Impegno degli eletti modenesi mentre si discute del cosiddetto decreto Milleproroghe. In questo momento di crisi economica sono diverse ormai le testate in difficoltà, intere redazioni vedono messo in forse il loro futuro occupazionale con gravi ricadute sulla pluralità dell’informazione. L’impegno concreto e la solidarietà dei parlamentari modenesi Barbolini, Bastico, Ghizzoni, Levi, Miglioli e Santagata.
Un impegno concreto, al di là della solidarietà ai giornalisti che in questo momento rischiano il posto di lavoro. In queste ore si discute alla Camera del cosiddetto decreto Milleproroghe nelle cui pieghe si trova anche il Fondo per l’editoria, risorse che, in un momento di crisi come quello attuale, possono essere di fondamentale importanza per il futuro delle tante redazioni che, in tutta Italia, stanno soffrendo. Giornalisti che vedono messo in forse il loro posto di lavoro e un panorama dell’informazione che rischia di perdere pezzi di pluralismo. Anche su questo fronte sono impegnati i parlamentari modenesi del Pd che chiedono al governo di sciogliere il nodo e rendere noti i fondi effettivamente a disposizione per il settore. I senatori Barbolini e Bastico e i deputati Levi, Ghizzoni, Miglioli e Santagata esprimono, inoltre, la propria solidarietà ai lavoratori delle pagine regionali de L’Unità e de L’Informazione che vivono momenti di grande difficoltà.
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"Mauthausen la "musica" di noi maiali", di Gianfranco Maris
Gianfranco Maris, noto avvocato penalista, senatore del Pci dal 1963 al 1972, membro del Csm dal ’72 al ’76, attuale presidente dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici) ha oggi 91 anni. Militante nelle file del partito comunista clandestino e poi della Resistenza milanese, ne aveva 23 quando da Fossoli, dove la Repubblica Sociale Italiana aveva allestito un campo di prigionia, venne trasferito in Austria, a Mauthausen. Ora ha affidato i suoi ricordi di quel periodo a un libro scritto con l’inviato-editorialista della Stampa Michele Brambilla, Per ogni pidocchio cinque bastonate (lo stesso titolo dell’intervista pubblicata un anno fa su queste colonne, per il Giorno della Memoria), edito da Mondadori (pp. 151, 17,50). Ne anticipiamo uno stralcio.
E’ la notte del 7 agosto 1944. Il treno si ferma davanti a una baracca illuminata con una luce gialla. È la stazione di Mauthausen. […] Facciamo così la nostra conoscenza con una nuova figura: i kapò. Sono loro, schiavi delle SS e feroci custodi del campo, che ci circondano brutalmente e ci ordinano di ammucchiare a terra i nostri abiti. Ci dicono che dobbiamo lavarci e che ci debbono tagliare i capelli: poi ritorneremo in possesso dei nostri indumenti, che ora dobbiamo raccogliere in ordine e posare ai nostri piedi, restando tutti completamente nudi. […] Torniamo in cortile e non troviamo più nulla dei nostri abiti, che ci avevano ordinato di piegare e di lasciare per terra. I kapò ci inquadrano con violenza, il cammino ora è celere, non c’è più nessuno che possa ritardare la marcia. Velocemente, con furore, ci portano dall’altra parte del campo, oltre un muro. Ci viene detto che stiamo per raggiungere la baracca di quarantena, dove impareremo a essere prigionieri.
Capiamo ben presto che i nostri amici non hanno passato la selezione degli idonei al lavoro e sono stati avviati all’eliminazione. Tutti noi altri veniamo portati nel reparto quarantena di Mauthausen. Siamo nudi, in una baracca completamente vuota, senza letti a castello. Di notte dormiamo sdraiandoci sul pavimento uno accanto all’altro, come sardine in scatola.
Non abbiamo più nulla, non ci è rimasto neppure lo spazzolino per i denti e sicuramente non abbiamo neppure un cucchiaio. Perché mi viene in mente il cucchiaio? Nella tarda mattinata ci viene distribuita una zuppa in una gamella per ogni due deportati: per cui la zuppa, un brodo di barbabietola da foraggio, deve essere bevuto a sorsi alternati. Ricordo come fosse adesso che in quel momento una cosa soltanto dominava su tutto: il rumore. Il rumore di queste sorsate, che sembravano la musica di tanti maiali gettati contemporaneamente nel truogolo.
Perché ci trattano cosi? Non ci sono nel campo gamelle sufficienti per somministrare a ciascuno la parte che gli compete di quella brodaglia? E non ci sono cucchiai di cui i prigionieri possano usufruire nonostante la loro spregevole condizione di nemici del Terzo Reich?
Finito il «pranzo», a ciascuno di noi viene distribuito un berretto. Cosi non siamo più tutti nudi: insomma siamo sì nudi, ma con un berretto. Ci chiamano subito fuori dalla baracca, ci inquadrano. Arriva un kapò e comincia a impartirci il suo nuovo ordine: «Mützen ab! Mützen auf!» (Berretto giù! Berretto su!). Va avanti così per ore. «Mützen ab! Mützen auf!» E noi per ore, nudi in un cortile, a tirarci su e giù il berretto. Poi entriamo nella baracca e passiamo la notte sdraiati uno accanto all’altro sul pavimento, nudi, senza nessuna coperta o riparo. La mattina dopo, di nuovo nudi in cortile e altre ore di “Mützen ab! Mützen auf!”. Poi la broda in una sola gamella per due persone e la “musica” del truogolo. Il giorno dopo ancora, l’assurdo rituale si ripete.
E così lo stesso per giorni e giorni. Di nuovo mi trovo a domandarmi: perché? Nessuno di noi conosceva a quel tempo le teorie di Pavlov e dei riflessi condizionati indotti nell’animale per ridurlo all’obbedienza assoluta. Obbedire, soltanto obbedire, immediatamente obbedire al suono di un comando. Come cani ammaestrati. E’ per questo che per settimane veniamo istruiti così, fino a quando non decideranno di trasferirci in un altro blocco di quarantena, quello di Gusen: primo campo contiguo a Mauthausen.
Il blocco di quarantena del campo di Mauthausen era chiuso tra alte mura. Ma al di là delle mura c’era un’altra baracca nella quale erano chiusi in isolamento gli ufficiali sovietici prigionieri di guerra che si erano rifiutati, in base alle convenzioni di Ginevra, di lavorare nell’industria bellica del Reich e che per questo rifiuto erano già stati condannati dalla Gestapo al «trattamento kappa». Ossia Kugel, proiettile.
Questi uomini potevano quindi essere uccisi, in qualsiasi momento, con un colpo alla nuca. Ma li si lasciava lì, nella baracca, con l’intento di farli morire in un altro modo, più lento e più atroce: di fame. Non venivano lasciati completamente senza cibo: li si alimentava a gocce, per rendere più straziante l’agonia. Era la “sapienza” nazista nel trattare i nemici. Ogni giorno ne morivano venti o trenta.
All’alba, alla sveglia, dovevano uscire dalla baracca e a gruppi di cento, scalzi, coperti di piaghe, si dovevano sdraiare per terra all’ordine «Nieder» (giù, abbasso). Così veniva fatto l’appello.
Poi, in fila indiana, dovevano strisciare carponi. Quindi dovevano alzarsi e restare fermi in piedi nel cortile davanti alla baracca, al caldo dell’estate o al gelo dell’inverno. Quando faceva freddo questi poveri uomini si appallottolavano tra di loro, formando, come le vespe, una palla, un fornello. Chi era all’interno della «palla» si riscaldava mentre il resto della «palla», con un movimento continuo, spostava quelli che stavano al centro verso l’esterno e viceversa.
Nel gennaio 1945 arrivò un nuovo gruppo di ufficiali sovietici. Avevano tentato la fuga ed erano stati condannati al trattamento Kugel.
I componenti di questo gruppo capirono perfettamente a che cosa andavano incontro e decisero di fare una cosa coraggiosissima per chi è chiuso in un inferno simile: scegliere essi stessi come morire. Non lasciare i nazisti padroni del loro destino. Decisero quindi di tentare la fuga, ben sapendo che anche solo il tentativo di scappare li avrebbe portati a una morte immediata.
Scavarono con le mani il terreno attorno alla baracca, si procurarono delle pietre, presero due estintori e una notte, in cinquecento, provarono a fuggire. Fecero saltare la corrente ad alta tensione che percorreva il filo spinato sulla sommità del muro di cinta gettandovi sopra coperte bagnate. Aggredirono i militari di guardia sulla prima torretta con delle tavole. E si misero a correre. Lasciarono sul terreno innevato una scia ininterrotta di morti e di sangue.
In pochi riuscirono ad allontanarsi dal campo. E per quei pochi si scatenò subito una caccia all’uomo alla quale parteciparono tutti i soldati delle SS e tutti i civili della zona: alcuni erano volontari, altri costretti a collaborare. La caccia all’uomo finì dopo molti giorni con l’annientamento di quasi tutti i cinquecento ufficiali sovietici che avevano tentato questa loro ultima spaventosa avventura. Spaventosa, ma forse non folle come potrebbe apparire. Undici di questi ufficiali riuscirono a sopravvivere. Liberi. Famiglie di contadini austriaci, come si seppe poi, li avevano ospitati e tenuti nascosti. E tanto basta per continuare a credere nell’uomo.
La Stampa 18.01.12
"Il naufragio della coscienza", di Massimo Adinolfi
Che groviglio di contraddizioni è l’uomo. Quando capita però che le contraddizioni si sciolgano e si ripartiscano con chiarezza, e possiamo vedere tutta la miseria dell’uomo da una parte, e tutta la grandezza da un’altra, allora capiamo. La telefonata che nel cuore della notte si scambiano Schettino e De Falco, il capitano che dopo aver mandato la nave Concordia contro gli scogli ha lasciato il suo posto di comando, e il comandante della Capitaneria che lo incalza durante le operazioni di soccorso, ha il potere di sciogliere per un momento le complicate contraddizioni della natura umana. Per Pascal ci voleva il peccato originale per spiegare come stiano insieme, nell’uomo, grandezza e miseria, e invece bastauna voce incerta e spaventata ad un capo del telefono e un’altra ferma e autorevole all’altro capo, per sciogliere l’enigma e permetterci di giudicare.
Noi sappiamo che quel che ha compiuto il capitano è inescusabile: tanto più restiamo basiti di fronte al suo continuo tergiversare, mentire, accampar scuse. Se Schettino è stato sorvegliato a vista, nelle scorse ore, è perché s’è pensato che il peso della vergogna fosse così schiacciante, che c’era il serio timore potesse compiere atti autolesionistici. D’altro canto, vediamo bene nelle parole di De Falco, di là dai meriti personali e dai doveri d’ufficio, quel che, senza essere eroico, deve valere per tutti: un rigore e un’inflessibilità alla quale in troppe circostanze della vita non siamo più abituati. Dal genitore troppo condiscendente, al professore troppo comprensivo, fino al politico troppo cedevole verso gli umori dell’opinione pubblica, vediamo assai di rado qualcuno che agisca senza esitazioni né incertezze: qualcuno che sappia qual è il suo dovere, sappia che è chiamato a farlo e lo fa, senza tante storie. In realtà, non c’è nulla di straordinario nell’intimare al comandante Schettino di salire a bordo e nell’esercitare il proprio potere con ferma determinazione. È anzi una piccola cosa: che però è tutto. Tutto quel che si deve fare, almeno in quei frangenti. E siamo così poco abituati a parole di comando, che di questo fenomeno così tipicamente umano vediamo troppo spesso solo il lato odioso dell’autoritarismo o del sopruso, non anche quello della guida e dell’autorevolezza.
Non bastano perciò le maschere di Alberto Sordi o di Christian De Sica, con addosso i panni di Schettino, a interpretare l’intera vicenda. C’è anche da ricordare la simpatia nutrita per Michel Piccoli, il cardinale che rinuncia al soglio pontificio nell’ultimo film di Moretti, Habemus papam. La fragilità dell’uomo, il suo «non sum dignus» ce lo avvicinava e rendeva umano. Facendoci dimenticare quel che invece la telefonata dell’altra notte ha potuto ricordarci: che l’uomo è chiamato a tenere insieme il sentimento della propria inadeguatezza con lo sforzo di fare sempre del proprio meglio senza sottrarsi alle proprie responsabilità. Non siamo degni perché dobbiamo renderci degni: forse è una contraddizione, ma è anche il posto che non dobbiamo abbandonare.
L’Unità 18.01.12
"Ora la parola ai lombardi", di Giuseppe Civati
Il famoso modello lombardo di cui Roberto Formigoni illustra da anni le magnifiche sorti e progressive perde punti ogni giorno, in termini di credibilità e di qualità amministrativa. Un vero disastro di immagine e, cosa più grave, di sostanza politica.
Ciò che sorprende ancor di più è l’atteggiamento del tutto irresponsabile che Formigoni sta tenendo in queste ore. Incurante della molteplicità delle contestazioni che sono state sollevate nei confronti dell’amministrazione regionale che presiede, dell’effetto tremendo che hanno nell’opinione pubblica, e della gravità degli episodi che si sono susseguiti nel corso degli ultimi due anni, Formigoni minimizza, gridando al complotto e banalizzando tutto ciò che accade in Lombardia ormai da tempo.
Il quarto mandato consecutivo (e su questo, come è noto, ci sarebbe già parecchio da eccepire) del presidente della Lombardia era nato sotto una cattiva stella, con la presentazione delle liste. E poi con la vicenda Minetti. E poi con lo scandalo delle bonifiche. E poi, ancora, con la scomoda verità emersa su quell’eccellenza lombarda chiamata San Raffaele. E poi, come se non bastasse, il caso Nicoli Cristiani e, infine, l’arresto di Massimo Ponzoni, consigliere da tre legislature, fino a ieri segretario d’aula e già assessore tra i più fedeli del presidente. Qualche tempo prima un altro assessore, Piergianni Prosperini, aveva dovuto dimettersi, per via di un’altra grave vicenda giudiziaria.
Formigoni stava preparando, come già in occasione dei due tentativi (falliti) nel 2006 e nel 2008, il suo lancio nazionale, ma la rincorsa si è dimostrata molto più faticosa del previsto. Come sempre piu difficile appare l’impresa di conciliare l’alleanza con la Lega con il nuovo profilo politico imposto da Monti e dal suo governo.
È nervoso: alle proteste dell’opposizione risponde citando solo le vicende giudiziarie altrui: è a corto di argomenti e, soprattutto, non si rende conto che sarebbero necessarie reazioni ben diverse, all’insegna di un’attenzione alla legalità e di una credibilità da ricostruire intorno all’istituzione lombarda.
In tempi come questi nessuno, tantomeno Formigoni, può permettersi un atteggiamento che non “tiene” più: è difficile credere che tutto quello che è emerso in questi mesi sia casuale. E che non ci sia proprio nulla da dire sul sistema di potere che la Lombardia ha conosciuto in questi anni. Dopo diciassette anni di potere, è il momento di fermarsi a riflettere. E di immaginare di restituire ai lombardi la parola sul futuro della regione. È ora.
da Europa Quotidiano 18.01.12
Bersani accelera sulla legge elettorale: "Incalziamo gli altri", di Simone Collini
«La nostra proposta c’è, ora incalziamo gli altri». Pier Luigi Bersani ha convocato i vertici del Pd per pianificare una strategia che porti a «stanare» le altre forze politiche sulla legge elettorale. «La nostra proposta c’è, ora incalziamo gli altri». Pier Luigi Bersani ha convocato i vertici del Pd per pianificare una strategia che porti a «stanare» le altre forze politiche sulla legge elettorale. Il leader dei Democratici ha discusso brevemente dell’argomento con Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini il giorno dell’incontro a Palazzo Chigi con Mario Monti. E l’idea che si è fatto è che il problema non sia tanto di «tempi o modi»: «Il problema è la volontà politica di superare l’attuale legge». Così, per capire se ci sia o meno, negli altri leader politici, Bersani si è detto disponibile a «incontri bilaterali» con tutte le altre forze politiche. A questo punto, per il segretario del Pd, è necessario infatti «forzare per capire chi vuole una nuova legge elettorale e chi vuole invece andare al voto con quella attuale».
Al di là delle dichiarazioni, infatti, nel Pdl c’è ancora chi – Silvio Berlusconi in primis – vuole mantenere il Porcellum pensando tra l’altro che sia funzionale a un’alleanza con la Lega che ancora (in questo fronte) non viene data per esclusa. E parallelamente la Lega è spaccata tra chi, come Umberto Bossi, non vuole l’approvazione di una nuova legge elettorale e chi, come Roberto Maroni, pensa invece che non si possa andare alle prossime elezioni col Porcellum a meno di voler «sfidare il sentimento democratico dei cittadini».
In questo quadro, Bersani vuole dare un’accelerazione al confronto con iniziative nel Parlamento e anche fuori (presto i circoli saranno invitati a una mobilitazione «per una buona politica» con iniziative pubbliche e raccolte di firme su legge elettorale, riforme istituzionali e costi della politica).
I senatori del Pd che fanno parte della commissione Affari costituzionali ieri hanno chiesto di iniziare ad esaminare la trentina di proposte che da mesi giacciono nei cassetti. Compresa quella del Pd, che prevede l’assegnazione del 70% dei seggi della Camera mediante sistema maggioritario, il 28% con metodo proporzionale e un 2% riservato al diritto di tribuna. Una proposta di legge che prevedendo anche il doppio turno può piacere anche all’Udc, formalmente ferma sul proporzionale alla tedesca ma disponibile a discutere anche altre ipotesi.
DOPPIO BINARIO
L’intenzione del Pd è di avviare però la discussione anche alla Camera. L’idea è di dare il via a un doppio binario, lasciando al Senato la pratica delle riforme istituzionali (superamento del bicameralismo perfetto e riduzione del numero dei parlamentari) e di accelerare a Montecitorio sulla legge elettorale. Slegare i destini delle riforme istituzionali da quelli della legge elettorale è necessario perché, come ha detto nei giorni scorsi Massimo D’Alema in una discussione con Gianfranco Fini, di fronte a un allungarsi eccessivo dei tempi necessari per le riforme istituzionali (sono obbligatorie almeno quattro letture tra Camera e Senato), la priorità andrebbe data al superamento del Porcellum («è un dovere morale del Parlamento» per il presidente del Copasir).
Bersani, che dopo aver riunito ieri al quartier generale del Pd i capigruppo Franceschini e Finocchiaro, esponenti che si sono occupati dell’argomento (da Violante a Bressa a Bianco), Letta, Bindi, D’Alema, Veltroni, Gentiloni, Marino, nei prossimi giorni tornerà a discutere della questione con Alfano e Casini. Per il leader dell’Udc un accordo «è possibile» e per il segretario del Pdl questa può essere l’occasione per giocare le sue carte dentro un partito che ancora non controlla come vorrebbe.
Al vertice del Pd si è concordato che la discussione dovrà partire dalla proposta del partito. Si è deciso anche di aprire un’istruttoria per studiare le altre proposte, ma chiarendo che per il Pd andranno mantenuti tre paletti: bipolarismo, possibilità per gli elettori di scegliere i candidati e per i partiti di scegliere gli alleati (ma senza coalizioni coatte).
L’Unità 18.01.12
Violenza sulle donne, femminicidio in aumento in Italia
Rapporto Ombra”. La violenza maschile prima causa di morte per le donne in Ue e nel mondo. Più 6,7% nel 2010 rispetto al 2009: 127 donne uccise in un anno, per 114 l’assassino è un familiare. Calipari (Pd): “Allentare la morsa discriminatoria. Piano nazionale antiviolenza, legge su dimissioni in bianco e cambiare la legge elettorale”. La violenza maschile sulle donne è la prima causa di morte per le donne in tutta Europa e nel mondo. Nel nostro continente ogni giorno 7 donne vengono uccise dai propri partner o ex partner. In Italia solo nel 2010 i casi di femminicidio sono stati 127: il 6,7% in più rispetto all’anno precedente. Di queste, 114 sono state uccise da membri della famiglia. In particolare, 68 sono state uccise dal partner e 29 dall’ex partner. Dunque, in più della metà dei casi il femmicidio è stato commesso nell’ambito di una relazione sentimentale, in corso o appena terminata, per mano del coniuge, convivente, fidanzato o ex. La maggior parte delle vittime è italiana (78%), così come la maggior parte degli uomini che le hanno uccise (79%). Solo una minima parte di questi delitti è avvenuta per mano di sconosciuti. Nella restante parte dei casi è avvenuto per mano di un altro parente della vittima o comunque di persona conosciuta. E’ uno degli aspetti più delicati su cui si concentra il “Rapporto Ombra” della società civile sulla condizione delle donne in Italia.
“I media spesso presentano i casi di femmicidio come frutto di delitti passionali, di un’azione improvvisa ed imprevedibile di uomini vittime di raptus e follia omicida – si legge nel rapporto – In realtà questi sono l’epilogo di un crescendo di violenza a senso unico e generalmente sono causati da un’incapacità di accettare le separazioni, da gelosie, da un sentimento di orgoglio ferito, dalla volontà di vendetta e punizione nei confronti di una donna che ha trasgredito a un modello comportamentale tradizionale”. Un ruolo che in Italia è ancora relegato a quello di madre e moglie, oppure di oggetto del desiderio sessuale. Secondo il rapporto, nel momento in cui la donna italiana cerca di uscire da questi schemi, nasce il rifiuto del partner maschile alla sua emancipazione “che si trasforma in forme di controllo economico, di violenza psicologica, di violenza fisica, e che può arrivare fino all’uccisione della donna”, secondo gli autori del rapporto.
A influire negativamente in termini legislativi son anche i tempi troppo lenti per ottenere il divorzio in un paese come il nostro. Devono trascorrere tre anni dalla prima udienza di richiesta di separazione per poter richiedere il divorzio. In questo lasso di tempo si intensificano gli atti di violenza. Spesso l’ex marito non si rassegna all’allontanamento dell’ex moglie e mette in atto “atteggiamenti persecutori e di controllo con un uso della forza nei confronti della donna e che possono portare sino all’omicidio della stessa”.
In Italia manca un’unica definizione legislativa delle discriminazioni di genere, che rispecchi quella già presente delle direttive europee. La bocciatura in Parlamento della legge contro l’omofobia ha lasciato un vuoto legislativo ancora aperto. “Se fosse stata approvata una legge di tutela dalle discriminazioni e dalla violenza indipendentemente dal genere di appartenenza e dalla propria scelta sessuale – si legge ancora nel rapporto – sicuramente si sarebbero potuti prevenire molti casi di aggressioni contro gay, lesbiche, transessuali e intersessuali che si sono verificati negli ultimi anni”.
Sullo stereotipo nei confronti della donna come forma di discriminazione, arriva il mea culpa dell’onorevole Benedetto Della Vedova (Fli) che ha partecipato al dibattito nella sala Mappamondo sul rapporto Onu Cedaw. “Credo che la classe politica abbia le sue responsabilità – ha detto – è bene che in Italia nei prossimi 10 anni si subisca un po’ di ‘politically correct’ perché abbiamo debordato oltre i limiti fisiologici”. Secondo l’onorevole Rosa Villecco Calipari (Pd), “bisogna allentare la morsa discriminatoria che è strutturale in questo paese”. E da Calipari arrivano alcune proposte immediate per migliorare la situazione delle donne in Italia, a partire dalle considerazioni contenute nel rapporto presentato. In primis ripristinare le norme contro le dimissioni in bianco. “ Mi auguro che il ministro Fornero possa al più presto possan cominciare a mettere in piedi alcune misure, tra cui sulla norma delle dimissioni in bianco – ha detto la deputata del Pd – Ripristinare ciò che è stato cancellato nel 2008 incide profondamente perché consente atti ricattatori delle donne sul lavoro in uno dei momenti più delicati della loro vita: cioè la maternità. Tanto più che oggi siamo una larga parte politica a sostenere questo governo e che le norme sulle dimissioni in bianco sono state già calendarizzate in commissione lavoro”.
L’altra proposta di Calipari è di creare “un piano nazionale antiviolenza”. “C’è il problema dei centri antiviolenza che avevano subito pesantissimi tagli e il cui piano di finanziamento è una tantum, vale per un anno, un anno e mezzo. Abbiamo una situazione a macchia di leopardo, ci sono regioni e regioni. La deregulation ha aumentato la differenziazione sul territorio – ha continuato – I centri antiviolenza sostengono da 20 anni le donne che subiscono violenza in questo paese, e andrebbero valorizzati con una raccolta di dati statistici perché ci consentono di vedere la realtà”. Poi, partendo dalla considerazione che la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni è il femminicidio, Calipari chiede un piano nazionale antiviolenza. “Serve una strategia coordinata – ha detto – Gli stereotipi sono legati alla violenza, se creo un’immagine di oggetto sessuale, è difficile che poi la violenza non venga perpetrata su questa persona. Condivido l’istituzione di un’autorità indipendente per i diritti umani, ed è il momento di affrontare la questione delle donne nella discussione sulla legge elettorale, questo è il momento di rivedere i meccanismi. Devono esserci sanzioni e inammissibilità per i consigli regionali che non hanno eletto una sola donna al loro interno”.
Su questo tema, Barbara Saltamartini (Pdl) ha sottolineato che in commissione Affari Costituzionali è in discussione una proposta di legge sui consigli elettivi enti locali, anche se non sono previste grosse sanzioni Saltamartini ha commentato che “l’aula i grandi sogni te li ammazza, va fatta una mediazione”. Secondo la deputata del Pdl, “la maggior parte delle violenze avviene dentro casa, vuol dire che c’è un problema culturale da combattere. Bisogna coinvolgere i colleghi parlamentari uomini, più loro che noi, sennò questa battaglia non la vinciamo”.
Il Cedaw all’Italia: “Lacuna immensa fra la normativa e la sua applicazione” . Il 2012 si apre alla Camera dei Deputati all’insegna dei diritti delle donne. Un tema sensibile per l’Italia in questo momento, tanto che arriva una “tirata d’orecchie” dal comitato Cedaw che verifica il rispetto della Convenzione Onu contro le discriminazioni nei confronti delle donne. E un piccato botta e risposta tra il membro del Comitato internazionale, Violeta Neubauer e Alessandra Servidori, consigliera nazionale di Parità. Il tutto avviene nella sala Mappamondo gremita da tantissime donne, alla presentazione del “Rapporto Ombra” della società civile e delle raccomandazioni del comitato Cedaw 2011 L’evento è stato organizzato da Fondazione Pangea Onlus per la piattaforma “Lavori in corsa: 30 anni Cedaw”. Il dibattito, moderato dalla giornalista Tiziana Ferrario, è stato diviso in due momenti con gli interventi della società civile e del Comitato Cedaw e poi con la presenza di alcuni parlamentari.
“Per quanto riguarda le raccomandazioni, ci sono quelle contro la violenza sulle donne – ha detto la giornalista Ferrario – si chiede che siano ripristinati i fondi ai centri antiviolenza perché dal rapporto emerge che sono stati tagliati. Il tasso di disoccupazione è alto e sono le donne a essere le più colpite, anche dal lavoro precario. Un’altra raccomandazione è di promuovere l’equa condivisione degli impegni familiari tra uomo e donna per assicurare la conciliazione vita- lavoro anche in quelle regioni con meno servizi sociali come gli asili nido e si tocca il tema delle dimissioni in bianco, perché la violenza passa anche dalla dipendenza economica delle donne, poter garantire un’uscita dal precariato alle donne significa offrire strumenti in più. Una delle raccomandazioni è l’elaborazione di una strategia di lungo termine per combattere gli stereotipi e di programmi scolastici contro le discriminazioni”. Su questi appunti del comitato rappresentato dalla Neubauer, la consigliera nazionale di Parità Salvadori ha voluto ribattere. In particolare sull’accusa che “finora l’opinione pubblica italiana non è stata informata sulla Cedaw perché non sono mai stati tradotti e divulgati i rapporti periodici dello Stato Italiano al comitato Cedaw né le raccomandazioni fatte dal comitato” .
“Abbiamo tradotto tutti gli atti, è bene che queste cose siano conosciute – ha contestato Alessandra Servidori – Abbiamo lavorato molto, è un problema che non ci sia comunicazione. È stato fatto un piano nazionale Italia 2020 all’interno degli istituti scolastici su questi temi, sul testo unico 81 quello sulla prevenzione e la sicurezza delle donne sui luoghi di lavoro. Stiamo lavorando anche sulla cosiddetta Legge Brunetta. Mi dispiace che il nostro lavoro non sia stato riconosciuto”.
Dopo il suo intervento, Violeta Neubauer ha chiesto la parola: “Vorrei dire chiaramente che ancora non so dove posso trovare i documenti tradotti dall’Italia”, ha esordito. Infatti non è chiaro su quale sito governativo sarebbero stati pubblicati e consultabili. “Non è che non l’ho trovato perché non so usare la lingua italiana – ha continuato il membro del comitato Cedaw, intercalando l’italiano all’inglese – Lascio a voi la considerazione su quella che è la realtà dei fatti. Non è vero che il comitato non ha preso atto dell’immensa mole di lavoro fatta dalle autorità italiane nel migliorare ma è anche vero che molti interrogativi non sono stati affrontati in modo preciso e adeguato. Si è risposto genericamente, ripetendo pedissequamente quelle che erano le raccomandazioni del comitato Cedaw. Tutte le domande e le risposte della delegazione italiana sono sul nostro sito. Pertanto se è vero che nessun governo è contento di ricevere osservazioni critiche, il comitato non è lì per blandire i governi ma per mettersi al servizio delle donne che devono essere protette a pieno. Il comitato non è soddisfatto dell’applicazione della convenzione, rimane una lacuna immensa esistente fra la normativa e la non applicazione di queste leggi in Italia. Le donne non sono un problema. Le donne sono la soluzione”. All’iniziativa hanno partecipato anche Simona Lanzoni di Fondazione Pangea Onlus, Barbara Spinelli di Giuristi democratici, Rossana Sacricabarozzi di ActionAid Italia e Concetta Carrano di “Donne in rete contro la violenza”. (Redattore Sociale)
www.partitodemocratico.it
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“Per le donne dovete fare di più” Il Comitato Onu sferza l’Italia, di Laura Preite
Violeta Neubauer, membro del Comitato Onu per l’eliminazione delle discriminazione nei confronti delle donne, che vigila sull’applicazione dell’omonima convenzione internazionale. La Cedaw presenta un rapporto che inchioda Roma: stereotipi, violenze e troppe discriminazioni.La Consigliera di parità replica: “Ma sul lavoro siamo migliorati”. «L’Italia deve fare molto di più, c’è uno scarto tra legge e sua applicazione che va colmato, le donne non sono il problema ma la soluzione», questo l’appello accorato, oltre che nei termini, anche nei modi, di Violeta Neubauer, membro del Comitato Onu per l’eliminazione delle discriminazione nei confronti delle donne, che vigila sull’applicazione dell’omonima convenzione internazionale, la Cedaw, nella sala Mappamondo della Camera dei deputati, in occasione della presentazione del rapporto ombra sui diritti delle donne in Italia.
Le osservazioni del Comitato Cedaw
La Cedaw è il principale strumento internazionale di riconoscimento e difesa dei diritti delle donne. Per la prima volta una decina di associazioni ha presentato, a New York, lo scorso luglio, in contemporanea con la presentazione del rapporto quadriennale del Governo italiano sull’implementazione della Convenzione, un rapporto-ombra che mette a fuoco le criticità della situazione nazionale rispetto alle norme contenute nella carta, iniziando un dibattito. Le Osservazioni conclusive del Comitato, successive al lavoro degli stati membrei e delle Ong hanno sintetizzato diverse criticità soprattutto nella rappresentazione stereotipata (punto 22-25) e per quanto riguarda la violenza (26-27). I due fattori sono messi in relazione.
Si legge nel rapporto: “Il Comitato rimane profondamente preoccupato per la rappresentazione della donna quale oggetto sessuale e per gli stereotipi circa i ruoli e le responsabilità dell’uomo e della donna nella famiglia e nella società. Tali stereotipi, contenuti anche nelle dichiarazioni pubbliche rese dai politici minano la condizione sociale della donna, come emerge dalla posizione svantaggiata in diversi settori, incluso il mercato del lavoro, l’accesso alla vita politica e alle cariche decisionali”. Il Comitato raccomanda l’adozione di codici di condotta e di essere aggiornato fra due anni (e non dopo i canonici quattro), sui risultati raggiunti. Preoccupa anche il tema della violenza di genere, quella verso bambine e donne adulte, uccise dai propri compagni, mariti, o ex, (è la prima causa di morte per le donne dai 15 ai 44 anni). Sono necessari, per il Comitato, garantire case rifugio dove le donne in fuga possano sentirsi al sicuro ed essere assistite, e la formazione di personale giudiziario, medico e sociale qualificato che le possa assistere in tutte le fasi del processo. Così come è necessario per l’Italia ratificare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne firmato a Istanbul lo scorso maggio da 10 stati europei.
Il rapporto ombra
Il lavoro delle Ong ha facilitato l’attività di monitoraggio del Comitato. I punti critici, individuati dalla Piattaforma Cedaw (a cui hanno aderito Actionaid, Arcs arci, Fondazione Pangea, associazione Differenza donna, Be free, Casa internazionale delle donne, fratelli dell’uomo, Giuristi democratici e le9) sono diversi: lavoro e welfare, tratta e prostituzione, stereotipi e rappresentanza politica, violenza, diritti sessuali e salute riproduttiva. «Saremo il watchdog, il cane da guardia – spiega Rossana Scaricabarozzi di Actionaid tra le rappresentanti della Piattaforma, presenti all’incontro moderato dalla giornalista Rai Tiziana Ferrario – vigileremo affinché le misure contenute nella Cedaw e le raccomandazioni vengano attuate, se non arrivano risposte ci attiveremo per sollecitarle, vogliamo iniziare un dialogo con le istituzioni nazionali e internazional». Al tavolo politico, dove sono seduti gli onorevoli Calipari (vicepresidente del Pd alla Camera), Saltamartini (Pdl) Di Giuseppe (Idv) e Della Vedova (Fli), si snocciolano proposte concrete per migliorare la condizione delle italiane, come reintrodurre il divieto delle dimissioni in bianco, (dove c’è già il progetto di legge n.3009 dell’onorevole Gatti) e riformare la legge elettorale prevedendo un’equa rappresentanza dei due generi per esempio con il meccanismo della doppia preferenza.
Il parere della Consigliera nazionale di parità
A difendere il lavoro del Governo, c’è la Consigliera di parità Alessandra Servidori, mentre il ministro del Lavoro e delle Pari Opportunità Elsa Fornero è impegnata a incontrare Rashida Manjoo, relatrice speciale delle Nazioni Unite per la violenza contro le donne, in visita in Italia.
A lei spetta il compito di rispondere alle accuse di superficialità e inadempienza del comitato Cedaw e dell’assenza di un’adeguata pubblicità della Convenzione:«Ventun rappresentanti del governo italiano hanno redatto il rapporto, è stato molto partecipato, non era mai capitato prima. Ricordo ciò che è stato fatto, in particolare dal ministero del Lavoro da cui dipendo: il testo unico sulla sicurezza (n.81 del 9/04/2008), che riconosce alcune patologie professionali al femminile, l’Osservatorio sulla contrattazione decentrata e la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, e con la Finanziaria si sono introdotte all’articolo 53 del contratto di produttività, agevolazioni fiscali alle aziende che favoriscono la flessibilità e ai lavoratori e alle lavoratrici. A questo si aggiunge il piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking, il numero unico nazionale 1522. Mi spiace solo che il nostro lavoro non abbia avuto il riconoscimento dovuto». Neubauer conclude: «Il Comitato riconosce il grande lavoro del Governo ma abbiamo ricevuto molte risposte generiche. Il ruolo del Comitato è difendere i diritti delle donne e non siamo soddisfatti con l’applicazione della Cedaw».
La Stampa 18.01.12
"Il Cnr degli sprechi, 7 euro su 10 spesi in burocrazia", di Massimo Sideri
Si chiama Cnr, Consiglio nazionale delle ricerche. Ma, a spulciare l’analisi della magistratura contabile sui bilanci dell’ente pubblico, potrebbe anche chiamarsi Consiglio nazionale della burocrazia scientifica. I numeri «cantano»: su 10 euro di spesa, sette vanno a coprire gli stipendi del consiglio di amministrazione, delle segreterie, dei dirigenti amministrativi e della burocrazia centrale. Solo tre gocciolano effettivamente, quasi per miracolo, fino alla ricerca. Conti surreali di questi tempi. Altro che austerity, guerra agli sprechi e tagli ai costi pubblici.
La determinazione 82/2011 depositata dalla Corte dei Conti lo scorso 5 dicembre a firma del presidente Raffaele Squitieri fa riferimento al biennio 2009-2010 — quando a presiederlo c’era ancora il fisico Luciano Maiani — e descrive in maniera impietosa un ente che, nonostante gli sforzi riorganizzativi, non riesce a fugare il dubbio di essere un carrozzone pubblico. Utile e prestigioso, senza dubbio. Lo riconosce anche la Corte. Ma che nel 2010 su 921,5 milioni ne ha spesi solo il 31% nelle strutture scientifiche (il 29% nel 2009), una quota addirittura calata rispetto alla fase pre-riorganizzazione visto che nel 2007 la percentuale era del 38. Anche il passaggio da una situazione patologica di perdita al rosso di bilancio non convince: «Un attento esame di alcuni indici di struttura evidenzia che, sebbene l’ente abbia conseguito nel 2009 e nel 2010 un avanzo di competenza pari rispettivamente a 26,7 e a 44,5 milioni, tali risultati non costituiscono un elemento positivo o un sintomo di espansione delle attività». Una vera scure sulla gestione di Maiani, già accusato dalla Ragioneria dello Stato di «gravi irregolarità». Come documentato dal Corriere lo scorso maggio era stato proprio il Ragioniere dello Stato, Mario Canzio, a inviare alla Procura della Corte dei Conti un dossier spinoso sulla «sprecopoli» del Cnr. Il risultato delle indagini della Corte dei Conti scovato dal Foglietto della Ricerca — pubblicazione «corsara» diretta da Rocco Tritto che per efficienza nella raccolta di documenti «top secret» nell’ambiente sembra poter competere con l’Fbi — peggiora forse il quadro. Si potrebbe ragionevolmente pensare che non deve essere facile rimettere ordine nel caos di decenni. Ma le indagini della magistratura non sembrano lasciare spazio a questa ipotesi: «Per quanto riguarda il tanto auspicato processo di riorganizzazione dell’amministrazione centrale, anche nell’esercizio 2009 permangono alcune anomalie riguardanti il costante disallineamento tra uffici dirigenziali e posti dirigenziali». Andrebbero tagliati del 20%, tanto per cominciare. Ed effettivamente «sul finire dell’esercizio 2008 il numero degli uffici dirigenziali non generali era stato ridotto da 36 a 30» per scendere nel 2009 a «28 unità». Peccato che «contestualmente sono state introdotte 9 strutture ordinamentali di particolare rilievo, le quali sono allo stesso livello funzionale degli uffici dirigenziali». Giochi di specchi, ma i conti sono presto fatti: 28 più 9 fa 37… uno più di prima.
Ma c’è di peggio. In linea con le abitudini dure da sradicare in tutto ciò i vertici hanno pensato bene di ritoccarsi le buste paga: il totale dei compensi è passato dai 669 mila euro del 2008, ai 743 mila del 2009 fino agli 860 mila del 2010. Il 28% in più. Indennità ridotte, gettoni e rimborsi spese lievitati come un panettone. Maiani nel 2011 non è stato riconfermato al Cnr. Alla presidenza per sistemare le cose è arrivato Francesco Profumo, che però adesso si è autosospeso in quanto nuovo ministro dell’Istruzione del governo Monti. La sua posizione d’altra parte è scomoda: il ministero ha il compito di vigilare e finanziare il Cnr. Profumo dovrebbe controllare se stesso. E Maiani? Non è rimasto con le mani in mano: il governo lo ha appena nominato presidente della Commissione nazionale grandi rischi.
Il Corriere della Sera 18.01.12