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"Particelle, la caccia continua", di Pietro Greco

Anche se gli esperimenti sul «bosone di Higgs» hanno fatto grossi passi avanti la fisica ha bisogno di nuove scoperte perché i conti tornino. La caccia non è finita. Che Lhc abbia trovato o meno il «bosone di Higgs», occorrerà che in ogni caso continui il suo lavoro e trovi nuove particelle se vuol fare tornare i conti della fisica. A sostenerlo, su Nature, è John Ellis, fisico teorico del King’s College di Londra e da anni collaboratore del Cern di Ginevra. Naturalmente Ellis non è il solo a pensarlo. Ha semplicemente messo in chiaro cosa c’è da fare ora che l’acceleratore Lhc ha trovato forti indizi (ma non la prova definitiva)
dell’esistenza del bosone di Higgs (la cossidetta particella di Dio) in una regione di energia di compresa tra 124 e 126 GeV.
In realtà dopo il 13 dicembre – data dell’annuncio della probabile scoperta del bosone di Higgs da parte di Fabiola Gianotti e Guido Tonelli, leader di Atlas e Cms, due tra i principali esperimenti condotti con Lhc – nuove particelle il grande acceleratore le ha già trovate: un gruppo di fisici inglesi studiando proprio i dati di Atlas, ha reso noto a fine anno di aver individuato la particella Chi-b(3P). Si tratta di un mesone e, come tutti i mesoni, è composta da un quark (in questo caso il quark beauty) e dalla sua antiparticella. Ma Ellis non si riferiva a Chi-b(3P). O, almeno, non solo a quela. Ma a particelle cruciali, capaci di tenere in piedi il Modello Standard delle Alte Energie e di andare oltre questa teoria. Ellis prospetta diversi scenari. Nel primo e, a questo punto, nel più probabile, Lhc conferma la scoperta del bosone di Higgs intorno a 125 GeV. Proprio come previsto dal Modello Standard. Se è così siamo in un bel guaio. Perché se il bosone di Higgs è così leggero, allora calcoli teorici considerati affidabili dicono che il nostro universo si trova in uno stato energetico altamente instabile. E che – in un tempo indefinito – potrebbe collassare su se stesso, alla ricerca di uno stato energetico più stabile.
CATASTROFE COSMICA
Lo scenario della catastrofe cosmica – che finora non si è verificata e che lascia scettici molti colleghi di Ellis – può essere evitato solo se Lhc continua la sua caccia e trova, appunto, nuove particelle. Incrociamo dunque le dita, perché il destino dell’universo è nella mani di Susy (la teoria supersimmetrica). Tra qualche mese sapremo se Atlas e Cms si sono sbagliati o no. Se il bosone di Higgs esiste ed è leggero, come sembra. Nel caso, ormai improbabile ma non nullo, che si sia sbagliato, le possibilità sono tre. 1) Il bosone esiste, ma nella regione di energia superiore a 600 GeV, come previsto da alcune varianti del Modello Standard. In questo caso occorrerebbe che: Lhc trovi il bosone in questa regione; che trovi tracce di nuove interazione tra particelle note; che, infine, trovi «nuova fisica» in grado di discernere tra le infinite interazioni possibili di cui sarebbe responsabile un bosone di Higgs così pesante.
2) Il bosone esiste, in una regione compresa tra 130 e 600 GeV. I dati raccolti da Lhc escludono questo scenario. Ma se il bosone esiste in questa regione di energia, allora occorrerebbe trovare le prove o di nuove forme di decadimento, non previste dal Modello Standard, della particella che regala la massa a molte altre; oppure di diversi tempi di decadimento.
3) Lo scenario forse per i fisici più allettante. Il bosone di Higgs non esiste affatto e, dunque, non sarà trovato. Allora bisognerà trovare nuovi modi, che vanno ben oltre il Modello Standard, di spiegare perché alcune particelle elementari hanno una massa e altre no. In ogni caso, qualsiasi sia lo scenario che emergerà ci sarà lavoro per i fisici. Sia per i «cacciatori di particelle», gli sperimentali che dovranno catturare nuove, minuscole prede; sia per i teorici che dovranno illuminare nuove zone di quella grande cattedrale che è la teoria fisica delle alte energie.

L’Unità 09.01.12

"È ora di restituire lo Stato ai cittadini", di Ilvo Diamanti

Come sono cambiati gli atteggiamenti degli italiani verso lo Stato e le istituzioni? Per rispondere possiamo utilizzare i dati dell´indagine di Demos-la Repubblica, giunta alla 14a edizione. Suggeriscono un´immagine nota, quanto consumata: il declino. Oggi è considerato un “fatto” indiscutibile, sotto il profilo economico. Ma lo è anche sul piano del civismo e del rapporto con lo Stato e le istituzioni.
1) La fiducia nelle istituzioni e nelle organizzazioni sociali, infatti, scende in modo generalizzato, nell´ultimo anno, con poche eccezioni (fra cui la “scuola”, che però perde credito rispetto a dieci anni fa).
2) In particolare, colpisce il livello – davvero basso – raggiunto dai principali attori su cui si fonda la democrazia rappresentativa. Per primi, i partiti, a cui crede meno del 4% dei cittadini. Mentre la fiducia nel Parlamento viene espressa da circa il 9% degli intervistati. Oltre quattro punti meno di un anno fa.
3) Si tratta di una tendenza simile a quella che coinvolge – e travolge – gli organismi del sistema economico e finanziario.
Per prime le banche, verso cui manifesta “stima” il 15% dei cittadini; 7 punti meno di un anno fa. Ma la metà rispetto al 2001. Non molto più alta – intorno al 20% – risulta la considerazione verso le istituzioni economiche europee e internazionali: la Bce e il Fmi.
Appare basso anche il grado di consenso verso le rappresentanze delle categorie socioeconomiche: associazioni imprenditoriali (24%) e sindacato. Soprattutto la Cisl e la Uil, ben sotto il 20%.
4) Il sistema politico e quello economico appaiono, dunque, privi di riferimenti credibili fra i cittadini. Perfino le istituzioni di garanzia mostrano segni di debolezza. La “Magistratura”, soprattutto, perde 8 punti di fiducia, nell´ultimo anno. Un altro segno della fine di un ciclo. Visto che il “consenso” verso i magistrati è sempre stato in stretta relazione con il “dissenso” verso Berlusconi.
5) Fra gli orientamenti che emergono da questa indagine, il più netto e appariscente è, forse, il crollo di fiducia nei confronti della Ue. Verso cui esprime (molta-moltissima) fiducia il 37% dei cittadini: oltre 13 punti meno di un anno fa, ma 16 rispetto al 2001. All´indomani dell´introduzione dell´euro. Quando la maggioranza assoluta degli italiani si diceva euro-convinta.
6) Ciò sottolinea la crisi di governabilità di cui soffre la società italiana. Che – da sempre – non crede nello Stato (di cui si fida meno del 30% dei cittadini), tanto meno nei partiti (quasi metà degli italiani ritiene che non siano necessari alla democrazia) e, quindi, nel Parlamento (“presidiato” dai partiti). Ma oggi diffida – molto – anche dell´Unione Europea. Mentre, in passato, i due orientamenti procedevano in modo simmetrico. Perché gli italiani compensavano la (e reagivano alla) sfiducia nello Stato e nel governo italiano con la fiducia nella Ue. E con una crescente identità locale Ma la speranza nei governi locali e nel federalismo appare, anch´essa, molto raffreddata, rispetto al passato.
7) Alla Bussola pubblica degli italiani restano, così, pochi punti cardinali. Le “forze dell´ordine”, che riflettono il senso di insicurezza sociale. Oltre al Presidente della Repubblica, che è divenuto – negli ultimi dieci anni – il principale appiglio della domanda di identità nazionale degli italiani. Un sentimento rafforzato, nel 2011, dalle celebrazioni del 150enario. In questa indagine, il Presidente conferma la credibilità conquistata in questi anni. Ottiene, infatti, (molta-moltissima) fiducia da parte del 65% della popolazione. Eppure anch´egli arretra in misura sensibile rispetto al 2010: quasi 6 punti. Risente, probabilmente, dell´insoddisfazione sollevata presso alcuni settori sociali dalla manovra finanziaria del governo Monti. Un sentimento che si “scarica”, in qualche misura, anche sul Presidente. Percepito, a ragione, come il principale sostegno (politico) a favore del governo (tecnico). Tanto più di fronte alla debolezza che affligge i partiti e il Parlamento. Ma anche le organizzazioni di mobilitazione e di integrazione sociale.
8) D´altronde, anche la fiducia verso la più importante istituzione religiosa, la Chiesa, appare in sensibile calo. Oggi si attesta al 45%: 2 punti meno di un anno fa, ma 14 rispetto al 2001.
Tutto ciò ripropone l´immagine del “declino” che ha coinvolto i principali riferimenti istituzionali e dell´identità sociale degli italiani. Non solo lo Stato, ma anche l´Europa, la Chiesa; e ancora, il mercato e le organizzazioni di rappresentanza.
L´indice di fiducia complessivo nelle istituzioni politiche e di governo, dal 2005 ad oggi, è sceso infatti, dal 42% al 33%. Mentre, nello stesso periodo, la fiducia nelle istituzioni sociali ed economiche, nell´insieme, cala dal 35% al 26%.
Più che di declino, forse, converrebbe parlare di “recessione”.
9) Ciò marca una differenza profonda rispetto agli anni Novanta, quando la sfiducia nello Stato e nelle forme di partecipazione collettiva si accompagnò all´affermarsi del mito del mercato, del privato, dell´individuo, della concorrenza, dell´imprenditore. Oggi, al contrario, l´insoddisfazione verso i servizi privati è cresciuta molto più di quella verso i servizi pubblici. E la domanda di ridurre la presenza dello Stato nei servizi – scuola e sanità – si è ridotta al punto di apparire ormai residuale. Mentre il grado di partecipazione sociale non è “declinato”, ma, negli ultimi anni, si è, anzi, allargato sensibilmente. In particolare, hanno conquistato ampio spazio le nuove forme di partecipazione sociale: il consumo critico, i movimenti di protesta, le mobilitazioni che si sviluppano, sempre più, attraverso la rete.
Comportamenti particolarmente diffusi fra i giovani e fra gli studenti. I più colpiti dalla crisi, ma anche dalla sfiducia.
10) Da ciò l´immagine di una “società senza Stato”, (come recita il titolo di un libretto pubblicato di recente dal “Mulino”). Che, però, ha paura di restare senza Stato. E reagisce. Seguendo molte diverse vie. E vie molto diverse. La “sfiducia” – ma anche la “protesta” e la mobilitazione. Emerge, nel complesso, una diffusa resistenza alla “privatizzazione” dei servizi, all´individualizzazione dei riferimenti di valore e degli stili di comportamento, all´affermarsi delle logiche finanziarie e di mercato in ogni sfera della vita: a livello pubblico e privato. Sfiducia politica e partecipazione, dunque, coesistono presso le componenti sociali più vulnerabili. I ceti periferici, ma soprattutto i giovani, che manifestano incertezza e paura verso il presente, oltre che verso il futuro. E reagiscono insieme. Non solo per cercare soluzioni e per cambiare le cose. Ma per superare la solitudine e la frustrazione che li affliggono La partecipazione e la protesta agiscono, quindi, come una sorta di terapia. Contro la sfiducia e contro l´isolamento.
Si delinea, così, una stagione incerta. Un ciclo politico si è chiuso, dopo quasi vent´anni. Lasciandoci spaesati. Privi di riferimenti istituzionali e politici. Insoddisfatti del pubblico e delusi dal privato. Senza fiducia. Ma quel che verrà dopo non è chiaro – e un nuovo ciclo ancora non si vede. Tuttavia, la scelta di Monti di investire nel “civismo” – attraverso la centralità “mediatica” attribuita alla lotta all´evasione fiscale – appare una risposta poco “tecnica” e, invece, molto “politica” al problema sollevato da questa indagine. Restituire i cittadini allo Stato. Per restituire lo Stato ai cittadini.

La Repubblica 09.01.12

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“Se la democrazia fa a meno dei partiti”, di FABIO BORDIGNON

Può funzionare una democrazia “senza partiti”? Quasi uno su due, tra gli italiani, è convinto di sì (48%). E tale opinione mette d´accordo un numero crescente di cittadini. Questo indicatore, rilevato dal rapporto annuale su Gli italiani e lo Stato, ha fatto segnare una crescita di dieci punti dal 2008 ad oggi.
L´anno che ci lasciamo alle spalle ha reso ancora più profonda la frattura tra cittadini e politica. Quasi otto persone su dieci pensano che le cose siano ulteriormente peggiorate, nel corso del 2011, sotto il cielo della politica, e l´insofferenza si indirizza, ancor più che in passato, nei confronti del Parlamento e dei partiti. È necessario interpellare più di venticinque persone, oggi, per trovarne una disposta a dare credito ai partiti (4%). Il loro già ridottissimo punteggio, in termini di fiducia, in dodici mesi si è addirittura dimezzato (spingendoli sempre più in fondo alla graduatoria delle istituzioni). Sembra prendere progressivamente corpo, così, l´idea che si possa “fare a meno” di essi. Tale orientamento, che sotto i 45 anni supera la soglia del 50%, suggerisce, in questa fase, almeno due chiavi di lettura.
1) Da un lato, il deficit di rappresentanza dei partiti ha allargato le istanze di coinvolgimento dei cittadini. Nel momento in cui i partiti non sono più in grado di garantire il governo per il popolo, si rafforza la domanda di governo del popolo. Questa spinta si è concretizzata, negli ultimi anni, in una crescita della partecipazione, nella nascita di nuovi movimenti, in una riscoperta della democrazia diretta. Il moltiplicarsi della mobilitazione su specifiche questioni e il successo dei quattro referendum tenutisi la scorsa primavera hanno sottolineato, parallelamente, come questa onda partecipativa abbia in larga misura scavalcato i canali più tradizionali (spiazzando gli stessi partiti).
2) Dall´altro lato, la crisi politica ed economica ha reso evidente l´incapacità dei partiti di individuare soluzioni nell´interesse del popolo, favorendo soggetti ritenuti in grado di affrontare le emergenze che gravano sull´Italia. Non a caso, i cittadini sembrano affidarsi, in questa fase, soprattutto ad attori a-partitici: tecnici e istituzionali. Soprattutto, guardano con fiducia il Capo dello Stato, che negli ultimi mesi ha svolto un ruolo determinante nel gestire il cambio di governo, consegnando il timone del paese ad un esecutivo di esperti.
Queste due prospettive mettono l´accento sulle criticità (e le contraddizioni) che caratterizzano, oggi, l´evoluzione della democrazia (italiana e non solo). Esse tracciano, infatti, percorsi che superano i confini della democrazia rappresentativa, e tra loro difficilmente conciliabili. La stessa esperienza del governo Monti presenta, secondo molti, tratti di “eccezionalità democratica”. Ciò nondimeno, la sua sopravvivenza appare costantemente nelle mani delle (eterogenee) forze che lo sostengono.
Gli attuali partiti, in sintesi, risultano allo stesso tempo troppo forti e troppo deboli: al centro di un sistema che però faticano a governare. In questo senso, le aperture ad una democrazia “senza partiti” richiamano la necessità di contrastare l´indebolimento della stessa democrazia: un sistema che più di due italiani su tre continuano a giudicare come unica alternativa politica (sebbene nell´ultimo periodo siano cresciuti i sentimenti di indifferenza).
Dunque, se la democrazia (rappresentativa) appare ancora “impensabile senza i partiti”, il problema è mettere a punto dei correttivi che garantiscano il suo funzionamento e la sua legittimazione: perché andare “oltre i partiti” non significhi andare “oltre la democrazia”.

La Repubblica 09.01.12

Bersani: "Ora i partiti siano coinvolti di più", di Federico Geremicca

Pierluigi Bersani, segretario Pd, auspica che «si arrivi ad una nuova legge elettorale meditata e migliore di quella che abbiamo oggi». «E’ chiaro che con l’anno che comincia bisogna darsi un metodo…». Un metodo, dice Pier Luigi Bersani: che semplifichi il lavoro del governo nel suo confronto con i partiti e renda più trasparente il rapporto tra i partiti e tra loro e il Parlamento. Il tutto, naturalmente, per lavorare meglio e di più. Così, chi temeva (o sperava) di trovare alla ripresa un Bersani dubbioso circa le scelte fatte – e magari tentato da un qualche disimpegno ora sa come stanno le cose. Si va avanti ventre a terra, perché il Paese ne ha bisogno e soluzioni migliori all’orizzonte per ora non ce ne sono.

Naturalmente, bisogna cambiar passo. Prima di tutto in Europa, ma anche qui da noi: bisogna accelerare sul versante della crescita e correggere qualcosa di quanto fatto (sulle pensioni, per esempio). Ma sono soprattutto certi veti europei a preoccupare il leader del Pd, che dice: «Veti ideologici… La globalizzazione ha imposto una ideologia nuova e micidiale: in economia i mercati hanno sempre ragione, in politica ognuno difenda se stesso. Bene, per quanto mi riguarda non può essere così».

E’ un po’ che lei sembra più preoccupato da certe dinamiche europee che da quanto accade qui da noi.

«Non è precisamente così, ma è importante ricordare come da questa crisi si esce un passo dietro l’altro, e muovendo tutte e due le gambe. La gamba italiana il suo lo sta facendo, è ora che si muova quella europea».

Che è ferma, invece.

«L’universo degli economisti, degli osservatori e del mondo politico conviene sul fatto che non siamo su una strada corretta. In Europa ancora non facciamo gesti inequivocabili che dicano: difenderemo l’euro, di qui non si passa. Questo messaggio non è arrivato: anzi, non è neanche partito. Ora abbiamo un po’ di tempo per farlo: con gesti che non possono essere solo il pur importante bricolage di rafforzamento della disciplina dei bilanci».

E cosa pensa?

«A tre questioni. La prima: accelerare sul fondo salvastati, rendendolo credibile e dotandolo di risorse. Finché non saremo lì bisogna consentire maggiore possibilità di intervento alla Bce. La seconda: teniamola pure sullo sfondo, ma la partita degli eurobond deve essere avviata (un’anticipazione potrebbe essere, come chiede Monti, una emissione europea dedicata agli investimenti). La terza: nonostante quel che dicono gli inglesi, sempre tanto preoccupati per la city – ma noi non possiamo mangiare pane e city, perché alla fine non ci sarà più neanche il pane -, è ora che la finanza paghi qualcosa di quel che ha provocato. Insomma, una tassa sulle transazioni finanziarie va allestita».

Non chiede poco.

«Qualcosa di questo deve essere messo in moto. E senza che il giorno dopo, con una intervista o della Merkel o di Sarkozy, si dica: abbiamo scherzato. Perché è così che è andata fino a oggi, anche se tutti sanno che senza una qualche mossa di questo genere finiamo nei guai. Tutti: Germania compresa. Allora: perché non si fanno queste cose?».

Già, perché non si fanno?

«Lo dico da due anni: il problema è ideologico. Che le ideologie siano morte è uno dei grandi inganni degli ultimi decenni. Forse sono morte quelle vecchie… Ma con la frusta della globalizzazione, sull’Europa è calata una nuova ideologia, interpretata dalla destra e subita troppo passivamente dalla sinistra. Una ideologia di ripiegamento, difensiva, corporativa, che dice: in economia i mercati hanno sempre ragione, in politica ognuno faccia gli affari suoi».

E quindi?

«Quindi occorre anche una battaglia politica. Io credo molto a una piattaforma dei progressisti europei, e su questo abbiamo già fatto molti incontri. E’ già fissato un appuntamento a marzo, in Francia, per avviare un’offensiva su questo tema. E’ ora che qualcuno dica alle opinioni pubbliche europee che da solo non si salva nessuno».

E l’Italia?

«Le forze che sostengono Monti – che dovrebbe andare in Europa a dire che c’è un Parlamento anche qui e non solo in Germania – possono affermare: abbiamo il 5% di avanzo primario e faremo il pareggio di bilancio nel 2013, cosa che non fa nessuno. Insomma, noi abbiamo dato: e a questo punto o c’è un altro passo europeo o non è che possono pensare di trattarci come la Grecia…».

Vuol forse dire che in Italia non c’è altro da fare?

«C’è moltissimo da fare. Ma all’Italia, dopo quanto già fatto, non possono esser chieste altre manovre, magari recessive. Possono sollecitarci ad andare avanti in un processo di riforme, cioè di messa in efficienza del sistema. Politiche di crescita, insomma. E qui, è chiaro, abbiamo un campo enorme di cose da fare».

Crede che la politica, cioè il rapporto tra i partiti e il governo, lo permetterà? Insomma, quanto si può continuare così, con distinguo più o meno quotidiani?

«Adesso che si imposta il lavoro di un anno, bisogna stabilire un metodo. Che secondo me è fatto di tre punti. Sulle questioni europee e internazionali, Monti può trovare un rapporto diretto con i segretari dei partiti che gli consenta di rappresentare posizioni unitarie e nazionali su punti strategici; poi, occorre un modo ordinario e ordinato di avere una sede tra governo e gruppi parlamentari che consenta di costruire l’agenda di lavoro e renderla effettiva; infine, bisogna prendere una iniziativa – e io farò la mia parte – per definire un’agenda per riforme istituzionali e costituzionali: per altro, sulla modifica dei regolamenti parlamentari, sul bicameralismo e la riduzione dei membri di Camera e Senato c’è un lavoro sedimentato. Anche sulla legge elettorale si è cominciato a lavorare. E’ chiaro, inoltre, che questa terza questione accentuerebbe la stabilità del governo. Insomma: penso che sia ora che i leader dei partiti dicano esplicitamente e pubblicamente se sono disposti a convenire su un’agenda da affidare, poi, ai gruppi parlamentari».

Un’ultima domanda sulla Consulta e sul referendum. Che decisione auspica? E pensa anche lei che un sì al voto destabilizzerebbe il governo?

«Quel che auspico è che, referendum o non referendum, si arrivi ad una nuova legge elettorale meditata e migliore di quella pessima che abbiamo oggi. Anche un ritorno al “mattarellum” sarebbe meglio, ma l’esperienza ha dimostrato che quel sistema non è perfetto. Quanto a eventuali crisi, dico solo questo: penso che finché non saremo messi su binari solidi, abbiamo bisogno di non prendere la responsabilità di destabilizzare il Paese in un momento così. Non sarebbe capito da nessuno, né qui né in giro per il mondo…».

La Stampa 09.01.12

"Dall'alberghiero a ragioneria la classifia delle scuole che fanno trovare lavoro", di Salvo Intravaia

“Ragionieri”, periti meccanici, elettrotecnici e informatici. E ancora: “alberghieri”, estetiste e odontotecnici. Ecco i diplomati più richiesti dalle aziende nel 2011. Oggi, riaprono le scuole, ma è già tempo di scelte: entro il 20 febbraio infatti famiglie e studenti dovranno decidere come proseguire gli studi nel 2012/2013. La scelta più difficile riguarda la scuola superiore: per materne, elementari e medie occorre individuare l´istituto più idoneo alle esigenze di alunni e famiglie. Da due anni, per le superiori, è in vigore la riforma Gelmini che mette a disposizione dei ragazzini che frequentano la terza media 23 indirizzi: sei licei, undici istituti tecnici e sei istituti professionali. Ma quale scegliere? In piena crisi e con la disoccupazione giovanile che vola al 30,1 per cento azzeccare l´opzione giusta può favorire facile l´accesso al mondo del lavoro. Un mondo che per i giovani, stando alle ultime stime dell´Istat, è ormai off limits. I numeri sembrano confortanti: la scuola sforna ogni anno circa 450 mila diplomati e le aziende ne cercano 325 mila. Ma non è così. Mentre la disoccupazione giovanile sale alle stelle, fra domanda e offerta le imprese lamentano di non riuscire a trovare 100 mila diplomati tecnici. Vediamo perché. Secondo le stime del sistema informativo Excelsior – promosso e realizzato da Unioncamere in accordo con il Ministero del Lavoro e l´Unione Europea – nel 2011 le imprese italiane hanno cercato sul mercato del lavoro, per assunzioni non stagionali, poco meno di 325 mila tra diplomati quinquennali e giovani in possesso di qualifica professionale triennale. Tra i primi, il più gettonato da aziende e imprese è il diploma ad indirizzo amministrativo-commerciale: 68 mila posti di moderno “ragioniere”, con le competenze per barcamenarsi nel terzo millennio. Anche i diplomi quinquennali ad indirizzo meccanico, turistico-alberghiero, elettrotecnico e informatico sono abbastanza richiesti: 52 mila posti in tutto. Per i giovani in uscita dagli istituti professionali con titolo triennale o di 5 anni erano a disposizione 80 mila posti di lavoro. In pole position giovani e meno giovani in possesso di un titolo ad indirizzo meccanico, socio-sanitario, edile e turistico-alberghiero. Il mercato va alla ricerca anche di estetiste, periti elettrotecnici e commerciali. Nel 2011, a fronte di una richiesta che si aggira attorno ai 240 mila soggetti, i diplomati provenienti dagli istituti tecnici sono stati 145 mila. Un numero assai inferiore a quello di coloro che hanno conquistato un diploma liceale – 210 mila circa – che verosimilmente proseguiranno gli studi all´università visto che per questi ultimi le aziende offrono poco più di 5 mila e 500 posti, pari al 2,2 per cento del totale. La domanda è fortemente sbilanciata anche sul territorio nazionale. L´offerta delle imprese è concentrata al Nord: il 56 per cento delle proposte di assunzione. Le regioni col maggiore fabbisogno di diplomati sono la Lombardia, il Veneto e l´Emilia Romagna. Al Sud la richiesta di diplomati si dimezza: il 24 per cento dei 325 mila posti in questione. Un giovane settentrionale in possesso di un diploma tecnico ha una probabilità quattro/cinque volte maggiore di un coetaneo meridionale di acciuffare il primo posto di lavoro. Ma, nonostante tutto, i licei continuano a scoppiare, mentre gli istituti tecnici sono in crisi di vocazione da anni.

La Repubblica 09.01.12

"La lezione colta del Professore in tv per informare, non per sedurre", di Curzio Maltese

Due mesi nella vita di una nazione sono in genere il battito d´ali di una farfalla. Ma guardando Mario Monti intervistato da Fabio Fazio si ha l´impressione che i due mesi trascorsi dalle dimissioni di Berlusconi, il 13 novembre, abbiano segnato in Italia il passaggio di un´epoca. Proprio nel luogo che ha scandito il tempo immobile del berlusconismo, la televisione. Dal messaggio della discesa in campo fino all´ultima apparizione nel salotto cortigiano di Vespa, dalla prima conferenza stampa a Palazzo Chigi all´ultima telefonata isterica in diretta, il berlusconismo aveva costretto la televisione e la politica, ormai una cosa sola, dentro un copione ossessivo come il principale attore.
Con le lezioni di economia che il professor Monti s´è messo a dare in giro per le sette chiese televisive, cambia il senso stesso della comunicazione politica. Intanto si capisce di che cosa parla. Non è poco, visto che dalle corride spacciate per dibattito politico era ed è ancora difficile ricavare un senso, un concetto e perfino l´oggetto concreto di tanto urlare. Poi si capisce che il premier parla per informare e non per convincere o sedurre o per blandire l´elettorato sulla base del sondaggio di giornata. Ed è in questa sincerità assai più efficace dei presunti grandi comunicatori.
Terzo aspetto, il più rivoluzionario, Monti conosce le materie di cui parla. Se i tecnici oggi sostituiscono facilmente i politici, non soltanto in Italia, è infatti perché i politici sembrano aver perso ogni sapere tecnico. In termini più brutali, paiono dilettanti allo sbaraglio. Sono bastate poche uscite pubbliche dei nuovi ministri, un pugno di docenti universitari, per relegare al puro cabaret le celebrata finanza creativa di Tremonti, il riformismo da tornello di Brunetta, la buffa arroganza delle Gelmini e Brambilla, le aggressive castronerie di un La Russa o di un Calderoli. Ma anche a farci passare ogni complesso d´inferiorità da italiani nei confronti degli interlocutori europei. Markel e Sarkozy, che due mesi fa sembravano grandi statisti, nel paragone con il nostro caravanserraglio governativo, ora appaiono nella loro realtà: mediocre.
A un Fazio assai garbato come sempre, un po´ troppo, Mario Monti non ha fatto chissà quali clamorosi annunci. Ma ha detto o accennato a cose importanti, come la tanto attesa seconda fase del governo, quella in cui finalmente si dovrà affrontare il problema della creazione di posti di lavoro. Ha detto di essere favorevole alla Tobin tax, ma naturalmente non in un paese solo, e di cercare un accordo con la Svizzera per i capitali in fuga. Nelle prossime settimane il governo interverrà sulla Rai, che l´occupazione dei partiti sta portando alla bancarotta finale. Il presidente del consiglio ha difeso senza se e senza il blitz della finanza a Cortina, spiegando con calma invidiabile che si tratta di una prassi normale nel resto del mondo civile e quindi non dovrebbe sollevare questo enorme scandalo in un paese dove l´evasione fiscale supera i 150 miliardi all´anno. Ha insomma aggiunto altri pezzi di verità sullo stato della nazione, dopo vent´anni di balle e illusionismi. Altri due mesi di questa cura e l´intera politica italiana finirà nell´archivio delle immagini in bianco e nero. C´è da domandarsi se accetteranno il proprio destino, il fatale cambio di stagione, oppure se non dobbiamo aspettarci l´ennesimo “indietro tutta”.

La Repubblica 09.01.12

"2012, l'anno delle donne che decidono", di Lucia Annunziata

Il 2011 si è chiuso su una scena minore ma emblematica del nostro futuro comune. Sull’asfalto di piazza Tahrir al Cairo un gruppo di soldati poco tempo fa si accaniva a calci sul corpo trascinato a terra di una donna che partecipava a una protesta. Noi, cittadini del tempo mediatico globale, guardavamo in diretta e con orrore al salire e scendere degli scarponi, alla nudità esposta della ragazza, al chador simbolo di pudicizia così impudicamente strappato, per altro da uomini di fede musulmana. Ma l’incredibile per i nostri occhi era in realtà il colore del reggiseno che da tanta nudità spuntava. Un azzurro brillante, vezzoso, che rivelava il segno di una cura tutta femminile evidentemente universale, identica a se stessa, sotto un austero chador come sotto un altrettanto austero tailleur di lavoro.

Molti dei leader nazionali e internazionali per le cui mani passeranno nel 2012 decisioni che avranno rilevanza sui destini di tutti noi, sono donne. E non è un caso. Continuate a leggere, cari lettori uomini, perché qui si parla anche di voi.

L’elenco delle leader si conosce bene. Tre per tutte: Angela Merkel, cancelliera tedesca, Hillary Clinton, segretario di Stato americano, e Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario Internazionale. Per una volta l’Italia sembra essersi velocemente messa al passo – e non è infatti cosa da poco che in un Paese piagato dai ritardi come il nostro, oggi il più delicato dei dossier sociali, quello del lavoro, sia nelle mani di tre donne: il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e il ministro del Welfare, Elsa Fornero.

E che portafogli molto rilevanti, come quello della Giustizia e dell’Interno, siano affidati a Paola Severino e ad Annamaria Cancellieri.

Nel 2011 sembra in effetti arrivata a pieno sviluppo un’onda lunga di riconoscimenti alla sapienza femminile, con l’ingresso generalizzato delle donne ai livelli più alti della gestione del potere. Dal premio Nobel a tre leader africane – il cui lavoro in verità è stato riduttivamente tradotto in impegno «umanitario» – all’economia, alla politica, all’editoria. In Usa ad esempio, nel 2011 si sono affermati tre nuovi editori, Tina Brown, Arianna Huffington e Oprah Winfrey. In un periodo di crisi profonda dell’informazione tradizionale, hanno rilanciato il settore, innovandolo, cambiandone il linguaggio, ma anche risanando bilanci, producendo profitti e, nel percorso, diventando anche personalmente molto ricche, cosa che non guasta.

La portata di queste eccellenze femminili è una buona indicazione del volume di pressione da cui sono state spinte in alto. Negli ultimi anni, ma nel 2011 in particolare, il protagonismo di massa delle donne ha abbracciato il globo e le culture. Con una trasversalità ben più ampia di quello femminista degli Anni Sessanta, che fu limitato ai Paesi più avanzati.

Oggi, a molti mesi dai vari accadimenti, possiamo dare un giudizio più chiaro delle rivolte che hanno scosso il mondo l’anno scorso. Si capisce oggi così che la Primavera chiamata araba, al di là dello scontento mediorientale (che sconterà sicuramente tutti i condizionamenti delle vicende specifiche di ciascun Paese), è parte di un fenomeno più generale. Ha svelato una nuova modalità politica, una richiesta di trasparenza e partecipazione individuale che rompe con la tradizionale intermediazione fra cittadini e governanti. Protesta delle nuove classi colte della globalizzazione, dei figli della tecnologia e dei diritti universali, partita non a caso dalla più repressiva (in tutti i sensi) delle culture, quella araba, eppure, altrettanto non a caso, capace di germogliare anche dentro modelli tra loro agli opposti, come quelli dei due ex imperi, la Russia e gli Usa. Formando un unico circuito che svela le somiglianze che oggi esistono sotto la pelle delle differenze, come, appunto, quel reggiseno azzurro sotto la stoffa del chador.

Il punto è che queste proteste non sarebbero quello che sono senza la partecipazione femminile che le anima. Dalle donne viene infatti la più «pesante» richiesta di eguaglianza che scalpita in questo mondo così attraversato dall’impazienza e dalle domande. Loro è la pienezza del diritto individuale: la conquista della cittadinanza piena. E loro è la maggioranza numerica. Dall’Iran alla Russia, passando per l’Europa fino agli Usa, quella che finora è stata chiamata «la metà del cielo» può ormai essere definita tranquillamente maggioranza. Nelle scuole del mondo il numero delle laureande si avvia a superare quello dei colleghi uomini, così come il numero della partecipazione politica. Cito un paio di cifre per tutte: in Usa il 58% degli studenti universitari di tutte le facoltà, scientifiche incluse, è femmina. E donne sono la maggioranza di chi va a votare, cioè il 60%.

Tutto questo significa che, al di là di ogni nozione romantica dello sviluppo di genere, le donne sono oggi il settore più in movimento dentro la globalizzazione, il fattore la cui espansione può diventare il motore effettivo non solo della ripresa ma anche di una diversa organizzazione economica.

Dietro l’influenza delle leader sta maturando, dunque, un vero e proprio nuovo paradigma del rapporto fra donne e potere. Ma questo rapporto è efficace e significativo, come abbiamo tentato di spiegare, se non è concepito solo come movimento di vertice e al vertice. Una questione di «quote rosa» o programmi speciali, per intenderci. Se i governi attuali, incluso quello italiano, affondano con coraggio le mani nel serbatoio di aspirazioni, insoddisfazione, ambizione e talento che ribollono nelle piccole mani e grandi teste delle nuove generazioni femminili.

La Stampa 09.01.12