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"La frustrazione e la democrazia", di Massimo Giannini

Un brutto giorno per la democrazia. La tentazione di liquidare così la decisione della Consulta sui referendum elettorali c´è, ed è forte. È comprensibile la delusione di quel milione e 217 mila cittadini: pur avendo firmato per l´abrogazione del «Porcellum», ora si sentono defraudati di un diritto che rende unica la nostra Costituzione e deprivati di uno strumento partecipativo che esalta la democrazia diretta. È legittima la «disperanza» di molti altri milioni di italiani: pur non avendo aderito alla raccolta delle firme, guardavano ai quesiti referendari come a una «leva» fondamentale, per sbloccare finalmente le resistenze conservative della famigerata casta, altrimenti immobile e irresponsabile. L´ultima chance per il cambiamento, ancora una volta, è affidata alla credibilità istituzionale e alla persuasione morale del presidente della Repubblica. Tocca di nuovo a Giorgio Napolitano, dopo la decisione della Corte, scuotere i partiti dal torpore, e inchiodarli alle loro responsabilità di fronte al Paese. Il vertice sul Colle con i presidenti di Camera e Senato, e il comunicato ufficiale che ne è scaturito subito dopo la pronuncia dei giudici costituzionali, testimonia l´urgenza di questo impegno che il Capo dello Stato esige adesso dal Parlamento. E conferma che il Quirinale è in campo, anche sul tema della riforma elettorale, e non assisterà in silenzio a questa accidiosa «vacanza» della politica.
Ci sarà modo e tempo per riflettere sugli aspetti tecnici che hanno convinto i giudici ad assumere questa decisione. Le ragioni giuridiche che spingevano verso un sì ai quesiti non mancavano. Molti costituzionalisti, in assenza di precedenti specifici che la escludono, ritenevano e ritengono fondata la cosiddetta «reviviscenza» delle norme precedenti a quelle abrogate per via referendaria. Dunque, cancellato il «Porcellum», sarebbe tornato in vita il «Mattarellum». La Consulta, evidentemente, ha raggiunto una conclusione diversa: in caso di abrogazione della legge attuale, la cosiddetta «normativa di risulta» non sarebbe stata né chiara né coerente. E un pericolo di «vuoto normativo», in materia elettorale, non è sostenibile. C´è solo da chiedersi se quello che i giuristi definiscono l´«horror vacui», nel caso concreto, non fosse comunque preferibile all´«orrore puro» costituito dal sistema elettorale vigente.
Nel frattempo, si deve comunque rispetto per il verdetto della Corte. La frase è retorica, ma le sentenze si rispettano anche se non si condividono. Noi non la condividiamo, ma non per questo la bolliamo come un «atto di regime», meno che mai riconducibile a una «regia occulta» del Capo dello Stato. Certo, è una «sentenza politica», ma come lo sono tutte quelle che interpretano le leggi, nelle quali si riflette qui ed ora la volontà del popolo sovrano, le inquadrano o le aggiornano al contesto storico e le misurano con i parametri della Costituzione. In questo senso, è possibile che ai margini abbia influito sui giudici un condizionamento meta-giuridico, cioè il sospetto di un qualche legame politico tra l´esistenza del «governo strano» di Monti e la sopravvivenza della legge elettorale più «strana» del mondo. Ma se anche esistesse o fosse esistito, questo è un nesso improprio, che non tiene di fronte a una verifica contro-fattuale.
Corte o non Corte, il sistema elettorale vigente resta una vergogna italiana, che ha privato gli elettori del diritto di scegliere i propri eletti, ed è servito solo a garantire quello che i costituenti di Filadelfia avrebbero definito un vero e proprio «dispotismo elettivo». C´è un nome e cognome, al quale imputare questa vergogna: Silvio Berlusconi, l´ultimo giapponese del «Porcellum». Insieme al povero Bossi, non a caso, è l´unico a dire ancora oggi che quella «è una buona legge». Si capisce perché. La legge-truffa di fine 2005 nasce nel rozzo laboratorio padano di Lorenzago e porta la firma simbolica di Calderoli. Ma origina dal delirio di onnipotenza del Cavaliere, che ne ha bisogno per non perdere le elezioni del 2006 per stravincere quelle del 2008. Questa curvatura personalistica delle regole del gioco elettorale, costruite a misura dell´urgenza politica di un solo uomo, marchia a fuoco le sorti della Seconda Repubblica, e ora rischia di condizionare anche i destini della Terza. Il centrodestra berlusconiano aveva ed ha tuttora l´esigenza di eliminare lo svantaggio competitivo che soffre con il sistema dei collegi uninominali (nelle elezioni del 1996 e del 2001, con il «Mattarellum», ottenne alla Camera un milione e mezzo di voti in meno tra la parte maggioritaria e quella proporzionale). Il pessimo rendimento «coalizionale» di allora (riflesso della scarsa coesione del suo elettorato) è un handicap che il centrodestra non ha mai colmato, ma semmai ha accentuato in questi ultimi anni.
Per questo Berlusconi e Bossi, a dispetto delle sortite di propaganda dei figuranti Alfano e Maroni, continuano a preferire il «Porcellum» a qualunque altra formula. Piuttosto che perdere, quell´amalgama mal riuscito di Pdl e Lega preferisce tenersi una legge elettorale schifosa. Un mostro giuridico che, dietro allo specchietto per le allodole di un apparente bipolarismo, produce più frammentazione tra i partiti (rendendo fragile la governabilità in virtù del potere di ricatto attribuito ai «minori») e meno partecipazione tra i cittadini (cancellando il diritto di scegliere i candidati in virtù dell´abominio delle liste bloccate).
Questa è la gigantesca ipoteca che grava su quest´ultimo anno e mezzo di legislatura. I partiti convergono, a chiacchiere, sull´urgenza di riformare il sistema. Tutti si accodano ai richiami solenni di Napolitano che, come aveva già fatto nel discorso alle Alte Cariche del 20 dicembre e poi nel messaggio televisivo di Capodanno, frusta i partiti e il Parlamento e li esorta a «non sprecare» il tempo che ci separa dal voto del 2013 per varare le grandi «riforme istituzionali» utili al Paese. Proprio a partire da quella elettorale. Ma le condizioni politiche per riuscirci restano tuttora labilissime. Le proposte non mancano. Dalla porcata di Calderoli si può uscire con l´adesione a un sistema compiutamente proporzionale, attraverso l´abolizione di un assurdo premio di maggioranza, e senza troppi sofismi intorno alle differenze tra modello tedesco o modello spagnolo. Oppure se ne può uscire con l´adesione a un modello compiutamente maggioritario, attraverso la reintroduzione dei collegi uninominali e senza troppi cavilli intorno alle differenze tra modello inglese a un turno o modello francese a due turni. Quello che manca è la convenienza del Cavaliere e la convergenza di tutti su una piattaforma comune e condivisa.
La legge Berlusconi-Calderoli è un Frankenstein da abbattere. Oggi, in Occidente, non esistono democrazie consolidate che miscelano sistemi proporzionali e premi di maggioranza. Solo a Malta esiste qualcosa che si avvicina all´obbrobrio italiano. Il Parlamento può ancora sanare questa anomalia. Avrebbe il dovere morale e politico di farlo. Servirebbe un sussulto di dignità e di responsabilità. Un sì della Consulta avrebbe trasformato quel sussulto in un obbligo. Il no lo ridimensiona a una «facoltà». Per questo, purtroppo, il pessimismo della ragione prevale ancora una volta sull´ottimismo della volontà. I partiti italiani, colpevolmente auto-sospesi, sono ridotti a ectoplasma della Repubblica. Il sondaggio di Ilvo Diamanti, uscito su questo giornale lunedì scorso, li retrocede a un miserabile 4% di «indice di fiducia» da parte dei cittadini. In questo clima, come ha avvertito Gustavo Zagrebelsky, la pronuncia della Corte può alimentare la «frustrazione» degli elettori, e ingrossare l´onda già altissima dell´anti-politica. Sta agli eletti decidere se lasciarsi travolgere, o provare a domarla con le riforme. Solo così un brutto giorno per la democrazia potrà trasformarsi nella sua grande occasione.

La Repubblica 13.01.12

"Chiusi nel bunker", di Luigi La Spina

Le coincidenze, nella vita, sono casuali. In politica, invece, sono determinanti, perché sono capaci di imprimere un significato unitario a eventi apparentemente non collegati tra loro. La giornata di ieri ne ha fornito un altro inequivocabile esempio: il «no» della Consulta ai referendum elettorali e quello del Parlamento all’arresto di Cosentino, piovuti contemporaneamente sulla testa di un’opinione pubblica a dir poco sconcertata, hanno rafforzato l’impressione di una classe politica sempre più chiusa nel bunker.

Sorda e persino irridente rispetto alla sensibilità, agli umori, alle speranze dei cittadini.

E’ logico, è giusto ed è anche augurabile che le distinzioni e le responsabilità non si confondano in una esasperazione di sentimenti demagogici. Le scelte della Corte Costituzionale riflettono indubbie difficoltà giuridiche a contraddire una costante linea interpretativa sulla cosiddetta questione della «riviviscenza» di una legge modificata rispetto a quella che si vuole cancellare. Più difficile, invece, giustificare come casi di coscienza dei singoli parlamentari decisioni che, come è stato evidente nel caso Cosentino più ancora che nelle vicende Milanese e Papa, chiudono o aprono a un uomo le porte del carcere secondo le convenienze del momento, magari secondo patti inconfessabili, fruttuosi nel passato e buoni anche nel futuro.

Eppure, è del tutto comprensibile cercare di prevedere, insieme, le conseguenze dei due «no», sia perché sarebbe ipocrita far finta che non indichino una direzione comune, sia perché sarebbe rischioso far finta di non capire le reazioni dei cittadini a questi due negativi verdetti. L’osservazione più immediata è stata quella di quasi tutti i commentatori politici: sia la Consulta sia il Parlamento hanno finito, ieri, per rafforzare il governo. L’incubo del referendum, infatti, avrebbe alimentato la tentazione di affrettare la legislatura per evitarlo, vista la pratica impossibilità di trovare un accordo, su un tema così controverso e delicato, in pochissimo tempo. D’altra parte, l’isolamento parlamentare del Pdl e la sua clamorosa sconfitta, nel caso di un «sì» all’arresto di Cosentino, avrebbe reso più difficile la persistenza del partito di Berlusconi nell’inedita alleanza con Pd e Udc a sostegno di Monti.

Questa opinione è del tutto condivisibile, ma dovrebbe trovare una certa compensazione nel giudizio sul significato, meno evidente ma non trascurabile, della ritrovata sintonia tra Pdl e Lega, al fine di riaffermare la volontà decisiva del Parlamento sulle sorti della politica nazionale. Come se il ripetuto avvertimento di Berlusconi al premier sulla possibilità di estrometterlo da Palazzo Chigi in qualsiasi momento suonasse, ora, più forte e più allarmante.

La delusione degli oltre un milione e duecentomila firmatari della proposta di referendum contro il cosiddetto «porcellum» elettorale e dei tantissimi altri che certamente condividevano la speranza di poterlo cancellare con la scheda referendaria dovrebbe trovare una qualche consolazione nell’impegno, espresso ieri da tutti i politici, a trovare un accordo per una nuova legge. Finora, nonostante l’indignazione dei cittadini italiani per l’esproprio della loro volontà nella composizione del Parlamento, i rimbrotti della Corte Costituzionale che saranno probabilmente ripetuti nella motivazione della sentenza di ieri, le esortazioni del capo dello Stato, i partiti non sono stati capaci, o non hanno voluto, cambiare quella legge. Perché, ora, dovremmo essere più fiduciosi di non dover mai più votare con quelle regole?

Il paragone con l’attività del governo è troppo utile, a questo proposito, per non farvi ricorso. Così come l’Europa ha costretto la politica ad assecondare Monti, sia pure con qualche maldipancia, nella dura azione di risanamento del bilancio pubblico, così il referendum avrebbe imposto al Parlamento di raggiungere un’intesa su una diversa legge elettorale. Tolto, col verdetto della Consulta, lo spauracchio della consultazione popolare, chi potrebbe escludere, come è stato negli anni passati, un nuovo fallimento di un accordo dimostratosi così arduo? Anche perché ai leader dei partiti, di tutti i partiti, fa così comodo la possibilità di modellare a loro piacimento il volto delle loro rappresentanze parlamentari, senza le sorprese determinate dalle scelte, magari difformi, degli elettori.

Nonostante i legittimi dubbi, non possiamo abbandonarci al pessimismo. Anche perché se al governo Monti fosse impedito di proseguire nell’opera di salvataggio dell’Italia, dovremmo dare l’addio all’Europa e all’euro. Se i partiti dovessero ostinarsi a ignorare i sentimenti e la volontà dei cittadini, potremmo correre il rischio di dire addio alla democrazia.

La Stampa 13.01.12

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Il patto tra il Cavaliere e Bossi per il voto in primavera

“Risate di sollievo, Denis Verdini, coordinatore del Pdl, sorride assieme al collega campano Cosentino”, di AMEDEO LA MATTINA

Atteggiamenti che guidavano le mosse e le contromosse politiche prima del governo Monti. Soprattutto sono tornati ad intendersi Berlusconi e Bossi, che ha salvato il coordinatore dimissionario del Pdl campano per ammazzare Maroni e le sue «velleità» di leadership nel Carroccio. «Certo – spiega Casini nella sede del gruppo Udc della Camera – una piccola mano d’aiuto nel salvataggio lo ha dato qualche microcefalo sparso qua e là nei partiti che erano a favore dell’arresto di Cosentino, ma non c’è dubbio che ha ragione Matteoli: esiste ancora una maggioranza PdlLega».

«Sì, è vero, è sempre la maggioranza berlusconiana, ma sono arrivati anche voti dall’Udc e dal Pd», commenta Verdini, al quale si avvicina il deputato Giorgio Jannone per fargli i complimenti: «Denis, anche questa volta hai fatto il miracolo». Il miracolo, già sperimentato in passato per tenere in piedi il Cavaliere, sarebbe stato quello di affidare a parlamentari Pdl l’incarico di avvicinare i colleghi di altri partiti nei collegi e convincerli a votare a favore di Cosentino. In altre occasioni che hanno dato vita a scissioni, a passaggi da un gruppo all’altro e alla nascita di nuove formazioni politiche, l’opposizione del governo precedente lo aveva accusato di ben altri metodi: quello economico innanzitutto. Ma sono polemiche e supposizioni di altri tempi. Oggi basta far leva sulla difesa di casta («adesso tocca a Cosentino, domani può toccare a te») o sulla sensibilità garantista di qualche ex democristiano, e non solo («si sta votando sull’arresto di un collega e non di fermare il processo»). Il risultato è che Verdini ha fatto un report millimetrico a Berlusconi: «Anche con la defezione di una decina di maroniani, Cosentino ce la farà, per 13 voti». Sbagliando solo di 2 voti. Così nella rete sono caduti anche alcuni deputati dell’Udc, come sono convinti anche nel Fli.

Ma nella partita che si è giocata ieri c’è dell’altro, molto di più, e riguarda gli scenari e le alleanze del futuro dove Berlusconi non sembra intenzionato per niente ad uscire di scena. Rinsaldando l’asse con Bossi.

Sarebbe stato il Senatùr a cercare il Cavaliere per fare fuori Maroni. E l’ex premier avrebbe ingolosito il suo vecchio sodale promettendogli che tra marzo e aprile avrebbe staccato la spina a Monti per andare ad elezioni tra maggio e giugno. Non solo. Gli avrebbe garantito che la legge elettorale non verrà cambiata. Al massimo si cambia il premio di maggioranza del Senato per evitare che il Terzo Polo possa essere determinante.

Il presunto patto segreto tra Berlusconi e Bossi è circolato con insistenza a Montecitorio, ma fonti leghiste negano. Rimane il fatto che sono molti gli esponenti del Pdl di primo piano a temere le spinte elettorali che montano nel partito. «Aspettiamo fino a marzo – dice La Russa – e vedremo se Monti avrà colpito solo le categorie non sindacalizzate e che sono in genere la nostra base elettorale. Se sarà così e avrà salvaguardato Pd e Cgil, allora si andrà a votare, anche in autunno perché lo scioglimento delle Camere si può fare pure durante il semestre bianco. È previsto dalla Costituzione quando la fine della legislatura coincide con la rielezione del Capo dello Stato». La voglia di elezioni si rafforza nel Pdl, al di là se sia vero il patto tra Berlusconi e Bossi. Se ne rende conto Alfano che oggi, nell’incontro a Palazzo Chigi, dirà a Monti di essere prudente, di stare attento a non colpire solo da una parte, a non mettere troppo in difficoltà il suo partito dove bollono gli ardori elettorali.

«Forse – confida uno dei falchi – Alfano avrà sentito Berlusconi accarezzare l’idea di far saltare il tavolo tra qualche mese». Ma sono in molti a sconsigliare il Cavaliere dal fare colpi di testa, a cominciare da Gianni Letta, Cicchitto, Frattini, Fitto. Forse l’ex premieravrà ingolosito Bossi, ma nelle riunioni che ha fatto in questi giorni a Palazzo Grazioli è sembrato convinto sul fatto che occorre aspettare, almeno fino all’estate. E che in questa situazione di forte crisi europea e internazionale, in piena recessione, di fronte a qualche risultato portato a casa dalla Merkel, non si può trascinare l’Italia nell’agone elettorale. «Non so come, ma dobbiamo arrivare al 2013», avrebbe detto. Anche perché i sondaggi per il Pdl non sono incoraggianti. Un Cavaliere comunque double-face, come sempre. Farà la sua mossa al momento opportuno e in base alle sue convenienze.

La Stampa 13.01.12

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Radicali decisivi nel voto in Aula Nuova rottura con il gruppo “Pd”, di CLaudia Fusani

Con i sei voti radicali, Cosentino sarebbe andato in carcere per un voto di differenza. Rosy Bindi li accusa di scorrettezza. Enzo Carra rincara la dose. Ma i loro voti erano già contati alla vigilia tra i contrari all’arresto. Sei voti «determinanti» punta il dito il presidente del Pd Rosi Bindi contro la pattuglia radicale. «Ancora una volta sono stati scorretti, se avessero votato con noi le cose oggi sarebbe andate in maniera diversa» insiste.
Sei voti decisivi. Se i sei deputati radicali avessero votato a favore dell’arresto di Cosentino, secondo le indicazioni del Pd, i sì sarebbero stati 304 e i no 303. Il deputato di Casal di Principe sarebbe cioè andato in cella per un voto.
Ma non inaspettati. I sei voti radicali, infatti, erano già contati mercoledì sera, alla vigilia del voto, nel monte dei 298 voti a disposizione dell’ex coordinatore del pdl campano. Il punto quindi è capire da quale banco dell’emiciclo sono arrivati gli altri undici voti in più.
Tutto si può dire ma non che il no dei Radicali fosse inaspettato. Maurizio Turco, membro della Giunta per le autorizzazioni, è uno dei più profondi conoscitori del caso Cosentino e di Gomorra di Casal di Principe. E questa volta, così come nel dicembre 2009, Turco non ha mai avuto dubbi: «Cosentino potrà anche essere il referente politico nazionale dei casalesi» è la sintesi del suo ragionamento «ma questo non viene fuori dalle carte». E di carte Turco ne ha lette tante in questi anni. Non solo quelle arrivate in Giunta: si è procurato libri e più che altro gli atti dei processi Spartakus 1, 2 e quello al boss «Sandokan» Schiavone. Come se non bastasse, si è messo anche a seguire le udienze del processo in corso a Santa Maria Capua a Vetere dove Cosentino è imputato per associazione mafiosa, voto di scambio e altri favori ai clan.
Una scelta, quindi, fatta in piena coscienza che ha convinto anche gli altri cinque deputati radicali, Rita Bernardini, Matteo Mecacci, Farina Coscioni, Marco Beltrandi e Elisabetta Zamparutti. «Cosentino è già a processo. Il dibattimento è già incardinato. vediamo cosa succede. Che senso ha arrestarlo?» ha insistito Turco. E poi parole destinate soprattutto ai compagni di maggioranza, i deputati del Pd seduti lì sotto: «I Radicali non condividono le tesi della maggioranza. Noi non giudichiamo gli altri e voi non giudicate noi. Non criminalizzate decisioni diverse da quelle del conformismo imperante».
Non basta per evitare gli strali che subito dopo il voto si scatenano sulla pattuglia radicale. Quelli di Rosi Bindi, prima di tutto. E quelli di Enzo Carra: «Con il voto di oggi i radicali hanno contribuito a strappare Cosentino dal regolare corso della giustizia. Si tratta di una scelta scorretta e gravissima».
I Radicali hanno votato a favore dell’arresto di Papa, Milanese e Angelucci. Ma lo scontro più grosso con il Pd è stato il giorno del voto sul rendiconto di bilancio. Quando furono, allora sì, decisivi per far scattare il quorum che salvò ancora per un mese Berlusconi.

L’Unità 13.01.12

Scuola, Ghizzoni (Pd): su riduzione percorso studio serve cautela e molta riflessione

“Sono molti gli obiettivi sull’istruzione che l’Europa indica e che l’Italia disattende da troppo tempo: tra questi, per citare solo quelli più urgenti, che consentirebbero la necessaria valorizzazione del capitale umano, l’azzeramento della dispersione scolastica, l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, l’aumento del numero dei diplomati e una maggiore attenzione alle discipline scientifiche. Su questi punti – dopo il disinteresse dei tre anni precedenti – occorre ora investire con convinzione e senso strategico. E’ vero anche che l’Europa indica un percorso scolastico piú breve, di un anno, rispetto al nostro: un obiettivo da affrontare con la cautela imposta da un contesto sottoposto allo choc degli assurdi tagli del governo precedente. Su tutto ciò occorre portare avanti una seria riflessione, coinvolgendo e rendendo protagonista il mondo della scuola: stupiscono quindi le indiscrezioni odierne, tanto più che di tutto ciò il ministro Profumo non ha parlato durante la recente audizione in commissione”. Lo dichiara la capogruppo del Pd nella commissione Cultura della Camera, Manuela Ghizzoni.

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Tutti contro Rossi Doria: impensabile ridurre di un anno il ciclo di studi

Bocciata l’idea del sottosegretario di far coincidere la maggiore età e la fine degli studi. Pantaleo: prima si cancellino le riforme Gelmini. Scrima: basta improvvisare o ripescare proposte che già hanno mostrato tutti i loro limiti. Pacifico: la riduzione del tempo scuola è controproducente. Dal proprio blog dal sottosegretario all’Istruzione, Marco Rossi Doria, a proposito della convenienza nel ridurre di un anno la durata del sistema scolastico italiano. Destando non poca sorpresa, anche per l’affiliazione politica (il Partito democratico), il sottosegretario ha scritto che è giunto il momento di“riformare i percorsi scolastici in modo che – dalla prima elementare al diploma – durino in tutto non oltre 12 anni. In modo da far coincidere la maggiore età e la fine della scuola, come nei grandi paesi europei, in USA, in India, Cina e Brasile”.
L’idea del sottosegretario – peraltro non del tutto originale, poiché già espressa senza fortuna dagli ex ministri Berlinguer e Moratti – appare, francamente, poco praticabile. Prima di tutto perché giunge a ridosso del ridimensionamento orario generalizzato, imposto di recente attraverso le varie riforme degli ordinamenti scolastici. In seconda battuta perché andrebbe a cancellare migliaia di posti in organico, tra docenti e Ata, contraddicendo quanto espresso più volte dal ministro, Francesco Profumo, a proposito della fine del ciclo dei tagli al comparto. Infine, andrebbe a contrastare anche un’altra dichiarazione reiterata del primo responsabile del Miur, a proposito della necessità di “oliare” il sistema Scuola piuttosto che pensare a nuove riforme. E la cancellazione di un anno (quinto superiore?) non può passare di certo come un provvedimento soft.
Tra i più infastiditi per l’uscita imprevista di Rossi Doria è stato Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil: “la riforma dei percorsi scolastici – ha fatto sapere il sindacalista – è importante e deve essere attentamente valutata ma non si possono anticipare decisioni, come quella della durata complessiva di 12 anni del ciclo di studi, che non sarebbe praticabile senza la cancellazione delle riforme Gelmini e comporterebbe ulteriori tagli di personale. Bisognerebbe evitare di annunciare ogni giorno possibili cambiamenti senza una verifica – ha concluso Pantaleo – sulle possibilità reali di raggiungere risultati concreti perché così si crea molta confusione e incertezza”.
Quasi stizzito per l’idea di ridurre di 12 mesi la conclusione del sistema formativo è anche Francesco Scrima, segretario generale Cisl Scuola: “l’abbiamo detto nell’incontro col ministro l’altro ieri: chiediamo che il confronto sui temi della scuola e della formazione avvenga su proposte chiare e precise, non su annunci generici o indiscrezioni ministeriali. Su temi come i percorsi di studio non si può improvvisare, né ripescare proposte che già hanno mostrato tutti i loro limiti. Nella presente situazione, assai difficile sul piano economico, politico e sociale, – ha concluso Scrima – sarebbe cosa saggia individuare con realismo e concretezze precise priorità e dedicarsi a realizzarle”.
Meravigliato della proposta del sottosegretario si è detto anche Marcello Pacifico, presidente dell’Anief: “L’idea di cancellare un anno di scuola superiore – ha detto Pacifico – fa il paio con il progetto dell’ex ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, di allungare le vacanze estive: si tratta di proposte che l’Anief respinge con forza, perché la riduzione delle ore introdotta con le ultime riforme della scuola ha dimostrato che le competenze dei nostri alunni sono tutt’altro che migliorate. Bisogna, quindi, andare esattamente nella direzione opposta, portando i nostri ragazzi più tempo possibile nelle classi: solo in questo modo, passando più ore a scuola con gli insegnanti, i giovani potranno approfondire le conoscenze e ridurre le lacune”.

La Tecnica della Scuola 13.01.12

Riforma elettorale: la proposta depositata dal PD

Il Partito Democratico è l’unica forza politica ad aver presentato formalmente la propria proposta di riforma elettorale in Parlamento. La proposta formulata dal PD basata su 8 punti.
La proposta formulata dal Pd prevede:
1. Un mix per l’assegnazione dei seggi per la Camera dei Deputati, la quale avviene mediante tre diversi “canali”:
a) collegi uninominali maggioritari;
b) una quota proporzionale distribuita su base circoscrizionale;
c) una quota nazionale di compensazione;

2. L’elettore dispone di una sola scheda, su cui vota solo per un candidato di partito in collegi uninominali; il voto, automaticamente, è attribuito anche alla lista del medesimo partito presentata per ciascuna circoscrizione.
Nella scheda, accanto al simbolo e al nominativo di ciascun candidato nel collegio uninominale, è presente anche la lista dei candidati concorrenti a livello circoscrizionale.

3. Una quota pari al 70% dei seggi in palio (corrispondente a 433 seggi) è attribuita agli eletti in collegi uninominali maggioritari a doppio turno. E’ eletto al primo turno il candidato che ottiene la metà più uno dei voti validamente espressi; altrimenti si da’ luogo ad un secondo turno aperto a tutti i candidati che abbiano ottenuto una percentuale pari ad almeno il 10% dei voti degli elettori iscritti nelle liste elettorali. È prevista la possibilità, da esprimere entro il primo venerdì successivo allo svolgimento del primo turno, di rinunciare a presentarsi al secondo. Nel secondo turno è eletto il candidato che ottiene il maggior numero di voti.

4. Una quota pari al 28% di seggi (corrispondente a 173 seggi) è attribuita con metodo proporzionale su base regionale o pluriprovinciale. E’ previsto lo scorporo, per ciascun partito, dei voti ottenuti al primo turno dei candidati eletti nei collegi uninominali sia al primo che al secondo turno. Per l’attribuzione di questi seggi è prevista una soglia circoscrizionale di sbarramento pari al cinque per cento dei voti validi.

5. Una quota di seggi pari a 12 (diritto di tribuna) è attribuita con metodo proporzionale alle liste nazionali corrispondenti ai partiti che non siano riusciti ad eleggere candidati né nei collegi uninominali né nelle liste circoscrizionali collegate. Per l’attribuzione di questi seggi viene applicato il metodo d’Hondt tra le liste si siano presente in almeno 5 circoscrizioni.

6. Infine, è previsto che sia possibile candidarsi contemporaneamente in ciascuna delle tre “quote”, ma con un massimo di una sola candidatura in un collegio e in una lista regionale.

7. L’assegnazione dei seggi per il Senato della Repubblica avviene solo attraverso due “canali”, per garantire il rispetto dell’articolo 57 della Costituzione, il quale richiede che venga eletto “su base regionale”:
a) collegi uninominali, per una quota pari al 70% del totale dei seggi in palio (216 seggi)
b) una quota proporzionale distribuita su base circoscrizionale (Camera) per una quota pari al 30% del totale (93).
Non viene dunque prevista la quota nazionale di compensazione.

8. Per la pari opportunità fra i generi, sono previste due misure specifiche
a) Nel complesso delle candidature (uninominali e circoscrizionali) nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al cinquanta per cento.
b) Le liste circoscrizionali devono prevedere l’alternanza di genere nella successione dei candidati
c) Le liste nazionali devono prevedere l’alternanza di genere nella successione dei candidati e nelle candidature di una stessa lista nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al cinquanta per cento.

Leggi il testo completo della Proposta di Legge

www.partitodemocratico.it

La Camera nega l'autorizzazione all'arresto di Cosentino

Per la seconda volta in pochi mesi l’Aula ha negato l’arresto del deputato del Pdl, accusato dalle procure campane di collusioni con il crimine organizzato. Questi i numeri: 309 deputati contrari all’arresto; 298 favorevoli. Bersani: “Adesso la Lega dovrà spiegare”. Bindi: “Il Carroccio difende un patto inconfessabile con il Cavaliere”

“Chiedere alla Lega. Adesso la Lega lo spiegherà”. Così il Segretario del PD, Pier Luigi Bersani, ha commentato la decisione della Camera che per pochi voti ha negato l’autorizzazione all’arresto di Nicola Cosentino e sulla quale sarebbero stati determinanti proprio i no del Carroccio.

Per la seconda volta in pochi mesi l’Aula ha negato l’arresto del deputato del Pdl, accusato dalle procure campane di pesanti collusioni con il crimine organizzato. Il responso è arrivato al termine di un dibattito molto acceso, e non solo a livello partlamentare.

Questi i numeri: 309 deputati contrari all’arresto; 298 favorevoli.

“I guerrieri padani si sono calati un’altra volta le braghe davanti a Berlusconi, e non sono nemmeno più in maggioranza insieme, vorrei sapere perche'”, è il commento di Dario Franceschini, capogruppo PD alla Camera.

Come ha evidenziato anche Bersani, Franceschini ha notato che “sommando i voti, dalla Lega non sono giunti più di venti voti: il cerchio magico ha fatto la magia. E’ una brutta pagina per il Parlamento: si trattava di reati di una gravità assoluta e del rispetto dei diritti costituzionali. Hanno prevalso calcoli politici e sono curioso di vedere come combattono i guerrieri padani”.

Quanto al Gruppo del PD, Franceschini sottolinea che “il PD è stato compatto, era presente con il 99%: erano assenti solo due deputati, Fioroni e Sanga, che da giorni sapevamo essere ricoverati in ospedale”.

“Il nodo politico del voto su Cosentino è che la Lega è tornata totalmente subalterna a Berlusconi e lo ha fatto ancora una volta sulle questioni meno nobili”. Lo ha detto la Presidente dell’Assemblea del PD, Rosy Bindi, parlando con i giornalisti alla Camera.

“Ha un bel dire la Lega a difendere gli operai – ha sottolineato – oggi ha dimostrato che in realtà difende solo se stessa e il patto inconfessabile con Berlusconi”.

Bindi ha aggiunto un aspro commento anche in riferimento al voto dei Radicali: “Dal punto di vista numerico i Radicali sono stati determinanti, quindi non posso che sottolineare ancora una volta la scorrettezza del loro comportamento”.

Anche Antonio Misiani, membro della Commissione Bilancio della Camera e Tesoriere del PD ed Emanuele Fiano, Responsabile Sicurezza del Partito Democratico hanno negativamente evidenziato l’atteggiamento della Lega che “per l’ennesima volta si è comportata come una stampella a sostegno degli interessi di Berlusconi”, come ha detto Misiani, “mettendo in atto le ridicole pantomime di chi si oppone a fantomatici poteri forti quando si è completamente asserviti a quelli di un uomo solo”.

Fiano ha aggiunto che “evidentemente Berlusconi ancora per molti leghisti rappresenta un’attrazione fatale”, commentado amaramente che “rimane incomprensibile il comportamento dei colleghi Radicali”.

da www.partitodemocratico.it

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Cosentino la Camera dice no

Voto sul deputato Pdl indagato per presunti rapporti con la camorra: 309 contrari, 298 favorevoli. Lega divisa. La Camera dice no all’arresto di Nicola Cosentino, il deputato e coordinatore campano del Pdl indagato per presunti rapporti con la camorra. Il voto si è svolto a scrutinio segreto: 309 deputati si sono espressi contro l’autorizzazione all’arresto, 298 a favore. In tutto, in base ai tabulati, sono stati 18 i deputati che non hanno votato (8 Pdl, 2 Pd, 2 Lega, 1 Udc). In aula non era presente nessun ministro del governo Monti.

LEGA DIVISA – Il leader del Carroccio Umberto Bossi non ha partecipato al voto. Roberto Maroni, invece, ha detto sì: «Io – spiega uscendo da Montecitorio – ho mantenuto la posizione favorevole all’arresto. Non ho condiviso la posizione della libertà di voto, ma l’ho accettata perché era la posizione espressa nel gruppo e non c’è nessun disaccordo con Bossi».

Nicola Cosentino con Alfonso Papa (Photoviews)Nicola Cosentino con Alfonso Papa (Photoviews)
ABBRACCI DAL PDL – Non appena il presidente della Camera ha letto il risultato del no dell’Aula alla richiesta d’arresto, tutti i deputati del Pdl sono scattati in piedi e si sono diretti al posto di Cosentino per abbracciarlo e congratularsi con lui. Lungo è stato l’abbraccio tra lui e Alfonso Papa. Ma saluti e strette di mano sono arrivate da tutti gli altri colleghi di partito.

BERLUSCONI: «UN VOTO DI GIUSTIZIA» – Silvio Berlusconi definisce quello della Camera «un voto di giustizia». «Ero convinto che questa sarebbe stata la decisione del Parlamento che non poteva rinunciare alla tutela di se stesso – aggiunge l’ex premier -. È una decisione giusta, in linea con la Costituzione». Quindi conclude: « «Il processo continuerà regolarmente e senza intoppi e il parlamentare lo affronterà da uomo libero come è giusto che sia».

I PRECEDENTI – Quello su Nicola Cosentino è stato il quarto voto poco più di due anni alla Camera sulla richiesta di arresto di un deputato. Era toccato sempre a Cosentino che si era salvato dall’arresto una prima volta il 10 dicembre del 2009. Allora i no alla richiesta della magistratura di Napoli furono 360 e 226 i sì. Per Alfonso Papa, l’Aula della Camera decise l’arresto il 20 luglio dello scorso anno con 319 sì e 293 no. Marco Milanese invece, il 22 settembre scorso, vide respingere la richiesta con 312 no e 306 sì.

da www.corriere.it

Referendum. Da Consulta due No ai quesiti elettorali

“La Corte Costituzionale – si legge nella nota di palazzo della Consulta – in data 12 gennaio 2012 ha dichiarato inammissibili le due richieste di referendum abrogativo riguardanti la legge 21 dicembre 2005 numero 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica). La sentenza sara’ depositata entro i termini previsti dalla legge”. “Rispettiamo pienamente la decisione della Corte Costituzionale – ha commentato il Segretario del PD Pier Luigi Bersani – leggeremo il dispositivo per farci illuminare dalle valutazioni. Ora tocca al Parlamento agire e noi da domani siamo impegnatissimi a cambiare il porcellum. Il PD ha già depositato la sua proposta di riforma e a partire da lì, naturalmente aperti al confronto, vogliamo discutere con tutte le forze politiche e il dialogo con la società”.

Per il Segretario del PD “non ci possiamo tenere l’attuale legge elettorale perchè in una situazione già molto grave, finiremmo per vedere accresciuto il distacco tra cittadini e istituzioni. Chi come noi ha dato un aiuto decisivo alla raccolta di firme, non può certo gioire per la decisione della Consulta ma la rispettiamo”.

“Non commento la decisione della Consulta, la rispetto e aspetto di leggere le motivazioni della sentenza “, ha dichiarato Anna Finocchiaro, Presidente dei senatori del PD dopo la sentenza della Consulta sull’ammissibilità dei referendum elettorali.

“Ma non è accettabile leggere commenti violenti e volgari contro un organo costituzionale – ha aggiunto Finocchiaro in riferimento ad alcune esternazioni di Di Pietro- non è possibile compiere insinuazioni di basso profilo ed esprimere giudizi irrispettosi verso la Consulta e verso il Capo dello Stato. Oggi, dopo questa sentenza, sulle forze politiche che hanno a cuore la democrazia italiana e sul Parlamento pesa ancora più forte la responsabilità di cambiare il Porcellum. Una delle cause dell’allontanamento dei cittadini italiani dalla politica risiede proprio nell’attuale legge elettorale. E’ il momento adesso di misurare la sincerità delle forze politiche che a grande maggioranza hanno detto di volerla cambiare. E’ in Parlamento e non nelle piazze che si misurerà ora la volontà riformatrice dei partiti. Il PD farà con responsabilità la sua parte”.

Anche il Vice presidente del Senato Vannino Chiti ha ribadito “quanto sia doveroso rispettare la sentenza della Corte Costituzionale, condannando ogni aggressione verbale nei confronti della Consulta e del Presidente della Repubblica, come quella di cui si fa ancora una volta portavoce Di Pietro. Faremo di tutto perchè le prossime votazioni non si svolgano con la legge ‘porcellum’: ogni forza politica e ogni singolo parlamentare si dovranno assumere chiare responsabilità di fronte al Paese”.

“Dopo la bocciatura del referendum non c’è dubbio che spetti al Parlamento agire”, ha incalzato Massimo D’Alema, che ha spiegato: “Il referendum avrebbe certamente messo le Camere nell’obbligo di agire, ma c’è comunque un obbligo morale perchè l’attuale legge elettorale è insostenibile e inaccettabile per i cittadini”.

www.partitodemocratico.it

"Fasti e segreti tra i marmi della Farnesina dove gli scandali rimbalzano e svaniscono", di Filippo Ceccarelli

A dispetto dei marmi che la fanno risaltare nel suo gelido e simmetrico nitore, la Farnesina è in realtà un palazzo di gomma, nel senso che gli scandali le rimbalzano addosso, e una volta rimbalzati su quei periferici travertini si perdono nel nulla e poi nessuno se ne ricorda più.
E´ storia e memoria ogni volta messa a dura prova: petrolio libico, gas tunisino, stecche saudite, traffico d´armi per ogni dove, con la gentile partecipazione dei servizi segreti; e fra pescherecci somali o metropolitane in Perù, compravendita di visti a Tirana come pure ospedali tarocchi in Zaire, non c´è storiaccia che lasci qualche segno dalle parti del ministero degli Affari Esteri; e nulla mai riesce davvero a scalfire la tradizione di quel luogo necessariamente fantastico, fonte inesauribile di leggende torbide e sfarzose sul ceto più aristocratico della pubblica amministrazione, dalle clientele pseudointellettuali degli istituti italiani all´estero all´indicibile minutaglia degli ambasciatori ubriachi, dei consoli menacciuti, dei primi segretari trafficanti, dei diplomatici stranieri viziosi, e giù, giù fino alle tartine avariate nei ricevimenti.
Ogni branca del potere ha i suoi fasti, le sue magagne, ma soprattutto i suoi dispositivi di difesa. Il caso di Vattani junior rientra in questo superiore sistema di gelosa e dissimulata imperturbabilità rispetto ai casi scabrosi della vita, pubblica e privata – al giorno d´oggi il confine essendo divenuto impossibile da stabilire. Nel gigantesco parallelepipedo della Farnesina, non per caso denominato «la Tomba del Faraone», nove piani, 1300 stanze, con la Reggia di Caserta uno degli edifici più grandi d´Italia, l´auto-protezione sembra da sempre efficacissima; e in fondo ha funzionato anche per Vattani senior, papà Umberto, due volte Segretario Generale e poi nominato presidente riconfermato dell´Ice in presenza di vicende poco edificanti, un bel po´ di soldi spesi per telefonate non esattamente di servizio, un giudizio severo della magistratura e più in generale un oceano per nulla pacifico di chiacchiere.
Ma è in quel modo che va lì dentro, tra i lunghissimi corridoi, gli scaloni lucidi, i montacarichi ansiogeni e l´inaccessibile biblioteca. Con qualche azzardo interpretativo si può pensare che l´andazzo sia anche il frutto di uno scambio con il potere politico. De Michelis, a suo tempo, ebbe un paio di segretari agli arresti, o forse erano tre, per l´inchiesta monstre sulla cooperazione, finita con tanti assolti e prescritti. Ma in fondo fece a tempo ad assaporare le preziose informazioni che con servile lusinga i diplomatici gli riservavano sulle discoteche di mezzo mondo.
Da un po´ di tempo, oltretutto, i ministri sono quelli che sono: Berlusconi spiegava agli ambasciatori che non dovevano indossare il panciotto; Fini convocava alla Farnesina le riunioni di An e se il suo portavoce, di cui è rimasto agli atti il sublime dilemma «Chi ci trombiamo oggi?», si faceva recare nel marmoreo sepolcro l´oggetto dei suoi desideri, quello già più professionale di Frattini dovette intervenire con una nota sulla fine dell´amore tra il ministro e la fidanzata, l´indimenticabile Chantal. Poi per la verità alla Farnesina arrivò in dote anche Valterino Lavitola: e faceva la posta nell´anticamera del responsabile della politica estera, per via di un affare albanese, o lo accompagnava a Panama, come da foto.
E così, dati anche i luminosi esempi, succede che le commissioni disciplinari per i diplomatici lascino il tempo che trovano. Narra la generosa leggenda del palazzo di gomma che Fanfani – che era Fanfani e lì poi si formò un corpo di feroci esecutori detti «Mau Mau» – appena arrivato si mise in testa di far arrivare in orario gli ambasciatori e quindi ordinò il sequestro delle chiavi delle loro stanze, che volle tenere sulla sua scrivania come un trofeo di guerra. Al che, verso mezzogiorno, con aria annoiata un diplomatico si rivolse ai commessi: «Bene, me le farete consegnare a casa».

La Repubblica 12.01.12