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"Il costo sociale", di Claudio Sardo

Gli aumenti dei prezzi di benzina e diesel, dei pedaggi autostradali, delle tariffe elettriche e del gas segnano l’amaro esordio del 2012. Dopo le successive manovre dei governi Berlusconi e Monti rappresentano per molti aspetti il nostro stato di necessità. Tuttavia prezzi e tariffe non sono dati di natura. E non tutti gli aumenti sono eventi ineluttabili.Pur dentro il mercato un governo ha facoltà di attivare controlli, verifiche, e dove possibile modulare, calmierare. Ieri su l’Unità Ruggero Paladini ha spiegato come le tariffe elettriche e del gas siano sottoposte all’autorità dell’energia, che le convalida
sulla base dei costi di produzione, mentre invece l’aumento del 3,5% dei pedaggi autostradali sia avvenuto senza la verifica di un’autorità indipendente. Non tutto è uguale, dunque. E si può
dubitare dell’opportunità di un aumento (maggiore del tasso di inflazione) per le autostrade in concomitanza con l’incremento delle accise sui carburanti (per un valore di sei miliardi di euro). Ancor più si può oggi contestare quanto sbagliata sia stata la scelta del governo di sottrarre le autostrade all’autorità dei trasporti. Il governo deve agire per contenere i prezzi. Invece sta facendo meno del dovuto. Ammesso che l’aumento delle accise fosse inevitabile in questa misura, perché non avviare subito quelle misure di liberalizzazione sulla filiera distributiva dei carburanti che possono ridurre la benzina di10 centesimi? I petrolieri sono forse più potenti dei farmacisti, ma guai se il governo avesse paura. Peraltro gli aumenti di questi giorni sono destinati a incidere su tutti i prezzi al consumo, danneggiando innanzitutto le famiglie e i ceti più deboli. Avranno effetti depressivi: perciò occorre frenare la spirale (e investire con coraggio in nuove politiche per il lavoro). Altrimenti equità e crescita diventeranno solo vane invocazioni.

L’Unità 03.01.12

L´agenda di Bersani per le riforme "È il momento del dialogo sociale", di Pier Luigi Bersani

Caro Direttore, come tutti dicono, abbiamo davanti un anno arduo e non semplice da interpretare. Vale forse la pena di “progettarlo” un po´, togliendo di mezzo un eccesso di fatalismo. Vorrei cominciare con qualche prima idea.
1. La scena si apre sull´Europa. Fino ad ora le decisioni sono state deboli. L´agenda da qui a marzo di per sé non rassicura. Nelle opinioni pubbliche è ancora dura come il marmo quell´ideologia difensiva e di ripiegamento che le destre europee hanno coltivato, ricavandone inutili vittorie, e che i progressisti non hanno potuto o saputo contrastare, ricavandone larghe e dolorose sconfitte. Inutile illudersi. O si mette in comune rapidamente e seriamente la difesa dell´Euro (vincoli di disciplina, strumenti efficaci e condivisi contro la speculazione e per la crescita, politiche macroeconomiche coordinate) o sarà il disastro. Se davvero l´Italia è troppo grande sia per fallire che per essere salvata, allora è troppo grande anche per stare zitta. È tempo che ciascuno di noi faccia la sua parte in Europa; il Partito Democratico sta lavorando per la piattaforma comune dei progressisti europei. Ma è tempo anche di fare qualcosa assieme, qui in Italia. Governo e forze politiche possono determinare una posizione nazionale. Il Parlamento (che non esiste solo in Germania!) può articolarla e assumerla. Il nostro Presidente del Consiglio può interpretarla e gestirla al meglio. Le idee ci sono e vedo su di esse la possibilità di una larga convergenza. Il biglietto da visita delle nostre idee in Europa potrebbe essere così concepito: noi continueremo le nostre riforme e ci riserviamo ogni ulteriore iniziativa per rafforzare la nostra credibilità. Ma non faremo più manovre. A chi raggiunge il 5% di avanzo primario che cosa altro si può chiedere? Nel caso, nessuno pensi di trattarci come la Grecia. Come si diceva, siamo troppo grandi e quindi parecchio ingombranti. Se ne tenga conto.
2. Torniamo qui ai nostri compiti. Salvare l´Italia significa, al concreto, contrastare la recessione, produrre crescita e occupazione, dare una prospettiva alla nuova generazione. Salvare l´Italia è possibile solo se cambiamento e coesione si danno la mano. Se coesione e cambiamento diventassero un ossimoro, non ci sarebbe speranza. L´azione di governo deve dunque possedere un metodo fondamentale e un fondamentale messaggio. Quanto al metodo, emergenza e transizione pretendono una forma particolare di dialogo sociale tale da sollecitare partecipazione e corresponsabilità, salvaguardando comunque la decisione tempestiva. Si può fare e, a parer mio, si deve fare. Ma voglio sottolineare in particolare il metodo politico. Il Governo troverà la sua forza in un rapporto stabile, permanente e ordinato con i Gruppi Parlamentari; un rapporto da allestire anche nella fase ascendente delle decisioni. Si parli di mercato del lavoro, o di liberalizzazioni, o di politica industriale, di pubblica amministrazione, di immigrazione, di Rai e di cento altri temi, esistono in Parlamento, da ogni lato, idee inevase da anni e non necessariamente divisive. Dica il Governo il suo piano di lavoro, raccolga dal Parlamento orientamenti e idee e avanzi quindi le sue decisioni e le sue proposte. Noi non pretendiamo il cento per cento di quel che faremmo, e così sarà per gli altri. Ma la trasparenza e la chiarezza servono a tutti. Quanto al messaggio fondamentale, se nell´emergenza è in gioco il comune destino del Paese, si deve innanzitutto promuovere un´idea di comunità degli italiani. Ci si ricordi allora che la solidarietà è la materia prima di una comunità, è ciò che la distingue da una accozzaglia anarchica di interessi. Se vogliamo farcela, tutti assieme, i riflettori vanno dunque puntati su chi è più in difficoltà. Bisogna predisporre l´aiuto a chi sta vivendo e vivrà le condizioni più difficili, come l´assenza di lavoro, l´insufficienza di reddito o una disabilità abbandonata. Su questo, non ci siamo ancora. Occorre fare di più, cominciando col cancellare qualche inutile asprezza di alcune misure già adottate che suscitano un giusto risentimento
3. La grande parte delle forze politiche e parlamentari si dichiarano interessate e disponibili ad una iniziativa di riforma delle Istituzioni e della politica. Il Presidente della Repubblica la sollecita autorevolmente. È evidente che un simile percorso significherebbe stabilità per il Governo e maggiore credibilità della politica e delle Istituzioni nella prospettiva della nuova legislatura. Sto parlando della già avviata adozione di parametri europei nei costi della politica, di riduzione del numero dei Parlamentari, di riforma del bicameralismo, di radicale aggiornamento dei regolamenti parlamentari e, alla luce delle prossime decisioni della Corte, di riforma elettorale. Su tutto questo esistono proposte e appaiono possibili convergenze significative. Si intende fare sul serio? Intendiamo davvero passare dalle parole ai fatti? Questo pronunciamento tocca innanzitutto ai segretari dei partiti, ovviamente non solo a quelli che hanno votato la fiducia al Governo, ma a partire da loro. C´è poco tempo ed è quindi ora di prendersi impegni pubblici, espliciti e dirimenti.
I tre punti che ho segnalato dovrebbero essere, a parer mio, l´agenda di gennaio. Infine una parola per chi, nel gioco ormai stucchevole fra tecnica e politica, si predispone a promuovere, chissà in quali forme nuove, l´edizione 2012 dell´antipolitica. L´Italia ha già dato. Per quello che ci riguarda il Partito Democratico ha compiuto un gesto propriamente politico, trasparente e generoso, nel sostenere questa transizione e si predispone ad offrire agli elettori, quando sarà il momento, una proposta riformista e democratica di ricostruzione, alternativa al decennio populista. Siamo pronti a riconoscere in termini nuovi i codici e i limiti della politica. Anche in questo difficile passaggio, tuttavia, siamo convinti di poterne rafforzare la dignità e l´indispensabile ruolo.

La Repubblica 03.01.12

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«Ora riforme» Il programma anti-recessione di Bersani, di Simone Collini

Il leader Pd in questi giorni di pausa dei lavori parlamentari non ha interrotto i contatti col governo e le altre forze che sostengono Monti. «Ora politiche per lo sviluppo, riforme istituzionali e legge elettorale». Far sentire in Europa la voce dell’Italia sulle misure a difesa della moneta unica. Mettere in campo le politiche necessarie per produrre crescita e occupazione. Avviare in Parlamento un confronto sulle riforme istituzionali e per una nuova legge elettorale. Sono i tre punti in cima all’«agenda Bersani». Il leader Pd, in questi giorni di pausa dei lavori parlamentari, non ha interrotto i contatti col governo e con i leader degli altri partiti che sostengono Monti. E il ragionamento che ha fatto in questi colloqui è che il 2012 sarà «un anno molto difficile», che l’Italia uscirà dalla crisi «solo se ci saranno insieme cambiamento e coesione».
COME CONTRASTARE LA RECESSIONE
In particolare, l’agenda su cui Bersani vuole aprire il confronto con governo e altre forze politiche alla ripresa dei lavori parlamentari prevede un pacchetto di misure per «contrastare la recessione, produrre crescita ed occupazione e tutelare i più deboli». Si va dalle norme sulle liberalizzazioni a proposte sulla politica industriale alla necessità di avviare una riforma sugli ammortizzatori sociali («oggi il problema non è licenziare dice quando viene sollevato il tema dell’articolo 18 ma creare lavoro e renderlo meno precario»).
L’altro punto su cui Bersani vuole accelerare riguarda le riforme istituzionali e la legge elettorale. Lo ha spiegato ai leader delle altre forze che sostengono l’esecutivo dicendo che ora compito dei partiti è «disegnare un percorso per ridare credibilità alla politica e alle istituzioni». Anche in prospettiva della prossima legislatura. Per il leader del Pd va superato l’attuale bicameralismo e ridotto il numero dei parlamentari, ma soprattutto non si può andare a votare per la terza volta con il “Porcellum” e quale che sia la sentenza della Consulta sul referendum, il Parlamento deve avviare un confronto per giungere in tempi rapidi a un nuovo sistema di voto. «Il Pd ha depositato la sua proposta, facciano altrettanto gli altri».
L’ITALIA E LA DIFESA DELL’EURO
C’è poi un terzo punto dell’«agenda Bersani» (di cui il leader Pd parla anche in un’intervento pubblicato oggi da Repubblica) che riguarda Europa e moneta unica. Per il segretario dei Democratici finora sono state prese decisioni «deboli» e bisogna subito attuare provvedimenti seri a difesa dell’Euro. Il ragionamento di Bersani è che l’Ue «non può solo chiederci manovre», e che «se l’Italia è troppo grande per fallire e per essere salvata, è anche troppo grande per stare zitta». Quanto proposto e prodotto dall’asse Merkel-Sarkozy non convince affatto il leader Pd. Per questo Bersani ritiene necessario aprire un confronto anche sul piano comunitario, a livello di governi ma anche di forze politiche. Anche i contatti con i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi proseguono, per arrivare in tempi rapidi alla definizione di una piattaforma comune.

L’Unità 03.01.12

"Una strada in salita", di Paolo Baroni

Facile dire lavoro. Che quella occupazionale sia una vera emergenza ce lo dicono le cronache di tutti i giorni (quelle che raccontano delle proteste) e le statistiche, ufficiali e non. Se nel calcolo della disoccupazione si tiene conto degli operai in cassa integrazione a zero ore l’indice schizza dall’8,5 ufficiale al 13 per cento. La crisi non solo è drammatica ma ormai è conclamata. Le ricette per affrontarla, però, sono tutt’altro che chiare. Anzi, l’impressione è che le due agende, quella del governo e quella dei sindacati, proprio non coincidano. L’esecutivo, quando parla di lavoro, pensa essenzialmente alle regole, alla riforma dei contratti, «senza escludere nulla» e «senza pregiudizi», come hanno ripetuto negli ultimi giorni sia il presidente del Consiglio sia il ministro del Lavoro.

La questione articolo 18, o se vogliamo, nella sua traduzione più comune, il tema della libertà di licenziare, dopo le polemiche di fine anno, non è formalmente sul tavolo.

Ma il punto, per l’esecutivo, è – e resta – sempre quello: creare le migliori condizioni per le imprese, semplificare le procedure e metterle nelle condizioni di assumere più facilmente. Certo, si parla anche di nuovi ammortizzatori, ma finora l’enfasi è sempre stata messa sul primo tema. E comunque, molto pragmaticamente, il ministro Fornero fa anche sapere che «tesori nascosti» per finanziare nuovi interventi non ce ne sono e che il governo può eventualmente scrivere nuove regole, ma non può certamente creare dal nulla nuovi posti.

Di contro i sindacati puntano ad altro. Parlano sempre di lavoro, ma chiedono un piano complessivo. Pensano ad un grande patto governo-parti sociali dove la questione delle regole può essere solo uno dei temi di discussione, non certo quello centrale. Pensano innanzitutto ai soldi. Sollecitano nuovi ammortizzatori, e poi chiedono – legittimamente dal loro punto di vista – interventi per ridurre la precarietà. Ovvero maggiori protezioni, che non è la stessa cosa delle semplificazioni che potrebbero essere introdotte con un ipotetico «contratto unico» o «contratto prevalente» che sia.

A parole il ministro Fornero, sin dalla sua prima dichiarazione pubblica, a Torino due giorni dopo l’insediamento del nuovo governo, prendendo spunto dalle vicende Fiat, aveva detto di volersi schierare assolutamente dalla parte dei lavoratori. E questa è la linea che intende seguire nella partita che sta per aprirsi ora. Il messaggio, però, non sembra sia stato colto a pieno dai sindacati che il primo dell’anno hanno rilanciato con molta forza l’allarme lavoro. E che ora pressano Monti e c. per interventi rapidi in grado di tamponare la crisi.

La questione-tempo è certamente condivisa da Monti, che però, in questo schema di convergenze divergenti, la legge tutta a suo modo: massima disponibilità al dialogo «pur nell’esigenza di operare con la sollecitazione imposta dalla situazione». Che nella traduzione data da osservatori e stampa è diventata: vediamoci, ma al Consiglio dei ministri del 20 gennaio, in vista dell’Eurogruppo del 23, io dovrò comunque portare un primo abbozzo di misure. Tempi certamente troppo stretti per i sindacati, abituati a ben altre liturgie, ma – ad onor del vero – troppo stretti anche per produrre una riforma che abbia un minino di senso compiuto.

La strada, insomma, è in salita. Ed i rischi di ulteriore innalzamento dei toni e dello scontro sono destinati ad aumentare. Se poi, come è dovuto, il confronto si allarga a tutte le parti sociali, a cominciare da Confindustria (che vorrebbe più flessibilità ma non vuol rompere con la Cgil, che soffre l’articolo 18 ma vorrebbe intervenire anche sul 30 relativo ai poteri dell’imprenditore), la partita rischia di complicarsi ancora di più. Perché a questo punto le agende che finiscono per non collimare rischiano di essere addirittura tre.

La Stampa 03.01.12

"La recessione, i tagli e la lezione di Keynes", di Paul Krugman

“Il momento giusto per l´austerità al Tesoro è l´espansione, non la recessione”: così dichiarò nel 1937 John Maynard Keynes, proprio quando da lì a poco Franklin Delano Roosevelt avrebbe dimostrato la correttezza di questo suo dogma cercando di rimettere in sesto il budget troppo presto e spingendo in una profonda recessione l´economia che fino a quel momento si stava riprendendo con continuità. Tagliare la spesa pubblica in un´economia depressa deprime ancor più l´economia. Per l´austerità si dovrebbe attendere che sia già ben in corso una forte ripresa.
Purtroppo, alla fine del 2010 e all´inizio del 2011, le autorità e i politici di buona parte del mondo occidentale hanno creduto di sapere il fatto loro, di doversi concentrare sui deficit e non sull´occupazione, quantunque le loro economie avessero a stento iniziato a riprendersi dalla depressione che aveva fatto seguito alla crisi finanziaria. E seguendo questo principio anti-keynesiano ancora una volta hanno dimostrato che Keynes aveva ragione.
Dichiarando confermato il dogma economico keynesiano, vado naturalmente contro l´opinione dei più. A Washington, in particolare, il fallimento del pacchetto di stimoli messo a punto da Obama per creare un boom occupazionale in linea generale pare aver dimostrato che la spesa pubblica non può creare posti di lavoro. Coloro tra noi che avevano fatto bene i calcoli, però, si sono resi conto fin dall´inizio che il Recovery and Reinvestment Act del 2009 (oltre un terzo del quale, tra l´altro, ha assunto la forma di tagli fiscali relativamente inefficaci) era di troppa esigua entità, data la gravità della recessione, e avevano in aggiunta anticipato le ripercussioni politiche che ne sarebbero derivate.
Per tutto ciò la vera riconferma della validità dell´economia keynesiana non è arrivata dai poco determinati tentativi del governo federale statunitense di dare nuovo impulso all´economia – tentativi oltretutto in buona parte vanificati dai tagli a livello statale e locale –, ma è arrivata dalle nazioni europee come la Grecia e l´Irlanda costrette a imporre una draconiana austerità fiscale come presupposto per ottenere prestiti d´emergenza. Entrambi questi paesi hanno subito recessioni economiche di considerevole entità, equiparabile alla Grande Depressione, e un calo a doppia cifra del rispettivo Pil.
Non era previsto che le cose dovessero andare così, secondo l´ideologia prevalente nel nostro dibattito politico. Nel marzo 2011 lo staff repubblicano del Congress Joint Economic Committee ha reso noto un rapporto intitolato “Spend less, owe less, grow the economy” (spendi meno, fai meno debiti, fai crescere l´economia), che minimizzava le preoccupazioni di chi era convinto che i tagli alla spesa pubblica in periodo di recessione avrebbero soltanto aggravato quest´ultima, e sosteneva al contrario che tagliare la spesa avrebbe migliorato la fiducia dei consumatori e delle imprese e che ciò avrebbe portato inevitabilmente a una crescita più rapida, non più lenta.
Eppure, ormai si sarebbe dovuto avere maggiore buonsenso: i presunti esempi storici di un´ “austerità espansionistica” con i quali puntellavano le loro tesi erano già stati completamente demoliti. Oltretutto c´era anche il caso alquanto imbarazzante di molti esponenti della destra che alla metà del 2010 avevano dichiarato il caso irlandese una storia di grande successo un po´ troppo precocemente, documentando le virtù dei tagli alla spesa per assistere poi al forte aggravarsi della recessione irlandese. E il livello di fiducia provato dagli investitori si è completamente volatilizzato.
È sorprendente, a questo proposito, il fatto che all´inizio di quest´anno le cose si siano ripetute tali e quali: si è sbandierato e gridato ai quattro venti che l´Irlanda aveva svoltato davvero, e dimostrato di conseguenza che l´austerità funziona. Poi, però, le cifre hanno assestato un brutto colpo e si è rimasti ancora una volta delusi. Malgrado ciò l´insistenza a tagliare immediatamente la spesa pubblica ha continuato a prevalere nel dibattito politico, con effetti perversi sull´economia statunitense. È vero: a livello federale non ci sono state nuove drastiche misure di austerità, ma si è registrato un sacco di austerità “passiva” quando lo stimolo economico voluto da Obama si è stemperato e i governi statali e locali a corto di liquidi hanno continuato a tagliare la spesa.
Adesso qualcuno potrebbe sostenere che Grecia e Irlanda non avevano altra scelta se non quella di imporre l´austerità, che non avevano alternative se non dichiarare il fallimento e uscire dall´euro. Un´altra lezione che il 2011 ci ha insegnato, però, è che l´America aveva e ha un´alternativa. Washington sarà anche ossessionata dal deficit, ma i mercati finanziari stanno se non altro lanciando un segnale molto chiaro: dovremmo prendere più soldi in prestito.
Ancora una volta, anche in questo caso, non era previsto che le cose andassero così. Il 2011 è iniziato per noi con severi moniti a non ricalcare le orme della crisi debitoria greca, che da noi si sarebbe materializzata non appena la Federal Reserve avesse smesso di comperare bond, o quando le agenzie di rating avessero declassato la nostra tripla “A”, o non appena la “supercommissionetruffa” non fosse riuscita a trovare un accordo, o chissà che altro ancora. Invece la Fed a giugno ha posto fine al proprio programma di acquisto dei bond; Standard & Poor´s ad agosto ha declassato il rating americano; la supercommissione a novembre è arrivata a un punto morto; ma le spese legate ai prestiti hanno semplicemente continuato a scendere. In effetti a questo punto i bond statunitensi protetti dall´inflazione rendono un interesse negativo. E gli investitori sono disposti a pagare l´America affinché conservi i loro soldi.
La conclusione di tutto ciò è che il 2011 è stato l´anno nel quale la nostra élite politica è rimasta ossessionata dai deficit a breve termine, che non sono un problema reale, e così facendo ha invece inasprito notevolmente i veri problemi, che sono un´economia depressa e la disoccupazione di massa.
La buona notizia, per quel che vale, è che il presidente Barack Obama finalmente si è deciso nuovamente a contrastare l´austerità precipitosa e pare essere in procinto di vincere questa battaglia politica. Forse, in uno di questi prossimi anni, potremmo davvero finire col recepire il consiglio di Keynes, tanto valido oggi quanto lo era 75 anni fa.
Traduzione di Anna Bissanti

La Repubblica 03.01.12

"Risarcimento Eternit. Dal "sì" al "no" ora Casale ci pensa", di Mauro Facciolo

L’ amianto è un’emergenza nazionale che come tale va affrontata. E’ stato deciso di avviare un percorso, in tempi brevi, per permettere al Comune di Casale di esercitare un ruolo importante nella strategia nazionale di contrasto alle malattie correlate all’amianto e alle azioni di bonifica». Lo ha annunciato ieri ad Alessandria il ministro della Salute, Renato Balduzzi, dopo aver incontrato in prefettura una delegazione del Comune di Casale guidata dal sindaco Giorgio Demezzi. Un confronto a porte chiuse, durato quasi un’ora e un quarto, al termine del quale ministro e sindaco si sono detti «soddisfatti».

Già a metà gennaio a Roma ci sarà un vertice allargato ai ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico e alla Regione Piemonte durante il quale si affronteranno il tema dei finanziamenti e quello del sostegno alla ricerca scientifica contro la malattia killer, il mesotelioma pleurico, che nell’anno appena terminato solo a Casale ha fatto altre 58 vittime. Gran parte di queste erano cittadini qualunque, che non avevano mai lavorato all’Eternit. Si aggiungono ai circa 1700 morti registrati in città in questi decenni per patologie legate all’amianto.

Sullo sfondo dell’incontro alessandrino, l’offerta economica dello svizzero Stephan Schmidheiny, coimputato al maxiprocesso Eternit di Torino, e che ha lacerato in queste ultime settimane la città monferrina: 18,3 milioni di euro al Comune perché rinunci al suo ruolo, anche in futuro, di parte civile. Il ministro il 21 dicembre aveva telefonato al sindaco chiedendogli di riconsiderare il «sì» alla proposta espresso, fra le polemiche, dal Consiglio comunale.

«La richiesta di riconsiderare l’offerta è fatta perché per riuscire a convincere tutti, e non solo nel nostro Paese, che l’amianto è un’emergenza nazionale occorre che le comunità siano moralmente unite» ha sottolineato ieri Balduzzi.

E il sindaco non respinge la mano tesa dello Stato. Dice Demezzi: «L’incontro di metà gennaio consentirà di dare il via a un percorso non solo formale. Qualcosa comincia a muoversi. Casale diventa capofila e ci aspettiamo che questo serva a dare risposte concrete. Fin dall’inizio il nostro obiettivo era di dare risposte per quanto riguarda la bonifica e la ricerca, senza andare contro al desiderio di giustizia. Una decisione sull’offerta svizzera va presa prima della sentenza del processo Eternit, riferirò alla giunta e terremo senz’altro conto di quello che ci ha detto il ministro».

Il ministro dopo la delegazione del Comune ha incontrato l’Afeva, l’Associazione famigliari e vittime dell’amianto, presieduta dall’anziana e battagliera Romana Blasotti Pavesi, che piange cinque vittime della fibra killer in famiglia. Bruno Pesce, storico sindacalista che da decenni si occupa della vicenda Eternit, ha riassunto così a Balduzzi la reazione all’offerta svizzera: «E’ come sale sparso su una ferita, non compromette la vita, ma fa male». E «sul fronte della lotta all’amianto abbiamo bisogno disperatamente di una sponda nazionale». Nel rispondere all’Afeva, Balduzzi ha sottolineato che «l’emergenza non riguarda solo i 10 siti individuati in Italia e, più in generale, il nostro Paese, ma è di più lungo periodo. Sfugge forse a molti che fuori dall’Europa si continua a produrre amianto, con tutte le conseguenze che questo comporta. Credo anch’io che la vostra battaglia sia importante e non solo per Casale».

Il capoluogo monferrino, quindi, diventerà punto di riferimento. A cominciare dalla corretta «presa in carico» dei pazienti che hanno malattie causate dall’amianto: «Da subito convocherò un incontro tecnico per vedere come tenere conto dell’esperienza di Casale». Ma a Casale da quasi tre anni c’è anche un Centro di ricerca e prevenzione amianto. Di fatto, denuncia l’Afeva, l’attività è a rilento per scarsità di personale. L’impegno è di rilanciare anche questa struttura.

La Stampa 02.01.12

"La strategia Monti, le idee della sinistra contro la giungla dei lavori flessibili", di Roberto Mania

Dall´affitto agli incarichi a chiamata, il mercato degli impieghi è prigioniero oggi di decine di status diversi Un contratto unico per uscire dal dualismo del mercato del lavoro, dove c´è chi è garantito e chi non ha praticamente protezioni: a questo pensa il governo mentre prepara il difficile confronto con i sindacati Regole uniche per le pensioni, regole uniche anche nel mercato del lavoro. È l´obiettivo che si è dato il governo Monti. Dopo quindici anni di flessibilità spinta che ha portato a oltre quaranta tipologie contrattuali (dal lavoro in affitto fino al job on call, una vera giungla contrattuale) e che ci lascia, però, un tasso di occupazione giovanile tra i più bassi d´Europa (circa il 47 per cento contro una media Ue che viaggia intorno al 60 per cento), si è deciso di voltare pagina. Non un ritorno al passato, ormai improponibile nella competizione globale, ma il tentativo di chiudere la lunga stagione del dualismo nel mercato del lavoro: da una parte i protetti dalle leggi e dai contratti, dall´altra i precari quasi senza leggi e diritti contrattuali. Si prova a chiudere, pure, la presunta contrapposizione tra padri e figli. In fondo l´estensione nella forma pro rata del metodo contributivo per il calcolo della pensione rappresenta il fulcro di un nuovo patto generazionale nell´epoca dei lavori e non più del lavoro standard a tempo indeterminato. A regime la riforma Fornero permetterà di risparmiare 20 miliardi di euro. Risorse decisive per ridisegnare gli attuali ammortizzatori sociali, nati davvero in un´altra epoca del lavoro. Le proposte progressiste Nuovi ammortizzatori sociali, dunque, e nuove regole (omogenee) nel mercato del lavoro, due facce della stessa medaglia. Per ridurre – come ha già detto il premier Mario Monti – l´area della precarietà. Terreno che in questi anni ha continuato a presidiare, nonostante le tante contraddizioni, la sinistra politica. Le soluzioni in campo, infatti, quelle con cui il governo non potrà non fare i conti, sono nate a sinistra e presentate in Parlamento dalla sinistra. C´è la proposta del senatore giuslavorista Pietro Ichino che ha l´ambizione di riscrivere il diritto del lavoro; c´è il “contratto unico” a protezione crescente, nato nelle aule universitarie (i veri ispiratori sono gli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi) e “adottato” dal senatore Paolo Nerozzi (ex dirigente della Cgil); e c´è anche il “contratto unico di inserimento formativo” firmato da un´ottantina di parlamentari democratici (tra i quali l´ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano), una “terza via” partita in sordina rispetto alle altre due ma, alla vigilia del confronto tra governo e parti sociali, con qualche chance in più di arrivare al traguardo. Perché il “contratto prevalente”, così come per ora hanno cominciato a chiamarlo i tecnici del ministero del Lavoro somiglia molto al modello del contratto di inserimento, concepito per tagliare via la stragrande maggioranza dei contratti di lavoro precari. Le differenze, il nodo dell´art.18 Ci sono differenze non di poco conto tra i tre modelli a confronto, culture diverse e anche costi diversi a carico delle imprese. Ichino propone che le nuove assunzioni siano tutte a tempo indeterminato. Ma che sia anche possibile il licenziamento individuale per motivi economici, tecnici o organizzativi. Senza più il reintegro nel posto del lavoro, nel caso di licenziamento senza giusta causa (come prevede l´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), bensì con un´indennità economica di tre anni a carico in buona parte dell´impresa (da qui la sostanziale malcelata ostilità della Confindustria) pari al 90 per cento dell´ultima retribuzione per il primo anno, e poi all´80 e al 70 per cento. L´idea è quella di rendere il datore di lavoro direttamente responsabile nel progetto di ricollocazione del lavoratore licenziato. Nulla di simile c´è nella proposta Boeri e nel disegno di legge di gran parte del Pd. Entrambi puntano a una graduale stabilizzazione del rapporto di lavoro. Fino a tre anni di prova (l´ingresso nel lavoro), poi il contratto a tempo indeterminato. Nessun intento di modificare o attenuare lo spettro d´azione dell´articolo 18, mentre c´è l´idea (ne aveva accennato, seppur a titolo personale, la Fornero) di un salario minimo. Un tragitto che sembra aver ispirato le parole di Monti nella conferenza stampa di fine anno sul contrasto alla precarietà, ma anche la formula del “contratto prevalente” che si sta studiando al ministro del Lavoro.

La Repubblica 02.01.12

Le classi ci sono ancora ma la politica non sa più rappresentarle", di Carlo Buttaroni

Il conflitto sociale non scompare né si attenua: al contrario pone nuove istanze e nuove sfide davanti all’incalzare della crisi economica
La crescita dell’astensionismo determina problemi soprattutto alla sinistra. Esistono ancora le classi sociali? A rilanciare il tema, seppur in termini non così diretti come suggerisce la domanda, è stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo appassionato discorso di fine anno. Il Capo dello Stato ha più volte fatto riferimento ai lavoratori e alle forze produttive del Paese, ricordando le sue radici politiche, la sua vicinanza al mondo del lavoro, nonché il ruolo e lo slancio positivo del movimento operaio nei momenti più difficili della nostra Repubblica.
Qualche giorno prima, Susanna Camusso, in una bella e intensa intervista a l’Unità, anticipava gli stessi temi, denunciando quanto il peso della crisi economica fosse a carico dei lavoratori e dei pensionati.
Il presidente della Repubblica e la leader della Cgil, nelle loro riflessioni, hanno fatto spesso riferimento a classi di lavoratori e pensionati, pur declinandone il ruolo in un contesto nuovo e dalle inedite insidie com’è quello che stiamo vivendo. Eppure, intorno all’idea di “classe”, una certa retorica politica si è periodicamente esercitata a celebrarne la fine, ritenendola inadeguata a cogliere il profilo dinamico delle trasformazioni e delle tensioni che attraversano le società globalizzate.
In modo particolare, negli ultimi anni è prevalsa la convinzione della necessità di una nuova griglia interpretativa, al posto della tradizionale sintassi economica, capace di cogliere i paradigmi della nuova produzione. Ad alimentare questa convinzione è stata l’idea che la “classe” rappresentasse solo una posizione gerarchica riferita all’occupazione e al reddito. Mentre la “classe”, in realtà, non è un oggetto né un’unità di misura, bensì un sistema complesso di relazioni, in grado di esprimersi anche sul terreno degli orientamenti socio-politici e del comportamento di voto.
Nonostante la relazione fra classe e orientamenti elettorali possa oggi apparire in declino, la collocazione sociale continua a essere centrale nell’interpretazione dei comportamenti politici, evidenziando andamenti fluttuanti, come molti studi, a livello internazionale, hanno recentemente dimostrato.
In Gran Bretagna, ad esempio, la letteratura scientifica nega una tendenza al declino del voto di classe, evidenziando semmai degli andamenti altalenanti. Dopo essersi collocato a livelli elevatissimi negli anni del secondo dopoguerra, il voto di classe, infatti, cala nei primi anni Sessanta, risale a metà degli anni Settanta, durante gli anni del conflitto industriale, si mantiene elevato durante il lungo ciclo thatcheriano, per declinare progressivamente dal ‘97 a oggi.
Al contrario, in Germania, gli analisti evidenziano un crollo nell’immediato dopoguerra, una crescita nei primi anni Sessanta, un calo nel decennio successivo, rimanendo da allora a livelli bassi, ma con accentuate variazioni regionali, legate alle radici culturali e religiose di alcune aree. In Svezia il voto di classe è sempre stato su livelli elevatissimi. L’apice è nel 1960. Altri studi, in particolare sui comportamenti elettorali negli Stati Uniti, mettono in evidenza un disallineamento fra classe e voto, ma non fra classe e astensionismo, che invece avrebbe conosciuto un legame sempre più marcato proprio nell’elettorato proletario, ormai privo di una propria rappresentanza politica. Secondo questa interpretazione la scelta di classe non si orienta solo su un partito, ma ruota anche intorno all’opzione della partecipazione elettorale vera e propria.
Un esempio, in questo senso, è rappresentato proprio dall’Italia. Nel nostro Paese la partecipazione al voto è stata sempre alta, ma negli ultimi vent’anni la quota di voti inespressi è cresciuta in maniera costante e la composizione sociale dell’astensionismo si è andata sempre più caratterizzando da cittadini con bassa scolarizzazione e relativa marginalità nel mercato del lavoro (casalinghe, pensionati, disoccupati). Classi “oggettivamente” interessate alle politiche economiche e sociali della sinistra, che tuttavia “soggettivamente” si sono dimostrate, nell’ultimo decennio, sensibili al richiamo berlusconiano. E, infatti, le indagini più recenti hanno mostrato una crescita della propensione all’astensionismo in corrispondenza con l’uscita di scena del leader del Pdl.
Ad alimentare la convinzione del declino delle “classi”, soprattutto in Italia, hanno contribuito le trasformazioni che hanno riguardato la struttura economica e sociale, con la vorticosa terziarizzazione dell’occupazione, che ha segnato alla fine del Novecento il declino dei settori industriali con più alta occupazione operaia: si pensi alla siderurgia, alla cantieristica navale, ai porti, alle miniere, al settore auto. Altrettanto profondi, ma non meno ambivalenti, i cambiamenti che hanno coinvolto la natura stessa della prestazione. Se il fordismo disarticolava il lavoratore nei suoi saperi e nel suo potere di controllo sulla prestazione ma integrandolo in enormi aggregati ne favoriva la creazione di una coscienza di classe la prestazione di terza generazione opera esattamente al contrario: integra individualmente il lavoro nell’impresa, disarticolando il lavoratore come soggetto collettivo.
Il conflitto di classe, anche se diverso rispetto al passato, non è scomparso, né si è attenuato. Al contrario pone nuove istanze e nuove sfide di fronte all’incalzare della crisi sociale ed economica. Non possono sfuggire le conseguenze delle nuove asimmetrie dei rapporti di potere tra finanza, produzione e lavoro e ne sono la riprova i fermenti che riguardano il mondo del lavoro. Ciò che tuttavia sembra profondamente mutato è il loro primato relativo, la loro perdita di centralità politica rispetto all’insieme di conflittualità della società contemporanea. E mentre cresce la quantità sociale complessiva del lavoro, cede la sua specifica qualità politica.
Non sono, quindi, le “classi” a essere superate benché siano cambiate in termini di composizione, caratteristiche e bisogni – ma appare inadeguata la capacità di interpretarne il connotato politico. Il deficit, quindi, non riguarda la domanda, ma l’offerta di rappresentanza.
Perdita che si rileva attraverso il suo riassorbimento nel tessuto di una conflittualità multiforme, nella quale il conflitto non è accompagnato da nessuna divisione visibile della società, da nessuna ultima istanza che determini la congiuntura e l’evoluzione, da nessun altro vettore di trasformazione che non sia una risultante provvisoria. Un deficit di rappresentanza che si accompagna al declino delle grandi organizzazioni politiche. Dinamica alla quale fa da contraltare la nascita di nuove comunità di prossimità, fondate su una condivisione da esprimersi temporaneamente, prive però di una progettualità di medio/lungo periodo.
La ricerca di un “uomo forte” che sappia farsi interprete di una “politica forte” è la risposta incompleta di un sistema che vive gli affanni dell’inadeguatezza. La sfida alla quale, oggi, è chiamata la politica è quella di sapersi ricostituire in agenzia di senso, soprattutto di fronte alle nuove e variegate figure sociali, facendosi interprete e all’altezza della nuova complessità della società degli imperfettamente distinti.

L’Unità 02.12.11