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"Il Premier ha ragione il populismo può travolgere l’Europa", di Michele Prospero

Il presidente Monti ha lanciato l’allarme di un pericolo populista incombente. È reale il rischio paventato o è solo un espediente retorico? Purtroppo la soluzione populista alla crisi (europea) è una eventualità molto forte che solo una grande classe politica può scongiurare. È miope, per chi occupa una responsabilità di governo, non segnalare in modo esplicito le gravi tendenze degenerative in atto. Ci sono elevate probabilità che la crisi sociale spazzi via i soggetti e anche taluni istituti classici del panorama continentale.

Lasciando stare l’Ungheria, o altri analoghi processi regressivi da tempo in corso all’est, è ancora politica quella che esiste in Grecia? E anche in Spagna a che livello versa la competizione democratica? La crisi economica, questo è il punto, ha strapazzato il senso e il richiamo evocativo delle distinzioni cruciali proprie della politica.
L’impotenza del governo, e quindi il tracollo delle stesse polarizzazioni destra-sinistra che si registra nel vortice dell’emergenza, si origina dalla abissale asimmetria tra lo spazio della decisione concesso agli esecutivi (rigore nazionale) e l’ambito (almeno europeo) delle dinamiche economiche e finanziarie. La mancanza di una Europa politica, capace di coprire con il volto della sovranità l’effige debole della moneta, divora e uccide la politica nazionale che appare sempre più come un gioco sterile nel risolvere la crisi. Anche il rigore più duro e i sacrifici più stoici saranno stritolati per la loro manifesta inattitudine a rispondere a problemi che scavalcano il singolo paese scovato con i conti in difficoltà. Portogallo, Grecia, Spagna, cioè tre paesi a guida socialista, sono stati travolti dalla crisi. Sarebbe sbagliato accentuare il rilievo politico dei ricambi avvenuti. Non opera più in quei paesi, anche in caso di cambi della guardia, una vera alternanza di governo. L’emergenza ha essiccato la politica.

La sostituzione di una classe politica è meccanica, non obbedisce alla fisiologia del ricambio ma alla patologia di una crisi non gestibile che miete vittime simboliche colpendo alla cieca qualsiasi sia il colore dei governi. È evidente che il fattore di blocco e di inasprimento della crisi si chiama cecità delle grandi potenze europee guidate dalle destre. Per paesi ormai in bilico, che vengono da anni di vani e iniqui tentativi di risanamento, non può durare all’infinito la capacità di assorbire i salassi di una politica del rigore e dei sacrifici imposti senza tangibili risultati. Sono incalcolabili i processi di risentimento e di angoscia che nascono in un paese sempre più ineguale che vede ad ogni manovra seguire un’altra manovra, ancora più pesante della precedente e purtroppo meno efficace della vecchia, ancora non assorbita, e pure della prossima, già in cantiere.

L’emergenza economica è un male oscuro insidioso e crudele per i cittadini lasciati alla disperazione ma non è impossibile da curare se solo si adottasse una prospettiva europea di contenimento delle speculazioni, di sostegno della moneta. La emergenza politica è invece molto più contagiosa e ingovernabile perché un virus inattaccabile ha minato la capacità degli Stati di assorbire le tensioni e di creare coesione e fiducia. Con la sua ottusità rigorista che ignora le ineguaglianze, l’Europa sta scavando la fossa alla politica, cioè alla capacità di curare gli squilibri, le ansie, le alienazioni di ceti sociali impoveriti. Le destre stanno creando un cimitero della democrazia e lo chiamano risanamento strutturale. Non può durare a lungo però una situazione di perdita di status che vede tramutare la politica in una perfida cassandra che infrange i progetti di vita. Negli anelli più deboli dell’Europa, l’angoscia di masse senza prospettive e tutele evoca passaggi oscuri. La stessa Germania farebbe male a trascurare i segni di anomia, per ora annunciati da movimenti giocosi, ma pur sempre rivelatori di ansia, come quello dei pirati, stimati all’8 per cento. La decadenza democratica minaccia la tenuta del laboratorio europeo come città della coesione.

Le potenze europee che si ergono a sentinelle del sacrificio rendono vane le ginnastiche elettorali chiamate solo a imporre tagli e tasse a cittadini attoniti dinanzi a misure ingiuste. A livello europeo si pone ormai la sfida per il recupero di prestigio della politica. Una lotta santa contro il debito ostacola la crescita e produce oscure infatuazioni populiste in ceti che danno sfogo al risentimento ribellista. Solo un’altra Europa, dell’inclusione e della crescita, potrebbe inaugurare una stagione diversa e restituire un principio di speranza. I mercati e le destre ottuse stanno uccidendo la democrazia e vanno adunando in ogni posto le forze sterminatrici del populismo autoritario, tocca alle sinistre rigenerarla, restituirle un senso ora appassito.

L’Unità 12.01.12

"La scuola solubile", di Raffaele Iosa

Volevo intitolare questo articolo “ scuola liquida” per descrivere come vedo la scuola italiana oggi. Ma per non scimmiottare Baumann, e per ragioni più prosaiche, ho deciso di chiamarla “solubile”: cioè uno stato liquido senza forma, senza scheletro, amebica ma con tracce di sali e zuccheri sciolti qua e là che non riescono a fare massa. Dalle tracce forse si può ri-partire per ri-trovare un sensato senso pubblico per una futura formazione nel nostro paese migliore dell’attuale?

Una nuova Italia pubblica?

Nonostante l’incipit pessimista, ho trovato una possibile risposta positiva per trovare nuove tracce nei dati della ricerca di Ilvo Diamanti pubblicata il 9 gennaio 2012 su Repubblica dal titolo “Voglia di un paese migliore”. Ricerca imperdibile per chi si occupa di scuola con una visione democratica delle opportunità dopo anni di depressione. Nel settore “fiducia nelle istituzioni” gli italiani danno fiducia alla scuola con un bel 55,7%, +3,3% rispetto al 2010. La scuola è ottima terza. Prime le forze dell’ordine (71,8% con un -2,6 dal 2010), e il Presidente della Repubblica (65,1 dal 70,9 del 2010). Giù e ultimi le banche con il 15,4% (crollo in un anno -7,2%), il Parlamento 8,9% (in un anno -4,5%, metà del consenso), i partiti 3,9% (metà consenso del 2010).

Miracolo a scuola? Come mai le cresce la fiducia? Come mai questo exploit? Ma Diamanti dice altre cose interessanti. Ad esempio che nel 2001 la fiducia (onda Berlinguer) era al 61,3%, e la soddisfazione per il servizio al 51,7%, dieci punti più dell’attuale 42,1%. Un dato che insegna che quando la politica cerca “il grande scenario” funziona di più tutto. Tra “fiducia” e “soddisfazione” di oggi la differenza è interessante: ci si fida più degli operatori che dei servizi offerti. Potremmo dire che lo scarto attuale tra fiducia alla scuola (55,3%) e soddisfazione per il funzionamento (42,1%) si può leggere così: la fiducia onora gli insegnanti perché hanno resistito nonostante tutto, la soddisfazione boccia le politiche della destra, non solo sui tagli economici ma anche sui valori. E poi il paradosso delle scuole private: apprezzate al 46%,5 nel 2001, decadute al 24% di oggi, dopo anni di apologia del privato. Ci saremmo aspettati l’inverso. Sullo sfondo uno strutturale cambio di tendenza: la “voglia di migliore pubblico” aumenta, cala la “voglia di privato” dal 31% del 2002 al 21% di oggi per tutti i servizi di welfare. Una voglia “repubblicana” di pubblico?

A dire degli italiani, una scuola dimagrita, selettiva, centralizzata, meritocratica funziona peggio e dà meno fiducia. La ricerca Diamanti sorprendentemente sembra indicarci dunque la presenza di un’area valoriale profonda sull’educare che ha tempi braudeliani più lunghi della politica, che sembra ancora (e nonostante tutto) piacere se ancorata all’art. 3 della Costituzione come presidio di civismo e opportunità, e non di liberistico merito e selezione fondati sul reddito di origine.

Dati sorprendenti, per alcuni inattesi, ma non leggibili come automatica vittoria di una qualche sinistra politica. Mai come in questi anni si è sentita invece forte la differenza tra una “sinistra pedagogica” ed una incerta “sinistra politica”. Questi dati sembrano invece un monito al paese per ri-trovare maggiore serietà quando si fa educazione (sale e zucchero, solidi). Segni oltre la destra e la sinistra, ma duro per chi è di sinistra (questa liquida sinistra), per una fiducia da rispettare oltre le incertezze di un pensiero pedagogico soi disant democratico ma spesso tecnocratico-corporativo. Si potrebbe persino dire voglia di “sinistra pedagogica” anche senza sinistra politica? A vedere l’appeal degli attuali partiti non c’è dubbio, se la parola sinistra ha senso nella dizione classica di Norberto Bobbio. Oppure se la parola è desueta o liquida, voglia di valori veri e solidi.

Vedo in questa aumentata fiducia nella scuola attese antiche e moderne, per una scuola come opportunità per tutti, solida, ottimista, civile, dove si sta bene e si impara volentieri, dove al centro c’è la relazione normale tra adulto e studente. Una scuola per tutti più importante del merito di qualcuno (come diventare avvocato a Reggio Calabria perché più facile e poi osannare il Merito). Forse la scuola che la maggioranza degli italiani trova ancora nelle classi dei loro figli, che cerca di salvarsi dai disastri prodotti da altri. Leggi o no, riforme o no, gli insegnanti continuano ad agire la platea educativa con successo. Cosa offrire loro? Conservazione o desideri?

ALCUNI ESEMPI FRA I TANTI

Eppure tutto ci direbbe di una scuola intorbidita. Cito qui alcuni esempi disastrosi, perché rendono ancora di più sorprendenti i risultati della ricerca Diamanti. Scritti qui proprio per confermare (per contrappunto) il “nonostante tutto” da cui si può ripartire per una scuola migliore.

Esempio 1. Ci voleva la Fondazione Agnelli a dirci quanto è mal ridotta la scuola media. Ma pochi ricordano che 13 anni fa con la Legge 30 Berlinguer aveva compiuto una scelta strutturale (ciclo lungo unitario, 7 anni) che oggi avrebbe già formato 2 generazioni, alleggerito finalmente la superiore a 18 anni (come in Europa). E forse ridotta la dispersione. Certo fa ridere veder oggi l’affannosa obbligatorietà degli istituti comprensivi, tormentone veloce per risparmiare, ma a cui nessuno oppone più obiezioni pedagogiche. La montagna ha partorito il topolino: mettere insieme il preside e la segreteria piuttosto che i bambini! Ma chi ha bocciata la legge 30? E’ più colpevole Veltroni che ha mandato via Berlinguer o il cattivone Bertagna? La Sism-Cisl che ha fatto la grande guerra o i Cobas cui bastano i posti e ciccia al resto?

Esempio 2. E’ ormai insopportabile la condizione dei nostri alunni con disabilità per il loro stato liquido a fronte della durezza di interessi corporativi: formazione, selezione, organizzazione contrattuale degli insegnanti di sostegno sembrano fatti fa un cinico per garantire la massima discontinuità a ragazzini che avrebbero bisogno più di altri di stabilità. Conta di più il punteggio che il singolo alunno. Pochi capiscono che l’affannosa richiesta di più posti di sostegno è direttamente proporzionale alla volatilità dei docenti. Tutte le ricerche confermano che se i docenti sono più stabili diminuisce la domanda di ore. La stabilità è qualità e risparmio, e invece continuano le sentenze dei tribunali. E per reazione burocratica si mandano i disabili a mortificanti accertamenti legali, come se pullulassero genitori imbroglioni. Tanto per dire quanto si considera serio il sostegno, qualcuno si inventa il riciclo dei perdenti posto in sostegni con un corsetto on-line di 120 ore. La solita formazione onanistica persona-schermo di cui è noto il disastro pedagogico e il business dei signori delle piattaforme. Pochi però sanno che più di 250.000 insegnanti “regolari” hanno il titolo di sostegno, acquisito in corsi lunghi e che hanno usato il sostegno come scorciatoia per l’ingresso in ruolo nelle cattedre. La fiducia nella scuola degli italiani sarebbe più corrisposta se qualcuno avesse il coraggio di agire con organici funzionali che obblighino tutti i docenti regolari con il titolo a fare sostegno in cambio della stabilità. Ci si fiderebbe di più se il sindacalismo capisse che non c’è futuro per finti “diritti” che sono invece sciocchi interessi senza valore civile né di qualità. In attesa, ovviamente di avere una formazione di base che davvero obblighi tutti a studiare pedagogia speciale come “normale”, visto che l’Italia ha il miracolo di un’esperienza inclusiva unica al mondo e che sta diventando ridicola (liquida) per colpa di queste vergogne.

Esempio 3. Quindici giorni fa, nell’ufficietto provinciale dove aspetto la pensione (come si fa a chiamare ex-provveditorati questi luoghi afoni di progettualità?), la Fondazione di una banca locale (repubblicani e massoni) ha regalato alcuni computer nuovi per la grande cifra di 6.000 euro. Vengo a sapere oggi che un’altra banca locale (cattolica e curiale) ha regalato alla Questura altri computer. Mi sono sciroppato una festicciola a base di pizzette e la foto per il ringraziamento.

Non è difficile esalare acide ironie per l’assurdo civile di questo stato, con la dolorosa percezione di aver rubato soldi alle scuole che, allupate di denari, cercano di tutto per sbarcare il lunario. Abitualmente offro il mio cellulare agli impiegati per telefonare ai dirigenti scolastici reperibili solo al cellulare, visto che ormai hanno tutti due scuole e non si sa mai dove trovarli, e visto che dall’ufficio è vietato chiamare cellulari. Ci si abitua anche alla micragna, ed anzi secondo alcuni teorici (e anch’io lo penso) un po’ di “penuria” può essere salutare, ma qui siamo ad altro. Siamo al disprezzo dei ruoli minimi della cosa pubblica, alla liquidazione (più che alla solubilità) di qualsiasi programmazione finanziaria anche della stessa penuria. I tagli sono decisi sempre al centro e crolla qualsiasi responsabilità. E se nel mio ufficietto volessimo far noi le pulizie e in cambio avere libertà di telefono? Impossibile! Mai come in quest’epoca siamo stati derubati dal centro di qualsiasi responsabilità. Nessun standard di spesa né obiettivo è stato discusso. Tutto liquidato. Nessuno risparmia più, né investe, i soldi promessi non arrivano, quelli che arrivano sono già super destinati.

Esempio 3. Chi sa dire cosa e come si insegna oggi nelle elementari? Nessuno. Tra ribaltoni giuridici casuali, tartufismi delle scuole (soluzioni solubili di residua collegialità), tagli di organici, la scuola elementare (sarebbe la meglio al mondo) è oggi una sbobba di cui sfugge un minimo senso pedagogico e organizzativo. In questi mesi un monitoraggio a risposte (ovviamente) chiuse e via on line (onanistiche) chiede agli insegnanti alcune cosette. Sarà l’esito conoscitivo del nulla, ma una bella entrata per i fautori dell’on life. E intanto muore la ricerca pedagogica, le università fanno solo lauree e master, il Dio misura interpreta il bene e il male della scuola con numeretti.

Esempio 4. Non è difficile oggi dichiarare fallita l’autonomia delle scuole, resa liquidissima da totale mancanza di poteri reali dal basso, dall’aver ridotto i dirigenti a sergenti, dalla fine della flessibilità didattica entro recinti rigidi. Più che liquida, la nebulizzazione di un sogno di un’intera generazione. Ma di chi la colpa? Solo dei Moratti e dei Gelmini, o anche delle pigrizie sindacali, o anche delle aristocratiche Mastrocole innamorate della lezione frontale ai fighetti languorosi che leggono Proust? Questa scuola liquidissima sembra ridursi solo all’autonomia disdicevole che imita il Club Mediterannè con pedagogie consumiste (molti dei progetti) e la svendita-liquidazione dei bambini a consumatori di patacche.

Intanto da 13 anni la burocrazia ministeriale piuttosto che cedere via via poteri alle autonomie si perpetua. Nel dilettantismo politico, la burocrazia ha oggettivamente fatto da centrale conservativa al posto del network nazionale-locale tra autonomie. Poi tra i burocrati è arrivato anche lo spoil sistem, che ci ha fatto ridere e piangere con la storia del tunnel da 700 chilometri. Sulla gestione ministeriale del decennio, nessuna differenza tra destra e sinistra. E i sindacati dov’erano? Forse l’antica alleanza corporazioni-burocrazia? Forse questa alleanza come uno dei fattori del fallimento dell’autonomia? E forse, a sinistra non ha anche dominato la fobia dell’autonomia (meglio della sussidiarietà e della partecipazione orizzontale)?

Esempio 5. In Italia nascono rari bambini: dal 1995, anno-tracollo nella storia italiana (1,37 bambini in media per donna), l’indicatore è cresciuto per una decina d’anni fino all’ 1,43 del 2007, illudendo alcuni di una ripresa del “futuro come speranza”. Dato per la verità aumentato anche per l’immigrazione stabile. Ma dal 2007 la quota cala di nuovo, il 2010 segnala un brutto 1,39, poche speranze ci sono che il 2011 e questo duro 2012 invertano la tendenza. La fertilità torna a scendere, anche nelle donne straniere, torna il “futuro come minaccia”. Il paese non ha la soglia di rimpiazzo. Un paese destinato in futuro a scomparire, pieno di vecchi, oggi intanto sempre più policulturale, in cui si impone ormai (questione di civiltà) che ai nati in Italia sia garantita la cittadinanza del paese.

Ma c’è di più. Aumenta ancora l’età media del primo parto: siamo ormai vicino ai 32 anni. Neo madri quasi nonne, con una percentuale attorno ai 40 anni che sfiora il 35%.

Le ragioni sono varie (in passato ho scritto molto sull’argomento, sui cosiddetti neo-bambini). Ma non è un caso che parallelamente alla crisi economica cala la fertilità. Che però forse cala non solo perché vi è meno lavoro, ma perché sono calati anche i servizi. Mai come in questi anni abbiamo subito la contrazione dell’offerta di sezioni della scuola dell’infanzia. Ai fautori dei tagli lineari (spesso cattoliconi idolatri della famiglia) ironicamente rispondiamo che forse facendo più sezioni e attrezzandole bene, creeremmo un po’ più di voglia nelle nostre giovani coppie (già precarie di suo) a fare figli, perché c’è un “servizio di speranza” piuttosto che il nulla fai da te. Insomma più scuola dell’infanzia avrebbe anche un impatto demografico. Ma chi ci pensa?

Esempio 6. Qui il caso è facile facile. Non c’è dubbio che il sistema italiano Invalsi di valutazione della scuola sia debole e quasi inutile. Non tanto perché utilizza strumenti giusti o sbagliati, ma semplicemente perchè è il trionfo dell’ovvio, e non studia certo il vero core business pedagogico. Non servono i quadernetti dei test per conoscere la relazione tra performances dei bambini e il reddito familiare, la zona di residenza, le condizioni socio-economiche. Lo sappiamo fin da “Lettera ad una Professoressa”. Anzi la numerologia Invalsi applicata agli esami strangola la scuola al mito della pedagogia del quiz e al curricolo delle crocette. Questa banalità scippa denari e intelligenze a ben altre ricerche possibili e ben altri metodi, centrati di più sull’analisi dei processi, su come una scuola interviene per allargare o stringere le “aree di sviluppo prossimale” di ogni bambino, guardando i processi e molto (molto) dopo i prodotti. Mi auguro una gentile rivolta della pedagogia seria per una valutazione seria. Forse sarebbe più utile imitare anche, in modo positivo, il modello Cortina per le tasse. Andare, vedere, capire, controllare, e poi diffondere, intervenire chirurgicamente nelle patologie e premiare le eccellenze di processo più che quelle di prodotto.

FORSE SI PUÒ SPERARE

Se nonostante questi sei esempi, uno più brutto dell’altro, la scuola agli occhi degli italiani regge ancora forse c’è qualcosa di più profondo e piacevole nelle nostre aule. Cose che la politica, l’amministrazione e il sindacalismo ormai non sa veder bene. La dimensione relazionale orizzontale è migliore di quanto si pensi. Forse succede che, anche se con tanti bambini e poche sezioni, le maestre della scuola dell’infanzia si facciano in quattro. Forse succede che, anche se ballerini, gli insegnanti di sostegno diano l’anima. Forse succede che anche se con pochi soldi gli insegnanti traffichino con materiali poveri ma interessanti. Forse succede che una categoria bistrattata, offesa dal fannullonismo, stia invece operando oltre i limiti per dare a se stessi e ai propri ragazzi la cosa più importante della vita: la dignità del proprio operare. Certo non tutti, certo non sempre, ma queste sono le sostanze solubilizzate da cui forse ripartire per il futuro della scuola. Nella mia vita ho sempre pensato che solo le grandi idee muovono davvero il mondo, che l’apologia taccagna del presente uccide, che solo chi ha “visioni” incide. Di queste visioni sento dal mio ufficietto e dalle mie scuole estesa richiesta: pensare grande e lungo. Di coagulare le briciole diluite nella brodaglia di adesso attorno poche idee-guida. Che per me sono essenziali: pedagogia, pedagogia, pedagogia! C’è in giro fame di pedagogia e di didattica, sensate e liberate. Desiderio di carisma, ricerca, piacere dell’insegnare. Non è diverso anche per le questioni economiche: non basta abbassare lo spread e salvare i risparmi, si deve pensare al futuro del paese decidendo quale sviluppo, come arrivarci, a quale welfare pensare ( se verticale da vecchio welfare state o orizzontale da nuovo welfare society).

Il governo attuale però dura poco, e ci piacciono i primi segnali: sono di (solida) saggezza. Due piccole note per dire come anche da poco si capisca dai tecnici che non sarebbe difficile un futuro serio per la scuola. La proposta del ministro Profumo di riaprire i concorsi è eccellente. Al di là delle paturnie corporative, indica alle giovani generazioni che entrare nella scuola ad insegnare si può anche subito dopo la laurea, e che avere forme di selezione e formazione mirate è un bene. Farebbe poi solo bene agli studenti stessi avere meno nonni e più cugini. Lasciare i posti solo ai precari sarebbe la solita liquida via italiana all’arrangiarsi. Un cammeo ho trovato anche la metafora dell’amico sottosegretario Marco Rossi Doria, sulla “regola dell’hockey” per le azioni disciplinari nella scuola. Dopo il colorato muscolarismo dei votacci in condotta, un’idea finalmente pedagogica, che alle Mastrocole forse fa ridere ma che a noi maestri elementari viene dal cuore e con orgoglio. Davanti ad un ragazzo che sbaglia agiamo perché non sbagli più, la miglior punizione è una “mediazione”: un po’ in panchina ma a fare cose, e poi di nuovo in campo. Vuol dire osare pura filosofia sull’umano: nessuno è cattivo per sempre e di per sé. Piccole cose, segni di saggezza né di destra né di sinistra, ma di assoluto buon senso. E soprattutto contenenti una visione.

Il problema è dopo, per le elezioni del 2013. A guardare la ricerca di Diamanti, infatti, colpisce che gli italiani convinti che ci può essere democrazia senza partiti sia la stessa (48%) di quella che crede nei partiti. Più che una questione di schieramenti, c’è vera crisi della politica, ma anche attesa di Politica saggia e sobria, che finisca l’epoca dei venditori di tappeti. Ma alle elezioni si vota su partiti e programmi. Partiti di cui per ora non si vede chiaro, programmi che vorremmo almeno copiassero la serietà fisica e linguistica posseduta dagli attuali ministri tecnici.

Nel poco tempo che rimane, speriamo che questo governo semini pillole di serietà, capaci di aggregare dal brodo attuale un po’ di sostanze positive capaci di far massa e dire basta all’eterno presente, al qualunquismo, al dilettantismo, ai ladri. A sinistra come a destra. Dire poi sinistra politica è oggi dire ancora poco. Forse per la scuola serve inventare anche altro, trasversale, più creativo, serio (e perché no tecnico) che non pensi ai posti e ai voti ma ai bambini. Su questo sarebbe piacevole lavorare. Diamanti ci segnala un terreno fertile: la scuola italiana di ogni giorno è migliore di chi la rappresenta e la governa. Partiamo dunque a ri-sperare, forse anche con forme aggregative “oltre” la tradizione novecentesca, ma con l’ispirazione antica e insieme moderna che la scuola o è per tutti o non è per nessuno.

da Scuolaoggi 12.01.12

"La parabola del cattivo", di Massimo Gramellini

Da noi funziona così. All’inizio sei Francesco Maria De Vito Piscicelli, imprenditore con faccia comica o crudele, dipende dalla foto, e vieni intercettato al telefono mentre ridacchi del terremoto dell’Aquila propiziatore di appalti. Diventi l’orco, il cattivo per antonomasia, il simbolo della cricca di affaristi che si disputa le briciole più grosse del banchetto della politica. Ti viene l’ulcera, finisci per qualche tempo in galera, poi cerchi di farti dimenticare, ma rovini tutto atterrando con l’elicottero sulla spiaggia di Ansedonia per portare la mamma a mangiare il pesce. Cominci impercettibilmente a spostarti verso la redenzione: diventi un pentito e inguai un sottosegretario dallo sguardo triste e dal cognome Malinconico, confessando di avergli pagato il conto di un albergo da signori al solo scopo di compiacere un amico. Smessi i panni dell’orco, inizi il percorso di avvicinamento al ruolo più ambito: quello della vittima. Rilasci interviste dove ti dipingi come un onesto lavoratore spremuto da gente senza scrupoli, «non le dico la volgarità delle richieste, i ricatti». Un brav’uomo a cui hanno tolto tutto: gli appalti, il porto d’armi, persino la licenza per l’elicottero. La parabola è quasi completa. Non ti rimane che l’ultimo passo: da imputato ergerti a giudice che pontifica contro il sistema di cui fa parte. Anche lo sghignazzo sul terremoto si trasforma in una prova del complotto ai tuoi danni. «Mi hanno crocefisso per una battuta» dici. E magari a questo punto vorresti pure l’applauso.

Be’, il mio non lo avrai.

La Stampa 12.01.12

"Io, cronista minacciato dalla mafia del Nord", di Giovanni Tizian

Un giorno come tanti, caffè, rassegna stampa e la solita corsa per chiudere il pezzo e guadagnarmi la giornata. Ma poi arriva una telefonata, ero fuori città. «Abbiamo deciso di tutelarti», il giorno dopo avevo già la scorta assegnata. È diventata fissa pochi giorni fa. Stai tranquillo, mi hanno detto, fai quello che ti dicono e segui le nostre direttive.
Cambia la quotidianità, nelle piccole cose di ogni giorno si avverte il cambiamento. Dalla spesa all´organizzazione del lavoro, programmare le interviste, pianificare la propria vita con minuziosa attenzione. Ma la voglia di andare avanti è più forte. Raccontare il potere delle mafie al Nord vuol dire raccontare il lato oscuro del Paese. Da anni collaboro con la Gazzetta di Modena, da anni mi occupo di mafie al Nord. Delle cosche d´Emilia. Quelle stesse cosche che negli anni in cui emigravo verso Modena raccoglievano quanto seminato decenni prima. Un raccolto fatto di patrimoni enormi, un fiume di denaro accumulato sulla pelle degli onesti. Erano gli anni ´90 quando ci trasferimmo in Emilia, qui ho iniziato a scrivere. A raccontare di come i clan si muovono e impongono servizi alle imprese, obbligano commercianti e imprenditori a pagare il pizzo. È quanto racconto nel libro appena pubblicato da Round Robin editrice dal titolo Gotica. ‘Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea. Un libro-inchiesta in cui raccolgo la mia attività di cronista di giudiziaria e di inchieste giornalistiche realizzata anche con il mensile Narcomafie e Linkiesta.it.
Era il 1989 quando mio padre venne ucciso a Locri mentre tornava a casa dal lavoro. Era un funzionario di banca, a sparargli mani ignote, ma armate dalla ‘ndrangheta. Il suo omicidio è rimasto irrisolto, come tanti in Calabria. Io avevo sette anni e lo aspettavo come tutte le sere. Da quel 23 ottobre non tornò più.
Da quando lavoro a Modena ho scoperto che clan dei casalesi, ‘ndrangheta e Cosa nostra, operano in Emilia Romagna come se fossero a casa loro. Nell´ultimo anno le indagini che hanno riguardato il territorio emiliano-romagnolo sono state numerose. Arresti, sequestri, processi. Da Rimini a Piacenza le cosche corrono rapide di cantiere in cantiere e consolidano il loro potere. Autotrasporto, edilizia, gioco d´azzardo legale e illegale, facchinaggio. Parlare di narcotraffico e di pizzo è parlare, sostanzialmente, di una questione di ordine pubblico. Ricostruire i percorsi del fiume sotterraneo di denaro mafioso vuol dire toccare un nervo scoperto, significa iniziare a demolire la facciata di legalità creata dai boss in anni di lavorio discreto, sottotraccia, con la complicità di insospettabili professionisti come avvocati, commercialisti, notai, consulenti: i cosiddetti colletti bianchi.
Rapporti che rendono i boss invisibili e socialmente accettati. E succede così che l´apertura di un negozio etnico suscita più allarme sociale rispetto alla colonizzazione dei territori del Nord da parte delle cosche. Che in questi territori, oltre la linea Gotica, si sentono forti, e protette. Talmente protette che vorrebbero con le loro intimidazioni bloccare i giornalisti che fanno inchieste sui loro affari. Giovani giornalisti, precari ma con una passione immensa. Che rischiano e amano il proprio lavoro, che per pochi euro, al Sud come al Nord, mettono in gioco la propria vita per far conoscere a tutti il grado raggiunto da ‘ndrangheta, mafia e camorra. Giovani cronisti che vivono una doppia vulnerabilità, fisica ed economica. Per questo uno degli attestati di solidarietà che mi ha commosso maggiormente è la campagna lanciata dall´associazione daSud e da Stop´ndrangheta.it, “Io mi chiamo Giovanni Tizian”. Un appello per tutelare me, ma anche tutti i giovani giornalisti precari di questo strano Paese.

La Repubblica 12.01.12

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“Modena, sotto scorta per i suoi articoli sulla mafia al Nord”, di Luigi La Spezia

Un altro giornalista minacciato dalle cosche per aver fatto il proprio mestiere fino in fondo. E questa volta è un giornalista che lavora al Nord. Per aver raccontato il malaffare, Giovanni Tizian, collaboratore della Gazzetta di Modena, di siti online come Linkietsta, del mensile Narcomafie del Gruppo Abele, è costretto a vivere sotto scorta. Una quindicina di giorni fa ha ricevuto una telefonata, gli hanno detto che per permettergli di continuare a lavorare, avrebbero dovuto assegnargli una protezione armata. Da allora due agenti lo accompagnano dappertutto, da quando esce di casa a quando rientra. «Cerco di trovare il modo di continuare a fare questo mestiere. Non penso che un giornalista possa cambiare il mondo, ma credo nell´utilità sociale di questo mestiere», dice Tizian, che assicura: «Non ho paura, io sono nella legalità. Certo, la mia è diventata una vita strana. Se vado anche solo a fare spesa, mi accorgo di fare tutto in fretta, non mi concentro neppure sulle cose da comprare. I ragazzi della scorta sono bravissimi, a volte mi sembra di abusare di loro. Mia madre, che ne ha già passate tante, è consapevole, mi dà forza e tranquillità».
Alla Gazzetta di Modena, giornale sul quale da tre anni scrive di fatti di mafia, del radicamento delle ‘ndrine nel territorio con attività anche legali, hanno scoperto il nuovo genere di vita di Tizian quando, dopo Natale, in redazione sono entrati anche gli uomini che non lo lasciano mai. Della scorta non aveva parlato con nessuno, Giovanni, nemmeno con il suo direttore Antonio Ramenghi: «È stato minacciato, anche se non si può sapere come e perché per il segreto di indagine. Non è per nulla intimorito. Continuerà a fare il suo lavoro, come noi continueremo il nostro senza cedere di un millimetro. Anzi, con più determinazione», commenta Ramenghi che paragona Tizian, un collaboratore di 29 anni, a nomi notissimi come Roberto Saviano, Lirio Abbate, Rosaria Capacchione, minacciati e sotto scorta a causa delle loro inchieste sul crimine organizzato. Stesse giornate complicate. La mafia non guarda in faccia a nessuno.
Non è la prima volta che le mafie scardinano la sua vita. Quando aveva sette anni e viveva a Bovalino, nella Locride, Giovanni è rimasto orfano. Suo padre Giuseppe, bancario, è stato ucciso dalla ‘ndrangheta a colpi di lupara. Lo racconta lui stesso in un video sul sito della Gazzetta, che ieri ha ricevuto un´infinità di messaggi di solidarietà su Twitter (con l´hastag #nonlasciamolosolo) e Facebook: «Un anno prima dell´omicidio di mio padre avevano incendiato la fabbrica di mio nonno. Eravamo soli, vittime, sotto una cappa asfissiante. Allora c´era anche la paura a portare avanti certi casi. Il caso di mio padre fu archiviato. Anche questo ci ha spinto a salire al Nord, a Modena ci siamo sentiti accolti come in un rifugio». Poi è tornata la memoria, quando, per il suo lavoro di informazione (riassunto anche in un libro, “Gotica. ‘Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea”), Tizian ha incrociato una criminalità simile a quella che gli aveva tolto il padre. Clan dei casalesi, sparatorie in Emilia, riciclaggio a San Marino. «Ho preso coscienza del mio passato di pari passo con l´attività giornalistica». E poi Libera di don Ciotti, l´associazione daSud, tra giovani che non vogliono cedere alle mafie. Una vicenda emblematica, la conferma viva di ciò che lui stesso aveva scritto: «Anche qui in Emilia le mafie ormai si sono radicate». Da ogni istituzione politica e dai partiti, di destra e di sinistra, è stato un coro di solidarietà per «non farlo sentire solo».

La Repubblica 12.01.12

"L'aiuto che serve ai mercati", di Stefano Lepri

L’ Italia di Mario Monti piace alla Germania; la bozza di trattato europeo in discussione non appare più minacciosa. La giornata di ieri è da segnare all’attivo per il nostro governo e il nostro Paese. Eppure l’uscita dalla crisi dell’euro resta lontana; i piccoli passi della diplomazia rischiano di essere sopravanzati non solo dalla velocità con cui i mercati si convincono di future catastrofi, ma anche dalla lentezza gregaria con cui la massa degli investitori si accorge delle inversioni di tendenza.

Monti in parole povere è andato a dire ad Angela Merkel che capisce benissimo l’ostinazione dei tedeschi nel pretendere rigore ed efficienza dagli altri Paesi dell’area euro, anche a costo di lasciarli a lungo affacciati sull’orlo del baratro. Ma ha anche ammonito a non spingere troppo oltre questo gioco d’azzardo. Ha provato a spiegare qual è, secondo lui, il limite di resistenza dell’Italia.

In questi giorni sono in molti a suggerire alla Germania di imparare dalla propria storia. Ad aprire la strada ad Adolf Hitler non fu l’iperinflazione del 1923 che distrusse i risparmi della classe media; fu l’austerità di massa del 1930-32, salari tagliati e posti di lavoro cancellati. Perlopiù i tedeschi tendono a vedere la seconda come conseguenza della prima e di fattori esterni al loro Paese. Solo pochi, come il novantenne ex cancelliere Helmut Schmidt, incitano a riflettere meglio.

Non è facile rimontare la china della sfiducia, se ancora molti in Germania (circa metà di quelli che hanno risposto ieri a un sondaggio online del Financial Times Deutschland ) e molti nel mondo sono convinti che «nemmeno Monti riuscirà a salvare l’Italia». Ed è purtroppo possibile che il fatidico spread sui titoli a 10 anni resti ancora a lungo sugli attuali livelli. Ma più la tensione si manterrà, più l’Italia rischia di infossarsi in una recessione grave, con possibili ondate di reazione populista.

Per scampare ai pericoli occorre non solo fare per tempo le mosse giuste, ma farle nella sequenza giusta, come ha detto qualche settimana fa Mario Draghi. L’annuncio della Merkel sul maggiore contributo tedesco al Fondo di salvataggio europeo consente un minimo di speranza; si tratta tuttavia di un progresso lento, ancora nella logica di cui sopra.

Vanno interpretate con attenzione alcune parole di Monti ieri: «Ci aspettiamo dall’Europa, di cui l’Italia fa parte, la messa a punto di meccanismi che facilitino la trasformazione di buone politiche in tassi di interesse più ragionevoli». Non c’è solo un invito ai mercati a rendersi conto che l’Italia non è più a rischio come due mesi fa. C’è anche l’idea che i mercati – dove è assurdo che l’Italia paghi il 7% così come che la Germania, profittando della sfiducia negli altri, si finanzi «sottocosto» al 2% – vanno aiutati a funzionare meglio dalle iniziative delle istituzioni. Innanzitutto, dall’Unione europea, ovvero dalle istituzioni politiche.

In parte l’ostacolo è la Germania, in parte è la Francia, e all’Italia non converrebbe gettare il suo peso relativamente modesto da uno dei due lati. Con garbo ieri Monti ha ricordato ai due governi l’errore di Deauville nell’ottobre 2010, quando il vertice franco-tedesco compì scelte subito giudicate disastrose dalla Bce, e presto rivelatesi tali. Occorre procedere attraverso le istituzioni collettive dell’Europa, «rispettandole».

Concluso il nuovo Patto sulle regole di bilancio, occorre potenziare gli strumenti di soccorso (l’Efsf, e l’Esm che gli succederà) facendo probabilmente molto di più di quanto fatto fino adesso. Solo così, poggiando su queste garanzie, potrebbe avviarsi l’ingranaggio finale del «meccanismo», ossia più massicci interventi della Bce sui mercati dei titoli; per ora di questo ai tedeschi è bene non parlare, ma è lì che è inevitabile arrivare.

La Stampa 12.01.12

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“Lo spiraglio tedesco”, di ANDREA BONANNI
Le lodi sperticate della cancelliera Merkel all´operato del governo Monti («ha fatto cose straordinarie») non sono di circostanza. Danno l´idea di quanto grande fosse in Europa la paura di un tracollo finanziario dell´Italia, e di quanto profondo sia il sollievo di vedere il Paese finalmente governato in modo responsabile.
Ma i complimenti della signora Merkel e il ritrovato rispetto dell´Italia sulla scena internazionale non bastano a salvare il Paese. E probabilmente neppure a salvare l´euro.
Il risanamento dei conti pubblici e il rilancio della crescita economica restano un miraggio se saremo costretti a pagare il denaro necessario a finanziare il nostre debito, e ad alimentare le nostre imprese, cinque o sei volte più caro di quello che lo pagano i tedeschi. Ha dunque perfettamente ragione il presidente del Consiglio quando dice che l´Italia ha fatto la sua parte, ma che ora tocca all´Europa calmare i mercati in modo che lo spread innaturalmente alto degli interessi italiani si riduca a dimensioni ragionevoli. Da questo punto di vista, la vera battaglia del Professore è solo all´inizio, e si presenta tutta in salita.
Ieri, infatti, dall´incontro con la Cancelliera, Monti ha portato a casa qualche risultato, ma ancora insufficiente a permetterci di dormire sonni tranquilli. I fronti europei su cui il governo italiano deve combattere sono due. Da una parte c´è la formulazione del nuovo Trattato di Unione economica rafforzata, che fissa le regole di una più stretta disciplina di bilancio ma che non deve essere talmente duro da strangolare l´economia del Paese avvitandoci in una spirale negativa come è successo per la Grecia. Dall´altra c´è l´urgente necessità che l´Europa offra garanzie ai mercati sulla tenuta dell´euro, in modo da consentire ai capitali di tornare a investire anche in Italia e non solo nei Paesi virtuosi del Nord Europa, così da ridurre lo spread e da fornire ossigeno alle imprese.
Sul fronte del Trattato, il governo italiano ha ottenuto qualche vittoria. O, meglio, ha saputo scongiurare alcune minacce che avrebbero potuto rivelarsi letali.
La nuova formulazione su cui si discute offre margini di ragionevole elasticità nei ritmi imposti alla riduzione del debito pubblico. Promette di tenere in considerazione i “fattori rilevanti”, come la solidità del sistema pensionistico e la scarsa esposizione debitoria delle famiglie. Concede un anno di proroga, fino al 2014, prima di imporre un taglio del cinque per cento annuo sulla parte eccedente il 60 per cento del Pil. Consente di tenere in conto una assai probabile recessione economica. Allontana lo spettro di sanzioni automatiche se la riduzione del debito non dovesse raggiungere gli obiettivi prefissati. In sostanza, non si ottengono ulteriori facilitazioni ma si torna alla formulazione prevista dalla normativa comunitaria, scongiurando gli inasprimenti che erano stati chiesti dalla Germania.
Sul fronte delle misure europee per garantire i mercati, invece, i progressi per ora sono veramente scarsi. Francia e Italia sembrano incapaci di superare i veti tedeschi. Appare abbandonata l´idea di trasformare la Bce in prestatore di ultima istanza che garantisca i debiti dei governi, anche se l´Istituto di Francoforte ha dato un enorme contributo finanziando a tassi ridottissimi il boccheggiante sistema bancario europeo. Altrettanto impercorribile, almeno nel prevedibile futuro, è anche l´idea degli euro-bond. La condivisione di almeno una quota del debito sovrano accumulato dai governi europei non avrebbe forse risolto tutti i problemi dei Paesi più esposti, ma avrebbe dato ai mercati quel segnale sulla irreversibilità della moneta comune che da due anni gli investitori stanno chiedendo invano.
Resta sul tavolo l´ipotesi di un rafforzamento del fondo salva stati, su cui la Germania avrebbe dato segnali di disponibilità e che potrebbe veder coinvolto in un ruolo più significativo anche il Fondo monetario internazionale. Non è un caso che la presidente del Fmi abbia incontrato in questi giorni sia la Merkel sia Sarkozy.
Il rafforzamento del Fondo è, in sé, una notizia rassicurante. Ma la creazione di un Fondo monetario europeo, per quanto forte, per quanto flessibile e dotato di una grande “potenza di fuoco”, non è di per sé garanzia della irreversibilità della moneta unica. Il Fondo è uno strumento di solidarietà, ma si tratta di una solidarietà necessariamente quantificata e limitata che inevitabilmente sfida i mercati a saggiarne la resistenza. Oggi, per ridurre lo spread, gli investitori hanno bisogno di garanzie concrete che l´euro sopravviverà alla tempesta e che sarà ancora la moneta unica europea tra dieci o venti anni. Per ora, la Germania questa garanzia non la vuole dare se non a parole. Ma le belle parole della signora Merkel, anche quelle generosamente rivolte all´Italia di Monti, difficilmente ci toglieranno dai guai.

La Repubblica 12.01.12

"Perché far pagare le tasse è una rivoluzione culturale", di Stefano Rodotà

Il blitz di Cortina e la campagna per gli scontrini mostrano come la battaglia sul fisco stia diventando politica, contro le disuguaglianze e per l´equità. Una questione capitale che sembra destinata a sconvolgere equilibri colpire interessi consolidati e mettere fine ad antiche compiacenze. Siamo alla radice dell´obbligazione sociale: se “tutti” non significa veramente “tutti”, allora il legame di solidarietà viene infranto
Nella controversa agenda politica di questa difficile stagione ha fragorosamente fatto ingresso la lotta all´evasione fiscale. Non più come tema polemico, non più come rivendicazione di qualche buon esito di un´azione amministrativa di contrasto, ma come questione capitale, destinata a sconvolgere equilibri, colpire interessi, revocare in dubbio compiacenze. Questo è avvenuto con due mosse fortemente simboliche. Il blitz a Cortina e una dichiarazione del Presidente del consiglio che ha indicato negli evasori quelli che «mettono le mani nelle tasche dei contribuenti onesti». Non siamo solo di fronte allo smascheramento dell´ipocrita vulgata berlusconiana, ma alla denuncia di una inaccettabile redistribuzione alla rovescia delle risorse, per cui oggi sono soprattutto i meno abbienti a pagare servizi di cui, troppe volte, sono proprio i più ricchi ad avvantaggiarsi (si pensi solo al caso dell´istruzione universitaria, alla quale spesso non riescono poi ad accedere i figli di chi maggiormente la finanzia). Ed è giusto ricordare quel che disse Tommaso Padoa Schioppa: «le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l´istruzione e l´ambiente».
Ironie e dileggi accolsero questo limpido richiamo alle virtù civiche. E oggi sono violente le reazioni dei molti che ritengono inaccettabile una priorità come la lotta all´evasione, certamente incompatibile con il melmoso immoralismo che si è fatto cemento sociale e nel quale si è cercato il consenso politico. Ma i gesti simbolici sono importanti, a condizione che siano poi accompagnati da inflessibile volontà politica e da quella adeguata strumentazione tecnica ricordata da Alessandro Penati, con una sottolineatura significativa: la necessità di modificare “i comportamenti individuali e collettivi”.
Qui si gioca la partita vera. Certo, «non si cambia la società per decreto» – ammoniva Michel Crozier. È indispensabile, allora, un lavoro che vada nel profondo e rimetta in onore principi fondativi abbandonati. E, poiché questi sono tempi in cui è così insistente il richiamo ai doveri (magari per rendere più debole l´appello ai diritti), bisogna partire dai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» previsti dall´articolo 2 della Costituzione. Ma contro la solidarietà sono state spese negli anni passati parole di fuoco, denunciandone i “pericoli” e, muovendo da questa premessa, si sono organizzate “marce contro il fisco”. Si è così cercato di svuotare di senso sociale e di valore civile l´articolo 53 della Costituzione: «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e secondo criteri di progressività. Da quest´insieme di doveri, invece, non si può “evadere”.
Arriviamo così alla radice dell´obbligazione sociale e del patto tra cittadini e Stato. Nel momento in cui “tutti” non significa davvero “tutti”, e emerge con nettezza che il contributo alla spesa pubblica appare inversamente proporzionale alla capacità contributiva, con i meno abbienti che pagano più dei ricchi, allora si rompe il legame sociale tra le persone, tra le generazioni, tra i territori. Il ritorno pieno al principio di solidarietà, come valore fondativo, è la via obbligata per interrompere questa deriva e la Costituzione, parlandone come di un insieme di doveri inderogabili, individua un criterio ordinatore dell´insieme delle relazioni tra i soggetti, anzi un connotato della cittadinanza.
Abbandonando quel riferimento, infatti, si innescano processi che dissolvono la stessa obbligazione politica. Torna alla memoria un´espressione icastica e fortunata, legata alla rivoluzione americana: «No taxation without representation» – nessuna tassa senza rappresentanza politica, principio che ritroviamo nell´articolo 22 della Costituzione che affida solo alla legge, dunque a un atto del Parlamento, l´imposizione di prestazioni patrimoniali. Ma, una volta garantito il rispetto di tale principio da parte delle istituzioni pubbliche, il rapporto così istituito vincola il cittadino a fare la sua parte. L´evasione, allora, lo delegittima come partecipante a pieno titolo alla comunità politica.
Sono questi i punti di riferimento, rispetto ai quali valgono poco gli esercizi intorno al ruolo da riconoscere alla ricchezza. Questa, benedizione di Dio o sterco del diavolo, fa semplicemente nascere un dovere sociale. Non è una penalizzazione, dunque, un vera lotta all´evasione, ma lo strumento indispensabile per ricostituire una delle condizioni di base per il funzionamento di un sistema democratico. Ma il rigore non deve essere necessariamente declinato nei termini dell´emergenza. Come il contrasto alla criminalità non rende legittimo il ripescaggio delle perquisizioni senza autorizzazione del magistrato, così la lotta all´evasione deve rifuggire da strumenti sbrigativi, e non in linea con le indicazioni europee, come quelle riguardanti la segnalazione di ogni movimento d´un conto corrente.
Ricordiamo, poi, che già l´articolo 14 della Dichiarazione dei diritti dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789 parlava del diritto del cittadino di “seguire l´impiego” dei contributi versati. Una vera lotta all´evasione, dunque, ha come complemento necessario una totale trasparenza pubblica, una implacabile lotta alla corruzione, l´inaccettabilità d´ogni forma di uso privato di risorse pubbliche.

La Repubblica 13.01.12

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“LE RIVOLTE E I FURBETTI”, GIORGIO RUFFOLO

Secondo una ricerca americana si possono contare oltre duecento famose rivolte fiscali nella storia dell´era cristiana, dal primo secolo ad oggi: da quelle legate ai grandi movimenti popolari di lotta per la libertà – le grandi rivoluzioni americana francese russa – alle ribellioni popolari contro la tassa sul whiskey negli Stati Uniti o all´insurrezione provocata dalla bella Lady Godiva a Coventry nel 1067 contro il marito che aveva inflitto alla popolazione una tassa intollerabile, fino al punto di sfidarlo cavalcando nuda per la città.
Altre però sono le rivolte popolari contro l´oppressione fiscale, altri i fenomeni di evasione fiscale. Le prime sono condotte in nome della giustizia e della solidarietà, gli altri attraverso il privilegio e la diserzione. Tre sono le principali caratteristiche dell´evasione fiscale: l´indifferenza, la differenza, la privatezza. Indifferenza verso la solidarietà sociale; differenza proclamata o praticata verso concittadini di altri luoghi o altri credi; privatezza, chiusura dei rapporti di solidarietà entro l´ambito familistico.
Può senz´altro contribuire ad alimentare questi sentimenti una eccessiva pressione fiscale. È il caso, nell´antichità, della persecuzione dei cittadini romani oppressi dal fisco nella tarda età imperiale: intollerabile fino al punto da indurli a rifugiarsi nelle terre dei barbari, Ma, in primo luogo, l´evasione si manifesta anche in presenza di regimi fiscali ragionevoli. Inoltre, la reazione sociale ad una pressione fiscale pesante è diversa secondo il contesto sociale. Ad esempio, all´inizio dell´età moderna, la pressione fiscale delle grandi monarchie europee divenne particolarmente invadente: in Francia a causa delle continue guerre provocate dall´irresponsabile aggressività di Luigi XIV che esigeva un massiccio finanziamento degli eserciti. In Inghilterra a causa delle conquiste coloniali, che comportavano l´onere di una grande flotta. Il peso rispettivo delle imposte nei due paesi era grosso modo equivalente. Ma la reazione politica fu diversa. In Francia, la borghesia reagì con una contestazione sempre più accanita, che sfociò poco più tardi nella rivoluzione. In Inghilterra in una contrapposizione certo energica tra i Comuni e la Corte, che tuttavia non giunse, se non in un breve periodo, a pregiudicare l´unità politica del paese. La diversa reazione si deve al diverso grado di coesione sociale.
Quello dell´Italia, è il caso di un paese nel quale, a differenza della Francia e dell´Inghilterra, la nazione non si è consolidata nella forma dello Stato nazionale moderno, ma in quella di un conglomerato di Stati regionali prosperi per ricchezza, smaglianti per cultura, ma militarmente e politicamente fragili. L´Italia ha pagato la sua secolare egemonia con una secolare servitù che ha fiaccato il nerbo della coscienza civile e ostacolato la formazione di una coscienza nazionale. Ora, è proprio sulla coscienza civile e nazionale che si fonda in ultima analisi il rispetto dello Stato e la solidarietà dei cittadini, entrambe gravemente carenti nel nostro paese. La particolare gravità dell´evasione fiscale, di dieci punti superiore, ancora oggi, a quella della media europea, testimonia di questa inferiorità sociale e morale. Di cui è espressione eloquente il benign neglect verso l´evasione fiscale di un recente Presidente del Consiglio che in nessun altro paese moderno avrebbe potuto manifestarlo.
Per consolarsi in qualche modo si può ricordare che al momento dell´unificazione, centocinquanta anni fa, non pagavano le tasse la metà degli italiani. Sono stati ridotti a 25 per cento cinquanta anni fa e a 17 per cento oggi. Il tempo, almeno quello, è galantuomo.

La Repubblica 12.01.12

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“L´altra faccia del diritto”, di JOHN LLOYD

L´evasione fiscale continuava a essere assai diffusa, soprattutto fra i lavoratori autonomi. Il miracolo economico aveva reso più evidenti i fenomeni di evasione fiscale. Razza padrona… cesellatori dell´evasione fiscale, surfers dello off shore. Al cuore della vita nazionale e civile c´è il diritto che un governo ha di imporre tasse. Sin dai primordi della vita in Gran Bretagna tale diritto è stato messo in rapporto con la democrazia: nella Magna Charta – l´importante documento dettato al debole re Giovanni nel 1215 dai potenti baroni – il re approvò che le tasse non sarebbero state imposte “fuorché da una decisione comune del nostro regno”, prima forma di richiesta di voto sulle tasse che un re potesse esigere.
Quello, indubbiamente, fu un primo piccolo passo avanti, ma la richiesta dei baroni di fatto esprimeva un nuovo principio: tutte le persone fuorché il sovrano avevano tanto diritti quanto doveri. L´idea di uno stato più grande di colui che governa fu poi espressa compiutamente per la prima volta da Niccolò Machiavelli, ma ad anticiparla in un certo senso furono i baroni inglesi e tale criterio entrò a far parte delle consuetudini a mano a mano che il parlamento divenne più potente.
L´importanza che la regolamentazione fiscale ha assunto nella storia britannica e il fatto che equivalga all´avere diritti civili spiegano la percentuale relativamente bassa di evasione fiscale. Percentuale relativamente bassa di evasione non significa necessariamente che essa sia bassa in assoluto: da varie stime si calcola che l´elusione fiscale (lecita) e l´evasione fiscale (illecita) costino al Tesoro fino a 40 miliardi di sterline l´anno. Tale cifra è in ogni caso di gran lunga inferiore agli stimati 275 miliardi di euro che vanno persi nell´economia sommersa italiana, in buona parte per evasione fiscale, ed è ancor più inferiore agli stimati 500 miliardi di euro che gli italiani custodiscono all´estero e non dichiarano come facenti parte dei loro beni.
Come si spiega questo fenomeno? Prima di tutto c´è il presupposto che nel Regno Unito le tasse debbano essere pagate sic et simpliciter – retaggio in parte storico, in parte dovuto al timore che si ha del fisco, particolarmente severo nei confronti di chi prova a evadere. Le autorità del fisco britannico non danno per scontato – come spesso affermano quelle italiane o i politici italiani stessi – che sia impossibile prendere chi evade le tasse o assicurare alla giustizia quel gran numero di imprenditori, lavoratori autonomi e in proprio che dichiarano redditi di gran lunga inferiori a quelli reali.
In secondo luogo la forma più comune di tassazione, quella sui redditi, è relativamente bassa e benché il governo abbia alzato la percentuale massima per i più abbienti portandola al 50 per cento, ha anche detto che la ridurrà quanto prima possibile.
In ogni caso, però, l´elusione e l´evasione fiscale sono aumentate nel Regno Unito, sia da parte delle aziende sia dei singoli cittadini. Le piccole aziende ormai chiedono sistematicamente pagamenti in contanti così da poter evitare di dichiararli come introito, e le società – soprattutto del settore finanziario – reclutano intere squadre di consulenti fiscali il cui unico compito è quello di spostare i capitali verso attività e giurisdizioni dall´imposizione fiscale più bassa possibile. Come in Italia, anche l´attuale coalizione di governo in Gran Bretagna ha dichiarato guerra agli “evasori fiscali”, ben sapendo che il fardello dell´evasione ricade su coloro che sono ligi al pagamento delle tasse. Il principio dell´obbligatorietà democratica di pagare le tasse è andato scomparendo: sia David Cameron sia Mario Monti credono di poterlo riaffermare, ma il primo ministro italiano farà più fatica.
Traduzione di Anna Bissanti

La Repubblica 12.01.12

"Minacciato dalla mafia ora vive sotto scorta", di Giovanni Gualmini

Giovanni Tizian, giornalista di 29 anni, collaboratore della Gazzetta di Modena, si occupa di criminalità organizzata e delle infiltrazioni al nord delle cosche mafiose. La protezione armata è scattata per le minacce ricevute dopo gli articoli scritti per il nostro giornale. Ecco come è cambiata la sua vita

Giovanni Tizian fa il giornalista, ha meno di trent’anni e la sua vita è cambiata. Da qualche tempo vive con la scorta, da mattina a sera. Due agenti armati e in borghese lo accompagnano tutto il giorno, ovunque, anche quando deve fare la spesa. Per lui è diventato un problema condurre quella che prima era un’esistenza normale. Lo prelevano alla porta di casa e ce lo riportano. Gli affetti, gli amici, anche una banale visita in libreria sono cose diventate, all’improvviso, difficili da gestire nella sua situazione.

La scorta gli è stata assegnata dagli inquirenti una quindicina di giorni fa. Uno di quei regali di Natale di cui avrebbe fatto volentieri a meno. «Stavo per pranzare – ricorda – quando mi hanno chiamato sul cellulare dicendomi che ero esposto a un rischio e che per tutelarmi, e permettermi di proseguire nel mio lavoro, avrei avuto la protezione delle forze dell’ordine. Sul momento non mi sono reso conto di cosa avrebbe significato. Poi già verso sera ho cominciato a capire». Gli agenti gli devono, per così dire, “coprire le spalle” fino a quando le acque non si saranno calmate. Il motivo è semplice: Tizian parla di mafia, i mafiosi parlano di lui.

Che cosa dice Giovanni Tizian della mafia non è un segreto. I suoi articoli su cosche e clan sono comparsi numerosi sulla Gazzetta di Modena dal 2006, anno in cui ha iniziato l’attività pubblicistica. L’argomento lo conosce bene, la tesi di laurea in Criminologia l’ha scritta sulle ramificazioni internazionali della ’ndrangheta. Oltre che con la Gazzetta, collabora con il sito internet Linkiesta e con Narcomafie, la rivista del gruppo Abele di don Luigi Ciotti.

In dicembre ha pubblicato un libro sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nell’economia del Nord. Si intitola “Gotica” e sono trecento pagine con nomi e cognomi, citazioni di atti, documenti e testimonianze su come Camorra, Ndrangheta e Cosa nostra abbiano scelto – da anni, non da ieri – il Settentrione per fare affari con i proventi della droga, delle estorsioni, del pizzo, del gioco d’azzardo. Si citano, nel libro, anche fatti di sangue. Ma il filo conduttore nell’inchiesta è un altro: sono i soldi, come vengono investiti, quali settori sono più esposti al riciclaggio, quali metodi e strategie sono adottate per ripulire il denaro sporco. Una realtà le cui dimensioni sono state spesso sottovalutate e che viene descritta con dovizia di particolari.

Cosa dicono i mafiosi di Tizian è facile immaginarlo. Parlare di narcotraffico e di pizzo è parlare, sostanzialmente, di una questione di ordine pubblico. Ricostruire i percorsi carsici del fiume di denaro mafioso vuol dire toccare un nervo scoperto, significa iniziare a demolire la facciata di legalità creata dai boss in anni di lavorio discreto, sottotraccia, con la complicità di insospettabili professionisti come avvocati, commercialisti, notai, consulenti: i cosiddetti “colletti bianchi”. Lì corrono i fili dell’alta tensione criminale e la faccenda si fa seria. In ogni caso, è impossibile sapere, vista la mole di articoli prodotti dal giornalista negli ultimi anni, cosa sia stato in particolare ad esporlo alla minaccia. Di certo, fare giornalismo d’inchiesta in Italia su questi argomenti diventa pericoloso, ancora oggi, come lo era negli anni ’80, al Sud come al Nord. Segno di una fenomeno mafioso che è questione nazionale, che riguarda Modena come Casal di Principe, Milano come Reggio Calabria.

Ora Tizian deve comunicare in anticipo i suoi spostamenti, di fatto deve programmare le giornate per evitare problemi. A lui, agli agenti della scorta, ai suoi cari. È la seconda volta che la mafia sconvolge la sua vita. La prima volta era bambino. Aveva 7 anni quando a Bovalino, nella Locride, venne ucciso suo padre a colpi di lupara. Era funzionario di banca e gli spararono mentre tornava a casa. «Io lo aspettavo, era ormai ora di cena, ma non arrivava. Mia madre mi disse che aveva avuto un incidente, in qualche modo cercava di attutire il colpo… Dopo cinque anni ci siamo trasferiti a Modena, per cercare di ricostruire la tranquillità e la serenità che non avevamo avuto in Calabria».

Al momento, nelle giornate di Tizian non c’è molta serenità. Neppure nelle piccole cose, quelle che scandiscono le ore dei suoi coetanei. «Si creano situazioni strane. Se vado al market, mi accorgo di avere fretta inspiegabile. Non riesco neppure a pensare alle cose che devo comprare… A volte poi ho la sensazione di abusare dei ragazzi della scorta, che sono bravissimi. Però se voglio andare a mangiare una pizza con la fidanzata o gli amici, io devo viaggiare su una macchina, loro su un’altra… In famiglia cercano di starmi vicino e di non farmi pesare questa situazione. Mia madre… Lei è perfettamente consapevole di ciò che mi sta accadendo, anche per quello che ha già passato. Ha una grande forza e cerca di trasmettermi tranquillità. Lo ha sempre fatto».

Il mondo di Tizian si è improvvisamente ristretto. Confinato fra casa, auto e pochi posti da frequentare. Nessuna sorpresa, possibilmente nessun imprevisto. «Cerco di trovare il modo di continuare a fare questo mestiere, e sono sicuro che lo troverò. Non ho quella libertà di movimento che mi servirebbe, ma mica ci rinuncio. Non penso che un giornalista possa cambiare il mondo, ma credo nell’utilità sociale del mestiere di giornalista». La scorta non durerà in eterno, una bella mattina arriverà una telefonata con l’annuncio di cessato allarme. Sarà come uscire da un incubo, per Giovanni Tizian. Per adesso ne sente il peso schiacciante, ma continua determinato.

La Gazzetta di Modena 11.01.12

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Minacce a Tizian, “Manteniamo alta l’attenzione sul fronte mafia”

“Le infiltrazioni della criminalità organizzata sono una realtà delle economie più floride”. Una nota comune di solidarietà a Giovanni Tizian, lo scrittore e giornalista de La Gazzetta di Modena, minacciato dalla mafia e costretto a vivere sotto scorta, è stata inviata oggi congiuntamente dai parlamentari modenesi del Pd Barbolini, Bastico, Ghizzoni, Levi, Miglioli e Santagata.
“Il coraggio che dimostri ti fa onore, la denuncia delle verità più scomode è alla base della vita democratica di un paese”: con queste parole i parlamentari modenesi del Pd Barbolini, Bastico, Ghizzoni, Levi, Miglioli e Santagata vogliono esprimere la propria solidarietà e vicinanza al giornalista Giovanni Tizian che proprio per l’impegno dimostrato nel raccontare le vicende di mafia è oggi costretto a vivere sotto scorta. “La tua vicenda sta a dimostrare, se ancora a qualcuno piaceva nascondersi dietro a facili illusioni, che anche la nostra realtà, come tutte quelle economicamente più floride, è oggetto degli appetiti della criminalità organizzata. La mafia non è un fenomeno delle sole regioni del Sud, Modena deve sapersi attrezzare ulteriormente per combattere una minaccia pericolosissima alla propria vita democratica, economica e sociale. Per fare questo le forze dell’ordine devono essere messe in condizione di lavorare al meglio così come la magistratura. Ribadiamo la necessità che anche a Bologna ci sia la Dia: l’attenzione dimostrata dal neo-ministro Cancellieri (a conferma delle intenzioni manifestate dal dott. D’Alfonso, direttore della DIA, nell’audizione alla Commissione Antimafia del 6 dicembre scorso) fa ben sperare, ma l’allerta su questo fronte deve essere alta e coinvolgere tutte le componenti della società modenese.