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"Rai, il parlamento cambi subito la legge Gasparri di Vittorio Emiliani

Mario Monti ha ripetuto che «fra qualche settimana» ci saranno novità per la Rai. Del resto, l’attuale vertice scade a marzo. Da Monti ci si aspetta, da più parti, che all’azienda di Viale Mazzini – sul cui valore strategico egli, giustamente, insiste – vengano tolte le catene che le ha gettato addosso il centrodestra con la pessima legge Gasparri. Catene ribadite dalla maggioranza del CdA ossequiente ai voleri del titolare del Biscione e quindi del duopolio Mediarai. Pertanto, o Monti riesce a compiere un’operazione analoga a quella realizzata nel ‘93 dal governo Ciampi grazie alla legge che affidava al presidente della Camera, Napolitano, e a quello del Senato, Spadolini, la nomina dei 5 componenti del CdA (presidente incluso), oppure ben poco di realmente nuovo potrà fare in materia. La legge n. 206 – che avrebbe dovuto essere completata “alla francese” coinvolgendo cioè nelle nomine pure il Quirinale – è durata undici anni, sino alla sciagurata legge Gasparri.
Lo ricordo perché l’emergenza centrale in Rai era e rimane chi deve garantire l’essenza, la missione del servizio pubblico Rai-Tv. Monti ha parlato di un esecutivo molto ridotto, 3 elementi, più un amministratore delegato. Tre mi sembrano pochi per un’azienda così vasta, articolata, complessa. Quanto all’Ad, la Rai già lo ebbe in anni lontani (l’ultimo fu il socialista Luciano Paolicchi nel ’71), ma non è che dissipasse le ombre della lottizzazione partitica, la quale pure all’epoca avveniva a livelli alti (il direttore dell’unico Tg, per quanto oggetto di non poche critiche, era Villy De Luca, un gigante dell’informazione rispetto ad Augusto Minzolini).

Il problema, per me, continua a stare “a monte” del CdA ristretto e dell’Ad unico. Bisogna vedere se si vuole recidere il cordone ombelicale della legge Gasparri fra governo, addirittura presidente del Consiglio, e gestione della radiotelevisione pubblica. In Europa vi sono altri sistemi di garanzia oltre a quello francese del Conseil Supérieur de l’Audiovisuel: c’è il sistema tedesco, complicato ma efficiente, c’è quello inglese della Fondazione alla quale sono conferite le azioni della tv pubblica e che è retta da governors, o garanti, nominati dalla Regina su indicazione del governo. Ma siamo, come si vede, in tutt’altri climi se è vero che Bbc ha mantenuto sostanzialmente integra la propria autonomia con ogni maggioranza di governo. Governors che a loro volta nominano e controllano il vertice operativo di Bbc.

L’altra garanzia fondamentale delle emittenti europee è il canone: elevato (e onorato). Si va dagli oltre 300 euro della Svizzera (radio inclusa, da noi è gratis), ai 264 dell’Austria, ai 216 di Norvegia e Svezia, ai 210 di Germania, ai 187 di Gran Bretagna, ai 150 di Irlanda. Evasi, in media, solo dall’8 %. Mentre da noi il canone ordinario lo evade il 27 % e quello speciale (aziende, alberghi, ecc.) quasi tutti. “Balla” così circa 1 miliardo di euro. E 865.000 abbonati risultano morosi. C’è una Italia dove 8 su 10 pagano (Toscana, Liguria, Emilia-Romagna, Alto Adige, Firuli-Venezia Giulia, ecc.) e un’altra dove la metà non paga (Campania, Calabria, Sicilia). Ci sono Comuni, tutti nel Ferrarese, dove fa il suo dovere il 99 % degli utenti, e Comuni del Casertano dove il 90 e più, al contrario, evade. Basterebbe recuperare metà dell’evasione e la Rai incasserebbe 500 milioni riducendo di molto la dipendenza da spot.
Secondo il Censis però, il canone Rai è la tassa più “odiata” dagli italiani, molto di più di Irpef o Ici. Perché non vedono nei programmi Rai (eccettuata Rai3, la sola a guadagnare ascolti da anni) un servizio pubblico, una tv diversa da Mediaset, perché non reggono ai troppi spot, perché l’autorevolezza è stata fatta scemare e poi crollare dai direttori alla Mimun e alla Minzolini, ecc. È una delle prime piaghe da curare. In assoluto. E però, anche con la Rai attuale, così sfibrata dai suoi “nemici”, ne vale di certo la pena.

L’Unità 10.01.12

"Contratto prevalente
 e tutele ai neoassunti. Definita la proposta Pd", di Simone Collini

Definita la proposta del Pd sulla riforma del mercato del lavoro: contratto prevalente d’ingresso e nessuna modifica dell’articolo 18. Bersani: «Malinconico dia spiegazioni sulla vicenda delle vacanze pagate da altri». Un contratto prevalente che preveda un periodo formativo di massimo tre anni al termine del quale siano garantite tutte le tutele, articolo 18 compreso, indennizzo monetario per chi venisse licenziato nella fase d’ingresso, riduzione degli oneri contributivi per le aziende che stabilizzano. Anche le ultime limature sono state fatte e dopodomani Stefano Fassina illustrerà ai membri del forum Lavoro riuniti nella sala Berlinguer di Montecitorio la proposta con cui il Pd andrà al confronto col governo. Pier Luigi Bersani ha chiesto ai dirigenti del partito di evitare di entrare nel dibattito, ora che la partita sul mercato del lavoro è tutta giocata tra esecutivo e parti sociali. Ma al tempo stesso ha dato mandato al dipartimento Lavoro, guidato da Fassina, di mettere a punto un testo che tenga conto di quanto deciso all’Assemblea nazionale del maggio 2010 e alla Conferenza nazionale sul lavoro dell’estate scorsa.
L’ARTICOLO 18 NON SI TOCCA
Il responsabile Economia del Pd ha lavorato sul materiale approvato in quei due appuntamenti e sui contenuti delle proposte di legge presentate al Senato da Paolo Nerozzi (ispirata dalle teorie degli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi e fortemente sostenuta da Franco Marini) e alla Camera da Cesare Damiano e da Marianna Madia. Nella bozza finale che verrà illustrata dopodomani ai parlamentari Pd membri delle commissioni Lavoro di Camera e Senato (ma sono stati invitati alla discussione anche il professore di economia alla Cattolica di Milano Carlo Dell’Aringa e altri docenti universitari) non vengono invece riprese le proposte di Pietro Ichino, primo firmatario di un progetto di legge che prevede un superamento dell’articolo 18 (quelli economici, tecnici e organizzativi vengono fatti rientrare tra i motivi per giusta causa per i licenziamenti individuali).
Il giuslavorista resta convinto che il modello della “flexsecurity” sia preferibile a quello centrato sul contratto prevalente d’ingresso, e la discussione non mancherà. Nel Pd si sta però lavorando per arrivare a un confronto senza aspre tensioni, e il fatto che Ichino abbia giudicato un «ottimo compromesso» la proposta di legge Nerozzi-Marini se la sua si rivelasse «non politicamente praticabile», fa ben sperare Bersani, che vuole chiudere l’Assemblea nazionale di Roma del 20 e 21 con un voto unitario sulla posizione del Pd sulla riforma del mercato del lavoro.
CAMBIAMENTO E COESIONE, INSIEME
Bersani, che ha fissato per i prossimi giorni un incontro col presidente del Consiglio Monti, valuta intanto positivamente che nel fronte sindacale tutti condividano la necessità di un confronto unitario. Per il leader del Pd «cambiamento e coesione devono andare insieme», cioè l’Italia può uscire dalla crisi solo se saranno approvate le riforme necessarie a garantire la crescita senza provocare lacerazioni nel tessuto sociale. Contratti tra il partito e le organizzazioni sindacali sono continui, in questi giorni. Così come tra partito e governo e anche con le altre forze che sostengono l’esecutivo in Parlamento, alle quali Bersani propone una piattaforma comune italiana da sostenere in Europa.
La riforma del mercato del lavoro è troppo delicata per non essere il più possibile condivisa. Così come altre riforme necessarie all’Italia per superare questo brutto momento. Bersani dice nel corso della puntata di “8 e mezzo” che quello Monti non lo giudica un governo tecnico, e che anzi un esecutivo come quello attuale «è preferibile a uno fatto col manuale Cencelli». Il leader del Pd sottolinea però durante la trasmissione televisiva anche se è vero che non tutta la politica è «sporca» è anche vero che ora bisogna «ripristinare un rapporto decente tra cittadini e istituzioni».
Bersani, intervistato da Lilli Gruber, lancia anche altri messaggi all’indirizzo del governo: in generale ad accelerare sulle liberlalizzazioni, a Monti ad avere «coraggio» e al sottosegretario Carlo Malinconico a dare spiegazioni sulla vicenda delle vacanze che gli sarebbero state pagate da imprenditori della “cricca” dei grandi appalti del G8: «Non so se il fatto sia vero o no ma l’idea della trasparenza è una esigenza dichiarata e conclamata. Dovrebbe dare spiegazioni».

L’Unità 10.01.12

"L’altolà dell’Autorità Antitrust al restauro del Colosseo", di Francesca Schianchi

Pochi soggetti interpellati, scarsa pubblicità, tempi ristretti per chiudere la trattativa. Sono vari gli «effetti anticoncorrenziali» che l’Antitrust, chiamato a esprimersi dal Codacons, ha rilevato nell’accordo che affida i lavori di restauro del Colosseo al gruppo Tod’s. Un parere che, come dice infastidito il sindaco di Roma Alemanno, è «solo un’osservazione e non un’indicazione di carattere cogente», ma che potrebbe pesare sulla decisione del Tar, sempre interpellato dal Codacons, la cui sentenza è attesa nelle prossime settimane, o sulle valutazioni di Procura e Corte dei Conti, alle quali la Uil Beni culturali ha presentato un esposto. E che comunque provoca la reazione della politica, e anche dell’azienda sponsor: «Il supposto sfruttamento commerciale dell’iniziativa da parte del gruppo Tod’s sottolinea in una nota – è un fatto che non esiste e assolutamente contrario, per quanto ci riguarda, allo spirito dell’iniziativa».

L’accordo con il marchio guidato da Diego Della Valle, 25 milioni di euro per riportare a nuovo splendore l’Anfiteatro Flavio, è arrivato tramite procedura negoziata dopo che al bando di gara dell’estate 2010 erano arrivate solo due offerte, di Tod’s e Ryanair, giudicate non appropriate.

Un accordo in cui, sottolinea l’Autorità garante della concorrenza nel suo parere indirizzato al commissario delegato dell’area archeologica di Roma Roberto Cecchi (oggi sottosegretario, mentre il commissariamento è terminato il 31 dicembre), «si è riscontrata una totale difformità» rispetto al precedente bando. Dal fatto che l’accordo prevede solo «il mero finanziamento dell’opera» da parte dello sponsor, e non l’impegno sia a finanziare che a realizzare, ai diritti di sfruttamento dell’immagine del Colosseo: due anni dopo la fine dei lavori per Tod’s e 15 anni «in favore dell’associazione che deve essere istituita da Tod’s», mentre nell’iniziale bando i diritti erano limitati al tempo di durata dei lavori di restauro. Cambiamenti che, valuta l’Antitrust, avrebbero potuto allettare altre aziende, per cui la procedura negoziata «appare come una indebita restrizione del confronto concorrenziale».

Una procedura «condotta interpellando un numero di soggetti estremamente limitato, senza aver dato adeguata pubblicità alla possibilità di fare ricorso alla mera sponsorizzazione finanziaria». Infine, l’Antitrust rimprovera tempi troppo ristretti nella trattativa privata: «Una volta ricevuta la proposta del grupo Tod’s, l’amministrazione appaltante – scrive l’Authority – ha infatti assegnato agli altri soggetti interessati (due: Ryanair e Finit, ndr) un termine inferiore a 48 ore per la presentazione delle offerte».

Entro 60 giorni l’Antitrust aspetta «le iniziative adottate in relazione alle problematiche». Subito interviene il sindaco Alemanno, «sconcertato dall’ostinazione con cui realtà associative cercano di impedire o rinviare gli appalti», e come lui anche l’ex sottosegretario alla Cultura Giro, «il restauro non si farà più, ha vinto il partito del no, sempre e comunque». Di segno diverso il commento dell’ex primo cittadino Rutelli: «Sorprendente improvvisazione». A sera dice la sua il gruppo di Della Valle – «pur essendo del tutto estraneo alla vicenda e a cui non è stato rivolto alcun rilievo» -: garantita la «chiarezza e correttezza» del comportamento del commissario delegato, ora, visto che una fideiussione di 10 milioni di euro è già stata depositata, «sono soldi che ci auguriamo vengano impiegati quanto prima».

La Stampa 10.01.12

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“Colosseo, sui restauri firmati Tod’s ricorsi e polemiche” di Luca del Fra

Nome Flavio, cognome Anfiteatro,
nomedi battaglia Colosseo, professione
monumento celeberrimo nel
mondo, che rischia di diventare famigerato:
riesplodono le polemiche
sul contratto di sponsorizzazione
di Diego Della Valle per i lavori di
restauro dell’antico circo capitolino
dei gladiatori.
Sollecitato da una denuncia del
Codacons, l’Antitrust ha inviato al
commissario straordinario per il sito
archeologico una serie di rilievi e di
quesiti, alcuni non privi di fondamento,
proprio su questo accordo
che prevede l’erogazione di 25milioni
di euro da parte della ditta Tod’s.
Non si tratta di un parere definitivo –
il ministero dei Beni e delle Attività
culturali ha 60 giorni per replicare-,
tuttavia la comunicazione dell’autorità
garante per la concorrenza arriva,
puntuale come una maledizione,
a pochi giorni da una sentenza del
Tar, dove pende un analogo ricorso
del Codacons: se la sentenza sospendesse
il contratto con Della Valle rimandando
tutto al Consiglio di Stato,
i lavori di restauro sarebbero bloccati.
Le osservazioni non appaiono tutte
egualmente convincenti: l’Antitrust
sottolineacomenel caso del Colosseo
lo sponsor non si sia assunto
«la responsabilità del completamento
dell’attività di progettazione e direzione
dei lavori, il coordinamento
della sicurezza, l’appalto a terzi o
l’esecuzione diretta dei lavori, anche
mediante imprese esecutrici dei
lavori», come prevederebbe la normativa
sulle sponsorizzazioni.Unrilievo
incongruo nel caso diunmonumento
la cui tutela e cura sono del
ministero. Quanti vorrebbero fosse
lo sponsor a decidere da chi e come
siano fatti i lavori in un luogo come
il Colosseo?
Più cogenti appaiono invece le osservazioni
sulmodoin cui è stato negoziato
l’accordo che, dopo un bando
andato deserto, è avvenuto per
«procedura negoziata», cioè diretta,
con sole tre aziende: Rayanair, Finit
e Tod’s.Dauna parte i garanti segnalano
che «l’accordo prevede una durata
del periodo di sfruttamento dei
diritti ben superiore ai limiti introdotti
dall’Avviso».
DIRITTI PROLUNGATI
In sostanza il contratto prevederebbe
per Della Valle maggiori vantaggi
di quanti non ne concedesse il bando.
Inoltre, l’Antitrust nota che dopo
aver ricevuto l’offerta di Della Valle
il ministero ha concesso solo 48 ore
alle altre due aziende per presentare
la contro-offerta, davvero un po’ po-si è fatta attendere la risposta di Roberto
Cecchi, oggi sottosegretario ai
Beni e Attività Culturali, ma al tempo
tra i fautori dell’accordo come
Commissario straordinario per
l’area archeologica di Roma e Ostia:
«Sono nel giusto. Con il Colosseo abbiamo
aperto una nuova strada per
creare una norma nella materia. E il
nostro modello è stato ripreso per la
legge su Pompei», ha replicato sicuro
di sé. Per la cronaca, una legge
che ha causato non poche perplessità
e polemiche. «Tod’s chiedeva una
risposta immediata. E non c’era tempo
da perdere. Da qui le 48 ore», ha
concluso Cecchi.
Sono parole che mostrano bene
comela normativa sulle sponsorizzazioni
a favore del patrimonio artistico
sia carente ecomenegli ultimi dieci
anni, in un clima di feroci tagli ai
finanziamenti per la cultura, abbia
dato luogo a soluzioni non sempre
pienamente trasparenti e condivisibili.
Nel caso specifico, comeha rammentato
il coordinatore del settore
Cultura del Pd, Matteo Orfini, «Francesco
Giro allora sottosegretario e
Gianni Alemanno sindaco di Roma
hanno forzato l’amministrazione
(cioè il ministero, ndr) a una procedura
d’urgenza senza darle il tempo
di misurare le modalità del bando».
Il tutto per poter sbandierare un risultato
a detta di molti risicato, infatti
i 25 milioni di euro di Della Valle
sarebbero pochi per il ritorno di immagine
che ne scaturisce. Resta tuttavia
che questa è l’unica grossa
sponsorizzazione indirizzata verso i
beni culturali, e mentre i piccoli crolli
di questi giorni fanno grande scalpore
sui giornali, il Colosseo soffre
per un urgente bisogno di restauri.

L’Unità 11.02.12

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“ALTRO CHE AFFARE, L’AUTHORITY BOCCIA L’INTESA GENUFLESSA” di Vittorio Emiliani

Questa telenovela della
sponsorizzazione del restauro del
Colosseo contiene parecchi
passaggi indubbiamente opachi.
Intanto non è mai stata
pubblicata la convenzione fra
Ministero e sponsor Della Valle.
Quando la Uil-Bac denunciò, il 4
aprile, alcune ombre, l’allora
sottosegretario Giro e l’allora
segretario generale nonché
commissario all’archeologia
romana Roberto Cecchi, oggi
sottosegretario, giurarono che
avrebbero reso noto quel testo
fondamentale entro quindici
giorni. Chi l’ha visto? Conosciamo
soltanto un testo reso pubblico
dalla Uil-Bac e in esso si dice che
lo sponsor, in cambio della messa
a disposizione di 25 milioni di
euro in 15 anni, potrà
stampigliare il marchio Tod’s sui
biglietti d’ingresso, oggi 5 milioni
l’anno, domani di più, per un
totale finale di 80-90 milioni,
comprati da cittadini di tutto il
mondo. E sui tendoni di 2,40
metri che copriranno (per anni) le
grandi arcate in restauro, ecc.
Sempre da fonti non ufficiali –
dal Codacons che come Uil-Bac
ha fatto ricorso – apprendiamo
che l’Antitrust distingue in modo
molto chiaro fra l’Avviso (cioè il
Bando) e l’Accordo intervenuto
(cioè la Convenzione, ignota ai
più). In base al primo, lo sponsor,
oltre che metterci gli euro,
doveva caricarsi del
completamento dell’attività di
progettazione e direzione dei
lavori, del coordinamento della
sicurezza, dell’appalto a terzi o
dell’esecuzione diretta dei lavori.
Con l’Accordo, invece, tutto «si
risolve nella semplice messa a
disposizione di una somma di
denaro», ma, oh sorpresa!, esso
«prevede una durata del periodo
di sfruttamento dei diritti ben
superiore ai limiti introdotti
dall’Avviso, pari a due anni oltre il
termine della conclusione dei
lavori in favore di Tod’s e a 15
anni in favore dell’Associazione
Amici del Colosseo ai sensi
dell’art. 4 dell’Accordo». Siamo
all’abbuffata dei ritorni
pubblicitari rispetto agli impegni,
soltanto finanziari, nel restauro.
Inoltre – altro rilievo
dell’Antitrust – il MiBAC, andata
deserta la gara (molto
impegnativa) indetta col Bando,
«all’indomani della gara» è ricorso
alla trattativa diretta
«interpellando un numero di
soggetti estremamente limitato,
senza aver dato adeguata
pubblicità al fatto che gli oneri
posti a carico dell’eventuale
sponsor erano stati
sostanzialmente ridimensionati»
al solo finanziamento. Chiaro
come il sole.
Non so cosa ne dirà il Tar, ma
credo che la Corte dei Conti
dovrebbe far luce su questo punto
nevralgico. L’Unità fu uno dei
pochissimi giornali a sollevare
perplessità in merito l’11 luglio
scorso parlando di «convenzione
genuflessa». In generale fu tutto
un’exultate, jubilate. E adesso si
chiede in modo perentorio: ma,
allora, volete bloccare i restauri
dell’Anfiteatro Flavio che va in
pezzi? Poiché il “marchio
Colosseo” vale molto più di 25
milioni in 15 anni e il
monumento non sta
propriamente crollando, lo Stato
deve darsi regole più chiare e
comportamenti meno
improvvisati. Anche perché, non
agendo così, si creano (stiamo
parlando di un vero “totem”)
precedenti rischiosi. Diego Della
Valle fu onesto nella
conferenza-stampa: «Non siamo
qui per fare beneficenza». Subito
dopo altri gridarono al
mecenatismo. Non scherziamo:
mecenate è chi dona denari per la
cultura senza chiedere nulla in
cambio, neppure di essere citato.
Come mister Packard a Ercolano.
In fondo in fondo, se l’attuale
biglietto d’ingresso fosse stato
aumentato di 30 cent con
l’indicazione «pro-restauro», in 15
anni si sarebbero incassati i 25
milioni della sponsorizzazione e
forse anche di più. Senza
ambiguità, né opacità di sorta.

L’Unità 11.01.12

«Capitalismo in crisi. Dovranno salvarlo le sinistre europee», intervista a Giuliano Amato di Federica Fantozzi

Nel settembre del 1992 l’Italia era in una crisi drammatica. Giuliano Amato, da presidente del Consiglio, varò una manovra di entità tale 90 mila miliardi di lire da permetterci il primo avvicinamento ai parametri di Maastricht, e dunque di avviare il percorso per l’ingresso nell’euro. Scoppiarono polemiche furiose, a cominciare da quella sul prelievo forzoso sui conti correnti. Si capì però che l’Italia era salva. Lo è rimasta per vent’anni ma ora vive un altro momento critico.
Che differenze vede tra la crisi di allora e quella di oggi?
«Dal punto di vista del riaggiustamento finanziario interno, quando c’è un debito pubblico troppo alto e ci sono titoli di Stato senza compratori le esigenze di pareggio dei conti si somigliano tutte. Ma questa crisi va molto al di là dell’Italia. Presenta variabili più grandi di noi». Affrontabili in qualche modo?
«Con un linguaggio vecchio direi: dove sta andando il capitalismo? Cosa gli succede? Sembra aver perso la bussola del funzionamento, le sue dinamiche vengono messe in discussione. Le diseguaglianze gigantesche che crea lo privano della legittimazione sociale che gli è necessaria».
Da tempo si dibatte sui difetti del capitalismo, ma non si è mai trovata un’alternativa valida.
«Questa non è la prima crisi a porre simili interrogativi: successe anche negli anni ’20. E infatti io non credo che cadrà il capitalismo, ma che si impongano esigenze di profondo rinnovamento proprio come negli anni ’30. Qualcuno ha scritto che il capitalismo, vivendo di profondi squilibri, ogni qualche decennio esce di carreggiata e servono dei correttivi».
Quali correttivi vedrebbe in questo inizio di millennio?
«Secondo me dobbiamo prima chiederci se siamo pronti a misurarci con questo problema. È un fatto che uno storico come Giuseppe Berta chiede su Il Mulino alla sinistra italiana ed europea se stia cercando risposte a questo cruciale interrogativo».
Significa che la sinistra italiana e quella europea non hanno la percezione che l’Italia e l’Europa, se non il mondo, stanno andando a sbattere?
«Significa che si muove su un orizzonte più basso di quello. È attenta a tutelare gli interessi che rappresenta, agli ammortizzatori sociali, all’equità dei sacrifici chiesti. Cose essenziali, sia chiaro. Ma rimettere in carreggiata la macchina esige una riflessione di più alto livello che spero cominci. Fra l’altro i partiti socialisti e di centrosinistra sono forse attesi alla prova di governo in Francia, in Germania e in Italia».
Le sinistre si attardano su pensioni, articolo 18, cassa integrazione, mentre il mondo si capovolge?
«Non dico che difendano troppo il passato, ma che non sanno vedere il futuro. E questa impossibilità le induce a un atteggiamento difensivo. Forse tornare a Marx è troppo, ma fermarsi agli ammortizzatori sociali è troppo poco».
Qualche suggerimento?
«Disponiamo di cervelli e di una accumulazione culturale sufficienti per elevare il livello dell’analisi. Sul merito, mi limito a ricordare che il capitalismo ha ripreso a funzionare quando è riuscito a ristabilire insieme capacità di sviluppo e di coesione sociale». Insomma, i tempi sono maturi per un nuovo patto sociale? Nuove forme di distribuzione del reddito?
«Sì, serve un diverso patto sociale, che peraltro non si può più stipulare entro i confini nazionali. E questo è parte cospicua del nuovo problema che abbiamo di fronte».
Siamo alla vigilia di un nuovo Trattato europeo. È l’ultima chiamata per l’Ue? Che prospettive vede?
«È possibile che da questo tormentato lavorio esca un’Europa più forte e integrata con un Regno Unito più distanziato dall’eurozona. La difesa della stabilità dell’euro in crisi ha reso ineludibile una maggiore integrazione fiscale. È questo l’accordo intergovernativo di cui si discute. Ma l’integrazione fiscale è a sua volta insostenibile senza un’adeguata integrazione politica. È il percorso che si intravede».
Integrazione fiscale e politica con Londra solo moderatamente euroscettica. Non è troppo ottimista?
«La questione che pesa sulle nostre teste come un macigno riguarda i tempi. L’Europa storicamente si muove a passo di mesi se non anni, ma questa crisi non ce lo consente. Tutti abbiamo in testa una domanda: ce la faremo? Ebbene, il sì dipende dai tempi che ci metteremo».
L’euro ce la farà?
«La moneta unica e il suo futuro dipendono dalla nostra tempestività. Io sono abbastanza fiducioso. Siamo vicini all’accordo sulla disciplina fiscale a cui tiene tanto la Merkel. A quel punto saremo in condizione di chiedere alla Germania, che non potrà rifiutare, un impegno solidale comune per la crescita dell’eurozona». Lei è un sostenitore storico della Tobin Tax. Ma se Sarkozy la applica e Cameron no?
«Monti è consapevole delle difficoltà. Se Cameron dice no si crea un bel problema. Merkel e Sarkozy ritengono che si convincerà. Ma io non ne sono affatto convinto».
La manovra del governo Monti è alle spalle ma gli effetti stanno arrivando. Il rigore c’è. L’equità sociale?
«Ho detto ai miei amici nel governo che avrei cominciato subito toccando in modo significativo redditi e pensioni alte. Fui il primo a introdurre il contributo solidale sulle pensioni alte: ora era giusto ripristinarlo e accentuarlo. L’abbrivio della manovra aveva suscitato molte critiche, poi alzando la soglia delle pensioni non indicizzate, si è raddrizzata la rotta».
Nessun altra critica?
«C’è stata una reazione negativa per l’aumento delle accise, benzina in particolare. Monti con signorilità se lo è accollato. Ma bisogna dire la verità: è stata una richiesta delle Regioni per finanziare il trasporto locale».
Il blitz del fisco a Cortina: demagogia o choc salutare per il Paese?
«Trovo giusta l’operazione in sé. Se ci vai quando non c’è nessuno sprechi solo tempo. Ma è stato opportuno non rendere pubblici casi singoli. È giusto perseguire chi danneggia il bene comune, ma bisogna evitare la sensazione che siamo tornati all’uso della gogna, di cui c’è gran voglia in questi tempi inquieti, ma che non appartiene ai metodi democratici». Secondo lei, la cosiddetta Seconda Repubblica è giunta alla fine? E sarebbe opportuno intervenire durante la fase Monti per ridisegnare un ordine istituzionale?
«A mio avviso è essenziale cambiare la legge elettorale a prescindere dal responso della Corte Costituzionale. Mentre lavorare sul ruolo del capo dello Stato perché ampliato in una fase di crisi sarebbe sbagliato e dimostrerebbe scarsa comprensione delle dinamiche del governo parlamentare in tempo di crisi».
Insomma, non c’è un presidenzialismo strisciante?
«È una lettura sbagliata. Ne ho viste tante in questo periodo».

L’Unità 10.01.12

"Se la sperequazione sociale nasce nella formazione", di Giovanni Bardi

Serve più scuola per uscire dall’impoverimento. Ma se l’Ocse annuncia l’urgenza di nuove politiche fiscali per favorire gli investimenti, per ora la spesa per una scuola migliore devono accollarsela le famiglie. Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising è il titolo di uno studio dell’Ocse, uscito a inizio dicembre, sull’allargamento della forbice tra ricchi e poveri nel mondo. In cui l’Ocse chiede ai governi di farsi carico dell’allargamento della forbice. Si calcola che negli ultimi trent’anni il 10% dei più benestanti dei Paesi Ocse si sia arricchito nove volte di più del 10 % dei più poveri. In Italia siamo 10 a uno. Nella nota sulla situazione del divario tra ricchi e poveri in Italia, si legge che, nel 2008, il reddito medio del 10% più ricco degli italiani era dieci volte superiore al reddito medio del 10% più povero, rilevando un aumento della disuguaglianza rispetto al rapporto di 8 a 1 di metà degli anni novanta. In questo senso, sottolinea l’Ocse, le imposte sui redditi e i sussidi sociali hanno un ruolo importante nella redistribuzione del reddito, riducendo la disuguaglianza di circa il 30%. Uno dei fattori più importanti di perequazione economica è infatti proprio l’istruzione. Ma in Italia che si fa? Si taglia proprio lì, il che tradotto significa che il divario tra ricchi e poveri nel nostro Paese è destinato a crescere ulteriormente. Il decisore politico, osserva l’Ocse, «potrebbe riesaminare il ruolo redistributivo della fiscalità onde assicurare che i soggetti più abbienti contribuiscano in giusta misura al pagamento degli oneri impositivi. L’offerta di servizi pubblici gratuiti e di qualità elevata in ambiti quali l’istruzione, la sanità e l’assistenza familiare riveste un ruolo importante». A buon intenditor, insomma, poche parole. E mentre il neoministro Francesco Profumo promette uno stop alle politiche dei tagli, per l’Istat in Europa siamo agli ultimi posti in fatto di spesa per l’Istruzione. Nel 2007 la spesa pubblica in istruzione ammontava a circa 71 mld di euro, pari al 9,6% del totale. Questo quando in Europa l’investimento pubblico in istruzione era mediamente pari al 10,5% della spesa pubblica per i servizi e senza tenere ancora conto dei tagli successivi al 2008. Si ricorderà come la stessa Banca d’Italia, nel 2009, affermasse come l’investimento di denaro pubblico in istruzione prometta ritorni economici importanti per le famiglie e un aumento del gettito fiscale pari al 3,9-4,8% dell’investimento (si veda Italia Oggi del 10 novembre 2009). Ma da allora nulla è cambiato e alla scuola non resta che affidarsi ancora una volta al fai da te. Facendo un rapidissimo calcolo, nel 2009/2010 l’ammontare di queste tasse per il 4° e 5° anno di tutte le superiori arrivava a 20.462.308 euro.

da ItaliaOggi 10.01.12