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"Effetto Monti: premiati PD e UdC, non il Pdl", di Mariolina Sesto

Sondaggi concordi nell’apprezzare una perdita di consensi per Pdl e Sel e una rimonta di Pd, Udc e Lega. Sondaggisti discordi, invece, nella lettura dei dati: l’istituto Ipsos di Nando Pagnoncelli vi individua un «evidente effetto Monti», l’istituto Piepoli invece vede le dinamiche dei partiti del tutto autonome rispetto all’insediamento del nuovo governo. «Crescono tutti i partiti che sostengono convintamente il governo Monti – spiega il direttore del dipartimento politico di Ipsos Luca Comodo –: il Pd fa registrare un incremento di circa 3 punti rispetto a ottobre attestandosi al 29% e lo stesso accade all’Udc che tocca l’8% con un incremento di circa un punto e mezzo». Lo stesso non accade al Pdl che per Ipsos è al 23,4% mentre per Piepoli è al 24% ma comunque sempre in forte frenata da ormai parecchi mesi. Perché il partito di Berlusconi non beneficia – come Pd e Udc – dell’appoggio al governo Monti? «In questo caso – sostiene Comodo di Ipsos – l’appoggio a Monti non è forte come nel Pd. Non dimentichiamo che in una consistente fetta del Pdl esiste un malumore rilevante nei confronti di questo governo, cosa che non gli permette di beneficiare dell'”effetto Monti”». «È comunque vero – aggiunge tuttavia Comodo – che la discesa del Pdl non inizia adesso ma è un trend che dura da prima di Monti: il partito era al 30% agli inizi del 2011 ed ha via via subito un calo di consensi attestandosi al 25,5% in giugno per scivolare fino a poco più del 23% attuale».
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Chi sale e chi scende

È proprio questo lungo trend che dura ormai da oltre sei mesi a non convincere Piepoli dell’effetto Monti sui partiti, soprattutto sul Pdl: «Con Monti non è cambiato niente – osserva il direttore dell’omonimo istituto – il Pdl era ad aprile al 31%, a giugno al 29, a ottobre al 27%, a novembre al 24,5 e ora è al 24, dal punto di vista del trend, l’avvicendamento del nuovo governo è insignificante». Piepoli giudica il trend dei due principali partiti – Pd e Pdl – completamente autonomo da ipotetiche influenze del governo: «I democratici tendevano ad andare su da prima di Monti e continuano il loro trend positivo, il partito di Berlusconi e Alfano perdeva consensi e continua a perderne». Quanto agli altri partiti, gli scostamenti – dice Piepoli – «sono casuali: non condivido ad esempio la tesi di chi dice che la Lega aumenta i consensi perché si oppone a Monti. Se seguiamo questa logica, infatti, come spieghiamo poi il tonfo di Sel dal 6,5 al 4,5% nonostante il forte contrasto rispetto al governo Monti?».

Di opinione opposta è invece l’istituto Ipsos per il quale «la Lega ha fermato il suo decremento proprio in coincidenza con il passaggio all’opposizione». «Il Carroccio – è l’analisi di Comodo – era partito dal 12% abbondante delle regionali del 2010 e poi sotto Berlusconi aveva subito una frenata fino a poco meno del 9% a fine ottobre-inizio di novembre. Con Monti il declino si è arrestato ed ora il partito di Bossi si attesta intorno al 9,5 per cento». Una stessa dinamica viene riscontrata da Ipsos per Di Pietro che ha – come la Lega – fermato il suo trend in discesa, attestandosi intorno all’8 per cento. «Chi invece è penalizzato nel centro-sinistra è Vendola – dice Comodo, concordando in questo con Piepoli –: era intorno al 9% e ora è sotto il 7 per cento». Comunque, sottolinea l’istituto di Pagnoncelli, «il livello di incertezza e di astensione è altissimo, non si riscontra alcun ritorno ai partiti ma solo una redistribuzione dei consensi fra di loro».

Il Sole 24 Ore 08.01.12

"Pmi, credito negato a una su tre. Va peggio al Sud e nell’edilizia", di Marco Tedeschi

Le banche hanno stretto i cordoni della borsa e per un milione e mezzo di piccoli imprenditori avere un prestito è diventato molto difficile. Scontano poi i forti ritardi con cui gli enti pubblici pagano i fornitori. Le banche italiane sono state sempre molto prudenti nel concedere prestiti e per molti commentatori questo è un loro punto di forza, fattore di solidità che le rende meno fragili nella tempesta della crisi. Vista dall’altra parte dello sportello però la prospettiva cambia e la cautela si trasforma in un incubo per chi, nella tempesta della crisi, deve mandare avanti una piccola o media impresa.
PEGGIO DEL 2008 E 2009
Per un milione e mezzo di imprenditori accedere a un mutuo, a un finanziamento, avere un fido è una «chimera». Più di un terzo del totale. È la Cna, la confederazione nazionale degli artigiani, con un sondaggio affidato alla Swg, a dare voce al disagio delle imprese: il 78% degli intervistati ritiene sia «forte» la stretta delle banche che
si sono fatte più rigide e severe nel corso del2011 arrivando a superare in peggio il periodo decisamente difficile del 2008 e 2009, quando cioè ebbe inizio la crisi.
Sono oltre 4 milioni le aziende di piccole e medie dimensioni, rappresentano il 95% del totale delle imprese italiane: negargli credito significa mettere in ginocchio una
parte importante del tessuto produttivo del Paese. Oltre che gettare nella disperazione uomini e donne che a volte – è accaduto anche di recente – gettano la spugna e ricorrono anche a gesti estremi di fronte all’impossibilità di farcela. Quasi otto piccoli e medi imprenditori su dieci guardano con preoccupazione al rapporto con le banche attuale e, per la maggioranza degli intervistati, nei prossimi mesi la situazione peggiorerà ulteriormente. Si dicono preoccupati gli imprenditori tanto al Nord quanto al Sud ma scendendo a Mezzogiorno i timori si fanno più forti (l’83%). Tra i settori, è l’edilizia a manifestare maggiore sofferenza (l’82%). Le difficoltà sembrano essere più evidenti per le micro imprese con un numero di dipendenti che va da 1a 9. I criteri applicati per la concessione dei crediti o per l’apertura di linee di credito si sono notevolmente irrigiditi secondo il 56% degli imprenditori.
Anche in questo caso le condizioni più aspre sono quelle evidenziate da chi vive nel Mezzogiorno (66%) e da chi ha un’impresa di costruzioni (70%) mentre le banche
sembrano aver avuto un atteggiamento un po’ più morbido, ma comunque non accomodante, con chi lavora nella pubblica amministrazione (la sottolineatura dell’irrigidimento si ferma al 41%).
PAGAMENTI IN RITARDO
«Le previsioni per il futuro sono nere, anzi nerissime – afferma la Cna – poche le speranze di miglioramento. Anzi, nella maggioranza degli intervistati (58%), è netta la previsione di un peggioramento dei rapporti con le banche. Da un punto di vista di dimensione aziendale, il futuro sembra essere particolarmente critico per le aziende medie (20-49 addetti) e per le micro-imprese». Particolarmente in difficoltà sono
poi le imprese che aspettano fatture della pubblica amministrazione con scadenza a 60 giorni. E qui un altra ricerca mette in luce una piaga tutta italiana, quella dei ritardi dei pagamenti dei fornitori delle amministrazioni pubbliche. «L’attesa dei pagamenti è diventata una vera via crucis», commenta la Cgia di Mestre dopo aver calcolato che i debiti dei soli enti sanitari verso le aziende fornitrici ammontano a circa 40 miliardi. Nei confronti delle imprese private, la Cgia stima infatti che i mancati pagamenti di Asl e Aziende ospedaliere hanno raggiunto, e probabilmente anche superato, la soglia dei 40 miliardi di euro, il 70% dei quali riguarda le strutture ospedaliere del Centro-Sud. Una cifra imponente, che si è accumulata negli anni a seguito dei ritardi con i quali la sanità salda i propri fornitori.
Nel Sud la situazione più drammatica: per quanto riguarda le forniture dei dispositivi medici, nei primi 11 mesi del 2011 i tempi medi di pagamentoin Calabria hanno raggiunto i 925 giorni; 829in Molise; 771 in Campania e 387 nel Lazio. Le oasi più felici, invece, sono le sanità della Lombardia (112 giorni), del Friuli Venezia Giulia (94 giorni) e del Trentino Alto Adige (92 giorni). A livello medio nazionale il dato ha
raggiunto i 299 giorni. Di fronte a questa situazione, la Cgia rivolge un invito al premier Mario Monti, di recepire la direttiva europea che prevede, nelle transazioni commerciali tra imprese e pubblica amministrazione, il pagamento entro 30 o al massimo 60 giorni dalla data di ricevimento della fattura.

L’Unità 08.01.12

"Contratto di inserimento fino a un massimo di tre anni", di Cesare Damiano

La prossima settimana continueranno gli incontri informali del ministro Fornero con le parti sociali. Poi prenderà l’avvio il confronto vero e proprio sui temi dello sviluppo e del mercato del lavoro. Per fortuna appare archiviato il problema relativo alla modalità degli incontri. Lo stesso presidente del Consiglio ha dichiarato che non è sua intenzione dividere i sindacati. È sintomo di saggezza favorire l’unità delle parti sociali. Adesso si tratta di concentrare l’attenzione sui contenuti del confronto e sulla modalità di una concertazione che deve necessariamente avvenire con tempi contingentati. Se è evidente il fatto che non si potranno ripetere i lunghi ed estenuanti riti del passato, è altrettanto ovvio che non sarà sufficiente, in nome dell’Europa, derubricare la concertazione a benevolo ascolto. La ricerca di un compromesso rimane ineludibile, fermo restando il diritto di qualsiasi governo di poter decidere le misure da adottare per quello che si ritiene essere il bene del Paese, anche in assenza di un accordo. Con l’ovvia assunzione di tutte le responsabilità che derivano dalle proprie autonome scelte.
Il punto fondamentale, come sempre, sarà quello della “fase 2”. Noi pensiamo che non possa considerarsi archiviato il tema delle pensioni. Come PD abbiamo presentato, insieme ai partiti che sostengono il governo, due ordini del giorno su questa materia, accolti dall’esecutivo e dal parlamento. Quegli impegni vanno onorati. Del resto, il presidente Monti ne ha fatto cenno riferendosi agli effetti prodotti dalle misure adottate. Effetti che richiedono interventi di tutela per i lavoratori «che resteranno senza lavoro e senza pensione e in altri casi di analoga criticità». Aspettiamo queste misure di correzione. In secondo luogo, occorrerà affrontare il tema della crescita che non può essere disgiunto da quello dell’occupazione. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, riteniamo che il punto di partenza sia rappresentato dagli ammortizzatori sociali. Il nostro Paese deve dotarsi di una rete di protezione inclusiva, capace di tutelare chi non ha il lavoro e chi lo ha perso, intervenendo in pari modo sulle forme di impiego stabili e precarie. La legge delega del governo Prodi, rimasta finora inattuata, rappresenta una traccia importante e condivisa unitariamente dalle parti sociali. In essa si prevede l’unificazione delle varie forme di cassa integrazione e delle indennità di mobilità e disoccupazione. Queste riforme costano: il tema delle risorse si risolve stornando una quota degli ingentissimi risparmi che si sono prodotti e che si produrranno con l’ultima riforma del sistema pensionistico e con quelle precedenti (dal 2004 al 2011 ben quattro interventi sulla previdenza che, secondo Tremonti, produrranno tra il 2015 e il 2050 un risparmio di 39 punti di Pil cumulati: su questo argomento, contenuto nella nota di aggiornamento alla manovra dell’estate scorsa, vidimata dalla Ragioneria, stiamo ancora aspettando un parere pro veritate dell’attuale governo). Abbiamo l’occasione di riequilibrare, in senso europeo, la spesa per il welfare: meno costi pensionistici, più costi per le tutele, secondo i ben noti standard continentali.
Questo punto di partenza va combinato con altre misure fondamentali: il disboscamento della giungla delle forme di impiego flessibili; il ripristino di una norma che tuteli, soprattutto le giovani lavoratrici, dalle dimissioni in bianco; l’adozione dello sconto Irap, già deciso dal governo, alle imprese che assumono a tempo indeterminato giovani e donne: sconto che va reso strutturale ed esteso agli over 50; l’adozione del Contratto unico di inserimento formativo: un periodo di prova con contratto a termine fino ad un massimo di tre anni, concluso il quale venga agevolata, tramite l’Irap o con un credito di imposta, l’assunzione in forma stabile, compresa la tutela dell’articolo 18; la revisione del processo del lavoro che, in caso di contenzioso sul licenziamento, possa adottare una procedura di urgenza. Questa agenda di lavoro può costituire un terreno utile per un confronto capace di imboccare una strada di modernizzazione del paese all’insegna della crescita e dell’equità.
Capogruppo PD commissione lavoro
Camera dei deputati

Il Sole 24 Ore 08.01.12

"Impegni gravosi, il Paese sia coeso", di Dino Pesole

Rigore ed equità. Per Giorgio Napolitano è il binomio indispensabile perché il Paese riesca a far fronte ai «gravosi impegni» cui è chiamato, in primo luogo ai sacrifici imposti a tutti gli italiani dalla manovra. Servono «energie positive» per affrontare le difficoltà imposte dalla crisi anche attraverso una «maggiore e più matura coesione sociale».
L’occasione per ribadire molti dei concetti già espressi con forza nel messaggio di fine anno agli italiani è offerta al presidente della Repubblica dalle celebrazioni del 215mo anniversario del primo Tricolore. Nella lettera inviata al sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio, rivolta anche al presidente del Consiglio, Mario Monti e ai cittadini di Reggio, Napolitano ricorda che proprio un anno fa, il 7 gennaio 2011, rinnovò il suo appello «a fare delle celebrazioni del 150mo anniversario dell’unità d’Italia un importante percorso di approfondimento e di riflessione comune sul lungo processo storico di costruzione dell’unificazione e sui valori che lo hanno contrassegnato».
Il bilancio che il Capo dello Stato ne ha tratto in diverse occasioni, da ultimo appunto nel messaggio di fine anno, è molto incoraggiante. In giro per l’Italia ha colto un po’ ovunque una grande partecipazione, un senso di appartenenza e di coesione che ora gli paiono dei preziosi punti di forza. «Gli eventi organizzati in tutta la penisola per questa ricorrenza – aggiunge – grazie ad una grande mobilitazione popolare, segno di un ritrovato orgoglio nazionale, hanno avuto come riferimento più immediato e percepibile la bandiera, che i Costituenti non a caso scelsero come vessillo della repubblica».
In un momento di acuta crisi economica, come quello che stiamo vivendo, Napolitano invita a non sottovalutare «questa tensione verso una maggiore e più matura coesione sociale». Proprio le fasi di crisi esasperano gli egoismi e la stessa tenuta sociale è messa a dura prova. Ma per il Capo dello Stato il Paese ha le energie per uscirne a testa alta, come accadde – ripete – in altri periodi molto critici della nostra storia, a partire dagli anni tragici del terrorismo.
Conclusosi il breve periodo di riposo trascorso a Napoli, Napolitano è tornato a Roma in contemporanea con il nuovo giro di incontri europei dei presidente del Consiglio. Come emerso chiaramente nel corso del colloquio tra Monti e il presidente francese, Nicolas Sarkozy, il ruolo che l’Italia può giocare in questa fase a livello europeo appare di grande importanza. Napolitano lo ha già registrato con grande favore, quando ha messo in luce il nuovo ruolo acquisito dall’Italia sullo scenario internazionale. La manovra era necessaria, ora occorre spingere il pedale sulla cosiddetta «fase due».
C’è massima attenzione da parte del Colle alle misure che il governo sta per mettere a punto sul fronte delle liberalizzazioni e del mercato del lavoro. La priorità è la crescita – ribadisce il presidente della Repubblica – nella consapevolezza che lo scenario entro cui muoversi non può che essere prima di tutto europeo.
Il presidente del Consiglio ha «la necessaria autorevolezza in Europa» per contribuire alla messa a punto delle necessarie strategie comuni, ha osservato Napolitano. Si guarda sia alle trattative in corso per le modifiche all’accordo intergovernativo sulla disciplina di bilancio approvato il 9 dicembre dal Consiglio europeo, sia ai decisivi appuntamenti dell’Eurogruppo del 23 gennaio e del nuovo summit dei capi di Stato e di governo in programma il 30 gennaio a Bruxelles. L’Italia «ha fatto e sta facendo la sua parte», va ripetendo Napolitano, ora la risposta alla crisi non potrà che essere europea.

Il Sole 24 Ore 08.01.12

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“Le nuove regole del lavoro favoriscano la crescita economica. Avanti i controlli (rispettosi) contro l’evasione” , di Fabrizio Forquet

L’Italia sta facendo la propria parte e continuerà a farla, ma potrà proseguire ancora meglio il proprio percorso di risanamento e crescita se l’Europa farà presto la sua di parte. Compiti a casa e lavoro comune: proprio come un buon preside Mario Monti sa che la classe Europa porterà a termine il suo programma e si tirerà fuori dalle sue difficoltà se ci sarà sinergia tra l’azione interna dei singoli Paesi e quella comune di cui si dovrà far carico l’Unione europea.

È con questa convinzione che il premier, incontrando venerdì scorso Nicolas Sarkozy, ha avviato i colloqui che lo vedranno nel giro di 15 giorni incontrare prima Angela Merkel, poi David Cameron e infine ancora il presidente francese e il Cancelliere tedesco in un triangolare a Roma. Un’agenda che è già il segnale della credibilità riconquistata dell’Italia. Ma ora quella credibilità va spesa e fatta fruttare.
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Per farlo, Monti ne è convinto, «non possiamo pensare di andare da Francia e Germania e dire: noi abbiamo fatto la nostra parte, ora tocca a voi». «No – ripete Monti nel preparare con i suoi collaboratori i futuri incontri -, non è quello l’approccio giusto. Qui ciascun Paese ha fatto delle cose, e noi certamente ne abbiamo fatte tante, credo davvero più di ogni altro, ma tutti dobbiamo continuare a fare i nostri compiti e in più tutti dobbiamo prendere insieme le misure necessarie a livello europeo».

Misure fondamentali queste ultime. Da approvare «in tempi rapidi». Perché solo l’azione comune a difesa dell’euro potrà produrre un significativo abbassamento dei tassi, aiutando i singoli Paesi sulla strada del consolidamento dei propri conti.

«L’Italia – osserva Monti – ha fatto diverse manovre nel 2011 e con il decreto di dicembre ha raggiunto un consolidamento davvero strutturale dei conti pubblici. Anche venerdì scorso in Francia abbiamo potuto constatare l’ammirazione che c’è in Europa per gli sforzi fatti. Ma non per questo ora possiamo fermarci». C’è l’operazione crescita da avviare, «che si articolerà in una serie di provvedimenti da approvare nei prossimi due mesi e in parte entro il 23 gennaio: liberalizzazioni, infrastrutture, riforma del mercato del lavoro su tutto».

Ma contemporaneamente «dobbiamo lavorare insieme ai nostri partner europei, tra Commissione e Consiglio, per migliorare quello che non ha funzionato nella governance dell’eurozona». Lavori, quello interno e quello europeo, tra i quali – insiste Monti – c’è una stretta relazione. Ed è proprio il caso italiano ad evidenziarlo.

«La convinzione con cui la nostra opinione pubblica potrà aderire alle misure che abbiamo varato e che proporremo a breve sarà tanto più forte se saranno visibili i frutti di quelle misure. E i frutti saranno visibili se i tassi di interesse scenderanno dall’attuale 7 per cento, un tasso ancora eccezionalmente elevato. Ma cosa deve accadere perché ciò avvenga?».

Il Sole 24 Ore 08.01.12

"I patrimoni italiani in poche mani quasi la metà al 10% delle famiglie", di Maurizio Ricci

Tassate i ricchi! Con le pensione, l’appello ad una severa imposta patrimoniale è stato uno dei temi più dibattuti in questi mesi, suscitando passioni che sembravano scomparse dalla scena politica, dino a indurre anche parecchie vittime potenziali della tassa a rivendicarne l’attuazione.

La crisi ha, infatti, messo a nudo un rancore crescente verso l´ineguaglianza sociale e verso il paradosso che vede l´Italia come uno dei paesi più ricchi del mondo, senza che questo venga riconosciuto nell´esperienza quotidiana. Un paese ricco, abitato da poveri, si è detto. Per sciogliere il paradosso, bisogna rispondere a due domande. Quanti sono i ricchi, in Italia? E quanto sono ricchi?

PORTAFOGLIO GONFIO
La risposta è che una delle duecentomila famiglie di straricchi, in Italia, ha, in media, un patrimonio che vale 65 volte quello di cui dispone una qualsiasi della maggioranza delle famiglie italiane. In termini statistici complessivi, non sembra una gran novità: l´Italia era un paese più egualitario negli anni ‘70 e ‘80, ma, dai primi anni ‘90, è andata avvicinandosi agli squilibri sociali tipici di paesi come Usa e Gran Bretagna. Negli ultimi vent´anni, tuttavia, la situazione è rimasta, più o meno, stabile. Questo, però, è uno dei tanti miraggi delle statistiche. Due fattori hanno profondamente modificato, in quantità e qualità, la piramide sociale italiana. Il primo è che, avvertono gli studi della Banca d´Italia, si è aperta una spaccatura verticale: un travaso progressivo di ricchezza, dai lavoratori dipendenti agli autonomi: imprenditori, liberi professionisti, commercianti. Il secondo è il lungo ristagno dei redditi, che ha svuotato e affondato i ceti medi. Quando si sono accorti di non essere affatto sulla strada per diventare ricchi, anche nei ceti medi si è risvegliata l´insofferenza verso gli squilibri sociali.

QUATTRO VOLTE IL DEBITO
Secondo le indagini della Banca d´Italia, la ricchezza netta degli italiani (tolti, cioè, mutui e prestiti) era pari, nel 2010, a 8.640 miliardi di euro. Una cifra imponente, pari ad oltre quattro volte la montagna del debito pubblico. In media, significa una ricchezza di poco inferiore a 400 mila euro, per ognuna dei 24 milioni di famiglie italiane. Ma, naturalmente, quei 400 mila euro sono il consueto miraggio statistico. Il 50 per cento delle famiglie italiane possiede, infatti, dice sempre Via Nazionale, meno del 10 per cento di tutta quella ricchezza. Ovvero, 12 milioni di famiglie si spartiscono, in realtà, un patrimonio di non più di 860 miliardi di euro. Questi 12 milioni di famiglie più povere costituiscono quelli che i sociologi di una volta avrebbero definito ceti popolari. Un termine che, con il progressivo svanire di operai e contadini, è diventato sempre più sfuggente e che, oggi, probabilmente, comprende soprattutto impiegati, insegnanti e la massa dei precari. In media, la ricchezza di ognuna di queste famiglie è di 72 mila euro in tutto, al netto di mutui e prestiti, ma casa e risparmi compresi.
L´altra metà degli italiani ha, invece, le mani su quasi 8 mila miliardi di euro. Ma non è così che va vista la divisione della torta. Al di sopra dei ceti popolari e dei ceti medi in via di affondamento ci sono, elaborando i dati della Banca d´Italia, quelli che possiamo chiamare ceti medi benestanti. Circa 9 milioni 600 mila famiglie, il 40 per cento del totale, che controlla il 45 per cento della ricchezza italiana: 3 miliardi 880 milioni di euro. In media, ognuna di queste famiglie benestanti ha un patrimonio, fra case e investimenti finanziari, pari a 405 mila euro.

AL VERTICE DELLA PIRAMIDE
Da qui in su, si entra nel mondo dei ricchi. Il 10 per cento delle famiglie italiane, cioè circa 2 milioni 400 mila famiglie, controlla il 45 per cento dell´intera ricchezza nazionale. Quanto 10 milioni di famiglie benestanti e oltre quattro volte quello di cui dispone la metà meno fortunata del paese. Sono gli altri 3 miliardi 880 milioni di euro di ricchezza che ancora mancavano al totale. In media, ognuna di queste famiglie ricche ha un patrimonio di 1 milione 620 mila euro, oltre 22 volte la ricchezza di quella metà d´Italia che sono le famiglie dei ceti popolari.
Ma sono davvero questi i ricchi italiani? O ci sono anche gli straricchi? La risposta è che gli straricchi ci sono, sono pochi, ma hanno abbastanza soldi da modificare profondamente la mappa sociale del paese. Proviamo, infatti, a togliere l´1 per cento di famiglie più ricche – gli straricchi – dal plotone del 10 per cento di ricchi. Il 9 per cento di ricchi che è quasi in cima, ma non ci arriva, corrisponde a 2 milioni 160 mila famiglie. Il loro patrimonio complessivo è pari a 2.765 miliardi di euro, un terzo della ricchezza nazionale. In media, ognuna di loro dispone di un solido patrimonio, pari a 1 milione 280 mila euro.
Infine, l´1 per cento di straricchi: meno di 240 mila famiglie. Fa capo a loro il 13 per cento dell´intera ricchezza italiana, ovvero oltre 1.120 miliardi di euro, almeno quelli rintracciabili nel catasto e nelle banche nazionali. In media, ognuna di queste famiglie straricche dispone di un patrimonio di poco inferiore a 4 milioni 700 mila euro.
Non basta, insomma, essere un paese in cui l´80 per cento delle famiglie è proprietaria della casa in cui vive per riequilibrare la piramide rovesciata della ricchezza nazionale. Del resto, le abitazioni (che, nelle indagini della Banca d´Italia, vengono valutate a prezzo di mercato) costituiscono la parte maggiore della ricchezza nazionale, ma non di molto: quasi 5 miliardi di euro su un totale di 8.640 miliardi. Una eventuale patrimoniale sui soli grandi patrimoni immobiliari escluderebbe quasi 3.600 miliardi di euro di investimenti finanziari che, si deduce dalle indagini a campione di Via Nazionale, sono più comuni e frequenti, man mano che si sale nella scala della ricchezza. I dati disponibili non consentono di ripartire questi investimenti fra benestanti, ricchi e straricchi. Permettono, però, di abbozzarne una geografia, anche se monca: i dati si riferiscono a quanto è depositato e investito presso banche italiane. Di quanto si trova in Svizzera o in Lussemburgo, sappiamo molto poco.

NEI FORZIERI BANCARI
Ci sono, dunque, quasi mille miliardi di euro depositati nei conti presso le poste o le banche italiane. Non si tratta solo di soldi parcheggiati per le piccole necessità quotidiane. Il 30 per cento di quei mille miliardi – esattamente 276 miliardi di euro – è depositato in conti fra i 50 mila e i 250 mila euro. Un altro 13 per cento, circa 120 miliardi di euro, si trova in conti che superano i 250 mila euro. Chi tiene tutti questi soldi in banca? Non lo sappiamo. Al massimo, dice l´aritmetica, mezzo milione di persone ha un conto in banca almeno di 250 mila euro. Probabilmente, sono assai di meno. Se, per pura ipotesi, supponessimo che ne sono titolari le 240 mila famiglie straricche, ne ricaveremmo che ognuna di loro ha, in media, mezzo milione di euro sul conto in banca.
Poi ci sono i titoli. Fra azioni, obbligazioni e fondi comuni, ci sono oltre 1.500 miliardi di euro depositati nei conti titoli delle banche italiane. Un terzo è piccolo risparmio, cioè conti titoli inferiori a 50 mila euro. Un altro terzo, è risparmio, per così dire, benestante: titoli fra i 50 mila e i 250 mila euro. Poi ci sono 150 miliardi di euro, investiti in titoli per 250-500 mila euro. Il risparmio, probabilmente, si ferma qui. Il resto è investimento ed è un salto: 300 miliardi di euro in conti titoli superiori a 500 mila euro. Roba da straricchi.

La Repubblica 08.01.12

"Basta demagogia sulla riscossione dei tributi", di Marco Causi

Riscuotere le tasse è un mestiere difficile. Su Equitalia, però, vanno respinte facili demagogie e sottolineate alcune scomode verità. E va ricordato che il decreto Salva Italia contiene importanti misure che ne migliorano il rapporto con il contribuente e ne riducono i costi. Misure, peraltro, ulteriormente migliorabili. No alla demagogia. Equitalia nasce nel 2005 e rende pubblica la riscossione coattiva dei tributi. In precedenza il settore era gestito da 36 società concessionarie, di proprietà di 54 banche e di 35 soggetti privati, operanti in 94 ambiti provinciali con strutture e metodologie spesso differenti fra loro e con forte insoddisfazione del cliente del servizio, e cioè delle amministrazioni pubbliche.
Vincenzo Visco commentò così la riforma: «La riscossione coattiva è una funzione pubblica ed è quindi giusto che venga nazionalizzata». Insomma, non è ammissibile alcuna incertezza, soprattutto da parte di chi riveste responsabilità politiche, nella difesa della riscossione pubblica. Equitalia può e deve migliorare, ridurre i costi, migliorare la qualità, ma i suoi addetti svolgono una funzione fondamentale per l’intera collettività. Gli incassi derivanti dai ruoli gestiti da Equitalia sono aumentati da 3,8 a 8,9 miliardi fra il 2005 e il 2010, un dato lusinghiero in termini di efficacia della riforma del 2005. Non si tratta però di «proventi della lotta contro l’evasione», come spesso è stato propagandato dal precedente governo, perché le somme iscritte a ruolo sono importi già accertati, che il contribuente deve soltanto pagare (a meno di errori). La lotta all’evasione avviene in una fase precedente a quella del pagamento delle tasse, e cioè nella fase dell’accertamento dei redditi e dei volumi d’affari effettivi. Non si tratta neppure di grandissimi numeri. Anzi, se si tiene conto che Stato e Inps girano a Equitalia ruoli oscillanti ogni anno fra 45 e 50 miliardi, sui quali i pagamenti ottenuti in sede di riscossione sono nel 2010 di 7,4 miliardi (degli 8,9 miliardi di incassi 2010, 1,4 appartengono a ruoli di enti non statali, in particolare enti locali e regioni), ci si rende facilmente conto che le percentuali effettive dei pagamenti sugli importi teoricamente dovuti sono basse, molto al di sotto del 10 per cento di ciascun ruolo annuale. Qui intervengono molti fattori: i ruoli possono essere “sporchi”, e l’amministrazione finanziaria deve aumentare la sua efficienza anche nel riconoscere gli errori; il debitore può essere in oggettivo stato di difficoltà finanziaria, e avere davvero difficoltà a pagare, soprattutto in questi anni di grande crisi economica.
Il decreto Salva Italia ha introdotto tre rilevanti novità, passate finora sotto silenzio.
Primo, in presenza di un comprovato stato di difficoltà finanziaria sarà possibile rateizzare i pagamenti (una facoltà già prevista fin dall’ultimo decreto “mille proroghe” del governo Prodi) fino a 72 mesi, e cioè per un periodo di ben sei anni.
Secondo, il piano dei pagamenti non dovrà essere necessariamente a rata costante, e sarà quindi possibile una rateizzazione crescente, che impatti meno in questa fase di crisi e scommetta sul ripristino di migliori condizioni nel corso dei sei anni.
Terzo, viene superato il sistema dell’aggio esattoriale, che Equitalia ha ereditato dai
vecchi concessionari privati ma che è ormai incongruo con la sua natura pubblica. Al posto dell’aggio viene introdotto il diritto al rimborso dei costi, con una formula molto simile a quella del “price cap” riconosciuto ai gestori di qualsiasi servizio pubblico e con l’obiettivo scritto in legge di una riduzione dei costi a carico del contribuente. Unico neo: si prevede che la sostituzione del sistema dell’aggio avvenga fra due anni. È decisamente un po’ troppo, e va chiesto al governo lo sforzo di attuare questa importante misura entro il 2012. Per completare la riforma, infine, occorre investire con intelligenza sulla ristrutturazione organizzativa di Equitalia, già in fase di attuazione, e sciogliere i nodi, ancora abbastanza ingarbugliati, dei suoi rapporti con gli enti locali.

L’Unità 08.01.12

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“PARASSITI FISCALI”, di Domenico Rosati

Comunque lo si giudichi, l’episodiodi Cortina che ha portato alla scoperta di un popolo di poveri in fuoriserie, ha prodotto un effetto-verità mettendo a fuoco l’esistenza e la consistenza politica (un partito, una lobby, una loggia?) del favore di cui hanno godutoe godono in Italia gli evasori fiscali. C’è uno scarto tra gli spot coniati dall’ultimo Tremonti che raffigurano l’evasore fiscale come un “parassita della società” e certe reazioni, tra lo scomposto e l’impudico, di quelli che ne hanno assunto il patrocinio. Se parassita è colui che vive sulle fatiche altrui, ci si dovrebbe rallegrare quando si riesce a neutralizzarne qualcuno. E invece si leva alto il compianto per il carattere “persecutorio” che l’atto dovuto che lo smaschera assumerebbe quando fa titolo sui telegiornali. Se questo accade, significa che si è toccato un nervo sensibile e si è penetrati in un “non detto” della realtà italiana che da tempo è abituata a convivere con quella peculiare “struttura di peccato” consistente nel non pagare le tasse. Pare che i cittadini dell’Urbe trovassero sempre un buon motivo per farlo: una volta perché comandava il Papa e una volta perché comandavano i carcerieri del Papa. Ma l’abitudine è dovunque estesa e radicata. E c’è sempre una scusante: dalla iniqua “tassa sul macinato” imposta anche ai cafoni dopo l’Unità, al prelievo forzoso sui depositi bancari legato al nomedi Giuliano Amato, il film non cambia: c’è un potere prevaricatore che “spreme il limone” del popolo. E questo, giocoforza, si difende con la frode e l’inganno. Il tutto è poi diventato dottrina con l’affermazione per cui, oltre una certa soglia di prelievo, il sottrarsi ai doveri fiscali sarebbe legittima difesa. Ed è giusto ricordare il momento in cui, nello scorso agosto, Berlusconi confessò che il suo cuore sanguinava per aver dovuto, smentendo se stesso, “mettere le mani nelle tasche degli italiani”.
Tutto questo dà risalto al discorso con cui il Presidente Monti ha esposto un vero mutamento di paradigma con il proposito, rovesciato, di mettere le mani nelle tasche degli evasori e quindi con na netta inversione di rotta rispetto alla linea morbida tenuta dai governi, eccezion fatta per la breve stagione di Visco. Si tratta di un’opzione che appare credibile sia per l’introduzione di alcuni strumenti innovativi d’accertamento delle infrazioni e sia – soprattutto – per il rifiuto di calcolare a scomputo del debito i proventi del contrasto all’evasione, come s’era tentato di fare in estate alimentando la diffidenza europea. L’impressione è dunque che su questo capitolo il disegno governativo appare serio e, quel che più conta, viene preso sul serio, come mostra la prova empirica della moltiplicazione di scontrini e ricevute fiscali a ridosso del Capodanno in Cadore. Ma se è vero che la trasgressione dei “doveri inderogabili di solidarietà” ha forti radici, non basterà una passata di pettine per eliminare i parassiti. Soprattutto si dovrebbero attivare sul tema tutti i centri in grado di concorrere ad una grandiosa opera di pedagogia civica. Tutti. Una volta Romano Prodi lamentò che i parroci non facevano prediche sull’argomento; e nel Dizionario della Dottrina Sociale della Chiesa si legge che “il magistero non si è mai pronunciato in modo sistematico sulle questioni tributarie”. Eppure, movendo dal comandamento del non rubare, si può giungere a quanto affermato ultimamente dal Presidente della Cei a proposito di “questo cancro sociale” che sta “soffocando l’economia e prosciugando l’affidabilità civile delle classi più abbienti”. Uno spunto da non archiviare.

L’Unità 08.01.12

"Il capitale umano che manca all'Italia", di Paolo Conti

Siamo tra gli ultimi per diplomati e laureati. Peggio di Estonia e Polonia. «Il 54% della popolazione ha un titolo di diploma nel nostro Paese, contro una media Ocse del 73%. È troppo poco. Dobbiamo studiare di più. Se l’Italia cresce meno di altri Paesi europei dobbiamo migliorare il nostro capitale umano». Parole di Mario Monti a Reggio Emilia, durante la festa del Tricolore. Le cifre dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, sono chiarissime. Solo il 54% degli italiani tra i 25 e i 64 anni ha ottenuto un diploma di scuola media secondaria. La media Ocse è del 73%: ma siamo lontanissimi non solo dall’85% della Germania, dall’88% del Canada, dall’89% degli Stati Uniti ma anche dal 91% della Repubblica Ceca, dall’89% dell’Estonia, dall’88% della Polonia. Nelle nuove generazioni, fascia 25-34, noi italiani siamo ancorati a un non esaltante 70%.
Commenta il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo: «Scontiamo un pregresso di bassa scolarità nella fascia alta della popolazione. Tra i 19-25 approdiamo finalmente all’81% di diplomati. Un primo intervento deve riguardare l’orientamento, per cercare di limitare al massimo la dispersione scolastica. Bisogna fornire nuove modalità per orientare le scelte, optando per percorsi coerenti con le aspettative ma anche con le caratteristiche personali. E sarà necessario informare i giovani sulle ricadute occupazionali delle loro scelte». Poi Profumo pensa a «un tutoraggio nelle fasi transitorie dei cambiamenti di livello di istruzione, medie-superiori e superiori-università. Questi passaggi avvengono nell’età critica dell’adolescenza, quando i percorsi personali sono meno chiari. Quindi un tutoraggio attento, rivolto non solo ai contenuti della didattica ma soprattutto alla necessità di insegnare ai giovani metodi, organizzazione del lavoro di studio e, insieme, un ascolto delle problematiche legate alla loro crescita».
Profumo progetta «un intervento deciso nelle aree di difficoltà che non si trovano soltanto al Sud, ma anche nelle grandi aree urbane». Il ministro sottolinea che «qui si concentra maggiormente l’abbandono scolastico che si sovrappone maggiormente proprio con le aree di maggiore povertà. Sarà necessaria una maggiore integrazione tra scuola dell’obbligo e superiore che potrebbe essere in molti casi di tipo professionale, verticalizzando in un solo plesso più gradi di istruzione (per dare riferimenti certi e continuità a ragazzi che non li hanno in casa e nella società) e fornendo agli studenti delle professionalità specifiche. Così si potrà dare continuità formativa e un mestiere (il cuoco, l’idraulico, il falegname, l’elettricista, l’elettrauto)».
Scuola e formazione. Un binomio che Claudio Gentili, direttore Education di Confindustria, studia da anni: «La carenza di capitale umano di cui giustamente parla il presidente Monti ha motivazioni storiche. Per questo non basta dire che ci sono pochi diplomati. Bisogna parlare anche di “quali” diplomati. Nel 1993 l’industria italiana, ogni 100 assunzioni, richiedeva solo 11 tecnici, in Germania erano 17. Oggi ne chiede ben 22. Eppure vent’anni fa su 100 ragazzi solo 20 sceglievano un liceo e 45 un’istruzione tecnica, oggi siamo con 42 al liceo e solo 33 a un istituto tecnico. E così ci ritroviamo con una gran mole di disoccupati in un’area di “genericismo indeciso” dell’istruzione e con industrie che non trovano tecnici. Urge un migliore orientamento migliorando ovviamente la qualità dell’istruzione anche tecnica».
Attilio Oliva, presidente di TreeLLLe-per una società dell’apprendimento continuo (che da anni si occupa di miglioramento della qualità dell’education) invita a osservare il problema da un’altra prospettiva: «Le cifre sulle nuove generazioni dovrebbero spingerci a un moderato ottimismo. Ma sarebbe un errore. Lo scarto con gli altri Paesi in termini di capitale umano misurato con i titoli di studio diventa più spaventoso se calcoliamo che il 20-25% dei ragazzi esce dalla scuola senza alcun titolo di studio mentre la media europea è del 10-15% con l’obiettivo di ridurlo all’11% secondo la strategia di Lisbona. Una catastrofe. Si prova sgomento pensando che nel 2020, secondo le proiezioni del Cedefop, il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale, in Italia il 37% delle forze di lavoro avrà un basso livello di qualificazione, contro il 20% dell’Europa. Avrà livelli alti di qualificazione solo il 18% della forza di lavoro italiana, contro il 32% dell’Europa».
Un’Italia condannata a diventare un fanalino di coda? Oliva vorrebbe cavarsela con una battuta: «Difficile rimanere troppo a lungo ricchi e ignoranti… Ricordo che nell’era laburista in Gran Bretagna si diceva: the more you learn, the more you earn, più sai e più guadagni». Proposte per una soluzione? «I ragazzi e le famiglie dovrebbero responsabilizzarsi, analizzare le prospettive e comportarsi di conseguenza. In quanto ai governanti, dirò questo. Abbiamo una scuola antichissima che ha strutture, programmi e metodi identici ai tempi in cui l’istruzione riguardava il 20% della popolazione. Per esempio l’uso del computer e l’approccio verso le nuove tecnologie è ridottissimo. E i dipendenti di quel settore, più di un milione, sono governati senza alcuna tecnica del personale ma in modo egualitario e burocratico senza selezione, formazione, prospettiva di carriera, incentivi. Di conseguenza la qualità dell’insegnamento è troppo modesta, ed eccone i risultati».
Dice Tullio De Mauro, linguista, ex ministro dell’Istruzione: «Sono lietamente sorpreso che un capo del governo italiano analizzi questo aspetto del nostro sviluppo. Come uscire dalla crisi? Investendo nella qualità degli insegnanti e nella stessa edilizia scolastica. Ma vorrei aggiungere un dato che proprio l’Ocse ci contesta da anni: la completa mancanza di educazione per gli adulti. Quando si esce dalla scuola fatalmente si regredisce. Il risultato è che il 71% degli italiani adulti non è in grado di leggere correntemente un documento, un giornale, meno che mai un libro. Monti, che conosce l’Europa dove certe cose funzionano, lo sa. Basterebbe un piccolo investimento per tenere aperte le scuole nel pomeriggio e organizzare corsi di varie discipline per “rieducare” quegli adulti ancora attivi ma condannati a una progressiva, inesorabile marginalità culturale e sociale».
Parla anche Andrea Caradini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, da sempre fautore della meritocrazia e animatore sul Corriere della Sera di polemiche sul basso livello dell’istruzione in Italia: «Monti ha tutte le ragioni e finalmente questo governo apre un capitolo nuovo che da tempo andava affrontato. L’Italia non ha mai avuto un vero progetto culturale. Quindi: qual è il ruolo della conoscenza nel nostro futuro sviluppo economico? E quale contributo può dare la produzione culturale alla crescita del Paese?».

Il Corriere della Sera 08.01.12