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Benevento – Archivi, territorio e ricerca storica. Giornata di studio

Inaugurazione della mostra
L’unità d’Italia vista da San Leucio:
Caserta e Terra di Lavoro nel processo di unificazione nazionale

Presentazione della collana
Alle origini di Minerva trionfante
Direzione Generale per gli Archivi

Archivio di Stato di Benevento
Sala storica Biblioteca Pacca
Via Giovanni De Vita 3

Saluti
Gian Maria Piccinelli, Preside Facoltà di Studi Politici J. Monnet Seconda Università di Napoli
Rosanna Verde, Direttore Dipartimento Studi Europei e Mediterranei Seconda Università di Napoli;
Gregorio Angelini Direttore Regionale Beni Culturali Campania

Introduzione
Aurelio Musi Università di Salerno

Interventi
Aniello Cimitile Presidente Provincia di Benevento
Imma Ascione Direttore Archivio di Stato di Napoli
Giuseppe Cirillo Seconda Università di Napoli
Pasquale Femia, Seconda Università di Napoli
Francesco Barra Università di Salerno

Conclusioni
Manuela Ghizzoni Commissione Cultura Camera dei Deputati

Presiede
Valeria Taddeo Direttore Archivio di Stato di Benevento

"Cari ragazzi, salvate il mondo dalla finanza senza regole", di Carlo Azeglio Ciampi

La crisi che da oltre quattro anni sta scuotendo i sistemi economici dei principali Paesi industrializzati non solo ha reso incerto, drammaticamente incerto, il futuro di ceti e classi sociali che avevano un lavoro, un reddito, che avevano raggiunto il benessere. Essa sta acuendo, soprattutto, le difficoltà dei giovani, che da troppo tempo si trovano a vivere uno stato di precarietà che non consente loro un progetto di vita, lavorativa, affettiva, esistenziale.
Questa volta, diversamente da quanto accadde quarant´anni orsono, la “questione giovanile” non si scontra con una classe dirigente distratta dinanzi alle richieste di libertà e di partecipazione alla formazione delle decisioni. Questa volta i giovani muovono dalla consapevolezza che senza un lavoro, senza la responsabilità di una propria famiglia, senza un sistema in grado di fornire un aiuto nei momenti critici, le parole libertà, partecipazione, diritti, doveri – che furono la sintesi del programma di conquiste politiche, sociali, economiche dei loro genitori – rischiano di restare pure espressioni verbali. Quelle parole, se svilite nel loro significato profondo, svuotate del loro contenuto rendono concreto il rischio di nuovi “ismi” (populismo, egoismo, eccetera), di lacerazioni del corpo sociale, di contrapposizioni violente.
Più considero gli “eventi” nei quali siamo immersi, più mi vado convincendo che questi sottendono fenomeni vasti e sicuramente più profondi, che abbisognano di riflessione, di analisi meditate, senza cedimenti a semplificazioni buone a catturare l´attenzione dei media; a guadagnarsi un invito al talk show di turno; inutili per innalzare di un solo millimetro il livello di comprensione.
«Punto memorabile della storia in cui finisce una serie di avvenimenti e ne comincia un´altra» recita alla voce epoca il Grande dizionario della lingua italiana, fondato da Salvatore Battaglia.
La definizione mi ronza in testa con l´insistenza con cui ci assale e ci tormenta il verso di una poesia o di una canzonetta; in libera associazione con le immagini degli impiegati della Lehman Brothers che in un pomeriggio di settembre del 2008, raccolti i pochi oggetti personali in qualche scatola, varcano per l´ultima volta l´uscio di quello che fino a poche ore prima era il loro luogo di lavoro.
Quelle fotografie hanno fatto il giro del mondo. Dietro l´obiettivo non c´era un Robert Capa o un Nick Ut, ma a me pare che, a modo loro, siano anch´esse immagini-simbolo, come il miliziano spagnolo o la piccola vietnamita nuda e piangente sulla strada, nei pressi di Saigon. In sé, rimandano a una normalità banale, quanto può esserlo il trasferimento del contenuto di qualche cassetto o di un armadio. Si rivestono del dramma nel contesto che fa loro da sfondo. Assurgono a simbolo di un mondo che forse è già alle nostre spalle, un “mondo di ieri”.
Certo, diversamente da quello di Stefan Zweig, il nostro mondo non è la felix Austria, in cui «violenze e radicalismo apparivano quasi impossibili in un´epoca della ragione», ma una realtà planetaria schiacciata sotto il peso di una complessità dai risvolti drammatici. Un groviglio di questioni gravi e di portata enorme: dalle disuguaglianze alle guerre, al terrorismo, allo sfruttamento rapace e suicida delle risorse naturali e dell´ambiente. Su scala ridotta, limitata al solo mondo industrializzato, è la realtà delle nostre società, baluardo di civiltà, modelli sperimentati di democrazia, dove l´arte di governo va facendosi sempre più difficoltosa, sovente sfiorata da un velo di opacità. Società frantumate da un coacervo di interessi contrastanti, che la politica fatica a comporre e a ricondurre all´unità superiore dell´interesse generale. Società dove prevale una «individualistica dissociazione dal bene comune». Società “liquide” dove si è smarrito un qualsiasi punto di consistenza.
I mutui subprime, in cui ravvisiamo il prologo del dramma tuttora rappresentato sulla scena mondiale, sono stati, va da sé, nient´altro che una miccia. La deflagrazione mi induce a formulare ancora una domanda retorica: come è potuto accadere? Dove erano i banchieri, i regolatori, le autorità di vigilanza nazionali e sovranazionali? Non per annettermi meriti personali, ma solo per essere stato a lungo membro della comunità dei banchieri centrali non posso non ricordare quanta parte avesse la stabilità del sistema finanziario nell´agenda dei lavori e negli ordini del giorno dei nostri incontri mensili a Basilea, presso la Banca dei regolamenti internazionali e in quelli annuali al Fondo monetario internazionale; con insistenza martellante veniva ricordato ai responsabili delle banche quale fosse la loro “missione”, in uno con l´attività consustanziale alla banca: fornire credito all´economia.
In anni più recenti, si è fatto strada, in proposito, un fraintendimento che colloca nelle priorità del banchiere il pur meritevole obiettivo della «creazione di valore per gli azionisti». La responsabilità dell´imprenditore, e quindi anche del banchiere, va oltre l´impresa; si estende al ruolo che egli ha nella collettività.
Sono consapevole che la dimensione globale dei mercati ha reso tutto tremendamente più complesso; tuttavia, mi chiedo se il vento della modernità, della deregulation, non abbia finito per scompaginare un po´ troppo quelle nostre agende “vecchio stile”.
L´enorme massa di crediti di pessima qualità è stata la carica esplosiva che ha fatto saltare un edificio gigantesco, eretto sulla sabbia da costruttori senza scrupoli e in spregio a quel minimo di regole cui anche un «geometra» di modesta esperienza si sarebbe attenuto. Tecnici altamente specializzati, padroni di competenze “ingegneristiche” sofisticate, hanno applicato le loro raffinate conoscenze per innalzare edifici dalle linee ardite, spericolate, sfidando le leggi dell´economia. Prima ancora, hanno sfidato la legge morale; legge che consente di distinguere il consesso umano dalla foresta.
Brillanti e corteggiati operatori; istituzioni blasonate, con i loro top managers ricoperti d´oro quali novelli Goldfinger e dispensatori, con “fervore evangelico”, del loro verbo dalle colonne dei più prestigiosi fogli finanziari; ascoltati e temuti guru di governi e autorità pubbliche, disinvolti e agili nell´attraversamento di porte girevoli sempre in funzione. Ebbene, questi sono gli stessi soggetti che hanno fatto della finanza (quella finanza che dai manuali di economia apprendemmo essere al servizio della produzione, dello scambio, dello sviluppo) la foresta dove appagare appetiti ferini, dove impera la legge non scritta del cinismo, del disprezzo di ogni valore che non sia quello del guadagno, del successo, del potere, obiettivi rincorsi in un crescendo delirante in cui si spezza qualsiasi ragionevole legame tra desiderio e appagamento.

La Repubblica 11.01.12

"Pierino e l'Italia delle firme false", di Mila Spicola

Pierino falsifica la firma del papà in una giustificazione, la professoressa se ne accorge e lo rimprovera aspramente “se tu fossi adulto, per un simile atto potresti andartene in galera”. Il papà avvertito, prende Pierino e lo rifà nuovo a rimproveri.
Questo ci aspettiamo no?
E invece no. Il papà e la mamma di Pierino, turbati dal turbamento della creatura, sangue del proprio sangue, occhi dei propri occhi e atti dei propri atti, vanno dai Carabinieri e denunciano la professoressa per abuso dei mezzi di correzione. Una querela da 35mila euro richiesti come risarcimento danni. “Perchè mica ci si può permettere di dare del galeotto a un innocente..So ragazzi!!!” E dunque intanto ti querelo e te la faccio pagare in euro la tua mal creanza e acredine e persecuzione nei confronti del mio bambino. Soldi tutti da investire nel futuro e negli studi del povero perseguitato immagino. Ma anche no. Ci sarebbe il secondo bagno da rifare in casa. Mò ti faccio vedere io chi ha ragione.

Tutto questo di fronte a un Pierino tra lo stupefatto e il rassicurato con lo sfondo di compagni di classe, di scuola, di città, di regione e di paese, tutti ragazzini seri e compìti però, non si sa mai, se un giorno capita a me di far la marachella papi e mami corrono in questura come ringraziamento per non prenderli a ceffoni quando arrivo a 18 anni. Attenzione: sto semplificando, generalizzando, esagerando. Ma sui fondamentali, perchè poi, sulle sfumature, sui dettagli che fanno poi sostanza, la verità è che nella maggior parte dei casi è difficilissimo che un genitore accetti una critica o un rimbrotto al proprio pargolo, come critica e riflesso alla propria coscienza. Non li separa più. I figli sò pezze e core. Pure quando lanciano petardi in faccia a qualcuno.

Il tutto aggravato dal fatto che molti di noi sono convinti che l’unica via per la risoluzione dei conflitti siano la legge, la magistratura, la certezza del diritto. Non la certezza del buon senso e le normali relazioni tra individui di una comunità. Posto che ci fossero i presupposti e gli esiti per denominarlo “conflitto” e che siam giunti al punto che, se non confliggi con qualcuno, non esisti.

Il confine chiaro e netto di ciò che si può fare e ciò che non si può fare e che va condannato, sia che si abbiano 12 anni sia che se ne abbiano 96 poi sfuma in mille e infinite declinazioni e deroghe. In ogni ambito e in ogni latitudine, reale o virtuale e dunque il ragazzino, che scemo non è, si adegua. Se tutti sono furbi lo sono pure io. E vabbè, anche qualcuno di noi avrà bigiato a scuola una volta, ma se lo ricorda perchè le prese di santa ragione, non perchè papà salì a bordo della sua 600 beige dirigendosi in questura. E non c’era angolo in cui nascondersi, nè di casa, nè per strada, nè a scuola per non essere additato come un “piccolo criminale”. Non certo l’eroe della furbizia. L’eroe cioè dei tempi nostri.

Il confine tra lecito e non lecito negli anni si è via via lacerato, insieme al relativo senso delle proporzioni, insieme alle elementari e autonome leggi del rispetto, non come atto formale ma anche come atto immateriale, spontaneo, di fiducia verso i simili che vivono nella stessa comunità (del genitore verso il docente, del genitore verso il figlio, del figlio verso entrambi) e si disperde nei mille rivoli delle azioni e reazioni: dalla barzelletta minimizzante del “che vuoi che sia tanto lo fanno tutti e tutti sono uguali”o “sono ragazzi, non esageriamo”, quando si è autori di torto, al soccorso della legge come se gli fosse caduto in testa l’apollo 11, tirato contro per provato complotto, quando si è “vittime” del torto. Anche quando pensare di essere nel giusto fosse una solenne e palese cavolata.

Efficacia della durezza del rimprovero in campo educativo? Potremmo parlarne per giorni. Il che la dice lunga sull’incertezza in materia che attraversa trasversalmente famiglie e scuole, ma no, che dico, attraversa il paese intero, travalica, supera le nazioni. La trasmissione dell’educazione ha valore quando trasferisce un bagaglio di valori comuni, e quel bagaglio si fa comunità. Oggi non è più così. E’ così leggera e particolare da evaporare. Il bagaglio di valori che si trasferisce vale solo per la propria tribù. Per il mononucleo familiare. Tutto è garantito e ordinato dentro quel nucleo, fuori invece fischia il vento e urla la bufera, gli altri sono lupi e noi in lupi dobbiamo trasformarci. Anche a scapito della stessa legge che poi cerchiamo in soccorso quando ci arriva, puntuale, il presunto torto.

Il ragazzo non fa altro che imitare. Imita. Imita i comportamenti dei genitori, dei compagni, imita i comportamenti televisivi, quando assiste per ore e ore a quei comportamenti. E metabolizza. Osserva, si nutre di ciò che vede e vie e ne ripete le azioni e le reazioni.

Per questa volta il gip ha archiviato il caso, com’era logico fosse, per evidente assenza di reato. Ma pensate a tutte le volte in cui questi atti, questi alterchi, queste contrapposizioni educative si verificano nella vita di un bambino e di un adolescente che cresce? E pensate chi archivia l’angoscia e lo sbigottimento di quell’insegnante.

Non credo che nessuno dei tre contendenti sia cresciuto da questa “esperienza”: docente, genitori e adolescente. Ha vinto solo la divisione. Sempre più profonda.

Poi ci chiediamo “come mai questi ragazzi non hanno più valori?”. Poi ci stupiamo quando leggiamo nelle statistiche che i ragazzi “esigono durezza e univocità nel punire le azioni non concesse” in uno di quei barlumi di lucidità che li contraddistinguono. Vogliono UNA via. Chiara e coerente.

Il vero problema è la frantumazione di quello che era bagaglio unico di quei valori e da non mettere mai in discussione in mille e frantumati “beauty case” alla bisogna di azioni estemporanee. Ciascuno per famiglia. A volte ancora più frantumato: mezzo “beauty case” a mamma e mezzo a papà, e poi si ci mette anche il nonno paterno e la nonna materna. E anche il fratello maggiore. E, se possibile, la vicina di casa.

C’è un paese in Europa dove hanno sentito il bisogno di scriverlo nella Costituzione: che la scuola rafforza e promuove, insieme alla conoscenza e alle competenze, il sistema di valori condiviso di quella nazione. Dovesse esserci nella nostra Costituzione, una tale indicazione, ci metteremmo le mani ai capelli. Perché quel sistema di valori condiviso non c’è più e con esso non ci sono più l’idea di comunità, l’idea di beni comuni, l’idea di Stato. C’è la famiglia. Certo. Ma non basta. C’è la Magistratura. Certo. Ma non basta. Perché piano piano Pierino cresce e falsificherà anche quelle. Però c’è anche la Scuola, dico io. C’è quella Professoressa che il rimprovero aspro e duro di fronte al falso deve per forza di cose calibrarlo verso l’alto per supplire l’assenza quasi totale di rimproveri altrove. Fa bene. Ma non basta.

Perchè può sbagliare anche lei. Può fare troppo. Come nel caso di quella che fece scrivere a Pierino cento volte “sono un deficiente” e là, sì, la condanna se l’è presa: due mesi tondi tondi con 20mila euro di danni da pagare. E allora ci si potrebbe arrendere e dire: sbrigatevela voi, ha ragione lei signora mamma, o ha ragione lei signora vicina di casa, che Pierino salti sul banco e si metta a ballare la quadriglia con Cetty, Sarah e Martina, se tale gesto libera la sua creatività. Ma non lo fanno, la maggior parte delle Professoresse non lo fanno e infatti oltre alle corde vocali (malattia professionale) si spappolano intestini e anche cervelli. Perchè ad ogni aspro rimprovero corrispondono una buona dose di “nervi” sedati e messi a dura prova.

Una, due, tre, quattro, migliaia, milioni di volte moltiplicati per anni e per Pierini. Che non crescono mai perchè si sostituiscono. E in genere stanno là fuori dalla porta, come nell’immagine che ho scelto a corredo di questa nota, soli e carichi di dubbi. Perchè non capiscono noi e noi, così facendo, capiamo sempre meno loro, che vogliono solo chiarezza e coerenza. Oltre che affetto. E ogni anno è peggio.

Il vero problema è che a Pierino non serve avere una varietà di “beauty case” che gli mettiamo nello zaino già pesantissimo delle sue giornate da acchiappare alla bisogna. Ne serve solo uno, leggero e facile: che ritorniamo a metterci d’accordo. Sui fondamentali. Le firme non si falsificano. Punto. E così il resto.

Se davvero serve cambiar la Costituzione allora sì, dovrebbe inserirsi l’articolo sui valori condivisi. Che valgano, in blocco e sempre gli stessi, non solo tra i corridoi e i banchi delle scuole, dove il tempo si è fermato (spesso è un male, ma per la “questione valori” è un vivaddio) a cento anni fa, ma anche per la mamma, per il papà, per il nonno materno e la nonna paterna, per il fratello maggiore e financo per la vicina di casa.

L’Unità 11.01.12

"Il governo ascolti l'antitrust guai se fa di meno", di Antonio Lirosi

Sarà il Rapporto inviato al Parlamento dall’Antitrust la cartina di tornasole per misurare la determinazione e il coraggio del governo Monti nel resistere a chi vuole frenare le liberalizzazioni. Stiamo parlando delle pressioni che poteri economici e corporazioni stanno esercitando in questi giorni per eliminare il rischio che la possibile traduzione in legge delle indicazioni del Garante possa arrecare problemi agli interessi che essi rappresentano.
Lo stesso governo, caricando sul decreto una aspettativa eccessiva circa la sua portata, si è assunto il grande rischio di poter deludere le attese dell’opinione pubblica e dei mercati qualora il provvedimento che sarà varato risultasse circoscritto a pochi interventi, a misure di dubbia o differita efficacia, o escludesse qualche settore. Ma più si susseguono gli incontri (ufficiali e non), più si ascoltano le dichiarazioni dei ministri e del sottosegretario Catricalà (come quelle dell’altro ieri nel salotto tv di Vespa) e più si ha l’impressione che il numero delle disposizioni
della bozza di decreto si va assottigliando.
Si vocifera, per esempio, che sulla liberalizzazione della vendita dei medicinali di fascia C, sulla separazione proprietaria della rete di trasporto del gas e sul controllo
del settore autostradale da parte dell’Autorità indipendente le pressioni dei soggetti interessati avrebbero trovato accoglienza. Sulle liberalizzazioni sarebbe un secondo consecutivo e drammatico flop per il trio Monti-Catricalà-Passera. Se questo è il trend, un altro errore di metodo che potrebbe commettere il governo (dopo aver creato l’effetto annuncio, ancor prima di scrivere il provvedimento) è quello sui tempi della decisione: aspettare il 20 gennaio per l’adozione del decreto-legge potrebbe essere un tempo infinito per la tenuta di norme realmente incisive, specie se contrastate dalle lobby. E non solo. Eventuali passi indietro si valuteranno anche
sull’efficacia e la qualità delle misure che approderanno in Gazzetta ufficiale più che dai titoli con i quali verranno presentate le novità agli organi di
informazione. Per tamponare gli eventuali buchi si potrebbe cadere nella tentazione di voler far passare per nuove misure di liberalizzazioni previste da leggi vigenti: sulla libertà tariffaria nel campo delle professioni, sulla facoltà dei commercianti di praticare sconti o sulla vendita di prodotti diversi dai carburanti nelle stazioni di
rifornimento, eventuali norme sarebbero di precisazione applicativa perché le vere innovazioni sono state già decise dal legislatore. Sulle riforme avviate ci si aspetta invece l’impegno dei singoli ministri a seguire da vicino la fase attuativa adottando al più presto i regolamenti che mancano. In definitiva ci sarebbe bisogno, più che mai, di una nuova ed efficace lenzuolata di liberalizzazioni e di semplificazioni burocratiche per migliorare le condizioni di acquisto di beni e servizi da parte delle famiglie, per stimolare investimenti e occupazione, per favorire l’esercizio di professioni e imprese da parte dei giovani, per invertire la tendenza sul clima di fiducia e di aspettative di consumatori e imprese, che costituisce una precondizione
necessaria per la ripresa economica. L’ampio ventaglio di proposte indicate dall’Autorità garante il 5 gennaio offre elementi di grande utilità per rimuovere
molti ostacoli allo sviluppo di mercati maggiormente concorrenziali in tanti ambiti e
non contro qualcuno. C’è una quasi totale assonanza tra gli interventi richiesti dall’Autorità e il pacchetto di liberalizzazioni proposto invano dal Pd per tutto il
2011, anche sotto forma di emendamenti durante l’esame delle pesanti manovre di finanza pubblica.
Si ricorda che lo scorso marzo Bersani propose formalmente a Tremonti un’intesa bipartisan sul Programma nazionale per le riforme. Banche, assicurazioni, energia, trasporti, professioni, farmaci e carburanti sono i settori prioritari di intervento che il Pd un anno fa aveva inserito nel suo Programma alternativo a quello – inconsistente sul piano della crescita economica – che il governo Berlusconi poi presentò a Bruxelles. Da Monti ci si aspetta di recuperare il tempo perduto e di andare oltre con coraggio, adottando subito un provvedimento a largo spettro e con un contenuto che
corrisponda agli impegni assunti con l’opinione pubblica e di fronte al Parlamento con le dichiarazioni programmatiche e al momento del voto finale sul decreto Salva-Italia.

L’Unità 11.01.12

"Perché Alemanno non sfila con i cinesi", di Mariantonietta Colimberti

La Capitale ricorda la morte di Zhou e Joy ma il suo sindaco non c’è. L’orrore condiviso della città per le morti di Zhou Zheng e della piccola Joy non ha prodotto il miracolo di rompere la separatezza di un mondo chiuso. E il sindaco della metropoli non ha ritenuto di compiere il passo che avrebbe potuto strapparlo, almeno per un attimo, alla misera contabilità delle convenienze apparenti e al piccolo cabotaggio di una navigazione senza visione.
Gianni Alemanno ieri non era in nessuno dei due cortei organizzati dalla comunità cinese di Roma, poi unificatisi in uno solo per raggiungere largo Perestrello, vicino al luogo del delitto del 4 gennaio sera.
Di ritorno dalle vacanze in Patagonia, giovedì scorso, il sindaco aveva tuonato: «La pazienza di Roma e dei romani è finita» (un manifesto del Pdl dello stesso tenore è comparso sui muri della città), chiedendo, come suo costume di fronte ai drammi o ai problemi, l’intervento del governo. Nei giorni successivi, recuperata una veste di responsabilità istituzionale, si era recato con la moglie a rendere omaggio alle vittime sul luogo dall’agguato, incontrando poi i rappresentanti della comunità cinese e l’ambasciatore Ding Wei. Niente presenza al corteo, però. «La manifestazione – ha mandato a dire – è delle comunità immigrate e tale deve rimanere. Saremo presenti il giorno del capodanno cinese».
Idiosincrasia del sindaco per i cortei, che qualche mese fa voleva addirittura proibire o gravare di una tassa? Possibile, anche se il 15 settembre scorso Alemanno scese in piazza per protestare contro i tagli ai trasferimenti contenuti nella manovra finanziaria del governo Berlusconi. E alcuni mesi prima, di fronte all’ipotesi di introdurre il pedaggio sul grande raccordo anulare, aveva minacciato di «sfondarlo con la macchina».
No, la ragione dell’assenza di Alemanno dal corteo dei cinesi va probabilmente ricercata in quella diffidenza diffusa nella capitale nei confronti di una comunità chiusa, che ha regole tutte sue alle quali uniforma il proprio lavoro e le proprie attività. Lo stesso quadro descritto sui media dopo l’assassinio, le notizie circa le modalità di trasferimento di denaro in patria, hanno forse impedito che la solidarietà sincera e condivisa scattata nella cittadinanza non si trasformasse in una partecipazione corale attiva.
Ieri a sfilare erano soprattutto cinesi, anche se non mancavano rappresentanti di associazioni, sindacati, altre comunità e partiti (per il Pd c’erano Livia Turco, il coordinatore del forum immigrazione Marco Pacciotti e Khalid Chaouki, responsabile nuovi italiani).
Nella Chinatown romana, in piazza Vittorio e nelle strade limitrofe, le saracinesche dei negozi erano abbassate ma non tutti i romani in circolazione sapevano della manifestazione e alle finestre dei palazzi umbertini erano affacciati pochi anziani. Niente di paragonabile alla risposta di Firenze dopo la strage dei senegalesi.
Al posto del sindaco a sfilare ieri c’era il delegato alla sicurezza, Giorgio Ciardi. A Torpignattara, a chiudere il corteo, Renata Polverini.
Alemanno ha annunciato che il giorno delle esequie (forse domani) sarà proclamato il lutto cittadino e che una strada potrebbe essere intitolata alle vittime. Intanto, ha continuato a dare interpretazioni oscillanti sulla situazione della sicurezza a Roma: dopo aver lanciato l’allarme criminalità, ieri ha detto alla Adnkronos che Roma «ha meno delitti e meno reati da tutti i punti di vista» e quindi la candidatura alle Olimpiadi del 2020 non è a rischio.
Proprio ieri, uno studio della Confesercenti ha invece denunciato la capitale come maglia nera per l’usura e città «più violenta di Catania, Palermo, Napoli o Reggio Calabria».

da Europa Quotidiano 11.01.12

"Perchè serve un accordo tra i partiti", di Agostino Giovagnoli

Qualunque sia la decisione della Corte costituzionale, l´eliminazione del porcellum costituisce solo un tassello di una più complessiva trasformazione del sistema politico dopo la fine della lunga stagione iniziata nel 1994. Molte cose, infatti, sono cambiate rispetto a diciotto anni fa, anche se il panorama politico era multipartitico e tale è rimasto. Del resto, dalla fine del fascismo a oggi, i partiti in Italia sono sempre stati molti. Diverso, invece, è il discorso sui “poli” principali del sistema politico. Per la prima fase repubblicana, si è parlato di multipartitismo polarizzato, perché all´interno di un panorama multipartitico due formazioni egemonizzavano rispettivamente maggioranza e opposizione: la Dc e il Pci. Altri hanno parlato invece di bipartitismo imperfetto, perché uno dei due soggetti principali, il Pci, non aveva alcuna possibilità di andare al governo. La seconda fase della storia repubblicana, invece, è nata con la speranza di sbloccare questa situazione e di creare un sistema veramente bipolare. Ma l´esperienza degli ultimi diciotto anni ha dimostrato che il bipolarismo elettorale non si trasforma automaticamente in bipolarismo politico.
Per diverso tempo, infatti, mentre sulla destra formazioni politiche diverse costituivano un polo effettivamente unificato dalla leadership berlusconiana, sulla sinistra prevaleva la frammentazione. Si potrebbe parlare, in questo senso, di bipolarismo asimmetrico. Dopo la nascita del Partito democratico nel 2007, invece, è partito – in entrambi gli schieramenti – il tentativo di trasformare il bipolarismo elettorale in bipartitismo o, almeno, in effettivo bipolarismo politico. Ma il tentativo è fallito. E i contraccolpi sono stati così forti da travolgere i suoi protagonisti: il progressivo sfarinamento della maggioranza berlusconiana è stato innestato dalle reazioni alla “rivoluzione del predellino” e alla formazione del Pdl. Siamo così giunti all´oggi. Il panorama politico si presenta ancora una volta multipartitico, non è qui la novità. Più difficile appare, invece, identificare i poli principali all´interno di tale panorama. Le tre forze politiche che sostengono il governo Monti dichiarano di rappresentare tre poli diversi e, sia alla loro destra sia alla loro sinistra, altre formazioni si muovono in modo autonomo. Almeno apparentemente, dunque, la questione non è ristretta solo all´esistenza o alla consistenza di un Terzo Polo: la politica italiana sembra oggi segnata non solo dal multipartititismo ma anche dal multipolarismo.
Un sistema politico, però, non è fatto solo di partiti e di poli, ma anche di principi condivisi e di dinamiche profonde. Non si esaurisce in uno scambio tra domanda e offerta, tra le scelte degli elettori e le proposte dei partiti. Ha bisogno anche di fondamenta solide e di un centro di gravità. Nella fase iniziale della storia repubblicana, il sistema politico ha trovato il suo centro sistemico nell´accordo tra i sei partiti del Cln, cementato dalla scelta antifascista. Successivamente, invece, la questione comunista ha ristretto questo spazio a un solo partito e ai suoi alleati: la Dc non è stata solo al centro dello scenario politico ma è diventata anche il centro del sistema politico. Nel 1994, in assenza di un nuovo accordo generale tra i partiti che prendesse il posto di quello antifascista e dopo la scomparsa della Dc, Berlusconi è diventato, a suo modo, il centro del sistema, in grado di controllare la maggioranza e di condizionare l´opposizione. Ora questo ruolo è finito ma, fortunatamente, il sistema politico italiano non è entrato nel caos, non perché la democrazia sia sospesa ma perché Giorgio Napolitano ha interpretato efficacemente il comune sentire della comunità nazionale e svolto egregiamente il ruolo di baricentro istituzionale. Qualcuno vorrebbe introdurre l´elezione diretta del Presidenza della Repubblica e trasformare il baricentro istituzionale in centro politico, ma proprio l´azione svolta da Napolitano mostra quanto sia importante il suo ruolo istituzionale super partes. Poco praticabile, d´altra parte, appare l´ipotesi che il centro del sistema torni a collocarsi in una specifica forza politica, come la Dc, o, peggio, in una singola persona, come Berlusconi. Sembra, invece, possibile dar vita, come all´inizio della storia repubblicana, ad un “accordo tra i partiti” basato su fondamenta ampiamente condivise – a partire da una solida prospettiva europea – e in grado di garantire la stabilità al di là dei cambiamenti della maggioranza di governo. Si favorirebbe, in questo modo, anche in Italia un normale avvicendamento delle forze che guidano il Paese.

La Repubblica 11.01.12

"Vita da supplente", di Giovanni Belfiori

Storie normali di un paese anormale: la prof che pianta la tenda nel giardino della scuola perché non ha più i soldi per la benzina, la precaria che attende invano lo stipendio e intanto forma docenti di ruolo, l’assessore che paga le supplernze rischiando di violare la legge. Tempi duri per i supplenti. A Oristano, così riporta il quotidiano La Nuova Sardegna, Maddalena Calvisi,40 anni, docente precaria dal 2002, due figli, ha deciso, suo malgrado, di diventare un’insegnante a ‘chilometri zero’: ha montato una tenda da campeggio nel giardino della scuola e si è sistemata lì dentro. La scuola, infatti, non le paga più le supplenze e lei aveva due possibilità: rinunciare all’incarico o tagliare le spese di trasporto. Nel contratto che ha firmato c’era scritto che sarebbe stata pagata solo quando la scuola avesse avuto dal ministero dell’Istruzione i fondi necessari per la liquidazione degli stipendi, quei fondi non sono arrivati e lei non è stata pagata. “Non è solo una questione economica – ha commentato l’insegnante – ma anche l’inizio di una battaglia personale per diventare cittadina di uno stato civile che si basa sul lavoro e interrompere lo stato di sudditanza a cui ci stiamo tutti dolorosamente abituando”.

Sempre in tema di precariato scolastico, un blog di Orizzonte Scuola ospita la lettera aperta di una docente che è sì precaria ma da due anni insegna a docenti di ruolo l’uso delle Lim e della tecnologia didattica. “Ho vinto un concorso nel 2000 –scrive Alessia- a distanza di 12 anni attendo ancora che arrivino al mio numero (perché siamo solo numeri)”. Anche lei ha problemi a essere pagata, e infatti racconta: “Questa mattina ho telefonato alla segreteria della scuola dove ho insegnato per alcuni giorni chiedendo (per la seconda volta) come mai ancora dopo 2 mesi non abbia ricevuto il pagamento! In segreteria mi hanno risposto che non è colpa loro, che il ministero non manda i soldi e la cosa che mi ha fatto andare in bestia è stato sentirmi dire” Vabbè… tanto sono soldi conservati! Prima o poi le arriveranno! Noi i soldi per pagare non li abbiamo e poi è stata lei a scegliere questa scuola quindi perché si lamenta?”. Non solo non pagata ma anche umiliata!”.

Anche a Bologna, nel settore delle scuole dell’infanzia comunali, la situazione è precaria, come segnala il sito di L’informazione.com, e non è un bel segnale se si pensa che il capoluogo emiliano romagnolo è da sempre all’avanguardia nei servizi educativi. L’assessore alla Scuola Marilena Pillati continuerà ad affidare supplenze e sostituzioni, pur rischiando di incorrere nelle sanzioni di legge; l’alternativa, ha spiegato l’amministratrice bolognese, sarebbe quella di chiudere il servizio. Il problema riguarda i vincoli cui sono costretti anche i comuni più virtuosi: la spesa del personale non può superare il 50% della spesa corrente e i posti vacanti possono essere sostituiti con contratti a tempo determinato solo nella misura del 20%. Con un paradosso in più: “La scuola statale – ha sottolineato la Pillati – è esonerata da questi vincoli, ma non lo è quella comunale che, però, supplisce proprio alle mancanze della prima”.

da www.partitodemocratico.it