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Fassino: «C'è più equità, ma basta colpire gli enti locali», di Simone Collini

Il Patto di stabilità interno, per come è oggi, è per i Comuni una prigione. E contraddice i cardini dell’impostazione del nuovo governo. Monti ha parlato di risanamento, crescita ed equità. Ma la norma che regola i rapporti tra Stato ed enti locali nella sua cecità, non distinguendo tra spesa corrente e spese per investimenti, non tiene conto né del nesso tra risanamento e crescita né dell’equità».
Racconta Piero Fassino che il giorno dopo l’annuncio che Torino avrebbe sforato il Patto di stabilità per il 2011lo hanno chiamato altri sindaci, parlamentari, ma anche quattro esponenti del governo: «Hanno tenuto a dirmi che ritengono sia necessario ridisegnare quel patto». E dal particolare dei vincoli di spesa si passa al generale di un governo che per il sindaco di Torino «adesso deve mettere in campo misure per la crescita che diano ai cittadini la certezza che i sacrifici richiesti produrranno risultati».

Partiamo dalla sua decisione di non rispettare il Patto di stabilità per il 2011: cosa la motiva?

«Una necessità, quella di far fronte agli impegni presi nei confronti della comunità torinese».

Gli enti locali hanno però preso un impegno con l’amministrazione centrale riguardante i vincoli di bilancio.

«Se avessi rispettato i tetti di spesa previsti dal Patto di stabilità avrei dovuto tagliare 120 milioni di servizi, cioè asili nido, scuole, trasporti pubblici, assistenza domiciliare agli anziani. E questo non è pensabile. Così come non lo è dilazionare ancora per mesi i pagamenti ai fornitori, professionisti e imprese che hanno prestato opere per la nostra comunità e che era giusto pagare. Sforare il Patto di stabilità mi ha consentito di pagare a imprese 450 milioni di euro, 250 in più che se avessi rispettato il tetto di spesa. E non mi sembra di poco conto, in un periodo di crisi in cui se un’impresa chiede un prestito alle banche si vede applicare un interesse del 10%».

Rientrerete nel 2012?

«L’obiettivo è questo, riducendo la spesa corrente senza deprimere gli investimenti».

Come pensate di farlo?

«Ci sarà una riorganizzazione delle aziende partecipate, verranno bandite gare per l’ingresso dei privati fino al 40% nelle società di servizi pubblici, proseguiremo l’azione di valorizzazione immobiliare e di trasformazione urbana».

Qual è il messaggio che vuole inviare al governo con la sua scelta?

«Una sollecitazione ad aprire un negoziato con i comuni per riscrivere il Patto di stabilità. Con il decreto varato nelle scorse settimane l’esecutivo ha esplicitato che intende aprire il confronto su questo. Bene, ora bisogna muoversi in questa direzione».

Riscriverlo per modificarlo come?

«Il Patto di stabilità è cieco perché oggi non distingue tra spesa corrente e spesa per investimenti. Per fare un esempio, Torino ha un indebitamento come quello di Catania. Ma a Torino si è costruito la metro, il passante ferroviario, il termovalorizzatore, le opere per le olimpiadi, quelle per i
150 anni dell’Unità d’Italia. A Catania tutto questo non c’è. Non si può calcolare il debito nello stesso modo, senza ragionare sui motivi per cui si è accumulato, senza pensare che aver investito vuol dire aver contrastato la crisi, aperto cantieri, attirato capitali, aiutato l’aumento dell’occupazione».

L’ha chiamata qualcuno dal governo dopo che ha annunciato il mancato rispetto del Patto di stabilità?

«Mi hanno chiamato tanti sindaci e parlamentari, per esprimermi piena condivisione, e anche quattro esponenti del governo».

Cosa le hanno detto?

«Che ritengono anche loro sia necessario ridisegnare il Patto. È opportuno farlo in tempi rapidi, anche perché per come è oggi contraddice i cardini del risanamento, della crescita e dell’equità citati da Monti fin dal suo insediamento».

Sul resto delle misure adottate ritiene che questi cardini siano stati rispettati dal governo?

«Sì, sta facendo quel che deve fare. Sappiamo che questo è un governo di emergenza, nato in una congiuntura economica e politica particolarmente critica, che richiede uno sforzo straordinario. Si è ricorso a una grande personalità, che può ridare fiducia in Italia e in Europa, che ha l’autorevolezza per guidare il Paese in una transizione difficile».

Pensa che i cittadini capiranno anche quando vedranno in concreto quanto costerà questo passaggio?

«La transizione comporta l’adozione di provvedimenti severi. È importante, e il governo lo ha detto fin dal primo giorno, che i sacrifici chiesti ai cittadini per risanare i conti pubblici siano accompagnati da politiche per l’occupazione, lo sviluppo e la crescita, che si dimostri ai cittadini che i sacrifici faranno uscire il Paese dalla crisi».

Il principio dell’equità le sembra sia stato rispettato, finora?

«La manovra, nell’iter parlamentare, ha subito le correzioni giuste, che hanno portato a una maggiore equità. Penso in particolare alla rivalutazione delle pensioni più basse e ai provvedimenti di natura fiscale».

C’è altro nel rapporto tra enti locali e governo, oltre al Patto di stabilità, che secondo lei va rivisto?

«C’è un’impostazione generale, portata avanti negli ultimi dieci anni, a cui va messo fine. Quella cioè di scaricare sugli enti locali gli oneri maggiori di una politica di risanamento. L’amministrazione centrale, tra ministeri e aziende statali, rappresenta il 55% della spesa pubblica. A questi enti sono stati chiesti tagli di spesa del 25%, che non sono neanche stati realizzati. Alle Regioni, che rappresentano il 25% della spesa pubblica, sono stati applicati tagli per il 55% delle risorse. E Comuni e Province, la cui spesa non incide per più del 15% sul totale, hanno subito tagli per il 40%. È evidente che questo squilibrio non è più sostenibile. Ci vuole un’inversione di tendenza. La politica di risanamento della macchina pubblica deve incidere significamente sulle spese a livello centrale e gli enti locali devono essere messi in condizione di avere le risorse per onorare gli impegni che hanno nei confronti delle loro comunità».

L’Unità 03.01.12

"La guerra dei tagli del ministro Di Paola", di Francesco Lo Sardo

Austerità per le forze armate ma la provenienza del ministro-ammiraglio non lo aiuta. «Non si fanno le nozze coi fichi secchi. La strada è ineludibile, piaccia o no. Con questo governo o un altro, non c’è alternativa… Bisogna ridimensionare lo strumento militare, non serve Napoleone per capirlo. Ma i tagli li dovremo fare nel modo e nei tempi giusti». Lo fanno in tutta Europa, tocca anche a noi. Sì, ma quali tagli e con che tempi? Sotto sotto, c’è chi accusa Giampaolo Di Paola di voler usare l’arma dei tagli alla difesa per ristrutturare le forze armate piegandole all’idea di strumento militare che lui ritiene da sempre più congeniale all’Italia: una forza essenzialmente aeronavale, facendo pagare il prezzo dei sacrifici più alto agli investimenti tecnologici per le forze terresti, cioè all’esercito.
Un’accusa ingenerosa, sebbene ci sia il fondato sospetto che l’ammiraglio Di Paola capo di stato maggiore della difesa dal 2004 al 2008, poi presidente del comitato militare Nato fino alla nomina a ministro della difesa, sia affezionatissimo al progetto Joint Strike Fighter o F-35 dell’americana Lockheed, (18,1 miliardi di euro di spesa entro il 2018) soprattutto per quella versione B short take off a decollo corto indicata per la portaerei Cavour, di cui lui è considerato il vero «padre-padrino».
Per non parlare delle dieci fregate Fremm (anti-som e multiruolo) da 6 miliardi costruite da un consorzio italo-francese targato Finmeccanica-Fincantieri per la parte italiana: «Le nostre commesse non sono decisive per la sopravvivenza di Fincantieri, ma in questo momento di crisi l’idea di tagliarle…», non è un’idea particolarmente illuminata, si ragiona in ambienti della difesa.
Il tema degli investimenti dunque: ma la partita dei tagli alla difesa, che comprende anche questo controverso capitolo, è più complicata, perché riguarda – nelle intenzioni del ministro – anche dure sforbiciate al personale militare (dell’ordine di 40mila unità) per ridurre il dispositivo a 150mila militari (oggi sono 180.207), rispetto al modello post-naja che ne prevedeva 190mila. Il costo del personale, 62% del bilancio della difesa, è di 23 miliardi all’anno: Di Paola pensa di poterne tagliare, con gradualità, almeno 7. Qui si concentra l’attenzione del ministro che però si scontra con alcune dure criticità. L’idea dell’ammiraglio è puntare sulla mobilità nell’ambito della pubblica amministrazione, poiché la riforma pensionistica allunga i tempi di uscita della gran massa dei cinquantenni (l’ondata dei 56mila marescialli che sommati ai 15mila sergenti arriva a quota 72mila, quasi quanto la truppa di 83mila uomini e donne) il cui picco sarebbe dovuto scendere tra il 2022 e il 2024. Ma spostare il costo di un maresciallo (25mila euro annui) dalla difesa ad altro ministero conviene? Per il tesoro non cambia nulla: e i 25mila euro di risparmio, poi, verrebbero utilizzati dalla difesa per investimenti o sarebbero perduti tout court? Nessuno l’ha ancora capito. E se è per questo, ancora non si sa neppure quali investimenti saranno tagliati dopo la sforbiciata di 2,9 miliardi alla difesa tra il 2010 e il 2012. Gli interrogativi sul personale (attenti al “marchionnismo”, si dice tra i Cocer, la difesa non è un’azienda privata) non sono meno complessi di quelli sugli investimenti. Si può mollare il programma Jsf e recuperare il tempo perduto per l’industria europea, con un cacciabombardiere Eurofighter Typhoon di quinta generazione? Materie complesse. I militari, si sa, tendono all’autoreferenzialità. Ma a maggior ragione sotto un governo tecnico sarebbe opportuno che la politica ragionasse sul nostro modello di difesa in un quadro d’integrazione europea, ciascun paese secondo le proprie vocazioni storiche e geo-politiche.
Il Pd ha recentemente proposto l’istituzione di una commissione bicamerale e il confronto, anzitutto tra i partiti che sostengono Monti, potrebbe svilupparsi anche lì. Se non ora e sul tema della difesa nazionale, quando e su che cos’altro?

da Europa Quotidiano 03.01.12

"Caro ministro Profumo, falsa partenza sulla ricerca", di Fabio Beltram e Chiara Carrozza

Caro ministro Profumo, ci rivolgiamo alla tua cortese e competente attenzione per esprimerti alcune nostre preoccupazioni.
Liberare le energie e valorizzare i punti di forza del Paese appare oggi la strada condivisa per promuovere lo sviluppo: è dunque richiesta la selezione di questi punti di forza e la concentrazione su di essi delle limitate risorse disponibili.

Vanno in direzione opposta, a nostro avviso, i bandi per i Progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin) e per i fondi “Futuro in Ricerca”.
I primi sono il principale strumento per il sostegno alla ricerca di base nelle Università, i secondi sono uno strumento prezioso per l’inserimento di giovani capaci nel sistema nazionale della ricerca.

Sorprendentemente, e per la prima volta, la procedura di selezione non è più basata esclusivamente sulla validità dei progetti, ma sono introdotti dei limiti numerici sia a quante idee progettuali possono essere proposte da un Ateneo sia, simmetricamente, a quanti giovani possono proporre di svolgere la loro ricerca in una specifica Università.

Tutto è parametrato su una frazione della quantità di personale in ruolo nell’Ateneo. Se questa scelta sottende il principio di mettere tutti sullo stesso piano, a nostro avviso essa parte da un presupposto sbagliato. Non tutti i luoghi sono uguali per svolgere una certa ricerca, e la distribuzione delle “buone idee” non è un fatto statistico che prescinde dalle qualità delle strutture e delle persone.

In questi bandi si chiede agli Atenei di preselezionare i progetti tenendo conto del numero delle proposte presentate nei singoli settori scientifici. Un esempio: se in un settore disciplinare vengono presentati molti progetti di scarso valore, mentre in un altro pochi di alto livello, l’Ateneo dovrà tenere conto delle proporzioni iniziali nell’effettuare la preselezione scartando così progetti buoni a favore di progetti peggiori. Non succede in nessun paese.

Troviamo poi particolarmente inopportuno limitare la libertà di scelta a giovani che vogliono entrare in un particolare ambito di ricerca. Il limite al numero di domande (anche questo parametrato sulla quantità del personale di ruolo) fa sì che giovani brillanti non possano accedere ai luoghi specializzati nel settore di loro interesse, ma debbano distribuirsi uniformemente su tutte le strutture del Paese.

Questo approccio “quantitativo” porterà inevitabilmente alla formazione di “cordate” e di turnazioni nell’assegnazione dei fondi di ricerca poco o per nulla dipendenti dal merito.

Davvero non capiamo e riteniamo inutile descrivere altri effetti distorsivi delle procedure introdotte con l’obiettivo dichiarato di rendere più “semplice” la procedura di valutazione. Segnaliamo tuttavia che esistono consolidate modalità di preselezione che non compromettono la valorizzazione del merito: il numero di domande valutate dallo Erc a livello europeo o dalla Nsf negli Stati Uniti è straordinariamente più grande del numero di domande Prin e Firb “Futuro in ricerca” presentate in Italia. Si è pensato, semplicemente, a riprodurre i loro schemi?

I bandi sono stati emanati il 27 dicembre, c’è tempo per un intervento correttivo. Speriamo in un segnale di attenzione e concretezza che troverebbe largo consenso e allineerebbe il nostro Paese alle buone pratiche internazionali.

Fabio Beltram è direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa
Chiara Carrozza è direttore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa

Il Sole 24 Ore 03.01.12

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“ll ministro Profumo sul futuro delle università: La ricerca è il motore dello sviluppo”, di Francesco Antonioli

Francesco Profumo, classe 1953, dal 16 novembre scorso è ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Savonese, è stato rettore del Politecnico di Torino e presidente del Cnr.

Professore, nella lettera aperta su Il Sole 24 Ore di ieri, Fabio Beltram e Chiara Carrozza sostengono che i bandi del 27 dicembre per Prin e fondi “Futuro in ricerca” non vanno nella direzione della crescita e dello sviluppo. Quasi l’opposto di quanto ha dichiarato il premier Monti sulla “fase due”. Che ne pensa?
Io sono partito basandomi sui dati europei: dicono che la capacità dell’Italia di acquisire risorse sulla ricerca è estremamente debole. Sul VII Programma quadro, che aveva una dotazione di 50 miliardi, a fronte di un investimento Paese del 15%, in sette anni riporteremo a casa progetti per un valore dell’8,5%: è una perdita secca di circa mezzo miliardo all’anno. L’VIII programma – “Horizon 2020” – disporrà di 80 miliardi. Partirà nel 2014: dobbiamo allenarci per competere in Europa. E non solo. Ma questo non avviene sostenendo singole eccellenze.

Però non tutti i posti, in Italia, sono uguali per “fare buona ricerca”. Lo diceva anche lei da Rettore del Politecnico di Torino. Ha cambiato idea da quando è approdato al dicastero?
Niente affatto. Il punto è che non bisogna abbassare il livello, ma alzare l’asticella media. Sul precedente Prin (cioè i Progetti di ricerca di interesse nazionale) c’erano 5mila domande con 100 milioni a bando. Quest’anno i milioni saranno 170 e le domande, presumibilmente, 7mila. Ogni proposta andrà valutata da tre persone: un processo lunghissimo e, alla fine, poco efficace.

Come si può ovviare?
Intendiamo corresponsabilizzare le università: selezionino i progetti e presentino poi i migliori alla valutazione. I posti sono limitati per i coordinatori di progetto, ma non per i partner. È qui che il Paese deve crescere. La parte italiana dei Prin può valere circa 1,6 miliardi l’anno. Vogliamo perderla? Non si tratta di creare “cordate”, ma gruppi di progetto, veri e propri team in grado di interagire al meglio.

Un cambiamento di mentalità, insomma: un discreto salto…
Un cammino di corresponsabilità, direi. L’aspetto “culturale” è strategico. Mi piace parlare del prossimo biennio come “palestra”: alleniamoci da qui al 2014. Tempi veloci per le selezioni. E collegamenti internazionali, che è poi la condizione per creare un’importante quota di cofinanziamento dei progetti.

Le chiedono un intervento correttivo sui bandi del 27 dicembre, magari introducendo altri metodi selettivi. Lo farà?
Ritengo che la modalità scelta sia quella opportuna: il gioco di squadra. Anche gli atenei migliori debbono pensare di mettersi a disposizioni come partner di grande capacità. In Europa, d’altronde, si compete così.

La ricerca è una delle cinque misure per crescere del governo Monti. Lei a che cosa sta puntando?
L’Italia non ha l’abitudine a prepararsi in anticipo. Per cui lavoreremo anzitutto sulla formazione e sull’informazione. Dal 23 gennaio inizieremo un road-show proprio su “Horizon 2020”. Tengo a precisare che non dimenticheremo, come ministero, anche il livello delle scienze sociali per ora non toccato a livello Ue. Poi resterà fondamentale, sul campo, l’allenamento intelligente sui bandi.

Parliamo di rapporto con il sistema delle imprese: se queste già sono in affanno, come pensate di far scattare un rapporto proficuo con le università?
Con i progetti Prin le aziende possono partecipare ai senza che siano loro assegnate risorse. Dopo la call dei fondi strutturali Pon “ricerca industriale” al Sud – ne abbiamo in valutazione sia per laboratori sia per distretti, sempre al Mezzogiorno – nel 2012 avvieremo una call analoga per il Centro Nord, con cifre importanti: circa 700 milioni in parte come fondo rotativo.

Nel 2012 ripartiranno i concorsi per l’Università. Lei dice che la riforma Gelmini va solo “oliata”. Come si muoverà?
L’autonomia responsabile delle università sarà decisiva per determinare la “quota premiale”. E creerà un ciclo virtuoso, perché sarà collegata anche a un indice della qualità delle persone “reclutate”. Faremo in modo che nelle commissioni che dovranno scegliere tra chi ha avuto l’abilitazione nazionale vi siano anche professori non italiani.

Per il superconcorso annunciato per la scuola sarà diverso? Per fare spazio ai giovani bisognerà lasciare indietro i precari? Come sceglierete?
Contemperando le due esigenze, di chi ha esperienza e dei giovani che non possono aspettare. Penso a due canali di reclutamento: uno più grande, con le persone in graduatoria, l’altro più piccolo, per i giovani.

Che cosa si prefigge nei prossimi mesi per la scuola e per l’università e per la ricerca italiane?
Che siano messe in condizione di lavorare nei tempi. E con una capacità di visione. Il 2012 non potrà essere un anno con più fondi. Non ci saranno tagli, ma dovremo pensare a una reingegnerizzazione delle risorse, evitando sprechi e inefficienze.

È convinto che ce la faremo?
Sì, senz’altro. Io sono ottimista, altrimenti non farei quello che sto facendo. La situazione contingente è difficile. Ma dobbiamo iniziare a costruire il Paese di domani. L’Italia è migliore di quello che appare, in particolare nel mondo della formazione e dell’istruzione. Ma ha assoluto bisogno di regole ottimali: per il sistema e non per i singoli. Dobbiamo diventare un po’ più generosi. Può essere un auspicio?

Il Sole 24 Ore 04.01.12

"La Cassa integrazione non si ferma: nel 2011 un miliardo di ore", di Rosaria Talarico

L’ avvio del 2012, mentre esplodono nuovi stati di crisi e gli operai di Fincantieri tornano a manifestare, porta con sé i numeri poco tranquillizzanti sulla crisi occupazionale in Italia. Nel 2011 le ore di cassa integrazione sono state circa un miliardo (900 milioni fino a novembre). A farne le spese 500 mila lavoratori a zero ore, che a causa dell’entrata in cassa integrazione hanno avuto in media una perdita sullo stipendio di 7.300 euro a testa. La cifra aggregata è di 3,4 miliardi di euro di mancato reddito.

I dati di Inps, Istat e dell’ osservatorio della Cgil concordano nel delineare una situazione di recessione. Il 72,66% delle ore di cassa integrazione ordinaria (cigo), il 91,21% di quelle di cassa integrazione straordinaria (cigs) e il 40,70% di cassa integrazione in deroga (cigd) sono infatti richieste dal solo settore industriale. La cigs a novembre ha toccato il record degli ultimi sei mesi, aumentando su ottobre del +2,25% per un totale di 37 milioni di ore. Anche i numeri dell’Istat relativi all’occupazione nelle grandi imprese continuano a dare segnali negativi. L’ultimo dato disponibile è quello di ottobre e testimonia lo stallo: al lordo dei dipendenti in cassa integrazione, su base mensile l’occupazione resta ferma, mentre in termini tendenziali scende dello 0,4%. Guardando ai primi dieci mesi del 2011 la perdita accumulata risulta così pari allo 0,6%. Difficilmente con novembre e dicembre si potrà invertire la tendenza e sempre più il 2011 sembra destinato, come gli anni precedenti (a partire almeno dal 2008) a chiudersi negativamente. In particolare, la contrazione dei posti di lavoro risulta marcata nei settori trasporto e magazzinaggio (-3,2%), attività professionali, scientifiche e tecniche (-2,7%), costruzioni (-2,7%).

I decreti relativi alla cassa integrazione straordinaria sono stati oltre 6 mila da inizio anno fino a novembre, con un aumento del +3,24% sullo stesso periodo del 2010. Nel 60% dei casi la motivazione è stata per "crisi aziendale". Aumentano anche i casi di crisi strutturale delle aziende per fallimento, concordato preventivo e per amministrazione straordinaria, mentre restano sempre inconsistenti gli interventi che prevedono percorsi di reinvestimento e rinnovamento strutturale delle aziende, che sono il 7,68% del totale dei decreti. A fare un ricorso più alto dello strumento della cassa integrazione sono le regioni del Nord, guidate dalla Lombardia con 199.747.541 ore che corrispondono a 104.909 lavoratori (prendendo in considerazione le posizioni di lavoro a zero ore dall’ inizio dell’anno). Al secondo posto il Piemonte con 138.792.989 ore per 72.895 lavoratori e a seguire il Veneto con 79.798.397 ore di cig autorizzate per 42 mila lavoratori. Nelle regioni del centro c’è il Lazio con 63 milioni di ore che coinvolgono 33 mila lavoratori. Mentre per il Mezzogiorno è la Campania la regione dove si segna il maggiore ricorso alla cig con 57 milioni di ore per 30 mila lavoratori.

La cassa integrazione è utilizzata soprattutto nel settore della meccanica, che pesa per 324.069.597, coinvolgendo 170.205 lavoratori (prendendo come riferimento le posizioni di lavoro a zero ore). Segue il settore del commercio con 111.080.649 ore di cig autorizzate per 58.341 lavoratori coinvolti e l’edilizia con 80.346.765 ore e 42.199 lavoratori. Anno nuovo, problemi vecchi.

La Stampa 03.01.12

"Bufera sui tirocini: sono troppi. Patroni Griffi blocca il decreto sui 23 mila Tfa, vanno ridotti", di Alessandra Ricciardi

Semplicemente sono troppi, vanno ridotti. I posti autorizzati dal ministero dell’istruzione, uno degli ultimi atti firmati dall’ex ministro Mariastella Gelmini, vanno riportati al fabbisogno «reale» di nuovi docenti. É con questa motivazione che il ministro della funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, ha rispedito al mittente il decreto che si apprestava ad avviare in questi giorni 23 mila Tfa, i percorsi universitari di formazione. Nel minino in particolare i tirocini per le scuole secondarie superiori: 15 mila, quasi il triplo rispetto al fabbisogno stimato. Il decreto sui Tfa era stato uno dei motivi di frizione interna già nball’ex maggioranza di governo, con Comunione e liberazione che spingeva perché i numeri fossero ben più sostanziosi di quelli inizialmente indicati dalla Gelmini. Alla vigilia della caduta del governo, la Gelmini apre i cordoni e autorizza più posti di quelli preventivati, rispondendo così a quanti chiedevano più giovani da immettere nel sistema, scalzando l’unicità di fatto delle graduatorie permanenti (da cui lo scorso anno sono state fatte 65 mila assunzioni). Ora tocca al nuovo responsabile di viale Trastevere, Francesco Profumo, dipanare la matassa, resa ancora più ingarbugliata dalla recente posizione della Funzione pubblica. Perché è vero che si sono autorizzati posti per classi di concorso assai inflazionate e che difficilmente potranno dare uno sbocco occupazionale nei prossimi anni, ma è anche vero che al dicastero dell’istruzione risultano per l’anno in corso oltre 120 mila contratti di supplenza di lunga durata: 38 mila per il sostegno, gli altri su cattedre ordinarie, di cui 71 mila fino al 30 giugno.

Numeri destinati a crescere se sarà confermata la previsione che vede per quest’anno un boom di domande di pensionamento (si veda ItaliaOggi di martedì scorso). La Funzione pubblica ha richiamato il rispetto dei paletti fissati dal decreto ministeriale n. 249/2010: per determinare il numero dei posti annualmente disponibili per l’accesso ai Tfa si fa riferimento al reale fabbisogno definito in base alle rilevazioni regionali e maggiorato a livello nazionale del 30%. Nulla però dice il decreto sull’organico di riferimento in base al quale calcolare le necessità (di diritto oppure di fatto, tradizionalmente sempre più abbondante). La prossima settimana i vertici dell’Istruzione si sono impegnati a incontrare i sindacati per chiarire la questione. Anche perché su una cosa Profumo non sembra avere indecisioni, ovvero sul fatto che i Tfa vanno banditi in tempo utile per concludersi entro l’anno. Sullo sfondo sempre il progetto di un nuovo concorso nel 2012, a cui possano accedere i Tfa. Ed è proprio per questa eventualità che i sindacati hanno chiesto di poter vedere anche le carte del nuovo reclutamento, per chiarire lo spazio che avranno i vecchi precari e quello dei nuovi formati. Intanto, sarà oggetto di revisione, se non addirittura di annullamento, anche il decreto che istituisce i corsi di abilitazione per infanzia e primaria. Interessati i docenti in possesso del diploma magistrale conseguito entro il 2001/02.

da ItaliaOggi 03.01.12

"I tre richiami di Napolitano", di Federico Orlando

Risanamento, crescita e giustizia, sono i tre imperativi richiamati da Giorgio Napolitano al governo Monti la sera di san Silvestro. E ai sindacati il dovere di restare fedeli alla loro storia di difensori della democrazia, ai partiti il dovere di ritrovare la politica, per adeguare lo stato, le istituzioni, gli apparati e garantire governi in fruttuosa alternanza, che trovino nella competizione oltre che nel dovere gli stimoli per ricostruire la morale civile, pensare alla parte più povera della società, tagliare le spese parassitarie, ricondurre riottosi e corporazioni sotto la legge, sviluppare le prospettive delle imprese sane, dare lavoro ai giovani alle donne e agli espulsi dalla produzione.
Salvare l’Italia in Europa e l’Europa dalle sue turbe ereditarie modello ungherese e da nuovi egoismi, guarire e rimettere in corsa quell’Italia positiva che il presidente ha incontrato, nell’annus horribilis 2011, ripercorrendo i 150 dell’unità nazionale, accolto dovunque da folle di buona volontà che con lui hanno ritrovato orgoglio e speranza.
Ascoltandolo, ricordavo che nell’ampia pubblicistica in vista del centocinquantenario, ci sono stati studiosi che hanno ricercato ancora una volta L’identità italiana (Galli della Loggia) partendo dalle stesse coordinate geografiche della penisola, centro d’Europa all’incrocio tra la via che unisce il blocco francoiberico e le pianure dell’Est, e la via breve o brevissima tra il forte Nord atlantico e la sponda mediterranea dell’Africa e del Levante. Nasce dalla crisi politica e istituzionale di quell’incrocio la remota ma ancora virulenta decadenza che in millecinquecento anni senza patria ha cronicizzato nella penisola l’omologazione del problema politico-statuale a una vera e propria “questione morale”. Nessuna meraviglia se l’Italia sia stata un agglomerato senza popolo e un paese senza stato.
Nessuna meraviglia se all’inizio della peregrinazione presidenziale del 2011, si stampavano raccolte come Scusi, lei si sente italiano? dove Malaparte rispondeva: «Non so che farmene di una patria che non sopporta la verità»; e Flaiano: «Per molti l’Italia non è una nazionalità ma una professione»; mentre Montanelli si spingeva fino alla totale identificazione: «Quel poco che sono, sento di esserlo come italiano»; e Berselli consigliava la via mediana fra le Italie (al plurale, come cantavano nel ’500 i conquistatori francesi di Carlo VIII): «Conviene sceglierne un paio decenti, e limitare l’orgoglio a quelle». Paese difficile, politica difficile.
Perciò, quando la tv ha calato il sipario sulla scena familiare del presidente senza retorica e senza orpelli, che in ventuno minuti ci aveva spiegato passato presente e futuro del paese senza sforzi mentali per gli ascoltatori, abbiamo avuto la sensazione che, al di là della tavola apparecchiata, si materializzassero, uno affianco all’altro negli scaffali, opere come Una e indivisibile, raccolta degli sforzi di Napolitano sulle capacità degli italiani, sulle loro risorse umane, di intelligenza e di lavoro, necessarie a superare «prove più che mai ardue, profonde e di esito incerto»; e quelle sulla coscienza liberale dello stato, Lo scrittoio del Presidente e Prediche inutili di Luigi Einaudi. Dove “inutili” in parte sta per non lette, in parte inascoltate, in parte dimenticate, ma instancabilmente ripetute e da ripetere agli uomini di buona volontà: quali del resto furono “la minoranza eroica” del Risorgimento e della Resistenza, l’“Italia di minoranza” che fece lo stato, ma anche la stragrande maggioranza operosa della ricostruzione. Parole, direbbe l’inventore della porcata.
Ma costui sa cosa significano e cosa fanno le parole? Per esempio, quelle del Discorso del Re e quelle del Mein Kampf? Sono stati bravi gli studiosi che alla vigilia di san Silvestro, commentando alla Sapienza il saggio di Napolitano, vi avevano colto l’intreccio tra il linguaggio della politica e quello della storia: la “storia comune”, senza irenismi, di cui aveva parlato Pietro Scoppola. Unico linguaggio per andare al profondo del problema: cioè al divorzio tra politica e cultura, che da qualche decennio stravolge il necessario ripensamento dell’idea di Nazione.
Che nell’età della globalizzazione non è più, forse – dice Galasso – «il plebiscito di ogni giorno» come l’aveva inteso Renan, ma in nessun caso può essere il ritorno al Medio evo della vallata alpina, della rocca appenninica, della contea imperiale o vescovile e della sua economia curtense: le mille piccole patrie di un volgo disperso che nome non ha. Il messaggio di Napolitano, che ha reso semplice e naturale quest’intreccio di linguaggi, ha aperto proprio con esso le finestre sul presente e sul futuro.
Sacrifici non brevi, che solo la giustizia e l’equità potranno rendere accettabili Napolitano l’ha ricordato al governo Monti, all’Europa, ai partiti, ai responsabili d’ogni settore della vita pubblica ed economica, ai sindacati: per un verso richiamando precedenti prove, superate dagli italiani con la coesione nazionale, come quella del 1978, col cadavere di Moro gettato in faccia ai Palazzi della politica, anche allora latitante, e con l’inflazione al 20 per cento, che devastava milioni di famiglie a reddito fisso; così come oggi le devastano i delinquenti che in poche settimane hanno trafugato all’estero 11 miliardi di euro, degno compimento di una stagione, la loro, di ignominie morali, fughe dalla giustizia, abbandono del governo agli immeritevoli, disuguaglianze sociali enormi a favore delle caste, debito sovrano in ulteriore crescita, disoccupazione e inoccupazione, e addirittura rinuncia all’idea stessa di un lavoro da parte di milioni di giovani e donne.
Per un altro verso, il presidente è parso sollecitare scadenze al dovere del governo di fare le cose che ora i cittadini aspettano, dopo aver accolto con disciplina, quasi di guerra, i sacrifici richiesti. Così già ieri i giornali intitolavano sui due nodi cruciali che il governo dovrà affrontare ad horas: il lavoro e la spesa. Si parla di 25 mila voci e dieci tipologie di inefficienze, con tagli per 5 miliardi di euro; si parla di allarme dei sindacati per altre decine di migliaia di posti a rischio; si preannunciano incontri “rapidi e concreti” del governo coi singoli sindacati, per trattare sul lavoro.
Non anche sulle altre questioni economiche, che spettano al governo.
Così si comincia anche a ripristinare le sfere di competenza, in uno stato che voglia tornare interamente alla Costituzione e alla concretezza.
E si eviteranno le “parole magiche” e gli “scatoloni vuoti”, che Einaudi denunciava negli anni Cinquanta, e si tornerà per tutti a quella severità che la breve stagione di Padoa Schioppa ci aveva lasciato intravedere e che Napolitano ha rilanciato, senza complessi verso quegli stessi “compagni” che deplorano il suo linguaggio come “liberale”.
Quasi che, in origine, liberale non fosse sinonimo di rivoluzione.
E quasi che, in un’Italia abbandonata da decenni al malgoverno della non politica, lasciando crescere le erbacce velenose dell’egoismo e dell’illegalità, non ci fosse bisogno proprio di una rivoluzione. Che in Occidente, cari compagni, chiamerebbero liberal, guarda un po’.

da Europa QUotidiano 03.01.12

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“Il messaggio del presidente al Pd”, di Rudy Francesco Calvo

Non è casuale che nel discorso di fine anno Napolitano abbia richiamato il suo passato di dirigente politico
Il rapporto tra Giorgio Napolitano e il Partito democratico ha vissuto nel tempo periodi più o meno favorevoli. In queste settimane, la principale preoccupazione che trapela dal Colle riguarda la tenuta del governo: il capo dello stato non perde occasione per rivendicare l’opportunità della scelta, da lui sostenuta con forza, del rinvio dello scontro elettorale, che avrebbe rappresentato al contrario «un azzardo pesante dal punto di vista dell’interesse generale del paese». Una visione, quella ribadita da Napolitano nel suo discorso di fine anno, che buona parte dei vertici del Pd non condivide, sostenendo piuttosto che l’incarico a Mario Monti sia stata una scelta (che loro pur sostengono), ma non era l’unica possibile per mettere in salvo il paese.
Anche per questo, il presidente non vede arrivare solo da destra i rischi per l’esecutivo: anzi, essendo in questa fase soprattutto la constituency del centrosinistra a soffrire gli effetti della manovra salva-Italia, la tentazione di staccare la spina potrebbe essere più forte in casa dem prima della prossima primavera, scadenza oltre la quale il passaggio elettorale diventa oggettivamente complicato.
Non è un caso, allora, che Napolitano abbia richiamato esplicitamente nel suo intervento a reti unificate la propria appartenenza a «una lontana, lunga esperienza politica concepita e vissuta nella vicinanza al mondo del lavoro». L’appello rivolto in prima battuta alla responsabilità dei sindacati, in vista delle «grandi prove che abbiamo davanti», non può non trovare orecchie attente anche al Nazareno. D’altra parte, anche in quel «terribile 1977» ricordato dal presidente, non fu solo la Cgil di Luciano Lama ad addossarsi sacrifici e responsabilità di fronte ai propri iscritti e lavoratori. Ad affiancare il sindacato nella strada della responsabilità e del dialogo, c’era il Pci di Enrico Berlinguer, ma anche di un Giorgio Amendola che proprio in quella fase vedeva affermarsi con più forza la propensione al governo e al dialogo del proprio partito, da lui sostenuta.
Un parallelismo che Napolitano non esplicita, ma che emerge dal medesimo contesto di crisi (stavolta solo economica, anche se i sindacati prefigurano anche conseguenze sul piano sociale), dal rinnovato rapporto tra Pd e Cgil e dal contestuale richiamo a tutti i partiti «per la ricerca di intese tra loro sul terreno di riforme istituzionali da tempo mature». Insieme alla necessità «di rinnovarsi e di assolvere alla funzione insostituibile che gli è propria di prospettare e perseguire soluzioni per i problemi di fondo del paese». Un richiamo che ricorda molto quello a favore di un’alternativa di centrosinistra «credibile, affidabile e praticabile », già pronunciato lo scorso maggio.
Il capo dello stato si era rivolto indirettamente ai Democratici anche attraverso la lettera pubblicata tra Natale e Capodanno dalla rivista Reset, in occasione del cinquantenario della morte di Luigi Einaudi.
Un’occasione colta da Napolitano per ricordare alle «forze riformiste » italiane ed europee «l’esigenza di perseguire nuovi equilibri, sul piano delle politiche economiche e sociali», riprendendo proprio dall’eredità del liberale Einaudi «riflessioni e stimoli fecondi». Secondo il presidente, «il recupero di simili approcci e contributi di pensiero ai fini di una revisione, di un adeguamento al nuovo contesto generale, della piattaforma programmatica e di governo delle forze riformiste, non può apparire né improprio né arduo».
Considerazioni che non hanno trovato un’accoglienza favorevole nella sinistra dem.
E, stando a indiscrezioni filtrate dal Nazareno, sembrerebbe che anche il discorso di fine anno del capo dello stato abbia innervosito qualche alto dirigente del Pd.

da Europa Quotidiano 03.01.12

"Le donne dell'Omsa chiamano il governo: faccia rispettare i patti", di Giulia Gentile

A voce, Golden lady rassicurava per l’ennesima volta sindacati ed istituzioni locali di aver trovato un imprenditore «X» pronto ad acquisire il capannone Omsa di Faenza. E a garantire pure il reimpiego di parte dei 240 lavoratori, quasi tutte donne, dopo che lo storico marchio di calze e collant aveva annunciato due anni fa la decisione di chiudere nel Ravennate per andare a produrre a costi più bassi in Serbia. Intanto, con le mani il gruppo leader nel settore firmava la lettera di licenziamento per tutti i suoi operai romagnoli. Decorrenza: 14 marzo, allo scadere dei due anni di cassa integrazione straordinaria. L’«effetto Marchionne» si fa sentire anche nel settore tessile, nella rossa Emilia-Romagna e in un marchio simbolo per le gambe femminili come Omsa. E così, dopo aver siglato davanti a ministero e istituzioni ben due accordi che promettevano il mantenimento dei posti di lavoro, e anche di un qualche tipo di produzione, nella cittadina ravennate, il 27 dicembre scorso Golden lady ha scelto di agire in deroga totale agli accordi precedenti. Anticipando ai sindacati le raccomandate che annunciavano la messa in mobilità per tutti i dipendenti, allo scadere dei due anni di cassa integrazione. Solo quattro giorni prima, il 23, antivigilia di Natale, l’azienda aveva ribadito ai sindacati l’interesse di un gruppo di soci per l’acquisto del capannone Omsa. Aggiungendo che la trattativa si era arenata per il mancato accordo sul prezzo. Le parti, infine, si erano aggiornate a giovedì 5 gennaio. Difficile per i sindacati credere che, dall’antivigilia di Natale al post-Santo Stefano sia cambiato qualcosa di essenziale. E che, dunque, mentre da una parte Golden lady rassicurava sul futuro dei lavoratori, dall’altra non avesse già pronta la carta da lettere. «Se c’è davvero un progetto industriale, da parte di questo gruppo anonimo di imprenditori che intenderebbe rilevare il capannone e parte dei dipendenti si chiede allora Samuela Meci (Filctem-Cgil) che senso ha la scelta di Golden lady di licenziare tutti?». Le ultime indiscrezioni sulle trattative dell’imprenditore Nerino Grassi (Golden lady) con il misterioso «gruppo X» parlavano di un probabile acquirente che non opera nel settore tessile. E che preferirebbe continuare a restare anonimo finché non andrà in porto l’accordo sul costo del capannone: Grassi chiederebbe 20milioni di euro, il «gruppo X» sarebbe disposto a dare 13milioni, più altri tre per la ristrutturazione. E la garanzia di riassorbire 140 sui 240 dipendenti che, da mesi, continuano a tenere aperta la ditta lavorando 4 ore a testa per 15 giorni al mese. Ma Meci ha ben poche speranze sul fatto che, se una qualche trattativa esiste davvero, possa fruttare qualcosa ai lavoratori. «Di questo gruppo interessato si sa solo da Golden lady dice nessuno ha detto ancora “sono io, e ho piani seri”. Come faccio a non temere?» All’annuncio dei licenziamenti, le segreterie nazionali di Filctem-Cgil, Femca-Cisl e Uilta-Uil avevano immediatamente chiesto il ritiro delle lettere di licenziamento. Giudicando «inaccettabile e irrispettoso» il gesto di Golden lady. Posizione ribadita anche dall’assessore regionale alle Attività produttive, Gian Carlo Muzzarelli. Ma dalla scorsa settimana ad oggi nessuno, a partire dai lavoratori, ha più saputo nulla di quale sarà il destino di Omsa. Unica novità: l’assemblea aperta fissata da Filctem-Cgil per la sera del 4 gennaio, alla vigilia del prossimo incontro. «Dovrei rientrare a lavorare il 9 racconta Nadia, 47 anni, 27 trascorsi alla Omsa-ma non ho saputo nulla. È da agosto che temo che si sarebbero dimenticati tutti di noi. Nel frattempo è arrivato il Natale, e poi il Capodanno. Marzo è alle porte, e non si capisce ancora che fine faremo». Da parte sua, Meci ha scritto al ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera. Due accordi, che avevano per garanzia la ricollocazione di tutti i lavoratori, sono stati siglati davanti al ministero: ora, per la sindacalista, Roma deve intervenire. «Ci aspettiamo che il governo garantisca il rispetto dei patti l’appello . Altrimenti si creerebbe un bruttissimo precedente, ogni azienda potrebbe fare quel che vuole».

L’Unità 03.01.12