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"Mezza Pompei sta per crollare", di Giuseppe Salvaggiulo

Ciò che più allarma dell’ultimo crollo a Pompei è che la Domus di Loreio Tiburtino, di cui il 22 dicembre ha ceduto un pilastro del pergolato esterno, non è nemmeno tra quelle considerate più fragili. Emerge dalla «Carta del rischio archeologico», realizzata nei mesi scorsi dalla soprintendenza e inviata al ministero dei Beni Culturali. Una mappa divisa in tre colori: rosse le zone a rischio crollo alto (oltre il 50% delle possibilità), azzurre a rischio medio (intorno al 50%), gialle a rischio basso (sotto il 50%). Secondo una stima della stessa soprintendenza, «l’area messa in sicurezza è passata dal 14 per cento degli anni ‘90 al 31 per cento del 2010».

La Domus di Loreio Tiburtino è situata nella parte relativamente più sicura, a est verso l’anfiteatro, contrassegnata dal colore azzurro e circondata da ampie aree gialle. Eppure ha ceduto. Per questo rappresenta un paradigma della fragilità di Pompei. Spiega la soprintendente Teresa Elena Cinquantaquattro: «Non c’erano indizi sui pilastri. È la malta che ha perso forza legante e si è sciolta. Si tratta di fenomeni invisibili e imprevedibili. Se vedi una fessura dici: è a rischio. Invece se collassa, te ne accorgi solo dopo».

L’ultimo studio Il documento è l’esito di un monitoraggio avviato un anno fa dopo il crollo della Scuola dei gladiatori per «evidenziare tutte le situazioni ad alto rischio di cedimento sull’intero tessuto urbano (…) al fine di programmare interventi conservativi mirati». Per ogni unità abitativa, i tecnici della soprintendenza hanno analizzato «lo stato di conservazione degli elementi strutturali portanti, delle strutture murarie, degli architravi, dei solai, delle coperture, dei rivestimenti su pareti e pavimenti». Rilievi e fotografie sono stati trasposti in un database informatico.

«Una rapida occhiata alla carta del monitoraggio del rischio archeologico evidenzia un organismo urbano in fortissima sofferenza», scrive la soprintendenza. L’area degli scavi viene divisa in zone numerate. «L’entità del problema appare meno cogente nella zone 1 e 2 mentre gravi fenomeni di degrado interessano le zone 5, 6, 7 e 9, sulle quali negli ultimi anni le risorse disponibili hanno consentito di procedere unicamente con interventi puntuali e non in maniera sistematica».

Primi interventi Eppure proprio nella zona dove il problema era considerato «meno cogente» si trova la Domus di Loreio Tiburtino che ha ceduto dieci giorni fa. L’evento rafforza la conclusione consegnata mesi fa dalla soprintendente al ministero: «vasti ed eterogenei fenomeni di degrado, occorre intervenire con urgenza e in maniera diffusa».

Sulla base di questo monitoraggio, la soprintendenza ha avviato restauri per 1,2 milioni di euro, scegliendo le zone più fragili e fruibili al pubblico. «Ma è come svuotare il mare con un secchiello», sospira la soprintendente. Fare la manutenzione di una città di 45 ettari e duemila anni è «un lavoro che non finisce mai». Dopo i crolli degli ultimi mesi, il ministero ha approvato il piano straordinario per Pompei. Che prevede innanzitutto un nuovo e più specifico monitoraggio, peraltro lungo e costoso, come base per gli interventi. E i soldi? Per quanto «ricca» grazie allo statuto speciale e agli incassi dei 2,3 milioni di biglietti staccati ogni anno, la soprintendenza non ne ha a sufficienza. Dopo mesi di annunci e promesse, è arrivata in soccorso l’Unione europea con 105 milioni di euro.

Con questi soldi, che saranno accreditati nei prossimi mesi, il piano straordinario può partire. Il nuovo monitoraggio durerà dal 2012 al 2014 e farà da guida ai restauri. La soprintendenza ne ha già una trentina nei cassetti, finora bloccati per carenza di quattrini. La previsione è di metterli a gara non prima dell’estate. Dunque i lavori partiranno nel prossimo autunno.

Il 2 gennaio hanno preso servizio i sospirati nuovi assunti. In questo caso, l’attesa è stata solo parzialmente ripagata: 9 architetti (in tutto diventano 16), 13 archeologi (ce n’era solo uno!) e un funzionario amministrativo. «Un’iniezione di energia indispensabile», spiega la soprintendente. Continuano a mancare geometri per seguire i cantieri (incarico fondamentale) e custodi. Ora sono solo 30 per ciascun turno su una superficie di 40 ettari.

Un anno dopo E’ passato oltre un anno dal crollo della Scuola dei gladiatori, definito dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «vergogna per l’Italia». All’epoca, si gridò che bisognava fare tutto e subito per «salvare Pompei». Dopo un anno sono arrivati venti funzionari. Ci vorranno tre mesi per i quattrini e un altro anno per far partire i restauri straordinari. Sui contributi finanziari privati siamo fermi agli annunci. Insomma, né tutto né subito.

La Stampa 05.01.12

"Così la Svizzera mantiene il segreto", di Andrea Manzitti

Per recuperare nuove risorse, il governo Monti è stato invitato da più parti a concludere un accordo anti-evasori con la Svizzera, simile a quelli recentemente firmati dalla Germania e dal Regno Unito. Ma il rifiuto dell’esecutivo italiano è giusto. Perché l’accordo tedesco, in fin dei conti, non è altro che uno scudo fiscale. E il testo è pieno di altri trappoloni più o meno visibili, che lo rendono molto conveniente per la Svizzera e le sue banche. Tanto che meriterebbe un esame di conformità all’acquis comunitario da parte della Commissione.

L’affannosa ricerca di nuove risorse per alleviare il rigore della manovra Monti ha curiosamente portato parlamentari di forze politiche assai diverse a invocare a gran voce che l’Italia concluda un accordo con la Svizzera come quelli recentemente firmati dalla Germania e dal Regno Unito. Il ministro Giarda ha spiegato al Parlamento che quegli accordi sono contrari all’acquis comunitario e alla direttiva Risparmio e che non intende seguire la via aperta da tedeschi e inglesi.
La posizione del governo italiano è in perfetta continuità con quelli di tutti i governi che, in Europa e all’interno dell’Ocse, hanno sostenuto gli sforzi della comunità internazionale – Svizzera esclusa – verso l’abolizione del segreto bancario.

UNO SCUDO TEDESCO

Al di là di considerazioni politiche, proporre alla Svizzera un patto come quello tedesco o inglese non è solo inopportuno, ma è anche controproducente.
I due accordi sono sostanzialmente identici. Qui faccio riferimento a quello tedesco, ipotizzando che entri in vigore nel termine più breve possibile, cioè il 1° gennaio 2013.
L’accordo prevede che nel 2013 le banche svizzere dovranno richiedere alle persone fisiche residenti in Germania che hanno conti presso una banca svizzera di pagare alla banca svizzera una “somma” parametrata ai loro capitali che saranno ancora depositati in Svizzera il 31 maggio 2013. La somma da pagare è variabile in relazione all’anzianità del deposito e verrà girata in modo anonimo al fisco tedesco. In caso contrario, le banche gli forniranno –tramite le “autorità competenti” – nome e numero del conto.
A chi deciderà di pagare, la banca consegnerà un certificato con tutti i dati dell’operazione. In caso di un successivo controllo fiscale in Germania su redditi e capitali svizzeri basterà esibire il certificato per evitare imposte, sanzioni e interessi. Le banche verseranno le somme così raccolte a una società svizzera di nuova costituzione che consegnerà il denaro al fisco tedesco per il tramite delle competenti autorità svizzere.
Lo si chiami come si vuole: un italiano mediamente istruito da decenni di sanatorie di ogni genere troverà tutte le caratteristiche del nostro “condono tombale” e del nostro “scudo fiscale”.
Le aliquote negoziate tra Germania e Svizzera appaiono (almeno nominalmente) più elevate di quelle del nostro scudo fiscale, ma la sostanza è la stessa. L’unica vera differenza è che la Germania non avrà alcun modo di controllare se le banche svizzere si sono comportate secondo gli accordi.
La “fregatura” però è un’altra: se un residente tedesco non vuole pagare nulla e vuole continuare a restare anonimo può tranquillamente mandare i suoi soldi in un’altra banca fuori dalla Svizzera. Anche presso una filiale estera della sua banca svizzera preferita. Basta che lo faccia prima del 31 maggio 2013. Passata la buriana, i capitali potranno tornare alla banca svizzera. In questo caso, il puntiglioso accordo tedesco prevede che, con grande sforzo di trasparenza, la Svizzera comunicherà alla Germania il numero dei tedeschi che hanno lasciato le banche svizzere e il nome dei primi dieci Paesi esteri beneficiari del flusso di denaro in uscita. Nomi dei clienti? Nessuno.
Si noti bene che il regime si applica solo ai capitali tedeschi che (a) erano in Svizzera almeno dal 10 ottobre 2011 e (b) continuano a essere custoditi in quel paese il 31 maggio 2013. Per i capitali tedeschi che arriveranno dopo quella data, come per quelli pre-esistenti e decurtati dal pagamento straordinario, l’accordo prevede che le banche svizzere non avranno alcun obbligo di prelievo sul capitale, ma dovranno solo applicare una sorta di imposta pari a poco più del 25 per cento sui rendimenti. Anche questi soldi saranno periodicamente consegnati dalla Svizzera alla Germania in modo anonimo e aggregato. Nomi? Ancora una volta nessuno.
Anche il più sprovveduto dei tedeschi manderà i suoi soldi alla filiale estera della sua banca svizzera, per poi – se lo ritiene – farli rientrare nella Confederazione a fine 2013. Non pagherà dazio sul capitale, presente e futuro, e pagherà sui prossimi rendimenti più o meno quello che pagherebbe a casa sua. Non solo: i tedeschi e gli inglesi che hanno capitali esteri non dichiarati detenuti in altri paesi saranno invogliati a trasferirli in Svizzera. Non pagheranno imposte straordinarie e, se accetteranno di pagare il 25 per cento sui rendimenti, potranno godere della protezione del segreto bancario svizzero.
Se si pensa che la Svizzera è impegnata dal 2005 con tutta Europa (Germania e Regno Unito inclusi) a prelevare una imposta del 35 per cento sugli interessi (non su dividendi e capital gains) di pertinenza di residenti comunitari si capisce perché l’accordo non sia piaciuto affatto a Bruxelles.

999 DOMANDE DI INFORMAZIONI

Meno male che l’accordo prevede che la Svizzera fornirà, su richiesta della Germania, informazioni bancarie riferite a persone fisiche residenti in Germania sospettate di infedeltà dichiarativa. Uno sforzo non banale da parte svizzera verso una maggiore collaborazione fiscale internazionale quindi è stato fatto. Non tutte le domande saranno tuttavia accoglibili. Saranno prese in considerazione soltanto quelle fondate su “fatti plausibili”. Nel biennio 2013-2014 il i tedeschi non potranno inviare più di 999 richieste, mentre le risposte svizzere possono essere anche meno. È poi previsto un meccanismo di variazione del numero massimo di richieste annue che dipende dalla percentuale di “successo” delle domande presentate nel biennio precedente. Se almeno due terzi delle domande tedesche hanno consentito di identificare un evasore e il suo patrimonio, il numero del successivo biennio aumenta del 15 per cento. Se la percentuale di successo è tra un terzo e due terzi, il numero rimane invariato, se è meno di un terzo, le domande massime sono automaticamente ridotte del 15 per cento.
Quindi, più sarà efficiente e scaltra l’amministrazione fiscale tedesca nello scoprire evasori fiscali che sulla base di “fatti plausibili” hanno soldi non dichiarati in Svizzera, maggiori saranno le richieste che potrà inviare a Berna.
E come farà la Germania a scoprire gli evasori fiscali tedeschi? Dopo la firma dell’accordo sarà ancor più difficile che in passato, dato che la Germania si è impegnata a “non cercare attivamente di entrare in possesso di informazioni bancarie rubate a banche svizzere e relative ai loro clienti”. Niente più “liste Falciani” e simili. Basta con la volgarità dei “nomi”. Le informazioni bancarie ottenute sulla base di rogatorie penali sono coperte dal principio di specialità e non sono utilizzabili a fini fiscali. Il compito degli accertatori si farà sempre più difficile.
Il testo dell’accordo è pieno di altri trappoloni più o meno visibili. Ma bastano quelli indicati per concludere che un accordo simile conviene molto di più alla Svizzera e alle sue banche che all’Italia e ai suoi contribuenti onesti.
Se accordi di questo genere sono addirittura dannosi, cosa si può fare? Occorre innanzitutto stimolare la Commissione ad accertare senza indugio la conformità all’acquis comunitario degli accordi appena firmati da Germania e Regno Unito e, se del caso, a iniziare una procedura di infrazione.
L’Unione Europea e l’Ocse dovranno poi proseguire gli sforzi – in atto da oltre un decennio – per convincere gli Stati contrari allo scambio di informazioni bancarie a fini fiscali a cambiare rotta entro orizzonti temporali determinati. Ma è evidente che l’accettazione del segreto bancario svizzero implicita negli accordi con Germania e Regno Unito rischia di rendere ancor più lungo un percorso già tormentato.

da lavoce.info

Bersani: «Sul lavoro serve coesione. Non si torni indietro», di Giuseppe Vittori

Nel Pd si guarda con estrema attenzione alla partita sul mercato del lavoro che si è aperta tra governo e sindacati. Pier Luigi Bersani in questi giorni di pausa dei lavori parlamentari non ha interrotto i contatti con Palazzo Chigi, oltre che con i leader delle altre forze politiche che in Parlamento sostengono Monti. E il messaggio che ha inviato all’esecutivo è di procedere con cautela, perché l’unità sindacale è «un bene comune» che già per troppi anni è venuto a mancare e perché l’Italia può uscire dalla crisi «soltanto se ci sono cambiamento e coesione, insieme, non uno dei due senza l’altro». Il leader del Pd, quando nella tarda mattinata di ieri ha saputo che il governo intende procedere con incontri bilaterali con le parti sociali, ha anche pensato che forse l’idea era di vedere separatamente sindacati e associazioni delle imprese, non le singole sigle sindacali. Col passare delle ore, tra le proteste della Cgil per il niet dell’esecutivo a un tavolo comune sul lavoro, il quadro si è fatto più chiaro. E dal Pd sono partiti anche messaggi pubblici, all’indirizzo del governo. Bersani in un’intervista a SkyTg24 di metà pomeriggio ha chiesto uno sforzo per risolvere la questione: «Spero proprio che questioni di metodo non impediscano di affrontare la sostanza», ha detto sottolineando che «la questione del formato degli incontri va risolta con buonsenso, senza creare pregiudiziali e divisioni in premessa».
LA COESIONE
Per il leader del Pd il tavolo tra governo e parti sociali va fatto e anche in tempi rapidi, ma «in forme tali che sia riconosciuto da tutti quelli che devono partecipare»: «Mi sembra una cosa ovvia sulla quale il governo debba impegnarsi». Il monito non è da poco, visto che rimanda ai danni provocati dal precedente governo e all’atteggiamento di Sacconi a dividere Cgil, Cisl e Uil: «Veniamo da una esperienza di divisione del mondo del lavoro che non ha portato a nulla. Il 28 giugno è stato raggiunto un accordo di coesione e equilibrio, voglio sperare che nessuno voglia rompere quell’accordo, perché altrimenti si tornerebbe indietro».
Il segretario è intervenuto anche sulla provocazione lanciata da Beppe Grillo sulla necessità di riflettere sui motivi degli attentati a Equitalia e sull’ipotesi si riformare la società di riscossione tributi. «Devo dare ragione a Grillo? A chi solletica… Ieri son girate delle pallottole», quindi «oggi diciamo no alle pallottole poi discutiamo». È vero, aggiunge, «non è da oggi che si discute di Equitalia, ma se girano le pallottole si discute di questo e il messaggio deve essere inequivocabile». In un momento così delicato, dunque, prosegue Bersani occorre fare «attenzione, perché non vorrei che da questi dibattiti venisse una giustificazione di massa a chi intende usare la violenza» anche perché «andiamo incontro a mesi complicati e bisogna stare attenti». Su Equitalia, ricorda, «ci sono delle proposte che ritengo siano all’esame del governo e di chi deve provvedere a evitare casi estremi e che finisca per essere tarato come evasore chi non riesce a pagare le tasse».
Altro fronte caldo l’Europa e la linea franco-tedesca: «L’Italia non affonderà l’Europa, ma sia chiaro che l’Europa di Merkel e Sarkozy non può farci affondare tutti», ribadisce il numero uno del Nazareno, secondo il quale per il governo Monti adesso «c’è un primissimo punto e si chiama Europa. Dobbiamo avere una posizione nazionale. Dire che siamo pronti a fare le riforme, che andremo avanti con il cambiamento, ma che noi manovre non ne facciamo più perché non si può chiedere di più a un Paese con un 5 per cento di avanzo primario».
LA FIDUCIA AL GOVERNO
Se qualcuno avanza sospetti sulla tenuta della fiducia del Pd verso il governo, il segretario sgombra il campo: «Non sono pentito», dice. Poi, aggiunge: «Il governo Monti è partito con un certo piglio, non tutto quel che ha fatto lo sottoscriverei. Eravamo davvero sul precipizio, ci siamo fermati e siamo riusciti a contenere una situazione e impostare un piano di riforma» però «c’è ancora moltissimo da fare» quindi «sospendo il giudizio». Decisivi saranno i prossimi atti del governo.

L’Unità 04.02.12

«Vietato difendere l'Unità». Diktat di Grillo contro i «traditori», di Adriana Comaschi

Bianco e nero, o con noi o contro di noi. Non si dissente nel Movimento 5 stelle. Beppe Grillo lo ha ribadito solo pochi giorni fa. Puntando il dito on line contro un consigliere del suo movimento in Emilia-Romagna, “colpevole” di avere presentato una risoluzione in difesa dei lavoratori dell’Unità, di cui conosce le attuali difficoltà legate anche alla riduzione dei fondi per l’editoria. Il tema infatti è tabù, chi riceve contributi pubblici per Grillo è «un cane da guardia dei partiti» tout court.

E a «chi la pensa diversamente» l’ex comico detta: «Il Pd meno elle lo accoglierà a braccia aperte». Così il diretto interessato, Andrea Defranceschi, incassa: la risoluzione viene riformulata citando anche altre situazioni nel panorama editoriale. Ma insieme accusa: «Valuterò nei prossimi giorni, a mente fredda, se mi trovo ancora a mio agio in questo Movimento. Sono stato esposto al pubblico ludibrio, e non penso di meritarmelo». Il 27 dicembre Defranceschi presenta un testo perchè la giunta regionale «si impegni per l’Unità», che evidentemente non giudica così “nemica”.

Il 28 qualcuno segnala il fatto a Grillo, il quale non contatta il suo consigliere ma lo minaccia di fatto di espulsione via blog. Seguono per giorni, lì e sul sito dei grillini dell’Emilia-Romagna, post che grondano insulti come «traditore», che pretendono le dimissioni immediate di Defranceschi perchè ha agito «contro il mandato degli elettori», all’Unità sull’esempio di Grillo si augura la chiusura «se non sa stare sul mercato da sola». Lo stesso mercato che l’ex comico mette invece nel mirino nelle vesti di banche, che non erogano più prestiti agli imprenditori esponendoli al rischio di ricorrere agli strozzini della criminalità organizzata. Lo stesso mercato che come sinonimo di globalizazzione viene attaccatto in difesa delle ragioni dei comitati No Tav.

Ma se si parla di informazione, benvenga il mercato a fare tabula rasa di voci sgradite. Così Grillo sul suo blog: se l’Unità non vende abbastanza «chiuda i battenti. Il 2012 non sarà del tutto negativo. Porterà in dono anche la chiusura di molti giornali finanziati con soldi pubblici, veri cani da guardia dei partiti. Giornali che ci hanno attaccato prima ancora che esistessimo o che hanno taciuto le nostre iniziative». Un livore non proprio imparziale, dunque. Per inciso: il mercato editoriale italiano non risulta propriamente equilibrato.

La presenza di Berlusconi al governo, la Tv a giocare la parte del leone nella raccolta pubblicitaria, il diktat del’ex premier contro chi investiva in questo giornale hanno prodotto effetti che non si cancellano da un giorno all’altro con il cambio dell’esecutivo. L’ex comico poi non si sofferma sui contenuti su cui ogni giorno l’Unità accende i riflettori. Né si scaglia contro i milioni – pure pubblici – che testate ben più importanti ricevono come contributi per stampa e carta.

Nella pioggia di commenti in rete qualcuno tenta a dire il vero di entrare nel merito del finanziamento pubblico ai giornali. E c’è chi contesta il “metodo”del leader (« Andrea ha sbagliato a non essersi sentito prima con Beppe per come stendere la risoluzione ma Beppe ha sbagliato a scrivere un post del genere senza sentire prima Andrea»; o ancora: «Chi oggi chiede le dimissioni di Defranceschi per un odg si presenti alle assemblee, esprima possibilmente in modo civile il proprio dissenso e voti»).

La maggioranza dei post però si fa aggressiva, Defranceschi lunedì 2 rivede il testo. Ma insiste: la risoluzione «era volta a tutelare i diritti dei lavoratori dell’Unità, giornalisti e non, abbiamo sollevato il caso come quello del circuito locale È-tv Rete 7, della Maserati o della Ferrari». Quindi lo sfogo: «Se fare politica in rete diventa come stare nel cortile di condominio, se certe obiezioni arrivano con malizia per rancori personali questo non aiuta il Movimento. È una brutta pagina della nostra storia, che impone una riflessione».

L’Unità 04.01.12

"Tagli alle spese militari: iniziamo con gli F-35 da 15 miliardi di euro", di Umberto De Giovannangeli

I contratti d’acquisto dei 131 cacciabombardieri di ultima generazione vanno rivisti Non si tratta solo di risparmiare denaro pubblico. Va ripensato il modello di difesa, eliminando inefficienze e storture. La sola prospettiva seria è l’integrazione europea. Non è solo questione di risparmiare in una situazione di crisi. La sfida è un’altra e ben più ambiziosa: tagliare per rendere più efficiente, funzionale, produttivo il nostro sistema di Difesa. Ridurre le spese militari non significa sottrarsi ad impegni assunti dall’Italia in organismi sovranazionali, dall’Onu alla Nato, ma orientare gli investimenti, razionalizzandoli, operando di «forbice» e non di «mannaia». A partire dalla vicenda al centro da giorni di un acceso dibattito politico: l’acquisto da parte del nostro Paese di 131 caccia bombardieri F35. L’Italia dovrebbe iniziare ad acquistare i primi quattro aerei quest’anno. Gli altri, entro il 2023. La spesa totale aggiornata è di almeno 15 miliardi di euro considerando che per i progetti aeronautici, i costi maggiori si hanno proprio per il mantenimento e la gestione dei mezzi aerei. I velivoli dovranno essere consegnati due anni dopo la firma del contratto d’acquisto. In termini monetari, ciò si traduce in un costo annuo medio per l’Italia di 1.250 milioni. Dal 2012 al 2023, infatti, la spesa va dai 460 ai 1.495 milioni di euro all’anno.
Una spesa eccessiva, un investimento da rimodulare e non solo perché siamo in una situazione di crisi. Ridurre, non azzerare. Senza che questo comporti una «diminutio» italiana nel sistema politico-militare internazionale e senza che una sospensione comporti una penale. Parlamentari e analisti ascoltati da l’Unità concordano sul fatto che 131 caccia non servono e che è ragionevole una riduzione degli acquisti a 40-50. Ciò porta con sé la necessità di aprire un tavolo con i nostri partner internazionali e riflettere, in quell’ambito, se quel proramma ha davvero un futuro e, se sì, quale. Nessun obbligo, dunque, tanto più che anche Stati Uniti e Gran Bretagna stanno procedendo al rallentamento del programma F35, con riduzione di ordini e ripensamenti graduali.
Un ripensamento strategico che non riguarda solo Washington e Londra. Norvegia, Canada, Australia e Turchia hanno di recente messo in discussione la loro partecipazione al programma, in qualche caso arrivando a una vera e propria sospensione, mentre in Olanda la Corte dei conti ha aperto un dossier sull’argomento.
Ma il dossier che l’Italia dovrebbe aprire al più presto è più ampio e ambizioso, investendo il complesso delle nostre spese militari con una visione strategica e non ragionieristica. Una necessità che non sembra sfuggire al ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola: «Oggi lo strumento militare, così come è strutturato, non è più sostenibile. Questa è la realtà. E la realtà, oggi, impone una revisione dello strumento per conservare ciò che più conta, la sua operatività e la sua efficacia..»: così Di Paola nel tradizionale messaggio di fine anno rivolto al personale, civile e militare, della Difesa. Revisione dello strumento militare significa, ad esempio, riflettere sulla dimensione dei nostri investimenti in armamenti. Non ci sono solo gli F35, ma l’ultima trance del programma per i caccia Eurofighter (5 miliardi); l’acquisto di 8 aerei senza pilota (1,3 miliardi); l’ acquisto di 100 nuovi elicotteri NH-90 (4 miliardi); l’acquisto di 10 fregate Fremm (5 miliardi); 2 sommergibili militari (1 miliardo); il programma per i sistemi digitali dell’Esercito che costerà alla fine oltre 12 miliardi di euro. Un ripensamento che deve riguardare anche la dimensione quantitativa delle nostre Forze Armate.
Questi i dati: le Forze Armate italiane contano complessivamente 178.600 unità (Esercito 104.000; Marina 32.300; Aeronautica 42.300). La Gran Bretagna conta, compessivamente, 177.00 unità in divisa; la Germania 152.000; la Spagna, 135.000; l’Olanda 44.700; il Canada, 41.800. Molti analisti, non certo tacciabili di veteropacifismo, considerano l’organico delle nostre Forze Armate eccessivo, non giustificabile dal nostro impegno in missioni all’estero né funzionale ad una visione più dinamica, e integrata, di un moderno ed efficiente sistema di difesa.
La riduzione ipotizzabile è di 30-40mila unità. Ma l’anomalia italiana, in questo campo, investe un dato che non ha eguali tra i Paesi europei a noi dimensionabili, e anche oltre: il rapporto tra stipendi del personale e bilancio complessivo della Difesa. Il bilancio 2011 della Difesa prevede 14 miliardi di euro. Anche considerando i fondi per le missioni si arriva a 15,5 miliardi di euro. E di questo totale ben 9,5 miliardi sono destinati al personale: oltre i due terzi del bilancio. La spesa per il personale invece di diminuire è aumentata di quasi l’1%: un incremento che non risponde di certo a criteri di «buona amministrazione».
Quanto alla «dieta» declamata dal Governo Berlusconi-Tremonti-La Russa, rimarca generale Leonardo Tricarico (ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e socio della Fondazione Icsa), i tagli non hanno abolito gli sprechi ma hanno inciso «sugli stanziamenti per l’esercizio, ossia addestramento, manutenzione e infrastrutture»: insomma, un disatro.
Riflette in proposito Andrea Nativi, curatore del Rapporto Difesa 2011 della Fondazione Icsa: «La situazione della Difesa italiana è sempre più precaria perché si continua a rimandare quell’intervento complessivo di razionalizzazione che tutti i partner stanno realizzando o hanno già realizzato…». L’Italia ha perso tempo prezioso. E il costo del «non decidere», rileva sempre Nativi, «è elevato perché si continuano a sprecare soldi mantenendo una struttura inadeguata e perché i partner si stanno muovendo». Rischiamo di rimanere gli unici a non aver dato mano alla ristrutturazione delle Forze Armate. Un ben triste primato. Triste e costoso.

L’Unità 04.01.12

"Donne e maternità, dimissioni in bianco «stop agli abusi»", di Alessandra Arachi

La nota è arrivata ieri, chiara e inequivocabile: «Il governo interverrà presto sulla pratica delle cosiddette “dimissioni in bianco”». L’ha firmata Elsa Fornero, ministro del Lavoro con delega alle Pari opportunità. E adesso si aspetta soltanto che il governo dalle parole passi davvero ai fatti. Ovvero che, finalmente, venga ripristinato nelle aziende quel sistema di protezione nei confronti di una pratica tanto illegale quanto barbara.
Sono stati in tanti a sollecitare il ministro Fornero sul problema delle dimissioni in bianco. Praticamente un coro, da quando si era insediata al ministero. Lettere di donne di varie estrazioni. Dichiarazioni di politici. L’appello del segretario della Cgil Susanna Camusso. E gli articoli dei giornalisti Dario Di Vico sul Corriere e Ritanna Armeni sul Foglio.
Le proteste per le dimissioni in bianco erano cominciate ben prima. C’era stata una vera e propria sollevazione quando, tre anni e mezzo fa, il governo Berlusconi aveva voluto abrogare con un decreto d’urgenza la legge che tutelava le lavoratrici dalle dimissioni in bianco. L’aveva varata nel 2007 il governo di Romano Prodi quella legge di protezione. Ma appena un anno dopo l’esecutivo di centrodestra l’aveva cancellata bollandola semplicemente come «burocratica».
In realtà quella legge del 2007 era riuscita ad arginare, se non proprio a sopprimere, quella pratica disumana delle dimissioni, riservata praticamente soltanto alle donne. Meglio: alle donne in gravidanza.
Assurda, la pratica: al momento dell’assunzione ad una lavoratrice vengono messi davanti il contratto e, contemporaneamente, un foglio per firmare, appunto, le dimissioni in bianco. Ovvero un foglio di dimissioni senza alcuna data che il datore di lavoro può perciò usare in qualsiasi momento decide di farlo.
Nella maggior parte dei casi quelle dimissioni in bianco vengono tirate fuori dal cassetto nel momento in cui la lavoratrice dichiara di essere rimasta incinta. E non è un caso che le statistiche ci parlano di oltre 800 mila donne incinte costrette ad abbandonare il posto di lavoro.
La legge del 2007 aveva stabilito una cosa molto semplice: le dimissioni volontarie sarebbero state considerate valide soltanto se compilate su appositi moduli distribuiti esclusivamente dagli uffici provinciali del lavoro e dalle amministrazioni comunali. C’era una progressione alfanumerica su quei moduli ufficiali. Una progressione che, di fatto, rendeva impossibile la compilazione al momento dell’assunzione.
Adesso Elsa Fornero sembra orientata a ripristinare qualcosa di simile. Ha detto infatti ieri: «Il ministero sta studiando i modi e i tempi di un intervento complessivo a carattere risolutivo e che, grazie anche all’uso delle tecnologie informatiche, possa garantire in caso di dimissioni la certezza dell’identità della lavoratrice, la riservatezza dei dati personali e, soprattutto, la data di rilascio e di validità della lettera di dimissioni».
Per il ministro Fornero non ci sono dubbi: «La pratica delle dimissioni in bianco pesa fortemente e negativamente sulla condizione lavorativa delle donne e sulla loro stessa dignità, costituendo una vera e propria devianza dai principi di libertà alla base della società civile». Per questo il ministro ha deciso di prendere provvedimenti: «Questo intervento comprenderà un’azione di sensibilizzazione volta a restituire piena parità e dignità al lavoro delle donne, considerato un fattore di crescita indebitamente compresso».
Soddisfazione viene espressa dal Pd, per bocca di Lucio Cafarelli, responsabile lavoro pubblico del partito, che invita il ministro a sbrigarsi. «Il fattore tempo non è irrilevante visti i dati preoccupanti sul fronte occupazionale, sapendo che nei periodi di cirsi sono le donne e i giovani a farne le spese».

Il Corriere della Sera 04.01.12

"Come sconfiggere le corporazioni che frenano l´Italia", di Alessandro De Nicola

«È perchè ogni città è divisa in arte o in tribù, debbe tenere conto di quelle università, raunarsi con loro qualche volta, dare di sé esempli di umanità e di munificenzia». Così insegnava Machiavelli al XXI capitolo del Principe: chi governa deve rapportarsi con le lobby, dando esempi di umanità e munificenza. Da allora le cose non sono cambiate troppo e la questione dell´influenza dei gruppi di interesse sulla politica è ormai centrale per tutte le società occidentali.
Che vi siano associazioni portatrici di interessi è ovviamente legittimo e sotto certi profili auspicabile. Tuttavia senza esagerare: il connubio tra Wall Street, i regolatori, i parlamentari e le diverse amministrazioni americane ha portato a distorsioni e salvataggi che vengono denunciati con uguale intensità dai contestatori di Occupy Wall Street e dai liberisti dei Tea Party. In Italia stiamo sperimentando in questi giorni la forza di corporazioni come tassisti, farmacisti, trasportatori, professionisti che bloccano, rallentano, ostacolano riforme benefiche per l´insieme della società. E non è certo detto che siano le lobby più chiassose ad essere quelle più potenti, anzi. D´altronde, la Chiesa e i sindacati, benché i loro leader rifiuterebbero una tale definizione, dal punto di vista politico ed economico altro non sono che enormi lobby.
Ma come è possibile che le democrazie liberali siano diventate vittime di questo mal sottile, che corrode il buon funzionamento dell´economia e le stesse basi del suffragio universale, anteponendo all´interesse della stragrande maggioranza dei cittadini quello di un ristretto numero di persone?
Teoricamente la situazione non è difficile da spiegare e meglio di tutti lo hanno fatto due grandi economisti americani, Gordon Tullock e James Buchanan, fondatori della scuola cosiddetta di Public Choice. Il punto di partenza di questo filone di studi è che pare irrealistico immaginarsi due mondi distinti, uno dell´economia motivato dalla ricerca (legittima) del profitto ed un altro della politica guidato da motivi altruistici. Politici e burocrati sono altrettanto determinati nelle loro azioni dalla logica della massimizzazione del profitto che assume per essi una triplice forma: denaro, potere, prestigio. Il trio è indissolubilmente legato, perché il denaro può servire per scopi privati (e in questo caso è spesso legato a fenomeni di semplice corruzione) o per ottenere la rielezione e quindi potere. Il potere e il denaro sono la via per il prestigio il quale serve per avere più influenza e cosi via. Il deputato ha in mente la sua prossima rielezione (e, in casi miserabili, il suo vitalizio), il resto viene dopo, soprattutto in un´era post-ideologica come la nostra. E chi è in grado di assicurare questa triade di benefici al politico-burocrate o, peggio, minare il potere e il prestigio che già possiede? L´opinione pubblica? No, le lobby.
UN ESEMPIO DI SCUOLA
Prendiamo la categoria degli spazzacamini: alla generalità dell´elettorato poco interessa se il numero degli appartenenti alla corporazione è chiuso e prevede alte tariffe minime. Certo, i possessori di camini si infastidiranno un po´, ma il loro voto non sarà determinato da una legge in proposito. Per i 20.000 spazzacamini della Londra di Mary Poppins e per le loro famiglie, invece, la questione è essenziale e sono ben disposti a dirottare i loro voti (che messi tutti insieme fanno un pacchetto che può far vincere un´elezione) e le risorse finanziarie dell´antica corporazione verso quei deputati e partiti sensibili alle loro istanze. Il parlamentare medio componente della Commissione che deve occuparsi del problema, magari chiederà al suo assistente di procurarsi un po´ di dati. E il giovanotto a chi potrà rivolgersi? In primis, ovviamente, alla Chimney Sweepers Guild, che gli dimostrerà inequivocabilmente, numeri alla mano, che la liberalizzazione in Irlanda ha alzato i prezzi per tutti (un po´ come sta cercando di fare la Cgia di Mestre in questi giorni per l´Italia).
Inoltre, per quei pochi politici liberali Whig che si opporranno al privilegio, comincerà una campagna di stampa (in alcuni casi di intimidazione) con raccapriccianti storie di spazzacamini che tentano il suicidio gettandosi dentro un comignolo alla notizia dell´abolizione delle tariffe. Edificanti racconti di come la professionalità degli spazzacamini, garantita dal numero chiuso e da onorari dignitosi, abbia salvato innumerevoli gatti e cicogne ed evitato il soffocamento di intere famiglie, inizieranno ad apparire grazie agli sforzi incessanti delle agenzie di pubbliche relazioni ingaggiate alla bisogna.
Ora, a meno che non si sia un parlamentare sponsorizzato dall´associazione degli idraulici (una lobby anch´essa), che vede nel mercato della pulizia dei camini un terreno di caccia per i propri iscritti (sempre di tubi si tratta), perché qualcuno dovrebbe darsi la pena di mettersi nei guai? E per accontentare i suoi due colleghi di partito (uno pro-spazzacamini, uno pro-idraulici), il junior minister competente ha una bella soluzione: niente concorrenza sui comignoli, ma innalziamo le tariffe degli idraulici e accorciamo il periodo di ammortamento per i loro beni strumentali. Tutti vissero felici e contenti? Mica tanto: hanno perso le casse dello Stato, i milioni di consumatori che si servono delle due categorie di artigiani e l´allocazione efficiente delle risorse nel mercato. Se stagnari e addetti ai comignoli costassero di meno, i soldi avanzati sarebbero impiegati in attività più produttive per il benessere generale.
L´ITALIA DI OGGI
Trasferiamoci nell´Italia del XXI secolo e il panorama sembra assai somigliante, specialmente in un contesto in cui le corporazioni – professionisti, sindacalisti, banchieri, imprenditori, magistrati – si fanno eleggere direttamente in parlamento o entrano al governo, ponendo in essere un lucroso gioco di scambio di favori tra privilegiati a scapito di tutti gli altri.
Ci sono rimedi a questo stato di cose? Non definitivi, ma degli anticorpi sicuramente sì. Il primo è la Costituzione (che per noi significano anche i Trattati Europei), non a caso individuata da Buchanan e Brennan come principale antidoto all´intreccio lobby-politica. Le Costituzioni devono difendere le libertà individuali dai capricci della maggioranza ed è per questo che sono rigide, richiedono cioè super-maggioranze per essere cambiate. Le libertà individuali comprendono quelle economiche e quindi la difesa del mercato e della concorrenza, così come fa il Trattato di Maastricht. Per le lobby è più difficile cambiare le Costituzioni e la Corte Costituzionale può abrogare le leggine anti concorrenziali e protezionistiche. Per tale motivo una modifica anche della nostra carta fondamentale è auspicabile.
LE AZIONI DI CONTROLLO
La seconda medicina sono forti autorità indipendenti che abbiano come missione il presidio della trasparenza e concorrenza nel mercato. E´ vero che c´è il rischio che il regolato «catturi» il regolatore: ben per questo la legge istitutiva deve prevedere meccanismi di nomina che garantiscono la presenza di personalità indipendenti e con conoscenze adeguate. Naturalmente le decisioni delle autorità devono poter essere appellate davanti a giudici versati in materia e competenti anche sui fatti (e non solo su questioni di diritto come i Tar).
Infine i mass-media. Un giornalismo preparato e vigile è essenziale per combattere le degenerazioni lobbistiche: la luce del sole è il miglior disinfettante e quella elettrica il miglior poliziotto, come ebbe a dire un grande giurista americano, Louis Brandeis. Ovviamente, bisogna essere consapevoli che la proprietà dei mezzi di comunicazione è in mano ad editori che possono avere interessi particolari e ampie categorie di lettori appartengono a loro volta a corporazioni. La cura è una vivace concorrenza, l´uscita dello Stato, sia come proprietario che come elemosiniere, dai mass media e, infine, che ogni giornalista, editorialista e direttore sia un hombre vertical. Senza quest´ultima essenziale caratteristica, non ci sarà speranza di raddrizzare alcun legno storto.

La Repubblica 04.01.12