che sembra caratterizzare le loro relazioni. Anche perché, nel frattempo, l’io-ipertrofico che ha nutrito l’adolescenza della generazione “2.0” si è definitivamente ammalato, dopo essersi nutrito dei titoli tossici, del valore della conversione dell’etica in euro, dell’espansione verso nuovi mercati e nuovi individui.
Vivono l’assenza di valori, di mode propositive di costumi edificanti, immersi in una società nella quale predominano gli spazi grigi e la notte della coscienza. Seppur attraversati da nuove forme di coinvolgimento sociale e di partecipazione civile, sembra crescere in loro una nuova forma di malattia sociale: la malinconia.
Ecco allora che i buoni sentimenti si declinano in nuove e differenti attese: il senso di un’identità a cui appartenere e con cui riconoscersi, un “altrove” verso cui dirigersi. E l’assenza di risposte alle loro domande li spinge a gesti di esasperata esaltazione e a macabri rituali di devastazione, non più sostenuti da un modello familiare al cui interno, al posto dell’ascolto e della parola, si alternano distratte attenzioni e vuoti silenzi, occasionalmente compensati dall’ultimo modello di cellulare o dall’automobile lanciata a folle velocità.
I progetti di vita individuali non appaiono più sufficienti a restituire significato al senso di vuoto che avvolge i loro destini, ma è proprio da qui, dal sentirsi animati da un peso così poco sostenibile, che affiora un sentimento per un cambio di prospettiva verso un nuovo ordine di valori e di riferimenti. Reclamano parole sulla vita che viene avanti, risposte che indichino quale sia la via da percorrere, una visione e un agire che restituiscano senso all’intera società.
Dalle istanze che avanzano traspare l’esigenza di affermare una nuova identità, in un percorso reso difficile dal fatto ciò che era prima e i valori in cui si credeva sono messi continuamente in discussione. A tutto ciò si reagisce con atteggiamenti di vera e propria inedita conflittualità, un distacco che si colora anche di insofferenza, quando non addirittura di ostilità in un crescendo di contenuti e toni quanto più si accompagna a reciproci disconoscimenti e incomprensioni.
Andranno alle urne per la prima volta per un’elezione nazionale, l’anno prossimo, avendo maturato i pieni diritti politici. Nel frattempo lo scenario all’interno del quale sono cresciuti è cambiato. È calato il sipario sulla Seconda Repubblica e il Paese vive i fermenti e le tensioni che precedono l’entrata in scena della Terza.
La “generazione due punto zero” vive l’ansia di un credito di fiducia mai pienamente accordato. Esprime una domanda di rinnovamento e di riscatto, attende ma non si affida, ha bisogno di strumenti reali per creare e nuovi luoghi dove produrre, per dare vita a un nuovo patto che permetta ai giovani, di conoscersi, capirsi, collaborare, integrarsi reciprocamente, senza omologazioni e senza perdite d’identità.

* presidente di Tecné

da L’Unità

«Camusso: “Per noi è no. Ma trattiamo su fisco e tempi dei risarcimenti”», di Alessandro Barbera

«Per finanziare la riforma chiedere di più agli autonomi»
I GIOVANI «Non serve un nuovo contratto ne esistono già due, apprendistato e inserimento». SUI CONTENZIOSI APERTI «Per le dispute previdenziali c’è una proposta interessante dall’Inps». LE NUOVE GENERAZIONI «Lo ammetto, il sindacato poteva fare di più per organizzarle»

ROMA. Segretario Camusso, il momento è arrivato. Il premier vi chiede di non porre veti.
«Abbiamo detto chiaramente che per noi l’articolo 18 non può essere oggetto di discussione. A meno che non pensino di estenderlo».
All’inizio di una trattativa si dice sempre così. Eppure il governo si siede con l’idea di trovare un compromesso attorno alla proposta Boeri-Garibaldi: in sostanza la tutela dal licenziamento verrebbe garantita solo dopo tre anni di lavoro.
«Si sono costruite aspettative sbagliate. Abbiamo firmato un accordo con Cisl e Uil proprio per sgombrare ogni dubbio. Non c’è bisogno di introdurre un nuovo tipo di contratto. Per i giovani ne esistono già di due tipi, si chiamano apprendistato e inserimento».
E’ opinione di molti che l’articolo 18 sia un elemento di irrigidimento delle assunzioni. Di più: crea un dualismo fra quelle con più di quindici dipendenti e quelle che ne hanno meno. Cosa risponde?
«Se la media delle imprese italiane avesse 14 addetti le direi che ha ragione. Invece i numeri ci dicono che sta fra i tre e i nove. Il problema delle imprese si chiamano credito e capitalizzazione. A giudicare dalle misure prese, mi pare l’abbia capito anche il governo Monti».
Ipotizziamo che io, imprenditore, assuma un dipendente a tempo indeterminato, e che poi quel lavoratore abbia comportamenti che ne meritino il licenziamento. Per ottenere ragione da un giudice devo aspettare in media cinque anni.
«Questa è l’unica questione sulla quale sono d’accordo con le imprese. Di soluzioni al problema ce ne possono essere diverse. Una può essere creare una corsia preferenziale. Per le dispute previdenziali c’è una proposta interessante elaborata dall’Inps».
I numeri dicono anche che siamo uno dei pochi Paesi in Europa in cui non c’è il licenziamento per motivi economici. Non è così?
«In Italia il licenziamento per motivi economici esiste eccome».
Se lei intende con questo la cassa integrazione è a carico dei contribuenti. O no?
«Sistemi come il nostro esistono in Francia e in Germania. E da loro lo Stato ci mette di più, non di meno. Qui semmai è troppo alto il prezzo che si chiede a imprese e lavoratori».
Nel documento unitario chiedete un minor carico fiscale sulle buste paga dei lavoratori. Può essere un elemento di trattativa?
«La manovra di dicembre ha introdotto nuovi sgravi Irap per l’assunzione di giovani e donne al Sud. Stessa cosa si è fatta per l’apprendistato. Questi interventi vanno nella giusta direzione».
Per estendere in via strutturale la cassa integrazione alle imprese più piccole chiedete un ulteriore aumento dei contributi a carico degli autonomi. Ma sono già saliti molto, e il ministro Fornero è contrario.
«Non capisco l’atteggiamento del ministro. A regime, se non ricordo male, i contributi degli autonomi resteranno di nove punti al di sotto dei dipendenti. Mi pare troppo. Io resto convinta che un sistema di previdenza pubblico debba avere forme di solidarietà interne».
Il ministro preferirebbe chiedere di più ai più ricchi. Ma non sarebbe un contributo simbolico rispetto a ciò di cui c’è bisogno?
«Certo, i parlamentari potrebbero dare di più. Ma non credo che quel contributo, per quanto alto, basterebbe a finanziare il sistema».
Direste no anche ad una riforma sul modello danese?
«Abbiamo fatto una simulazione di quel sistema in Lombardia. Costa troppo, non si può fare. Stiamo coi piedi per terra: qui il problema è evitare abusi e rendere il sistema più giusto».
Al tavolo oggi si siedono quattro sindacati che rappresentano lavoratori maturi se non pensionati. Mi dice una ragione per la quale un giovane si dovrebbe sentire rappresentato dalle vostre opinioni?
«In questi anni i giovani sono stati per così dire distratti da un mercato del lavoro che non li ha tutelati. Mi chiede se il sindacato poteva fare di più per organizzarli? Ebbene sì, lo ammetto. Ma credere che togliere tutele a chi un lavoro ce l’ha sia una risposta, beh, non credo nemmeno loro siano d’accordo».
E’ ottimista sull’esito della trattativa?
«Sono seriamente impegnata».

La Stampa 23.1.12

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“L’articolo 18 pilastro di civiltà. Palazzo Chigi non lo modificherà”, di Roberto Mania

Camusso: la vera occupazione è a tempo indeterminato. Le parole del premier Monti contengono una novità. Per la prima volta parla di negoziato tra l´esecutivo e le parti sociali Finora non si era mai posto in questi termini. Diremo no al contratto unico perché contiene un inganno Introduce solo un nuovo modello senza colpire la proliferazione della flessibilità

ROMA – Segretario Camusso, come replica al presidente del Consiglio Monti secondo cui l´articolo 18 non può essere un tabù?
«Intanto vorrei dire che nell´affermazione di Monti c´è una notizia: per la prima volta, e finalmente, parla di un negoziato tra il governo e le parti sociali. Finora non l´aveva detto».
È vero, ma l´articolo 18 per lei è un tabù?
«Guardi, io penso che dietro questo giochino di dire che l´articolo 18 non deve essere un tabù, si nasconda l´idea, che non condividiamo e non condivideremo, secondo la quale per combattere il dualismo del nostro mercato del lavoro si debba intervenire sulle tutele di chi è già occupato. Noi continuiamo a non essere d´accordo con questa analisi. L´articolo 18 non può essere un tema di discussione né in partenza del negoziato, né a conclusione del negoziato».
Eppure l´articolo 18 si applica solo ai dipendenti delle aziende con più di 15 dipendenti. Per tutti gli altri è previsto un risarcimento monetario, anziché il reintegro nel posto di lavoro, in caso di licenziamento ingiustificato. Perché non si può estendere questo meccanismo a tutti i lavoratori?
«Ormai in Italia si pensa che non si possa licenziare per motivi economici. Invece non è vero. Piuttosto inviterei tutti – anche molti professori che fanno tanti guai – a una lettura collettiva dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una norma che è esplicitamente ed esclusivamente dedicata alla tutela del licenziamento senza giusta causa a carattere discriminatorio. Così chi critica oggi l´articolo 18 dovrebbe avere il coraggio di sostenere che la buona sorte del Paese dipende dalla possibilità o meno di potere licenziare in modo discriminatorio».
D´accordo, ma perché non adottare il risarcimento economico al posto del reintegro?
«Non è casuale che lo stesso Statuto distinse tra grandi e piccole imprese. In quest´ultime una volta che si rompe il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore è complicato tornare indietro. E non dimentichiamoci che lo Statuto nacque in un´epoca in cui c´erano soprattutto grandi imprese».
Sono passati quarant´anni. Perché non si può cambiare?
«Perché l´articolo 18 ha una funzione deterrente. Continuo a pensare che sia una norma di civiltà, anche se a qualcuno dà fastidio. I destini economici di un´impresa si possono affrontare in tante maniere senza intaccare i diritti di chi lavora. L´articolo 18 dice che non si può usare il potere maggiore che hanno le imprese per discriminare le persone».
Se il governo porrà la questione dell´articolo 18, salterà il negoziato?
«Non ho avuto affatto l´impressione che fosse questa la priorità del presidente Monti. Non credo che il governo partirà da lì. Ha detto che intende fare una trattativa e penso che terrà conto delle proposte unitarie di Cgil, Cisl e Uil».
Quante possibilità ci sono che arriviate ad un´intesa con il governo e la Confindustria?
«Posso dire che ci presentiamo al tavolo in maniera molto seria e con le nostre proposte. Mi auguro che lo facciano anche gli altri, governo e imprenditori».
Perché siete contrari al “contratto unico” che nell´arco di un triennio permetterebbe di stabilizzare le nuove assunzioni? Perché la Cgil l´ha definito “un inganno”?
«È un inganno perché parte dall´idea che in Italia, e in Europa, non ci sia già una regola generale sulle assunzioni. Invece, c´è, eccome: è quella secondo cui le assunzioni normali sono a tempo indeterminato. In più aggiunge una nuova forma contrattuale, senza intaccare le cause, anche ideologiche e culturali, che hanno portato al proliferare di decine di tipologie contrattuali».
Ma lei vorrebbe tornare indietro a quando non c´erano i contratti flessibili?
«Non si torna mai indietro. Penso che si debbano fare le cose necessarie per il nostro mercato del lavoro: tornare alla normalità. Per questo pensiamo che vadano incentivate, sul piano fiscale e contributivo, le assunzioni attraverso il contratto di apprendistato e il contratto di inserimento per le donne e gli over 50».
E quali contratti flessibili salverebbe?
«Penso che vada rafforzato il part time, che vada riordinato il lavoro interinale, ma che si debba smettere di considerare le partite Iva come fossero lavoro subordinato».
Lei ha criticato le liberalizzazioni di Monti. Perché è contraria?
«Non sono contraria. C´è, però, un tratto che mi preoccupa molto: quello di intervenire scaricando gli effetti sulle condizioni di lavoro. Penso all´allungamento degli orari dei negozi, penso alla cancellazione per legge (una scelta davvero inaudita) del Contratto nazionale delle ferrovie, penso al riordino dei tirocini senza valutare gli aspetti retributivi, penso, infine, che un orario di lavoro più lungo per i tassisti non dia nemmeno un servizio migliore».

da Repubblica 23.1.12

"Articolo 18? La priorità è il precariato. E il governo rafforzi le liberalizzazioni", intervista a Rosy Bindi di Federica Fantozzi

«Investimenti, abbassamento del costo del lavoro, semplificazione della normativa sui contratti di lavoro che ci allontani dalla giungla creata dalla legge Biagi, nuovi ammortizzatori sociali. Non si può introdurre nuova flessibilità senza prima metterla in sicurezza».

Onorevole Rosy Bindi, da presidente del Pd faccia un bilancio della prima assemblea del Pd nell’era deberlusconizzata. Una riunione che a qualcuno è sembrata un po’ sottotono.
«È stato un momento di riflessione seria, espressione di un partito che ha consapevolezza delle sue responsabilità e della sua forza. In tutti gli interventi si è affermato con chiarezza il sostegno leale al governo Monti senza rinunciare alle nostre idee. Lo abbiamo fatto sulla manovra, lo faremo su liberalizzazioni e mercato del lavoro».

Discussione sulle primarie rimandata a dopo l’eventuale riforma elettorale. Un ordine del giorno alla fine non votato. Avete fatto melina?
«Guardi, l’ordine del giorno che non abbiamo votato domenica era stato approvato nell’assemblea precedente. Non c’è nessuna indisponibilità a discutere di primarie: nella malaugurata ipotesi in cui si andasse a votare con il Porcellum le faremo. Troveremo strumenti che tolgano alle segreterie di partito la scelta dei candidati».

Perché non cominciare subito a parlarne, allora?
«Il messaggio politico dell’assemblea doveva essere più forte: bia tutti i costi cambiare questa legge elettorale. Il problema è come il Pd sceglie i candidati ma come si forma il Parlamento italiano. Non c’è stata malizia né secondi fini, infatti i promotori si sono fidati. Adesso gli altri partiti capiranno che il Pd fa sul serio sulla riforma».

Sia sincera: quanto pesa politicamente al Pd l’appoggio al Governo Monti?
«Noi questa fase l’abbiamo voluta, e non ci pesa. E’ stata necessaria per mandare a casa Berlusconi e per fare scelte difficili, impossibili senza un sostegno ampio. Detto questo, noi stiamo lavorando per l’alternativa. Noi ci identifichiamo con questa fase della vita democratica. Il progetto del Pd non è interamente contenuto in questo governo, che certo non lo esaurisce».

Deadline 2013 o può essere anche prima?
«La legistatura arriverà alla scadenza naturale. Per il Pd questa è una fase di preparazione. E la sta usando in modo che io reputo intelligente, con grande unità e senza delegare niente a nessuno».

Liberalizzazioni. Arriva in aula il decreto ‘Cresci Italia’, la cosidetta “fase 2”. Cosa vi proponete di cambiare in Parlamento, tenendo presente i paletti Monti?
«Da noi il Governo non riceverà emendamenti che stravolgono l’impianto del decreto. Piuttosto le proposte che lo rafforzano. Accanto alla soddisfazione per il lavoro svolto, c’è l’obiezione che si poteva osare di più. E il Pdl ad essere preoccupato, il Pd invita a premere l’acceleratore».

Su quali fronti, in particolare, c’è ancora da fare?
«Dobbiamo capire la natura dei rinvii. Vigilare che non diventino sine die. Ci sono timidezza e poca determinazione sulle farmacie. Debolezze su banche, assicurazioni, trasporti. I grandi settori sono stati appena sfiorati. Il Pd, che sulle liberalizzazioni è stato pioniere, vuole che si vada avanti».

Da pionieri, che ne pensate delle categorie in rivolta? Da Nord a Sud dilagano gli scontenti. È la crisi della quarta settimana o l’Italia dei Gattopardi?
«È ovvio che la richiesta di cambiamenti tocchi interessi consolidati, a volte privilegi, comunque abitudini. Apprezzo che Monti abbia confermato che le proteste non lo fermeranno e lo esorto ad andare avanti. Detto questo, alcuni hanno più ragioni di altri a protestare: capisco meno la serrata dei farmacisti o lo sciopero degli avvocati di quello dei tassisti».

Articolo 18. Per il governo non è un tabù. E per il Pd?
«Io ho capito che Monti invita i sindacati a sedersi senza il tabù dell’articolo 18 ma anche senza il totem dell’esecutivo di cambiarlo a tutti i costi. Se si blocca su questo argomento la possibilità di riformare il mercato del lavoro, allora deve essere il governo a fare il primo passo».

Come?
«Cominciando da altri temi. Precariato, flessibilità e sicurezza. Il mercato italiano è così sgangherato che non si può partire dal punto più complicato».

C’è chi, anche a sinistra, ritiene che la difficoltà italiana a licenziare abbia aggravato le difficoltà per i giovani di accedere al mercato del lavoro.
«In un Paese dove la grande maggioranza delle imprese è piccola e media, l’articolo 18 riguarda pochi. Parliamo piuttosto di come garantire la sicurezza economica insieme alla flessibilità».

Ma se Stato e imprenditori hanno i conti in rosso, i soldi necessari chi ce li mette?
«Non si trovano certo abrogando l’articolo 18. Personalmente credo che non si debba toccare, ma comunque l’errore è voler cominciare da lì. Non lo ha detto nemmeno Confindustria. Ha sbagliato il ministro Elsa Fornero a porre questo problema come centrale, subito dopo una dura riforma sulle pensioni. Ha indurito le posizioni in campo».

Da dove si riparte per creare occupazione, allora?
«Investimenti, abbassamento del costo del lavoro, semplificazione della normativa sui contratti di lavoro che ci allontani dalla giungla creata dalla legge Biagi, nuovi ammortizzatori sociali. Non si può introdurre nuova flessibilità senza prima metterla in sicurezza».

Voi dite: la priorità è cambiare la legge elettorale. Ma il Pdl ha già detto che questo deve essere l’ultimo tassello della grande riforma istituzionale. Posizioni conciliabili?
«Così non ci siamo. Prima bisogna toccare il bicameralismo perfetto, ridurre il numero dei parlamentari e abrogare il Porcellum. Se il Pdl pone come pregiudiziale il tema del presidenzialismo, significa che vuole far finire tutto nel nulla».

Oppure, che Berlusconi è disposto a sacrificare la Lega in cambio del Quirinale…
«Sarebbe una proposta irricevibile. Non saremmo mai disposti ad accettare uno scambio. Non c’è niente sotto il tavolo o fuori dalla luce del sole».

In ogni caso, le posizioni sulla legge elettorale tra i partiti sono distanti. Vede possibile un’intesa sul sistema tedesco?
«Non sono in grado oggi di individuare un punto di mediazione. Il Pd ha reso nota una proposta, gli altri avanzino la loro e si apra il tavolo. Subito. Senza perdere tempo».

da L’Unità

"Semplificare senza sacrifici", di Stefano Rodotà

Vi sono due punti nel decreto sulle liberalizzazioni che meritano d´essere sottolineati per il loro notevole significato di principio. Il primo riguarda l´eliminazione della norma che, vietando ai Comuni di costituire aziende speciali per la gestione del servizio idrico, contrastava visibilmente con il risultato del referendum sull´acqua come bene comune.
Abbandonando questa via pericolosa e illegittima, il governo non ha ceduto ad alcuna pressione corporativa ma ha fatto il suo dovere, rispettando la volontà di 27 milioni di cittadini. Certo, la costruzione degli strumenti istituzionali necessari per dare concretezza alla categoria dei beni comuni incontrerà altri ostacoli nel modo in cui lo stesso decreto disciplina nel loro insieme i servizi pubblici. Ma il disconoscimento di una volontà formalmente manifestata con un voto avrebbe gravemente pregiudicato il già precario rapporto tra cittadini e istituzioni, inducendo ancor di più le persone a dubitare dell´utilità di impegnarsi nella politica usando tutti i mezzi costituzionalmente legittimi. Vale la pena di aggiungere che questa scelta può essere valutata considerando anche l´annuncio del ministro Passera relativo all´assegnazione delle frequenze, da lui definite nella conferenza stampa come “beni pubblici” di cui, dunque, non si può disporre nell´interesse esclusivo di ben individuati interessi privati. Senza voler sopravvalutare segnali ancora deboli, si può dire che il ricco, variegato e combattivo movimento per i beni comuni non solo ha riportato una piccola, importante vittoria, ma ha trovato una legittimazione ulteriore per proseguire nella sua azione.
Questa associazione tra acqua e frequenze non è arbitraria, poiché la ritroviamo nelle proposte della Commissione ministeriale sulla riforma dei beni pubblici. Si dovrebbe sperare che i partiti non continuino soltanto a fare da spettatori alle gesta del governo, ma comincino a rendersi conto delle loro specifiche responsabilità. Tra queste, oggi, vi è proprio quella che riguarda una nuova disciplina dei beni, per la quale già sono state presentate proposte in Parlamento, e che è indispensabile perché le categorie dei beni corrispondano a una realtà economica e sociale lontanissima da quella che, sessant´anni fa, costituiva il riferimento del codice civile. Se questa riforma fosse stata già realizzata, non sarebbe stata possibile la vergogna del “beauty contest” sulle frequenze. E ci risparmieremmo molte delle approssimazioni su una via italiana al risanamento che contempli massicce dismissioni di beni pubblici, quasi che la loro vocazione sia solo quella di far cassa e non la realizzazione di specifiche finalità che le istituzioni pubbliche non possono abbandonare.
Tutt´altra aria si respira quando si considera l´articolo 1 del decreto. Qui non si trova uno dei soliti inutili e fumosi prologhi in cielo che caratterizzano molte leggi. Si fanno, invece, tre inquietanti operazioni: si prevede l´abrogazione di una serie indeterminata di norme, affidandosi a indicazioni assai generiche, che attribuiscono al governo una ampiezza di poteri tale da poter sconfinare quasi nell´arbitrio; si impongono criteri interpretativi altrettanto indeterminati e arbitrari; soprattutto si reinterpreta l´articolo 41 della Costituzione in modo da negare gli equilibri costituzionali lì nitidamente definiti. L´obiettivo dichiarato è quello di liberalizzare le attività economiche e ridurre gli oneri amministrativi sulle imprese. Ma la via imboccata è quella di una strisciante revisione costituzionale, secondo una logica assai vicina a quella di tremontiana memoria, poi affidata a uno sciagurato disegno di legge costituzionale sulla modifica dell´articolo 41, ora fortunatamente fermo in Parlamento.
Indico sinteticamente le ragioni del mio giudizio critico. Le norme da abrogare vengono individuate parlando di limiti all´attività economica “non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l´ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità”; e di divieti che, tra l´altro, “pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate”. Tutte le altre norme devono essere “interpretate e applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato rispetto alle perseguite finalità di interesse pubblico generale”. Non v´è bisogno d´essere giurista per rendersi conto di quanti siano i problemi legati a questo modo di scrivere le norme. Non è ammissibile che l´”interesse pubblico generale” sia identificato con il solo principio di concorrenza, in palese contrasto con quanto è scritto nell´articolo 41. Il sovrapporsi di diversi soggetti nella definizione complessiva delle nuove regole può creare situazioni di incertezza e di conflitto. Il bisogno di semplificazione e di cancellazione di inutili appesantimenti burocratici non può giustificare il riduzionismo economico, che rischia di sacrificare diritti fondamentali considerati dalla Costituzione irriducibili alla logica di mercato. Si pretende di imporre i criteri da seguire nell´interpretazione di tutte le norme in materia: ma le leggi si interpretano per quello che sono, per il modo in cui si collocano in un complessivo sistema giuridico, che non può essere destabilizzato da mosse autoritarie, dall´inammissibile pretesa di un governo di obbligare gli interpreti a conformarsi alle sue valutazioni o preferenze. In anni recenti, si è dovuta respingere più d´una volta questa pretesa, che altera gli equilibri tra i poteri dello Stato.
L´operazione, di chiara impronta ideologica, è dunque tecnicamente mal costruita dal governo dei tecnici. Ma, soprattutto, deve essere rifiutata perché vuole imporre una modifica dell´articolo 41 della Costituzione, attribuendo valore assolutamente preminente all´iniziativa economica privata e degradando a meri criteri interpretativi i riferimenti costituzionali alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Questo capovolgimento della scala dei valori è inammissibile. Un mutamento così radicale non è nella disponibilità del legislatore ordinario, e dubito che possa essere oggetto della stessa revisione costituzionale. Quando sono implicate libertà e dignità, siamo di fronte a quei “principi supremi” dell´ordinamento che, fin dal 1988, la Corte costituzionale ha detto che non possono “essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale”. Certo, invocando una qualsiasi emergenza, questo può concretamente avvenire. Allora, però, si è di fronte ad un mutamento di regime. Se ancora sopravvive un po´ di spirito costituzionale, su questo inizio del decreto, e non nella difesa di questa o quella corporazione, dovrebbe esercitarsi il potere emendativo del Parlamento.

da la Repubblica 23.1.12

"Il test per la politica", di Franco Bruni

Oggi il governo avvia il tavolo sul mercato del lavoro.
Ha appena varato il decreto sulla concorrenza. La «seconda fase» dei suoi provvedimenti, per il rilancio della crescita, è in pieno svolgimento.

Ma la cooperazione europea, della quale l’Italia non può fare a meno, è in uno stallo che allarma anche le agenzie di rating. La settimana scorsa Monti è riuscito a far riunire i tre partiti che lo sostengono per dare un consenso congiunto a una mozione che stimoli l’Europa a darsi una mossa. Ora deve convincerli ad approvare il decreto sfruttando l’assenso di massima che hanno espresso. Ma insieme all’assenso sono apparsi segni di una incompleta responsabilizzazione dei partiti, che può causare dilazioni, complicare il tavolo con le parti sociali, indebolire Monti a Bruxelles.

C’è movimento su tutti e tre i fronti della battaglia per domare la crisi: i provvedimenti del governo, il potenziamento della cooperazione europea, il miglioramento del clima politico nazionale. Diventa più chiaro il collegamento fra i tre fronti. Gli sviluppi in sede comunitaria influenzano quelli sul fronte politico interno. Il grado di successo dei provvedimenti del governo determina l’intensità della sua influenza in Europa e la convenienza dei partiti nazionali a collaborare.

Ma su uno dei fronti, quello politico nazionale, l’attenzione e il senso di urgenza sono ancora insufficienti. In Europa c’è inerzia ma lo si dice molto e ci si scandalizza. I provvedimenti del governo sono accolti in modi controversi ma prendono corpo svelto e animano la discussione. La strategia dei partiti è invece ancora congelata, sorpresa dal cambio di governo: e di ciò poco ci si preoccupa. Prevale l’idea che, avendo litigato troppo in passato, non si può chiedere ai partiti di trovar convergenze lavorando nella stessa stanza. Ma, sia a destra che a sinistra, è pervicace la difesa dello schema di competizione politica manichea, alla rincorsa dei sondaggi e delle prossime elezioni, che ci ha portato al disastro, come non si vedesse l’ora di riprendere il futile litigio senza programmi concreti che ha reso surreale lo scenario politico italiano degli ultimi anni. La permanenza del bipolarismo è data per scontata nonostante la coesione dei poli si riduca.

È lo stesso Monti a chiamare «strano» il suo governo, ma sulla sua stranezza qualcuno esagera, qualcuno mormora addirittura di sospensione della democrazia, confondendo quanto dispone la Costituzione, circa il rapporto fra elezioni, partiti, ruolo del Parlamento e ruolo del governo, e il modo in cui questi rapporti sono stati interpretati negli ultimi anni, secondo cui il governo, non solo il Parlamento, «dev’esser quello eletto dai cittadini». Persino una persona lucida come il sindaco di Milano ha detto all’«Infedele» che lo strano governo deve finire non più tardi dell’estate «altrimenti distrugge la sinistra». Eppure proprio Pisapia è stato votato anche perché è stato apprezzato un certo suo grado di convincente stranezza. È forse la conservazione della «sinistra», proprio di quella che c’è e che non è chiaro cosa sia, un buon criterio per decidere la fine della legislatura? Manca il coraggio di proporre una riflessione radicale, nell’interesse del buon governo del Paese, sui cartellini della politica e dei partiti.

Si dirà che occorre dar tempo per far sbollire il fumus delle insolenze e delle baruffe intorno a Berlusconi. Si dirà che altrove nel mondo battaglieri bipolarismi sopravvivono utilmente nonostante l’incertezza sul significato di destra e sinistra. Si dirà che per una migliore qualità della competizione politica occorre una nuova legge elettorale, ma che questa dipende dalla qualità della competizione che si vuol veder all’opera, e che dunque la lentezza dei progressi è quella del cane che insegue la sua coda: diamogli tempo per riuscire a prenderla e giocarci contento. Si dirà che il bipolarismo ha i suoi difetti ma lo spettro del passato, il grande centro inamovibile, trasformista e democristiano, è peggio del bipolarismo falso e drogato. Si dirà che il sostegno a Monti è la prova che la politica italiana non è inerte, che il dialogo fra i partiti sta prendendo corpo e il governo sta ottenendo per il Paese la fertile tregua di riflessione per il quale è stato nominato. Sono tanti i modi per giustificare la lentezza dell’evoluzione del quadro politico, alla quale non è certo l’economista che può suggerire la strada migliore.

Ma l’economista può dire che gli altri due fronti della battaglia, i provvedimenti del governo e i progressi dell’Europa, sono necessari ma non sufficienti per garantire la fiducia degli investitori nell’Italia. Se anche Monti prende misure perfette e l’Europa ci circonda di solidarietà, per puntare sull’Italia occorre puntare almeno sul suo prossimo decennio. Ciò richiede fiducia nei meccanismi della politica italiana che subentreranno quando lo strano governo avrà terminato il suo mandato. Se i meccanismi rimarranno malati e inadeguati ai tempi, le manovre e le riforme in corso saranno insostenibili, verranno smontate e smentite, e qualunque solidarietà europea andrà sprecata. Soprattutto, la sfiducia dei cittadini nella politica continuerà a mangiarsi la civiltà del Paese.

Dovrà allora prolungarsi o rinnovarsi la tregua, con altri governi «strani»? Speriamo di no. Ma per inventarsi una nuova e sostenibile normalità, proprio perché non è cosa facile da fare, occorre impegnarsi subito di più, almeno con la stessa urgenza, coraggio e fantasia che stiamo chiedendo ai politici europei. I leader dei partiti rinnovino senza pudori i loro incontri in una stessa stanza e preparino un gioco politico pulito, credibile e concreto per il futuro. Se per farlo non bastasse il periodo che ci separa dalle prossime elezioni, si prendano, senza sprecarlo, altro tempo, dando anche alla prossima legislatura qualche connotato «strano», meno strano di Monti ma abbastanza strano per promettere autentica volontà di innovazione.

dawww.lastampa.it

"Istruzione, non è questioni di titoli ma di qualità", di Benedetto Vertecchi

L’abolizione del valore legale del titolo di studio è diventato un tormentone, un argomento di cui si torna a parlare con periodica puntualità. Proprio di questo, a quanto pare, si parlerà nel consiglio dei ministri di venerdì prossimo. Nell’attesa di saperne di più, più in generale, di conoscere quali siano le intenzioni del governo riguardo il rinnovamento del sistema scolastico e universitario, ci sembra importante ricordare alcuni punti fermi da cui qualunque riflessione, nonché riforma, dovrebbe partire.
È trascorso circa mezzo secolo da quando un gruppo di studiosi, attenti alle trasformazioni che si stavano verificando in campo educativo, promosse la prima grande rilevazione comparativa sui risultati che gli allievi conseguivano nei vari sistemi scolastici. Dal punto di vista dei promotori, quelle rilevazioni dovevano offrire elementi per una migliore comprensione del modo in cui i sistemi scolastici si mostravano in grado di far fronte alle esigenze che stavano emergendo per effetto delle trasformazioni sociali, culturali ed economiche. Dalle analisi comparative sarebbero quindi dovute derivare indicazioni utili per approfondire nei singoli paesi i problemi dello sviluppo educativo, prendendo atto dei punti di forza e, con attenzione anche maggiore, di quelli di debolezza. Alla base delle rilevazioni comparative c’era l’intento di acquisire elementi di conoscenza utili per migliorare la qualità delle decisioni da assumere per lo sviluppo dei sistemi educativi. Il confronto sui problemi dell’istruzione avrebbe potuto superare i condizionamenti contingenti legati al prevalere di schemi precostituiti alla base del senso comune, perseguendo caratteri di razionalità. Ma ciò avrebbe comportato un impegno per lo sviluppo della ricerca educativa che in Italia non c’è stato. C’è stato invece, in un primo tempo, un atteggiamento scettico e sufficiente, al quale hanno concorso ideologie antiscientifiche variamente orientate, e al quale è seguita, in anni più recenti, un’accettazione subalterna. In mancanza di linee interpretative che fossero espressione di una cultura educativa attenta al presentarsi delle esigenze e al mutare dei fenomeni, hanno finito con l’imporsi modi di argomentare presi a prestito da altri settori dell’attività sociale (per esempio, dall’organizzazione aziendale). Il fatto è che, mentre l’educazione è un’attività che si attua nel lungo periodo, le attività che hanno fornito i prestiti seguono generalmente una logica di breve periodo. Nell’educazione, ciò che avviene nell’infanzia e nell’adolescenza è solo una premessa rispetto a ciò che avverrà nel seguito della vita. Inoltre, l’educazione non è solo l’effetto d’interventi espliciti (come quelli che si effettuano nelle scuole), ma ad essa concorrono in misura anche maggiore variabili che traggono la loro origine nei contesti di esperienza di bambini e ragazzi. Il fatto che autorevoli istituzioni internazionali (come l’Ocse) abbiano centrato la loro attenzione sui livelli di apprendimento ha favorito, in assenza di una cultura valutativa consapevole, interpretazioni schiacciate su un asse comparativo di tipo sincronico. In altre parole, si confronta quanto appare in un momento determinato, trascurando in che modo i fenomeni si siano determinati e quale potrà essere il loro seguito. Questa mancanza di spessore valutativo ha dominato le politiche scolastiche della Destra, affermando criteri che non hanno dato prova di particolare validità neanche nei settori in cui sono stati originariamente formulati. Parlare di merito, d’impegno individuale, di efficienza e via discorrendo (e, soprattutto, parlarne in termini comparativi) non serve a qualificare i risultati dell’educazione, mentre servirebbe domandarsi in che modo orientare diversamente le scelte educative, quale profilo culturale non effimero si vorrebbe che conseguisse la generalità degli allievi, che cosa resta e che cosa decade di quanto si acquisisce negli anni dell’educazione sequenziale, quali sono le condizioni per continuare ad apprendere in una fase storica che si distingue per la rapidità con la quale nuovi apporti modificano il quadro della conoscenza, come usare al meglio, conservando autonomia di pensiero e di azione, le opportunità offerte dallo sviluppo della tecnologia. Uscire dalle angustie in cui versa il sistema educativo, a tutti i livelli, vuol dire, per cominciare, respingere il ciarpame di senso comune che consiste nell’affermare, come se disponessero di assoluta evidenza, concetti e modi di operare che invece sono per lo più frutto di ideologia o derivazione di interessi in sé estranei all’educazione. Non basta un po’ di paccottiglia strumentale per migliorare la qualità dell’offerta d’istruzione, come non basta adattare concetti da libero mercato alla valutazione della qualità dei risultati che si ottengono nel sistema educativo. Meglio sarebbe preoccuparsi di assicurare alle scuole e agli insegnanti le condizioni per svolgere correttamente il loro lavoro, e insieme preoccuparsi di promuovere la crescita di conoscenza necessaria a compiere un reale salto di qualità nell’interpretazione della realtà educativa.

da L’Unità del 23 gennaio 2012

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Esecutivo diviso sull’abolizione del valore legale della laurea. Contrari il ministro Cancellieri e i sindacati dei docenti”, di Flavia Amabile

ROMA Se dipendesse solo da lui, per Mario Monti il valore legale del titolo di studio sarebbe già superato. Non tutti all’interno del governo però sono d’accordo e ancora una volta un esecutivo si divide su una questione che da anni è sul tavolo dei ministri dell’Istruzione. Dove però è rimasta, almeno finora. Durante le oltre otto ore di consiglio dei ministri di venerdì scorso se n’è parlato di nuovo quando si è deciso di cambiare le norme sull’accesso dei giovani all’esercizio delle professioni e prevedere la possibilità di svolgere i primi sei mesi di tirocinio già durante la laurea. Monti sarebbe andato oltre, avrebbe rotto gli indugi e agito subito. Il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, invece, si è opposta, e il ministro della Giustizia Paola Severino ha chiesto gradualità. Ne è nato un lungo dibattito che ha impedito di arrivare ad una soluzione ma ormai l’argomento è fra quelli in discussione e se ne parlerà ancora. Forse un provvedimento potrebbe arrivare già nel prossimo consiglio dei ministri se la fazione pro-abolizione dovesse spuntarla visto che ha fans trasversali e diffusi dal Pdl, alla Lega, al Pd, la Confindustria, la Crui dei rettori italiani, e persino tra i grillini come risulta a ripercorrere indietro il successo del tema fino all’ultima indagine conoscitiva in Senato avviata la scorsa primavera.
La novità a cui si sta lavorando in queste ore prevede un intervento nei criteri di selezione utilizzati nei concorsi pubblici. Dovrebbe cadere il vincolo per il tipo di laurea, fatta eccezione per i settori in cui siano necessarie competenze tecniche specifiche. Il laureato in Lettere potrebbe diventare dirigente di un ente pubblico, purché dimostri di essere in grado di superare brillantemente il concorso, e quindi però dovrebbero anche esserci concorsi in futuro, visto che da tempo non ce n’è traccia. Nemmeno il voto di laurea dovrebbe più avere un peso nella selezione ma diventerebbe importante l’ateneo dove ci si è laureati. E, quindi, un titolo conquistato anche a pieni voti nell’università X non avrebbe valore mentre lo avrebbe un titolo conquistato anche con una valutazione non brillante in un’altra università che abbia requisiti particolari che molto probabilmente verranno definiti sulla base dei parametri individuati dall’Anvur, l’Agenzia per la valutazione a cui il governo Monti proprio venerdì scorso ha attribuito i compiti di certificazione della qualità dei corsi e delle sedi universitarie, una sorta di bollino per far capire dove si studia meglio.
Contrari i sindacati dei docenti, dall’Andu alla Flc-Cgil, la Cisl, la Uil, ma anche la Rete 29 Aprile e le associazioni di base. Consideriamo il mantenimento del valore legale del titolo di studio un dato centrale del sistema universitario italiano e paventiamo che la sua abolizione possa incrementare le diseguaglianze sociali ed economiche».
Scandalizzato il Pdci. Riccardo Messina: «Una norma classista, discriminatoria e da un forte retrogusto leghista. Se questo principio venisse approvato, ci sarebbe milioni di studenti tagliati fuori dalla possibilità di diventare classe dirigente di questo paese solo perché senza risorse economiche o perché nati in zone disagiate».

La Stampa 23.1.12

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“I dubbi dei rettori sul «federalismo» delle lauree”, di Lorenzo Salvia
ROMA — «Una cosa è dare il giusto valore alle cose, un’altra eliminarlo del tutto». Enrico Decleva, rettore della Statale di Milano, ha qualche dubbio sugli interventi allo studio del governo per le università. Le ipotesi sono due. La prima è l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Se ne parla da anni, Luigi Einaudi ci scrisse un libro, ma cosa vuol dire davvero?
La laurea presa a Milano e quella presa Roma non avrebbero più lo stesso valore per legge ma sarebbe la reputazione delle due università a fare la differenza. Il piano «B» va nella stessa direzione ma in modo soft perché eliminerebbe il voto di laurea dal calcolo del punteggio nei concorsi pubblici. Il ragionamento di fondo è lo stesso: ci sono università buone e altre meno buone, un 110 non ha lo stesso valore se viene preso in un ateneo di tradizione o in una delle tanti sedi distaccate germogliate negli ultimi anni. E allora, pensa il governo, meglio eliminare quella eguaglianza prevista oggi per legge nel settore pubblico. Anche il rettore della Sapienza di Roma, Luigi Frati, ha molti dubbi: «In alcune aree, come per i medici e gli architetti, è impossibile perché il valore legale è previsto da norme europee. Ma poi, scusate, non è che così diamo mani libere alla politica che ha l’antico vizietto di mettere le mani sulle assunzioni nel pubblico?». Ma non è sbagliato che chi si laurea in una pessima università, dove prendono tutti la lode, sia alla pari di chi ha faticato in un buon ateneo e si è dovuto accontentare di un 100? «Sì, ma allora è meglio stringere i rapporti con il mondo del lavoro. Noi alla Sapienza abbiamo un accordo per far fare in azienda una parte della tesi. E l’imprenditore uno studente mediocre non lo vuole mica». Il suo collega milanese Decleva, però, vede una prospettiva: «Non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca o almeno prima mettiamoci un po’ di detergente». Il detergente? «Se eliminiamo il valore legale dobbiamo avere un altro strumento per capire quali sono i corsi buoni e quelli meno buoni. Per questo un anno fa è nata l’Anvur ma credo abbia ancora molta strada da fare». Quanto sia lunga lo chiediamo a Stefano Fantoni che dell’Anvur (Agenzia per la valutazione del sistema universitario) è il presidente: «Dal prossimo anno accademico saremo in grado di fare una prima valutazione dei singoli corsi. Ogni corso dovrà essere accreditato e non diremo un sì o un no secco ma esprimeremo un giudizio». Basterà questo per sostituire il valore legale? «Non lo so, la decisione spetta alla politica. Per arrivare a una valutazione completa dei singoli corsi e delle singole università avremo bisogno di più tempo». Si può fare, allora?
Salvatore Settis è stato per anni direttore della Normale di Pisa, uno dei simboli dell’eccellenza italiana, ma è proprio alla base della piramide che rivolge il suo sguardo: «In linea di principio sarebbe una buona cosa ma c’è il rischio di concentrare le risorse sulle università migliori emarginando tutte la altre. E questo vorrebbe dire introdurre un meccanismo di diseguaglianza tra i cittadini che si possono permettere quelle università e tutti gli altri. Ci vorrebbe un piano straordinario di borse di studio. Ma con questa crisi sarà possibile?».

dal Corriere della Sera 23.1.12

"Già finita la pax padana. Fischi a Bossi, a Milano la Lega si spacca in due", di Andrea Carugati

Nonostante gli sforzi di quel gran- de attore che è (stato) Umberto Bossi, la “pace di Milano” evocata dal palco di piazza Duomo finisce in un flop. Bossi, unico dei big al microfono (tranne i governatori Cota e Zaia), si affanna per mezz’ora a dire che «è stato facile riunirci, tutti hanno fatto un passo indietro, abbiamo messo da parte ogni discussione».
Ma basta che nomini per un istante i nomi di Reguzzoni e Rosi Mauro, i suoi due fedelissimi nel mirino dei Bobo boys, che la piazza si scatena in una selva di fischi. Esattamente come quando cita «il buon Berlusconi». «Buu», pollice verso. Fischi che si mischiano ai cori «Maroni, Maroni», con l’ex ministro dell’In- terno, in piedi sul palco insieme a tutta la nomenclatura, che alterna inchini e sorrisi, si frega le mani, e poi indica l’Umberto e scandisce «Bossi, Bossi», come la Mauro al suo fianco, che fuma nervosamente e non sa dove guardare. C’era una volta il Senatur che guidava il Carroccio come un Re Sole. Ora quel partito sono diventati due, e piazza Duomo lo testimonia con mille immagini: come gli adesivi e le sciarpe dei «Barbari sognanti» che i maroniani indossa- no fieri come un segno d’identità. Egli striscioni che trasudano sfiducia verso i pretoriani del Capo e il Cavaliere. Come quello con la foto dell’Umberto con la Mauro «Cerchio tragico, salviamo il soldato Bossi». Oppure l’altro: «Padania li- bera da tutti i Cosentino e da quelli che l’hanno salvato». E ancora, i tanti riferimenti polemici agli inve- stimenti africani del partito: «Bos- si e Maroni in Padania, 4 coglioni in Tanzania».
Malessere diffuso. Che esplode a fine comizio, quando Bossi insiste con la pacificazione «basta storie, siamo fratelli», e chiama i rivali a darsi la mano. Reguzzoni si avvicina al Bobo, con la faccia dello scolaro punito ma desideroso di compiacere il maestro, quello lo schiva, e lui si consola abbracciando Calderoli, stretto in una improba- bile tuta da sci con i simboli padani. La folla invoca Maroni, che però non può parlare, Bossi si consola con un«Roma Fanculo» e alla fine la regia è costretta a far partire il Va’ pensiero per evitare guai peggiori. «Non sono stato io a decidere di non farti parlare», confida poi il Senatur a Bobo, che su Facebook sfoga il suo «dispiacere». Il Cavaliere è uno dei nodi che più dividono. Bossi lo cita per mandar- gli uno dei suoi avvertimenti, ma la piazza non vuol più neppure sentire il nome e si scatena nei cori «Berlusconi vaffa…». «Silvio, se non fai cadere questo governo infame faccia- mo saltare il governo della Lombardia, dove ne arrestano uno al giorno», insiste il Senatùr. Una minaccia che fa il paio con i proclami belli- cosi sulle prossime amministrative: «Abbiamo la forza per andare da so- li». Sotto il palco il sindaco di Verona Flavio Tosi, maroniano di ferro, sorride: «E’ dal 2002 che dico di andare da soli, è nel nostro dna». Nel pomeriggio tocca al consiglio federale, l’organismo dove discutere a porte chiuse delle questioni più spinose. Maroni vince anche questo round: congressi regionali entro giugno, la decisione è ufficiale. Quello federale no, la poltrona di Bossi non si tocca. Per la segreteria lombarda è pronta la candidatura del maroniano Salvini, che potrebbe sfidare un uomo del Cerchio. Stefano Stefani è il più duro nello strapazzare il tesoriere Belsito sugli investimenti esteri. Quello si difende: «I soldi non so- no in Tanzania, sono solo transitati da lì per via del fondo a cui li abbia- mo affidati». I maroniani insistono, lo stesso ex ministro dell’Interno chiede il bilancio preventivo per il 2012. Belsito è in difficoltà, si decide che il comitato amministrativo dovrà fare nuovi accertamenti sui fondi e poi riferire entro febbraio. «In tre giorni abbiamo ottenuto la testa di Reguzzoni e i congressi a giugno,non è poco», sorridono i maroniani. Bossi è apparso nervoso e preoccupato. Dopo Pontida e Varese, è la terza volta in pochi mesi che una platea leghista si rivolta al suo carisma. E non è un caso che l’ap- plauso più forte se lo sia preso quan- do ha detto «Io non avrei mai preso nessun provvedimento contro Maroni, tra noi ci sono vecchie storie che restano nell’anima…». Vecchie storie, il futuro invece è nebuloso, nonostante il sole che splende su Milano. E passa dal rap- porto col Pdl. Che prende malissimo la minaccia leghista sulla Lombardia. «Non accettiamo diktat, tra qualche mese valuteremo l’operato di Monti», dice Cicchitto. E Formigoni avverte:«Nonè interesse di nessuno innescare una reazione a catena che metterebbe a rischio tante amministrazioni del Nord…». Un concetto che il governatore veneto Zaia ha ben chiaro. E ai big leghisti lo ha detto: «Bisogna stare attenti a non esporre a rischi anche le nostre giunte…».

Da L’Unità